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sabato 3 gennaio 2015

Celti: storia e cultura

Celti - Croce celtica con calendario
annuale e Triskel centrale.
Celti sono probabilmente il popolo (o meglio l'insieme di popoli di origine comune) indoeuropeo più antico in cui ogni europeo possa riconoscere la propria origine, Liguri e Baschi a parte, essendo probabilmente stanziati in Europa da migliaia di anni prima dell'emigrazione dei protocelti indoeuropei (i kurganici). Tra il 900 ed il 400 prima dell'era volgare (a.C.), gli stanziamenti celtici si estendevano dal Ponto alla Britannia e dal Mare del Nord alla penisola iberica e al settentrione italico. Eppure, su questo grande insieme di genti accomunate da strutture sociali simili, da una religione pressoché comune e da lingue dello stesso ceppo, il silenzio dei libri di scuola si rivela pressoché totale. Sicuramente gioca  molto l'immagine di barbarie e primitivismo (in realtà per nulla confacente al vero) che certa cultura illuminista ha attribuito a tutte le popolazioni periferiche alle civiltà ellenico-romane del Mediterraneo, un'immagine solo parzialmente riabilitata dal Romanticismo (incluse teorie, spesso più fantasiose che scientifiche, della Irish Renaissance) che ha fatto sì che solo da pochi anni (anche sull'onda di mode culturali come la New Age e la Next Age, che hanno riscoperto nella cultura celtica una tradizione ecologista impregnata di spiritualismo naturalistico), con mostre su recenti ritrovamenti archeologici ed eventi su questo tema, si sia cominciato ad approfondire chi fossero e come vivessero i Celti, soprattutto quale fosse la loro cultura. Di fatto, la "mistericità" che avvolge alcuni tratti della cultura più importante dell'Età del Ferro europea, è in gran parte conseguenza di quella cultura stessa, che non solo prediligeva ma addirittura imponeva una trasmissione unicamente orale dei propri saperi, proprio come i nativi americani, al fine di evitare che la propria tradizione si riducesse a "lettera morta" e che auspicava invece un coinvolgimento individuale al fine di arricchire la trasmissione dei saperi con nuove consapevolezze emotivo-spirituali. Non che mancassero a queste genti gli strumenti per la scrittura, che veniva esercitata nella loro ritualità con l'alfabeto ogham, mentre le rune saranno appannaggio delle popolazioni germaniche, anch'esse di derivazione indoeuropea. Il risultato è che le uniche fonti storiche che possediamo provengono da "stranieri" venuti a contatto con i Celti: da Cesare (1) a Strabone (2), da Tito Livio (3) a Cassio Dione (4) e non ai Celti stessi. Quindi, per ricostruire la storia dei Celti, in particolare quella che precede il VI secolo p.e.v. (a.C.), ci dobbiamo affidare unicamente a quelle teorie che riscontrino conferme nei rinvenimenti archeologici, come la teoria kurganica e le successive evidenze come i reperti di Golasecca. Dovremo inoltre superare la grande confusione creata nel passato dalle teorie sul suprematismo della fantomatica razza ariana, considerata come semente di quella celtica e la conseguente rappresentazione di simboli celtico-solari come riferimento razziale nelle farneticanti posizioni dei pensieri fascista, nazista e razzista.

Ricostruzione di un "cromlech"
(di Stonhenge).
De Jubainville (Henri d'Arbois de Jubainville, docente e celtista francese; Nancy, 1827 - Parigi, 1910), pensava erroneamente che gli indoeuropei da cui erano derivati i proto-celti, chiamassero se stessi Ariani, dalla parola sanscrita Arya, i «fedeli», i «devoti», mentre erano stati soltanto i popoli iranici a chiamarsi così fra di loro (dal sanscrito ariyà, cioè "signore"). Nel 1800 il sanscrito veniva erroneamente ritenuto in Europa la lingua originaria dalla quale le lingue indoeuropee si fossero originate, portato in India da gruppi antropologicamente omogenei emigrati in epoca preistorica dall'Europa centrosettentrionale verso il Gange. Poiché i popoli di lingua indoiranica usavano chiamarsi Ari, l’uso del termine arisch fu esteso da parte dei teorici del nazismo a indicare la razza primigenia indoeuropea come ariana, ma si tratta di un falso storico, in quanto basato sull'erronea identificazione dell'antica lingua indoeuropea con la lingua indoiranica e inoltre sovrapponendo il concetto di razza all'insieme di popoli che adottarono tale lingua. Si è creato così il falso mito sull'esistenza di una razza e di una lingua pure, dall'idea che i popoli protoindoeuropei e i loro discendenti costituissero una "razza" distintiva della "razza Caucasica" (oggi indicata come Europoide), il tutto in un'erronea trasposizione sul piano biologico delle famiglie linguistiche. La parola "arianno" compare per la prima volta nel testo sacro degli Indoari Rigveda e nell'Avestā degli Iranici. I termini in lingua vedica e avestica sono derivati direttamente dall'"*arya" delle lingue indoiraniche, apparentemente un'autodenominazione  dei proto-Indoiranici. Ad oggi la suddivisione della specie umana in razze diverse è ritenuta non scientifica, tanto che anche la "Dichiarazione sulla razza" dell'Unesco del 1950 riconosce il concetto di etnia e non quello di razza, come unica suddivisione possibile della specie umana in cui sia riscontrabile una vera omogeneità tra gli individui. Scientificamente il darwinismo è fondato sul principio che l’evoluzione in cui gli individui adatti si differenziano è basato sulla biodiversità di razze che poi nel tempo si differenziano in specie, come accade in molti animali e vegetali anche artificialmente, e nelle specie vegetali e animali il vocabolo è scientificamente accettato e largamente utilizzato (ad esempio razza canina, razza bovina, razza equina, razza ovina etc.), ma nell’ambito umano è considerato politicamente scorretto e scientificamente improprio. Aggiungo poi che nel passato la specie Homo sapiens aveva come sottospecie il genere Homo sapiens sapiens, suddivisione non condivisa dalla maggioranza della comunità scientifica, che non riconosce alcun tipo di sottospecie al genere Homo sapiens.
  
PREISTORIA
Mappa delle migrazioni dell'uomo secondo gli Aplogruppi
del cromosoma Y (numeri sono gli anni prima del presente).
Di Maulucioni - Opera propria, CC BY 3.0, https://commons.
45.000 anni fa - Secondo la storia genetica, i primi esseri umani moderni (Homo sapiens) sarebbero entrati in Europa da sud mentre erano presenti da tempo i neanderthaliani, sancendo così una prima colonizzazione dell'Europa da parte degli antenati degli umani attuali. Per storia genetica si intende l'insieme delle scoperte effettuate tramite la genetica delle popolazioni, una branca della genetica che analizza la costituzione genetica delle popolazioni mendeliane in termini qualitativi (varianti alleliche presenti all'interno di una popolazione) e quantitativi (frequenze alleliche e genotipiche). Tali scoperte hanno permesso, mediante l'analisi delle parentele e delle differenze geniche, a livello sia delle etnie che delle popolazioni umane, di ricostruire i flussi migratori, gli incroci, l'emersione o l'eliminazione dei caratteri che contraddistinguono le attuali etnie e popolazioni umane, sia nello spazio sia nel tempo, aiutando a ricostruire la storia dell'uomo sin dalla sua comparsa. Principali aplogruppi del cromosoma Y (lettere A - T) correlati filogeneticamente in un albero. Adamo cromosomico Y = Progenitore comune patrilineare. In genetica umana, il cromosoma Y viene suddiviso in aplogruppi definiti sulla base della mutazione di un singolo nucleotide nella sequenza non ricombinante del cromosoma Y chiamata NRY. Ogni mutazione corrisponde ad un aplotipo e il cromosoma Y viene ereditato di padre in figlio. Dal momento che la mutazione colpisce una sequenza non ricombinante (cioè che non subisce modificazioni quando viene ereditata), è possibile risalire, andando a ritroso di generazione in generazione, alla linea di discendenza maschile.

Venere di Willendorf.
Veneri dei Balzi Rossi, rappresentazioni
del culto della Dea Madre.
34.000/24.000 anni fa - Venivano realizzate in Europa quelle che gli archeologi hanno definito "veneri", fra cui la famosa Venere di Willendorf, tra le più antiche espressioni artistiche della scultura. Molteplici sono le  Veneri ritrovate in Europa, piccole statue femminili prodotte durante l'era del Paleolitico Superiore, distinguibili grazie ad una particolare industria litica Gravettiana (tra 29.000 e 21.000 anni fa). Ricavate da ossi, pietre o in avorio, sono statuette la cui altezza è mediamente di circa di 10 centimetri. Profili e forma presentano un'esagerato volume di seni, ventre e fianchi, mentre le altre parti del corpo e le gambe sono sottodimensionate, un'accentuazione degli attributi fisici femminili abbinati alla procreazione, caratteristici del culto della Dea Madre.

Carta dell'Europa nel Paleolitico con i siti di ritrovamenti di Veneri,
effigi della dea Madre.  

Osso di Les Eyzies-de-Tayac
-Sireuil, sito in cui era
presente il tipo
Cro-Magnon.
Nel 30.000 p.e.v. (a.C.) - Nel paleolitico il computo del tempo era scandito dalle fasi lunari, in particolar modo dai "pleniluni", molto importanti per la luminosità dell'astro. Questo vistoso mutamento dell'aspetto della Luna veniva già registrato intorno al 30.000 a.C. su un osso lavorato ritrovato nella regione di Les Eyzies de Tayac, nel Perigord francese, in cui la figura femminile continuava ad essere oggetto di rappresentazione, questa volta abbinato alla luna e alle sue fasi. 

Nel 15.000 p.e.v. (a.C.) - Alla fine della glaciazione di Würm, in cui l'estensione massima dei ghiacci risale a circa 18.000 anni fa, in concomitanza al ritiro dei ghiacci avviene la seconda colonizzazione dell'Europa continentale da parte di popolazioni di ritorno dalle zone di rifugio nel sud europeo.
Menhir di Carnac.
Alcuni menhir (come a Carnac in Bretagna, Francia) sono enormi. Mentre i menhir e i dolmen, nell’Europa occidentale, sono generalmente datati dal III° al II° millennio a.C. e sono perlopiù grandi pietre sbozzate e allungate con forme armoniose o accatastate nel caso del dolmen, altri megaliti sono antropomorfi o zoomorfi. In tutti e tre i casi è arte applicata al monumento a fini di culto, ma i menhir antropomorfi  sono molto più antichi rispetto agli altri e alcuni sono paleolitici, cioè hanno oltre 12.000 anni; questa è l’opinione degli archeologi che ricercano l'arte megalitica antropomorfica. I menhir antropomorfi e la sculture rupestri antropomorfe, rappresentano soggetti di culto a cui si ispiravano gli stessi che li producevano. Nelle zone in cui c’erano delle rupi, si scolpivano le rupi e dove non ce n’erano, si faticava di più, dovendo estrarre ed innalzare  i massi dal terreno oppure trasportarli nei luoghi di culto da lontano, ma con lo stesso risultato, applicando comunque una tecnica di costruzione, sbozzatura e logistica pesante, oltre alla determinazione di precisi equilibri. Al Paleolitico superiore sono attribuiti molti grandi menhir antropomorfi di Carnac. Nel Paleolitico superiore in Europa troviamo civiltà molto diverse da zona a zona, ma le due più importanti sono quella degli scultori della pietra con soggetti di culto antropomorfi (con forma umana) che non conoscevano la pittura, e quella dei pittori con soggetti zoomorfi (a forma di animali), che dipingevano nelle grotte (Francia, Spagna, ecc.) e che non scolpivano la pietra. Per interpretare il significato della scultura antropomorfa paleolitica è necessario fare parallelismi storici ed etnografici con civiltà che hanno avuto o che adottano ancora, la scultura antropomorfa.

PROTOSTORIA
Pietra focaia del Mesolitico, da QUI.
Dal 10.000 all' 8.000 p.e.v. (a.C.) - Alla fine del Grande Congelamento (Younger Dryas), si avvia la terza e ultima grande colonizzazione dell'Europa da parte di popolazioni indoeuropee. Intanto nel Vicino Oriente sta nascendo l'agricoltura, che segnerà la "rivoluzione neolitica" mentre inizia in Europa il periodo culturale definito Mesolitico o epipaleolitico (epi significa ‘sopra’ o ‘sovrapposizione, aggiunta, ripetizione, successione’), il periodo intermedio dell'Età della pietra, l'età della pietra di mezzo, che inizia dalla fine del Pleistocene all'Olocene, sostituito nelle Culture stanziali che adotteranno agricoltura-allevamento-ceramica, dal Neolitico. 
Durante il Mesolitico si elaborano tecniche sofisticate di lavorazione della pietra, come quella della "microlitica", nella quale piccole schegge di selce fissate a manici in legno o in osso sono utilizzate per costruire utensili per la caccia e la raccolta dei vegetali spontanei. Si ha inoltre uno sviluppo delle armi da lancio e in particolare si generalizza l'impiego dell'arco e della freccia, soprattutto in Europa. Ciò è dovuto a rilevanti cambiamenti climatici che determinano la scomparsa di grandi animali come il mammut e la comparsa e proliferazione di boschi foreste. Le abitazioni sono costituite da capanne che formano villaggi, mentre si assiste ad una crescita demografica senza precedenti. Nel Mesolitico l'Homo sapiens rappresenta sulla roccia nuove immagini, non più quelle raffiguranti uomini a caccia di mammiferi di grossa taglia, poiché questo periodo è caratterizzato dallo svilupparsi del bosco, ambiente non adatto alla sopravvivenza di tali animali, che migrano verso Nord. I cacciatori-raccoglitori dell'epipaleolitico, che in genere sono nomadi, costruiscono strumenti relativamente avanzati da piccole pietre o lame di ossidiana, conosciuti come microliti, abbinati a strumenti di legno (es. manici, archi, frecce) . Le tecniche principali dell'arte mesolitica sono, come sempre, il graffito e l'arte rupestre. Intanto la cultura natufiana del Levante stava adottato stanziamenti permanenti, anche perché vi si stava sviluppando una protoagricoltura cerealicola, prodromi della "rivoluzione neolitica".

Nel 7.000 p.e.v. (a.C.) circa - Si ha notizia che esistessero popolazioni definibili come "indoeuropee" che possedevano un linguaggio comune. Il protoindoeuropeo, indicato anche comunemente come indoeuropeo, è la protolingua che, secondo la linguistica comparativa, costituisce l'origine comune delle lingue indoeuropee. Le somiglianze fra queste lingue, attestate a partire dal 2000 a.C. circa, impongono agli studiosi di assumere che esse siano la continuazione di una protolingua preistorica, parlata circa settemila anni fa e chiamata per convenzione proto-indoeuropeo. L'indagine sistematica fra le documentazioni più arcaiche delle lingue indoeuropee permette di ricostruire, sia pure in via ipotetica, la grammatica e il lessico della protolingua, grazie al metodo comparativo. In Germania, dove pure gli studi sull'indoeuropeo ebbero la loro prima formulazione coerente, viene preferito il termine "Indogermanisch" per indoeuropeo e "Urindogermanisch" per indicare la protolingua.

UN' IPOTESI SULL' ESPANSIONE DEI POPOLI INDOEUROPEI
Le steppe pontico caspiche.
La teoria kurganica è una teoria linguistica e archeologica che cerca di descrivere la diffusione delle lingue indoeuropee in Eurasia a partire da una patria originaria (chiamata Urheimat) individuata nelle steppe comprese tra Mar Nero e Caucaso (steppe pontico-caspiche), diffusione esercitata da popolazioni di ceppo indoeuropeo che esercitavano l'inumazione dei defunti che avevano detenuto potere, nei kurgan. Il kurgan è il tumulo funerario usato dagli Sciti per inumare i feretri della propria aristocrazia. Non solo monumento funebre ma, al tempo stesso, espressione del potere e della ricchezza raggiunti, simbolo distintivo in una società guerriera fortemente stratificata. Proposta per la prima volta, nelle sue linee generali, da Otto Schrader negli ultimi anni del XIX secolo, l'ipotesi dell'indoeuropeizzazione a partire dalle steppe venne in seguito ripresa da Vere Gordon Childe nel 1926 nel suo libro "The Aryans" e fu successivamente perfezionata da Marija Gimbutas dal 1952. A Gimbutas in particolare, va ascritta l'identificazione del processo di indoeuropeizzazione con quello della diffusione della cultura kurgan, da lei approfonditamente studiata in numerosi saggi, raccolti nel 1997 nel volume postumo "The Kurgan Culture and the Indo-Europeanization of Europe: Selected Articles from 1952 to 1993". Nel 1989 le teorie di Gimbutas sono state riviste e aggiornate in base alle nuove scoperte archeologiche da vari studiosi, tra cui James Patrick Mallory. Nonostante le critiche ricevute, la teoria dell'invasione calcolitica (il calcolitico, sinonimo di Eneolitico in paletnologia, è la fase finale del neolitico, durante la quale continuava l’uso della pietra e incominciava quello di leghe di rame), nella forma proposta da Gimbutas, appare oggi una teoria fortemente accreditata e sostenuta da basi scientifiche. La teoria kurganica si può riassumere nei seguenti termini:
- le tribù indoeuropee erano società patriarcali, governate da un *hrḗǵs (un re che era un capo guerriero eletto, ben diverso dai re-dèi egizi e mesopotamici), e caratterizzate da una prima divisione gerarchica fra guerrieri, sacerdoti e lavoratori, con donne e schiavi relegati in secondo piano;
- gli Indoeuropei avevano una religione politeistica con al centro figure di dèi padri celesti, in opposizione alle religioni delle dee madri tipiche delle popolazioni preindoeuropee (i pantheon dei popoli indoeuropei storicamente noti sono frutto di una fusione con la religione di substrato, con gli dèi padri che faticano a tenere a bada le dee madri: vedi le scene da un matrimonio della coppia olimpica Zeus - Hera);
- gli Indoeuropei si imposero sulle popolazioni neolitiche in virtù della superiorità militare data dall'addomesticamento del cavallo; il prevalere dell'indoeuropeo sulle lingue che precedevano l'indoeuropeizzazione è il frutto dell'imposizione di una nuova lingua da parte di un'élite militare.

Prime culture kurganiche formatesi
dal 6000 a.C. circa.
Dal 6.000 p.e.v. (a.C.) circa - La cultura dei kurgan, formatasi nelle steppe pontico-caspiche a partire dal VI millennio a.C., ha prodotto le seguenti culture:
Cultura del Bug-Dnestr (VI millennio),
Cultura di Samara (V millennio),
Cultura di Chvalynsk (V millennio),
Cultura del Dnepr-Donec (dalla metà del V al metà del IV millennio a.C.),
Cultura di Sredny Stog (dal V al IV millennio a.C.),
Cultura di Majkop (dal IV al III millennio a.C.),
Cultura di Jamna (dal IV al III millennio a.C.).

Dal 4.400 p.e.v. (a.C.) circa - Prime migrazioni di genti indoeuropee (Cultura di Sredny Stog) dalle steppe pontico-caspiche nei Balcani ("Prima ondata Kurgan" 4400 - 4300 a.C.) dove emerge la Cultura di Cernavodă.
Si sviluppano inoltre fra i proto-indoeuropei delle steppe le culture di Majkop (nel Caucaso settentrionale) e di Jamna.

STORIA
Dal 3.500 p.e.v. (a.C.) circa - Seconda migrazione dalle steppe/caucaso (Cultura di Majkop) nei Balcani e in Europa centro-orientale ("Seconda ondata Kurgan" 3500 - 3000 a.C.) e conseguente diffusione della cultura di Baden e Coţofeni e della cultura delle anfore globulari che ricalca in parte l'area geografica occupata dalla precedente cultura del bicchiere imbutiforme (pre-indoeuropea).
La cultura dell'ascia da combattimento (o della ceramica cordata) è considerata come la culla dei popoli  balticiceltici (i Galli per i Romani), germanici e slavi. Per i sostenitori dell'ipotesi kurgan lo sviluppo iniziale di questo vasto complesso archeologico (derivante dalla cultura delle anfore globulari e da influssi della cultura di Jamna) è da attribuire agli immigrati indoeuropei giunti dalle steppe. A partire dal nucleo originario, localizzabile nell'Europa centro-orientale, si estenderà fino a raggiungere la Scandinavia e la Russia centrale e nord-orientale (cultura di Fatyanovo-Balanovo).
Gli Ittiti emigrano in Anatolia dai Balcani (Cultura di Ezero) o dal Caucaso (Cultura di Majkop). In Siberia meridionale, presso i monti Altaj, si sviluppa la cultura di Afanasevo, imparentata con quella di Jamna e associata ai Tocari o proto-Tocari.
La cultura di Jamna si estende dall'Ucraina nei Balcani ("Terza ondata Kurgan" 3100 - 2900 a.C.). Le tombe a tumulo si propagano in tutta la penisola balcanica sino alla Grecia settentrionale, cambiamento culturale associato alla penetrazione degli Elleni (2300 - 2200 a.C.). È probabile che anche le altre lingue paleobalcaniche (oltre il greco), almeno in parte, siano da far risalire a questa terza ondata.

Nel 3.000 p.e.v. (a.C.) circa - L'Europa centro-orientale, ormai completamente indoeuropeizzata linguisticamente e culturalmente, diventa una seconda Urheimat (= casa originaria), il secondo centro dal quale si irradieranno tutte quelle culture protostoriche che favoriranno l'indoeuropeizzazione dell'Europa occidentale e meridionale. La divisione centum-satem è così completata.
Mappa diacronica che mostra gli areali centum (blu) e satem
(rosso), la cui probabile area di origine è in rosso scuro, da:
La divisione centum-satem (bisogna specificare, per il lettore italiano abituato alla pronuncia scolastica del Latino, che Centum va inteso nell'antica pronuncia dura della C, come K, altrimenti la derivazione dal termine indoeuropeo *ḱṃtóm non si comprende), è un'isoglossa (una linea che delimita la zona di un territorio che condivide un tratto linguistico comune) delle famiglia delle lingue indoeuropee, legata all'evoluzione delle tre consonanti dorsali ricostruite per il proto-indoeuropeo: *[kʷ] (labiovelare), *[k] (velare), e *[ḱ] (palatoalveolare). I due termini provengono dalle parole adottate per esprimere il numero "cento" (dall'indoeuropeo *ḱṃtóm) in due lingue rappresentative dei due gruppi (in latino centum e in avestico satəm). Le lingue centum sono caratterizzate da articolazioni velari, mentre nelle lingue satem ad articolazioni velari corrispondono articolazioni anteriorizzate (affricate palatali) o nettamente anteriori (sibilanti). Quanto a geografia, la divisione si presenta grosso modo verticale, con le lingue centum prevalentemente ad ovest (lingue germaniche, celtiche, latino e lingue romanze, greco, venetico e macedone antico) e le lingue satem specificatamente ad est, tra Europa orientale ed Asia, da cui derivarono i linguaggi *arya indoari del Rigveda e iranici dell'Avestā. Il tocario combina tutte le occlusive dorsali in una singola serie di velari e anche se la cronologia del cambiamento è sconosciuta, manca delle sibilanti tipiche delle lingue satem, perciò viene considerata centum. Le lingue satem includono le lingue indoarie, le lingue iraniche, le lingue baltiche, le lingue slave, l'albanese, l'armeno e altre poche lingue ormai estinte o assorbite, come il tracio ed il daco. Questo gruppo ha unito le velari e le labiovelari indoeuropee in un unico gruppo di velari e ha cambiato le palatoalveolari in sibilanti. Anche se si considera l'albanese una lingua satem, le velari e le labiovelari non si sono fuse in albanese e inoltre le palatovelari diventano sempre velari davanti alle sonanti (caratteristica centum). A lungo si è creduto che questa partizione rispecchiasse uno stato di fatto già indoeuropeo, ossia che già l'indoeuropeo in fase unitaria si presentasse diviso in un ramo occidentale di tipo centum e un ramo orientale di tipo satem. Teoria smontata in seguito alla scoperta, agli inizi del Novecento, di due lingue fino ad allora sconosciute, convenzionalmente battezzate tocario A e tocario B, nel nord-ovest della Cina, che si sono rivelate lingue centum. Ciò suggerisce che le lingue indoeuropee fossero in origine tutte centum e che solo successivamente le varie lingue indoeuropee centro-orientali abbiano anteriorizzato le occlusive velari divenendo quindi satem. Il proto-anatolico apparentemente non ha subito nessuno dei due cambiamenti. La serie delle velari rimane separata in luvio, mentre l'ittita può aver subito in un secondo tempo un cambiamento di tipo centum, ma l'esatta fonetica non è chiara.

Dal 3.000 p.e.v. (a.C.) circa - Originatasi verosimilmente nella penisola Iberica (Gimbutas la faceva derivare invece dalla balcanica cultura di Vučedol), la cultura del vaso campaniforme, giunta nell'area dei Paesi Bassi e del Reno si fonde con la cultura dell'ascia da combattimento assorbendo tratti indoeuropei, forse proto-celtici. Durante il III e il II millennio a.C. il popolo del vaso campaniforme ricolonizza, in un movimento detto di riflusso, una vasta porzione dell'Europa occidentale tra cui le isole britanniche, la penisola iberica, l'Italia centro-settentrionale e le due isole maggiori, Sardegna e Sicilia. Si tratta probabilmente della seconda apparizione di popolazioni indoeuropee in territorio italiano; infatti una prima possibile avanguardia indoeuropea in Italia è stata più volte associata alle culture eneolitiche di Remedello, del Rinaldone e del Gaudo. In particolare le statue stele erette dai Remedelliani presenterebbero segni distintivi riconducibili all'"ideologia indoeuropea" ; questa supposizione si basa sul fatto che vi sono alcune similitudini con le steli antropomorfe ritrovate in Ucraina appartenenti alla cultura indoeuropea di Jamna.

Dal 2.200 p.e.v. (a.C.) circa - Popolazioni indoeuropee delle steppe colonizzano l'Asia centrale dove nasce la cultura di Poltavka. La cultura di Poltavka venne seguita dalla cultura di Sintashta (2100-1800 a.C.) - che mostra forti legami anche con la cultura di Abaševo - e dalla cultura di Andronovo (2000-1200 a.C.), quest'ultima è vista come la cultura che diede origini ai popoli indoiranici e al carro da guerra. L'assoluta irreperibilità di reperti ascrivibili alla cultura di Andronovo in India ha fatto ipotizzare ad alcuni studiosi che gli Indoiranici durante la loro graduale discesa verso sud abbiano via via abbandonato le loro tradizioni nomadiche della steppa adottando lo stile di vita stanziale e urbanizzato del cosiddetto BMAC, complesso archeologico bactriano-margiano. Si conclude che le popolazioni indoiraniche di cultura di Andronovo, originariamente stanziate nel territorio dell'odierno Kazakistan, si spostarono verso sud nel territorio dell'odierno Turkmenistan/Tagikistan dove adottarono la cultura urbanizzata di BMAC, dopodiché a causa di avvenimenti sconosciuti (il prof. Viktor Sarianidi parla di catastrofi naturali a seguito di cambiamenti climatici) si spostarono ancora una volta stabilendosi definitivamente prima in India, dove introdussero alcuni aspetti culturali del BMAC, e successivamente in Iran.

Dal 1.500 p.e.v. (a.C.) circa - Le popolazioni indoariane emigrano dall'Asia centrale nel subcontinente indiano dove sottomettono i nativi ed impongono il sistema delle caste. È opinione abbastanza diffusa che le guerre e le battaglie narrate nei Veda, i testi sacri dell'induismo, riflettano più o meno fedelmente la conquista dell'India nord-occidentale (Punjab) da parte degli stessi Arii. La cultura di Yaz (iranica) si espande verso ovest, Medi e Persiani giungono in Iran occidentale agli albori del I millennio a.C., importando un caratteristico stile ceramico.

- In Europa centro-orientale si sviluppa la cultura di Unetice (le cui influenze si estesero in un ampio territorio) seguita dalla cultura dei tumuli, si diffonde l'usanza della cremazione dei defunti. Nella pianura padana appare la civiltà delle terramare che alcuni studiosi associano ai protolatini (altri invece collegano i latini ai successivi campi di urne villanoviani).

- Dalla cultura dei tumuli trae origine la cultura dei campi di urne che tra la tarda età del bronzo e la prima età del ferro si diffonde dall'Europa centrale in Italia, Francia, Catalogna, Inghilterra e nei Balcani. La cultura dei campi di urne è spesso associata ai Celti, Italici, Veneti ed Illiri. Più precisamente in Italia si possono riconoscere due gruppi di incineratori ascrivibili ai campi di urne, uno celtico fra la Lombardia e il Piemonte responsabile della nascita della cultura di Canegrate e poi di Golasecca e uno italico, riconducibile alla cultura protovillanoviana, che si estende dal Nord-est alla Sicilia orientale. 

Dal 1.000 p.e.v. (a.C.) circa - Il "focolaio protovillanoviano" si suddivide in differenti facies regionali tra le quali la civiltà atestina (i protoVeneti) e villanoviana.

- I Frigi e gli Armeni si spostano dai Balcani all'Asia minore. I Dori lasciano le loro sedi originarie (verosimilmente l'Epiro o Illiria) e si espandono nel Peloponneso.

Dall' 800 p.e.v. (a.C.) circa - Gli Sciti, originatisi dalla cultura di Srubna, si espandono verso ovest nelle steppe pontico-caspiche (costringendo forse i Cimmeri a migrare a sud del Caucaso) da dove si spingono successivamente in Europa orientale.

Dal 700 p.e.v. (a.C.) circa - Le popolazioni celtiche delle culture di Hallstatt e di La Tène si diffondono in gran parte dell'Europa occidentale ed orientale influenzando in parte anche le aree germanica e illirica.

- A seguito delle conquiste greche e romane le lingue greca e latina vengono parlate in tutta l'area del Mediterraneo ed oltre. Le popolazioni germaniche iniziano la loro calata verso sud soggiogando e "germanizzando" le popolazioni celtiche che in precedenza abitavano l'Europa centro-orientale.

INVASIONE O DIFFUSIONISMO?
Gimbutas sosteneva che le espansioni della cultura kurganica fossero essenzialmente una serie di incursioni militari attraverso le quali la nuova ideologia guerriera e patriarcale si fosse imposta sulla pacifica cultura matriarcale della Vecchia Europa, processo osservabile tramite la comparsa di insediamenti fortificati e delle tombe dei capi-guerrieri: «Il processo di indoeuropeizzazione è stato un processo di trasformazione culturale, non fisica. Questo processo deve essere inteso come una vittoria militare attraverso la quale venne imposto un nuovo sistema amministrativo, la lingua e la religione ai gruppi indigeni.» Marija Gimbutas, p.309. Successivamente Gimbutas evidenziò sempre più la natura violenta di questo processo di transizione dal culto della Dea Madre a quello patriarcale esplicitato dal culto del dio celeste (Zeus, Giove, Dyauṣ Pitā). Molti studiosi che accettano lo scenario generale della teoria kurganica sostengono che il passaggio fu probabilmente molto più graduale e pacifico rispetto a quanto suggerito da Gimbutas. Le migrazioni non furono certo il frutto di operazioni militari studiate e concordate ma l'espansione durata generazioni di varie tribù e culture scollegate fra loro. Fino a che punto le culture indigene siano state amalgamate pacificamente o violentemente cancellate rimane ancora un punto controverso fra i sostenitori dell'ipotesi Kurgan. James Patrick Mallory ha accettato l'ipotesi Kurgan come teoria standard sull'origine dei popoli indoeuropei ma giustifica le critiche allo scenario dell'invasione militare proposto da Gimbutas: «Si potrebbe pensare in un primo momento che le evidenze a sostegno della soluzione Kurgan ci obblighino ad accettarla completamente. Ma i critici esistono e le loro obiezioni si possono riassumere molto semplicemente: Quasi tutti gli argomenti a sostegno di una invasione e trasformazione culturale sono maggiormente spiegabili escludendo l'espansione Kurgan e la maggior parte degli indizi presentati o sono contraddetti da altri indizi o sono il risultato di una sbagliata interpretazione della storia culturale dell'Europa orientale, centrale e settentrionale.».
Un'ulteriore critica ad uno degli aspetti centrali della cultura kurganica come la intende Gimbutas proviene dagli storici militari. Questi fanno notare che fino al 1000 a.C. (o poco prima) i cavalli non erano cavalcabili, o meglio non erano cavalcabili in battaglia. La cultura kurganica allevava i cavalli, dal 4.000 a.C. fin verso il 2.100-2.000 a.C. sia per mangiarli che come animali da soma. Imparò in seguito ad usare cavalli per trainare agili carri da caccia, corsa e guerra e a cavalcarli in maniera incontrollata (con nasiere e senza sella o sottopancia); finalmente dopo circa un millennio di tentativi e di selezioni del cavallo, fu possibile montarlo in maniera utile per poterlo impiegare in battaglia, controllandolo quindi con una mano o con le gambe e contemporaneamente poter brandire un'arma. I kurganici non avrebbero quindi avuto quella superiorità militare sui popoli privi di cavalleria, oltretutto fino alla scoperta del carro leggero, e soprattutto a quelle del morso e dell'arte equestre. Nessun popolo fu "veramente" nomade e i Kurgan, in particolare, vanno interpretati come l'espressione di una civiltà dedita ad una pastorizia transumante con al centro insediamenti fluviali. La scoperta della cavalcabilità del cavallo (tra il 1100 e il 1000 a.C.) fu una rivoluzione che mise in moto le steppe occidentali mentre forse ad est degli Altaj, con l'addomesticazione della renna, si era verificato un fenomeno analogo poiché la renna, a differenza di buoi, pecore, capre e cavalli usati dai kurganici, poco si adatta a condizioni di vita semi stanziali e transumanti.

Cartina degli  spostamenti e migrazioni degli Indoeuropei
dal 3.500 - 2.500 a.C.  Clicca sull'immagine per ingrandirla.

La parola "celtico" ha origine dal greco keltai usata dai greci Focei di  Marsiglia per denominare quei "barbari" con cui erano venuti a contatto. Per i greci "barbari" erano tutti coloro che non parlavano la loro lingua. Sappiamo con certezza che la loro principale area di stanziamento intorno all'inizio del I millenio a.C. doveva essere nell'Europa centrale, tra la Boemia (nome che indicava la terra di Boi) e la Baviera (nome derivato da Baiovari, gli stessi Boi), ove i Celti entrarono in contatto con la  cosiddetta "Cultura di Unetice", legata alla lavorazione dei minerali ed alla pastorizia (5). Nel passato non si capiva come e quando quelle genti fossero giunte in quell'area e le ipotesi erano numerose. Secondo alcune teorie (6), verso l'inizio del IV millennio a.C.doveva esistere nella zona baltica una civiltà, che potremmo definire proto-celtica  e che alcuni, senza alcuna prova effettiva, dipingono come  "atlantidea", notevolmente progredita, con una cultura religiosa fortemente sviluppata in senso unitario e con  una certa esperienza nella navigazione. La capacità di spostamento di questi proto-celti e il loro avanzamento nella competenze tecniche scientifico sarebbero, secondo gli assertori di questa ipotesi, provate dalle costruzioni megalitiche dei menhir, dolmen e cromlech della Bretagna (Carnac), dell'Irlanda, del Galles e dell'Inghilterra (Stonehenge), che dovevano avere come scopo la condivisione delle loro esperienze con gli astri, che tali popolazioni tenevano in grande considerazione. A seguito di cataclismi  e carestie, questo primo nucleo celtico sarebbe migrato verso l'Europa centrale, la Grecia (dove si sarebbe sostituito assorbendole, alle culture achea e micenea), in Anatolia, in Palestina e in Egitto, divenendo noto come il nocciolo dei Popoli del Mare: solo l'Egitto riuscì a respingere la loro invasione, la cui coda sarebbe stata rappresentata dai Dori che si stanziarono in Grecia ed in Egeo. È in effetti probabile che i Dori fossero un popolo di ceppo celtico ma, alla luce di numerosi studi (7), sia una identificazione dei Popoli del Mare con nuclei celtici, sia una loro "discesa" da nord, Galati anatolici a parte, sono in realtà in discussione.
Cartina degli spostamenti e migrazioni degli Indoeuropei
nel 3.500/2.500 a.C. di Dbachmann (discussione contributi)
- Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wiki

UN' ALTRA IPOTESI SULL' ESPANSIONE DEI POPOLI INDOEUROPEI
Secondo un'altra teoria (8), tra il 3000 e il 2500 a.C. tre popolazioni indoeuropee, i Kurgan della zona del Volga - alto Mar Caspio, i Transcaucasici del Caucaso e i Nordpontini della zona del Mar Nero, si sarebbero mescolate e avrebbero proceduto ad una migrazione di massa che avrebbe coinvolto l'Anatolia (in cui sarebbero entrati in contatto con gli Ittiti), la Mesopotamia (in cui si sarebbero mescolati agli Arii), la Grecia Micenea e l' Europa centrale (dove entrarono in contatto con la cultura di Unetice in Boemia). La coda di questa migrazione orientale avrebbe avuto forti contatti con gli Sciti che, attorno all'800 a.C., si diffusero in Mesopotamia (dando luogo alla cultura caldea e in seguito a quella assira), in Anatolia (in cui erano già presenti Frigi, Lidi e Pontini), in Grecia, in Italia (dove, dal 900 a.C., erano presenti Etruschi, probabilmente derivati dai Pelasgi, Italici di derivazione indoeuropea mentre da millenni erano stanziati i Liguri). Dagli Sciti i protocelti mutuarono molte usanze, dall'uso delle tombe a tumulo, all'allevamento del cavallo, ritenuto sacro, dal rito di tagliare e conservare la testa del nemico a protezione della propria capanna, alla suddivisione in classi sociali, ove aristocratico era colui che possedeva più cavalli. Gli studiosi che sostengono queste teorie sono concordi nell'affermare che quelle tribù indoeuropee giunsero in Europa in un arco di tempo ampio compreso fra il 3500 e il 1200 a.C., apportando rilevanti innovazioni tecnologiche e contribuendo alla trasformazione profonda delle strutture sociali, culturali e religiose delle popolazioni neolitiche.

Carta degli insediamenti in Europa delle culture prodotte dalle genti
indeuropee che originarono il popolo dei Celti e le successive espansioni.

Nella prima metà del II millennio a.C. nell'Europa centro-orientale, i proto-celti, diedero un grande impulso all'agricoltura dei cereali ed ebbero il merito di diffondere in Europa l'uso dei metalli e del cavallo.
L'ampia diffusione dei metalli e della loro lavorazione è testimoniata dalla presenza di lavoratori di metalli nei Balcani orientali e l'influenza esercitata da questi fu notevole per tutta l'Europa centrale, specialmente per la sostituzione delle asce neolitiche realizzate in pietra o in corno con quelle in rame e in bronzo. Una delle strade attraverso le quali si diffuse la conoscenza delle asce di metallo fu forse quella che percorreva le steppe del Ponto, provenendo dal Caucaso. Oltre alla lavorazione dei metalli o alle asce da battaglia, gli allevatori pontici ed europei avevano altre caratteristiche in comune.
L'inumazione in tombe singole, spesso sotto un tumulo circolare, con il corpo accompagnato dalle armi e dalla mobilia posseduta in vita dal defunto, costituiva la forma di sepoltura maggiormente diffusa, mentre nel vasellame lo erano alcune forme particolari e diversi tipi di decorazioni. Queste popolazioni praticavano l'allevamento di suini e bovini, ma maggior interesse suscitano le tecniche di allevamento dei cavalli e il loro sfruttamento. Ossa di cavallo insieme a quelle di suini e bovini (tutti animali aventi forti valori simbolici legati all'Altromondo) sono state ritrovate frequentemente nelle tombe in tutta la zona culturale presa in esame. A quell'epoca le mandrie di tarpan, il piccolo cavallo eurasiatico, costituivano molto probabilmente un importante mezzo di trasporto e il loro valore come bestie da soma lascierebbe pensare che non venissero utilizzate solo come carne da macello, come bovini e suini. Tuttavia si può supporre che i pastori del III e II millennio a.C. non utilizzarono il tarpan come mezzo di spostamento rapido, data la sua piccola taglia, e che questo antenato dei cavalli celtici venne considerato un animale da cavalcare solo in grazie a pasture migliori e allevamenti più selezionati. L'ipotesi di una grande invasione di popolazioni indoeuropee irrompenti in Europa dalle steppe eurasiatiche all'inizio del II millennio a.C. è basata sull'idea di utilizzo del cavallo come mezzo di spostamento rapido per gruppi di guerrieri armati di lance, spade, scudi, elmi e pugnali in metallo, anche se diversi studiosi oggi preferiscono pensare a un'espansione incruenta dovuta più alla diffusione di idee religiose, sociali e soprattutto tecnologiche che a una immigrazione consistente.
La diffusione degli indoeuropei in Europa portò quindi nuove caratteristiche culturali e tecnologiche e determinò notevoli cambiamenti. Importante è sottolineare il fatto che le antiche culture europee cominciarono da questo momento ad abbandonare il matriarcato a favore del patriarcato portato dai nuovi venuti, riducendo i riti per il culto della fertilità orientati verso la terra, per passare all'adorazione degli dèi solari. Le tribù antenate dei Celti occuparono quindi le regioni dell'alto e medio Danubio intorno al XV-XIV secolo a.C. e cominciarono poi a espandersi verso ovest e successivamente, come il riflusso di un'onda, verso est. In questo periodo si possono riconoscere due diversi orientamenti a livello economico: nelle aree fluviali continuò la coltivazione dei cereali, anche se i villaggi cominciarono a situarsi su alture poco elevate (con un lento e costante abbandono dei villaggi su palafitte), mentre nei luoghi di maggior altitudine e nelle pianure centro-europee si assistette a uno sviluppo maggiore della pastorizia. I diversi tipi di insediamenti e organizzazioni economiche diedero luogo a differenti organizzazioni sociali e religiose.
Intorno al XIII secolo a.C., quando tutto il Mediterraneo stava vivendo un periodo caratterizzato da catastrofi naturali quali terremoti, siccità, maremoti e gelo, giunse l'ultima ondata di tribù indoeuropee che completò l'opera di mutamento culturale destinato a modificare per sempre il volto dell'Europa, con lo sviluppo del fenomeno celtico.

Ricostruzione di una capanna celtica, una fra le innumerevoli
disposte fra il monte Cimone e lungo la valle del Panaro.

ULTERIORI IPOTESI SULL' ESPANSIONE DEI POPOLI INDOEUROPEI
Un'ulteriore ipotesi (9), basata su studi etno-storici e recentemente sviluppata, è la seguente (10). Alcuni studiosi (11), basandosi sulla presenza di particolari cromosomi (specificamente quelli che provocherebbero il colore rossiccio dei capelli) lungo una sorta di "scia" migratoria da est a ovest, hanno ipotizzato una origine celtica nella zona settentrionale dell'India, un loro passaggio con lunga permanenza, intorno al IV millenio a.C., nell'odierno Afghanistan e una successiva migrazione (forse dovuta a inaridimento del territorio o alla pressione di altre popolazioni) occidentale che avrebbe portato i protocelti a ridosso degli Urali.
Carta geografica delle vie di
penetrazione della civiltà megalitica
 proto-Ligure.
Secondo alcuni studiosi, tra il Neolitico e l'Età del bronzo (10.000 - 2.500 a.C.), una popolazione mediterranea, che in seguito verrà chiamata Ligure, abbia lasciato il vicino oriente o la costa africana per dirigersi verso Nord in cerca di nuove terre approdando infine sulla costa settentrionale del mare Mediterraneo. Questa teoria spiegherebbe la derivazione del suffisso ligure -alb dall'accadico, col significato di "cavità d'acqua", suffisso utilizzato per vari nuclei  urbani denominati Alba così come per le Alpi, anche se i vari ritrovamenti di esemplari di uomini Cro-Magnon nel sud-ovest dell'Europa può far pensare a stanziamenti che abbiano generato la civiltà protoligure a cui appartennero anche i Baschi. Secondo un'altra ipotesi avanzata da William Ryan e Walter Pitman, professori di geofisica alla Columbia University di New York («Il diluvio» , Edizioni Piemme), in quel periodo l'Europa venne invasa via terra da popolazioni profughe del Mar Nero fuggite dal loro paese in seguito a uno spaventoso diluvio che fece crescere di 170 metri il livello delle acque di quello che allora era soltanto un grande lago. (Secondo alcuni mitografi, fu dopo la caduta di Fetonte che Zeus fece straripare tutti i fiumi uccidendo completamente il genere umano a eccezione di Deucalione e Pirra). In questo caso i fuggiaschi arrivarono in Francia dal Nord e questo spiegherebbe perché nell'antichità si parlava di un afflusso di genti che venivano dal Nord, anche se non è di quei territori che in effetti erano originari. Inoltre un segno ricorrente nella mitologia degli antichi liguri è il cigno iperboreo, animale che farebbe pensare ad un apparentamento con le popolazioni nordiche, visto che la costellazione del Cigno è circumpolare e orbita quindi sempre attorno al nord celeste. E' curioso che, così come le popolazioni Liguri siano state protagoniste nell'età del Bronzo, le popolazioni Celtiche lo siano state nell'età del Ferro; se accettiamo inoltre l'ipotesi di una civiltà proto-Ligure costruttrice di monumenti megalitici in Europa, sorprende il fatto che proprio nei siti in cui si sono conservati questi monumenti, maggiore è stata la sopravvivenza della cultura celtica. Per visualizzare il post "Liguri: storia e cultura", clicca QUI.
Carta dei primi insediamenti dei Celti in Europa con: la
cultura di Golasecca del XII sec.a.C. nella valle del
Ticino, Hallstatt del 700 a.C. a sud del Danubio
e La Tène del 450 a.C. nel lago di Neuchatel.
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LE CULTURE CELTICHE
Carta con l'ubicazione dei centri di rilievo della Cultura
di Golasecca con gli insediamenti proto-urbani,
i fiumi, i laghi, l'ubicazione di quelle che poi
divennero città, le popolazioni celtiche che ne
derivarono. Clicca sull'immagine per ingrandirla.
Dal 1.200 p.e.v. (a.C.) circa - Nel XII secolo a.C., nel territorio compreso fra lo spartiacque alpino a nord, il Po a sud, il Serio ad est e il Sesia ad ovest si sviluppa la cosiddetta Cultura di Golasecca, la prima cultura propriamente celtica, che prende il nome dalla località di Golasecca (in Provincia di Varese, sulle rive del fiume Ticino dove, all'inizio del XIX secolo, l'abate Giovanni Battista Giani effettuò i primi ritrovamenti che ritenne testimonianze della battaglia avvenuta, durante la seconda guerra punica, tra Annibale e Scipione, tesi già sostenuta precedentemente da Carlo Amoretti, erudito viaggiatore settecentesco. È, però, nel 1865 che Gabriel De Mortillet attribuisce tali reperti ad una civiltà autonoma preromana. I Celti a cui, probabilmente, si deve l'origine di tale cultura erano popolazioni di ceppo indoeuropeo. Giunsero in Europa in varie ondate, provenienti dall'Asia centrale, fra il 3500 e il 1500 a.C., attraverso il Caucaso e il Medio Oriente. Le zone europee in cui si svilupparono i primi segni della cultura celtica furono, appunto, l’area di Golasecca nel XII-X secolo a.C., l’area mineraria di Hallstatt (in Alta Austria) dove diedero vita a una cultura particolare sviluppatasi intorno all’VIII secolo a.C. e, infine, il sito di La Tène (Svizzera), dove raggiunsero la massima espressione artistica, sociale e spirituale nel VI-V secolo a.C.. Si diffusero, inoltre, nell'intero territorio austriaco e svizzero, nella Germania sud-orientale, in Francia, Belgio, Italia settentrionale, in parte dell’Europa centro-orientale, Spagna settentrionale, Balcani, Isole Britanniche, Irlanda e nell'area centrale della penisola  Anatolica. Per quanto riguarda l'area Golasecchiana, si può presumere che la struttura sociale adottata fosse articolata gerarchicamente e che la popolazione fosse divisa in villaggi situati nei pressi delle necropoli ritrovate. Era praticata l'agricoltura, la tessitura e l'allevamento che permetteva di produrre carne e formaggio. L'ampia circolazione di manufatti golasecchiani a nord delle Alpi è in stretto rapporto con l’espandersi e l’aumentare del volume dei commerci dell’Etruria Padana. Gli insediamenti golasecchiani erano di grande importanza strategica, dato che si trovavano lungo itinerari che permettevano di raggiungere i passi del San Bernardino, San Gottardo e Sempione. Dal ritrovamento di vari suppellettili si deduce che i Golasecchiani commerciavano non solo con i Liguri, ma anche con Etruschi, Greci, con i popoli dell'Italia Centro Meridionale ed insulare, fungendo anche da intermediari con i Celti del nord (Culture di Hallstatt e di La Tène). 
La rete di scambi comprendeva la Cornovaglia, la Bretagna e la Galizia, regioni da cui proveniva lo stagno necessario alla produzione del bronzo. Dalle regioni Baltiche proveniva, invece, l'ambra.
Il popolo detto della cultura di Golasecca risalente all’età del ferro era quindi inequivocabilmente di origine celtica, ben antecedente alla storica invasione del IV secolo a.C. Le sue origini risalgono addirittura alla seconda metà del II millennio all’interno della cultura locale dell’età del bronzo. Il territorio su cui si estendeva la popolazione golasecchiana era molto ampio, anche se non uniforme, comprendeva le pianure tra i fiumi Sesia ed Oglio estendendosi a nord fino alle pianure ed i contrafforti alpini a sud dei passi che conducono verso le vallate superiori del Rodano e del Reno.
Reperti delle ceramiche di Canegrate,
Protogolasecca, Liguri, Golasecca,
Villanova e Este.  Clicca sull'immagine
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Si è detto che la cultura di Golasecca discende dalla cultura locale dell’età del bronzo, detta di Canegrate; infatti sono molti gli studiosi che vedono un continuo evolutivo tra le facies di Canegrate del XIII secolo a.C. e quelle successive di Golasecca del VII secolo a.C. Un fattore importante da tenere in considerazione è che alcuni reperti risalenti a Canegrate sono diversi da quelli comuni nell’ambito locale, ma ben conosciuti nella regione a sud della Germania dove si sviluppò la cultura dei campi d’urne, unanimemente considerata antenata dei Celti dell’età del ferro. Tali reperti sono manufatti in bronzo ampiamente diffusi e ceramiche a scanalatura, utilizzati nei riti inceneritori, il che fece supporre ad un'espansione delle popolazioni protoceltiche dei campi di urne. Non esistono però prove tali da confermare questa tesi anzi, al contrario l’area mediterranea in questo periodo vive una forte instabilità dovuta a continui spostamenti di popoli e conseguenti guerre, mentre in Europa continentale vi è un periodo di calma il che farebbe pensare che i ritrovamenti della cultura di campi di urne al di qua delle Alpi sia dovuta più ad una moda che ad un’espansione di tale popolo. Diversi studiosi quindi ritengono che si possa parlare anche della cultura di Canegrate come di popolazioni protoceltiche, infatti la fine dell’età del bronzo è stata la base su cui si formarono successivamente le culture dell’età del ferro, per questo motivo la cultura di Canegrate prende il nome di cultura protogolasecchiana. Che la popolazione golasecchiana fosse celtica e conseguentemente quella di Canegrate protoceltica, si evince anche dai ritrovamenti nella necropoli di Ascona e del ripostiglio dei bronzi di Malpensa, reperti che comprendono gambiere in lamina di bronzo decorate a sbalzo, decorazioni a ruote solari associate ad uccelli acquatici stilizzati; reperti trovati non solo in Italia settentrionale ma anche in gran parte dell’Europa, dalla conca carpatica fino ai dintorni di Parigi, il che indica una piena integrazione dell’area golasecchiana con il resto dell’Europa. Un altro fattore che si desume dai ritrovamenti archeologici è che già a partire dal X secolo a.C. viene a crearsi la necessità di avere una élite guerriera ben equipaggiata, come testimoniato dall’armamentario ritrovato all’interno delle tombe della necropoli di Morta in provincia di Como. Tale necessità è motivata dalla ricchezza che si viene a produrre in queste zone, ricchezza dovuta all’ubicazione geografica che permise il controllo delle vie commerciali tra il versante nord e sud delle Alpi. Tutto ciò consentì lo sviluppo, in una zona omogenea, di una società diversificata rispetto ai vicini, nonché la nascita di una delle più antiche città europee al di fuori della zona mediterranea. Al periodo di benessere appena descritto segue per tutto il IX sec. e metà del l’VIII sec. un calo, probabilmente dovuto a mutazioni climatiche che portarono un periodo di forte piovosità, come dimostrato dai livelli dei laghi svizzeri sulle cui sponde, da secoli, sorgevano abitazioni abbandonate in seguito all’innalzamento del livello dell’acqua. E’ presumibile che tali innalzamenti dovuti alle copiose precipitazioni abbiano influenzato anche la vita ed i commerci in pianura padana, rendendo difficile l’utilizzo delle vie d’acqua. La situazione migliorò verso la fine dell’ VIII secolo e a testimonianza di ciò vi sono la nascita di complessi abitativi e di necropoli lungo le due sponde del Ticino allo sbocco nel lago Maggiore; controllando la zona strategica che va dai passi alpini che conducono all'alta valle del Rodano e a quella del Reno e a sud seguendo le vie fluviali fino al Po. Tra gli scavi effettuati a Golasecca, Castelletto Ticino e Sesto Calende, spiccano due tombe a incinerazione databili VII secolo a.C., la cui ricchezza principesca fuga ogni dubbio sul rango che dovevano detenere i guerrieri all'interno della cultura di Golasecca, infatti al loro interno sono stati ritrovati un carro a due ruote, elmo e gambiere di bronzo, spada di ferro, lunga lancia di ferro con l’asta munita di tallone e situla di bronzo istoriata, servizio da bevande, il cui secchio spicca per importanza in quanto è diverso da tutti gli altri, non vi è comunanza con i contemporanei etruschi e italici, con quelli veneti e con lo stile hallstattiano, ovvero significa che tale opera va attribuita ad una produzione autoctona in seguito anche esportata oltralpe.
Cultura di Golasecca: Bacile bronzeo
ritrovato a Castelletto Ticino.
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La principale caratteristica di tale decorazione sta nel fatto che mentre in nelle altre zone italiche iniziano a venir fatte decorazioni in rilievo e mediante tratti continui al fine di dare maggior contorno e realismo all’immagine, tecnica che caratterizzerà l’arte lateniana, a Golasecca si utilizza una tecnica che deriva direttamente dalla fine dell’età del bronzo, ovvero il rappresentare figure volutamente non realiste, mediante una serie di punti sbalzati dal rovescio, la volontà di non rappresentare figure simili alla realtà si evince anche dal fatto che tutte le rappresentazioni figurative sono in stile antropomorfo e questo non per incapacità o mancanza di originalità, infatti di esempi per eventuali ispirazioni ve ne erano, come il bacile bronzeo ornato con leoni e persone alate ritrovato a Castelletto Ticino, così come da manufatti in arte venetica.
Stele di Bormio. Clicca
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In realtà esiste una raffigurazione che consente di identificare l’aspetto dei celti di Golasecca, si tratta di una stele ritrovata a Bormio, (vedi figura "stele di Bormio") in Valtellina, estremamente importante sia perché unico ritrovamento del suo genere, sia per la rappresentazione che fornisce e che si ricollega all’aspetto guerriero golasecchiano, dandoci possibili indizi sul perché sono state ritrovate solo due tombe del livello sopra descritto. In questa raffigurazione spicca un personaggio di faccia, coperto da un grande scudo e con in testa un elmo, che tiene in mano un’insegna militare, tale insegna è parallela ad una lancia che sta dietro un piccolo scudo rotondo e che potrebbe trattarsi di un trofeo. Tale personaggio potrebbe essere sia un capo militare sia il Dio protettore del popolo, messo in una posizione che dà l’impressione di assistere ad una parata militare preceduta da trombettieri. Questa raffigurazione unita ai ritrovamenti nelle due famose tombe, possono significare che in alcuni momenti della loro storia i Celti di Golasecca hanno avuto la necessità di formare un apparato militare; il carro a due ruote è un segno di questa urgenza, in quanto è databile al VII secolo a.C. mentre nel resto d’Europa si diffuse nel V secolo a.C.; in oltre se esiste un apparato militare automaticamente deve esistere un leader, un condottiero che conduca il popolo in guerra, condottiero che spiccherà rispetto agli altri per il suo rango e magnificenza, proprio come spicca il personaggio sulla stele di Bormio, dotato di un armamentario degno del suo status, proprio come quello riscontrato nelle due tombe. Quindi l’evento eccezionale che costringe tutto il popolo a dotarsi di un leader paragonabile ad un dittatore romano, unito al fatto che esso per essere ricordato in magnificenza debba conseguire una vittoria strepitosa, fa sì che tali tombe siano estremamente rare anche se va detto che gli scavi archeologici fatti fin’ora sono scarsi e non è escluso che in futuro vi siano nuove scoperte. E’ anche probabile che l’esercito non servisse per attaccare altre popolazioni, ma ben sì per difendersi da eventuali attacchi, infatti la posizione strategica del territorio, descritta precedentemente, creò ricchezza e materie prime, senza considerare che è impensabile un eventuale transito di merci straniere sul loro territorio senza il permesso dei principi locali, i quali molto probabilmente richiedevano pagamenti o doni in cambio di un transito tranquillo.
Elmo di Golasecca III (480-450
a.C.).  Clicca sull'immagine
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Una cosa è certa, nonostante in Italia la cultura di Golasecca sia ignorata, fu un elemento fondamentale della cultura europea, ne influenzò le mode e lo stile artistico, lungo le vie commerciali che collegavano le due sponde delle Alpi e da lì nel resto d’Europa, le creazioni golasecchiane si sono diffuse un po' ovunque, Francia, Belgio, Renania e Boemia; soprattutto oggettistica di bronzo prodotta grazie sia alle materie prime che transitavano sul suo territorio, come lo stagno proveniente dalla Boemia e dalla Gran Bretagna, sia dalle materie prime estratte dalle Alpi come nel caso del rame.
La produzione bronzea era svariata, comprendeva recipienti, pendenti, oggetti ornamentali, porta fortuna e tutto ciò che col bronzo si può fare, oggettistica che si troverà frequentemente nelle tombe dei principi transalpini, insieme al carro a quattro ruote utilizzato per il trasporto del defunto, servizi per bevande con contenitori esageratamente grossi, fino alla capacità di 1100 litri come quello ritrovato a Vix. Un’altra prodotto tipicamente golasecchiano è il Kline, un grosso letto in bronzo su cui veniva deposto il defunto all’interno della tomba, tipo il famoso kline della tomba principesca di Hochdorf a Stoccarda. 
I prodotti in bronzo non sono gli unici reperti che si possono trovare nelle tombe principesche transalpine, infatti parecchie ceramiche riferibili a Golasecca sono state trovate in importanti tombe in area francese, svizzera e tedesca, ad esempio un caratteristico bicchiere decorato con motivi orizzontali rossi e neri. Senza voler attribuire, in mancanza di prove concrete, la paternità della croce celtica a Golasecca, va detto però che una tipica decorazione della ceramica golasecchiana consisteva nel stampigliare una croce inscritta in un cerchio, decorazione che nel VI secolo a.C. valicò le Alpi per diffondersi in Europa, dove i ritrovamenti di questo vasellame vanno dall’est della Francia fino alla valle del Danubio. Non solo l’oggettistica golasecchiana si diffonde in Europa, ma anche le tecniche stilistiche, come nel caso dei vasi stampigliati ritrovati in Armonica nel VI secolo, luogo in cui non vi sono dei precedenti che al contrario abbondano in nord Italia.
Ciò può spiegare come l’oggettistica sia arrivata in quelle zone tramite i movimenti commerciali fatti dai golasecchiani i quali dovevano procurarsi lo stagno proveniente dall’altro lato del mare, commercio che porterà tre secoli più tardi al ritrovamento di dracme padane in Cornovaglia.
Dracma Padana
Che questo tipo di oggetti furono il motivo trainate di questi commerci e delle conseguenti esportazioni stilistiche si evince dal fatto che contemporaneamente alla stampigliatura armoricana, compare in Boemia la ceramica decorata a traslucido, una novità per il posto ma già ben conosciuta e diffusa a Golasecca e la Boemia è un’altra zona stannifera. La ceramica stampigliata influenzerà nel V secolo a.C. la cultura lateniana, dove tale tecnica verrà adottata diventandone un fattore tipico. Le stesse decorazioni: esse, cerchi, croci e più raramente motivi vegetali e animali, la loro posizione ed i punzoni utilizzate non lasciano dubbio che la matrice originaria era Golasecca.

Nel 1.000 p.e.v. (a.C.) circa - Il linguaggio delle popolazioni celtiche si distingue in quattro sub-famiglie. Le lingue celtiche sono idiomi che derivano dal proto-celtico o celtico comune, una branca della grande famiglia linguistica indoeuropea. Durante il I millennio a.C., queste venivano parlate in tutta l'Europa, dal Golfo di Guascogna al Mar del Nord, lungo il Reno ed il Danubio fino al Mar Nero e al centro della penisola anatolica (Galazia). Oggi le lingue celtiche sono limitate a poche zone ristrette in Gran Bretagna, nell'Isola di Man, in Irlanda, in Bretagna (in Francia) e persistono nei dialetti dell'Italia settentrionale, Venezie escluse. Il proto-celtico si divide apparentemente in quattro sub-famiglie: il gallico ed i suoi parenti più stretti, il lepontico, il norico ed il galato. Queste lingue venivano parlate in un vasto spazio che andava dalla Francia fino alla Turchia, dal Belgio fino all'Italia settentrionale, dove sopravvive nei dialetti di LombardiaEmiliaRomagnaPiemonte e Liguria; il celtiberico, anticamente parlato nella penisola iberica: nell'area del Portogallo centro-meridionale e in Spagna nella Galizia, nelle Asturie, in Cantabria, in Aragona e nel León; il goidelico, che include l'irlandese, il gaelico scozzese, il mannese; il brittonico che include il gallese, il bretone, il cornico, il cumbrico, l'ipotetico ivernico e forse il pittico. Alcuni studiosi distinguono un celtico continentale da un celtico insulare, argomentando che le differenze tra le lingue goideliche e quelle brittoniche si sono originate dopo la separazione fra lingue continentali e insulari. Le lingue celtiche continentali sono quelle lingue celtiche che non sono né goideliche né brittoniche (celtico insulare). Sebbene sia verosimile che i Celti abbiano parlato dozzine di lingue e dialetti diversi attraverso l'Europa in tempi pre-romani, solo quattro di queste lingue sono realmente attestate e sopravvivono nei dialetti locali: Lingua leponzia (dal VII al III secolo a.C.) generalmente considerata una variante del Gallico; Lingua gallica (dal III secolo a.C. al II secolo d. C.); Lingua galata (dal III secolo a.C. al IV secolo d. C.) generalmente considerata una variante del Gallico; Lingua celtiberica (intorno al I secolo a.C.). Molti ricercatori concordano sul fatto che il celtico insulare sia un ramo distinto del celtico, avendo subìto innovazioni linguistiche. Le lingue celtiche insulari sono le lingue celtiche parlate ancora  oggi in Gran Bretagna, Irlanda, Isola di Man, Bretagna e sulla costa atlantica della Francia, che si contrappongono alle lingue celtiche continentali. Complessivamente si stima che le lingue celtiche insulari siano parlate da circa 900.000 persone. La più diffusa è la lingua gallese, con 526.000 locutori censiti nel Regno Unito nel 2011. Segue la lingua bretone, che contava 206.000 locutori nel 2007. La lingua gaelica irlandese, o semplicemente lingua irlandese, è parlata da 106.210 persone, di cui 72.000 censite nel 2006 nella Repubblica d'Irlanda. Per la lingua gaelica scozzese si stimano 63.130 locutori. La lingua cornica e la lingua mannese, un tempo considerate estinte, al censimento del Regno Unito del 2011 risultavano essere la lingua principale, rispettivamente, di 557 e 33 persone. La lingua gaelica iberno-scozzese era diffusa in Irlanda e Scozia, ma è ritenuta estinta dal XVIII secolo. Secondo Ethnologue, la classificazione delle lingue celtiche insulari è la seguente: Lingue brittoniche: lingua bretone [codice ISO 639-3 bre], lingua cornica [cor], lingua gallese [cym]. Lingue goideliche o gaeliche: lingua gaelica iberno-scozzese [ghc], lingua gaelica irlandese [gle], lingua gaelica scozzese [gla], lingua mannese [glv]. Altri studiosi distinguono invece un celtico-Q da un celtico-P, a seconda dello sviluppo della consonante indoeuropea . La lingua bretone è brittonica, non gallica. Quando gli anglo-sassoni si trasferirono in Gran Bretagna, alcuni dei nativi gallesi (welsh, dalla parola germanica Welschen che designa gli "stranieri", parola che deriva dal nome della tribù celtica dei Volci Tectosagi che erano appunto confinanti e talvolta in guerra con tribù germaniche e pertanto stranieri per questi ultimi) attraversarono la Manica e si stabilirono in Bretagna, portandosi la loro lingua madre che diventò in seguito il bretone, che rimane ancora oggi parzialmente intelligibile con il gallese moderno ed il cornico. Per tutte, il sistema di scrittura è l'alfabeto latino.


Cartina dell'Europa intorno
al 500 a.C.: le città e le vie
dell'Ambra, in nero e rosso, i siti
di rinvenimento di Ambra in rosso.
Clicca l'immagine per ingrandirla.
Dall' 800 p.e.v. (a.C.) circa - I Celti cominciano a commerciare regolarmente con i Fenici e con i Greci. Esportavano argentostagno e ambra (per il post "Ambra: pietra di Energia solare" clicca QUI), materie prime ritenute preziosissime dagli antichi, e inoltre cereali, carni e pesci essiccati e salati. Importavano soprattutto vino (la specialità dei Greci) poiché nei loro territori producevano soltanto una qualità di birra chiamata “cervogia”. Non importavano olio perché preferivano condire i cibi con il burro.
Ogham su pietra: Carn Enoch,
Galles, Inghilterra.
L’incontro con i Greci ebbe anche un grande valore culturale, perché diffuse nell’Europa celtica la scrittura alfabetica, anche se i Celti avevano una loro scrittura, l'ogham, l'alfabeto celtico, ma veniva usato esclusivamente dai druidi, e solo nei rituali sacri; tutto veniva tramandato oralmente affinché non si perdesse la memoria.
La società Celtica si fondava prevalentemente su tre classi sociali:
- la sacerdotale (druidica), che conservava e tramandava solo oralmente, la memoria collettiva,
- l'aristocrazia guerriera dedita alle armi e alla caccia,
- la terza, il popolo, dedito  alla lavorazione dei metalli e all'allevamento di cavalli, e suini.
Insediamenti centro-europei dei Celti
successivi alla cultura di Golasecca:
Cultura di Hallstatt a oriente, a sud
del Danubio e poi quella di La Tène, a
occidente, a sud del Reno. Nei
territori nord-italici erano già
fiorite le Culture di Este e di
Golasecca, oltre agli Euganei Liguri.
Dal 700 p.e.v. (a.C.) circa - In Europa centrale, nella zona del Salzkammergut (Salisburgo e Carinzia, nell'odierna Austria) e fino al 450 a.C., si sviluppò la Cultura di Hallstatt, resa fiorente dal commercio del sale e dalla produzione e commercializzazione di oggetti in ferro. Dalla zona tra  basso Rodano e alto Danubio, a  partire già dal 700 circa a.C., principalmente per ragioni demografiche di sovrappopolamento, l'espansione di questi Celti interessò le isole britanniche (già raggiunte da una prima ondata precedente) e la penisola iberica, dove si mischiarono alle popolazioni locali costituendo così i Celtiberi come avvenne per i Celtoliguri o Celtoligi.

Carta geografica degli insediamenti
europei dei Celti seguiti alla Cultura
di Golasecca: Hallstatt e poi La Tène.
 In rosa le successive espansioni.
Dal 450 p.e.v. (a.C.) circa -  Si sviluppa in Europa centro-occidentale  la cultura celtica di La Tène, preceduta dalla cultura di Hallstatt.
La fine della cultura di Hallstatt, dovuta probabilmente a conflitti interni, con nuovi ceti che aspirano al potere e soppiantano la vecchia aristocrazia hallstattiana (12), segna l'inizio della  cultura di La Tène (450 - 50 a.C.), sviluppatasi sul lago di Neuchatel (nell'attuale Svizzera occidentale) e caratterizzata, oltre che da una spettacolare attività artigianale e artistica, soprattutto dalla nascita di una forte rete di commercio di massa (armi e accessori in ferro, suppellettili in oro, argento e ambra) e dalla conseguente nascita di una protoborghesia (13). Successivamente i Celti si espansero verso le coste Atlantiche e, con nuove ondate migratorie, nell'Italia settentrionale, dove già erano stanziati i discendenti della cultura di Golasecca.
Carta della diversificazione, in Europa
e Anatolia, delle genti Celtiche e
della loro fusione con genti già
stanziate in quei territori: Celtiberi,
CeltoLiguri o Celtoligi. 
Giunsero poi nei territori dei Balcani, in cui vennero a contatto con l'impero di Alessandro Magno e in cui svolsero attività di mercenari, mentre una parte ritornò verso l'Asia Minore: i Galati (14).
Particolarmente interessante è il fatto che la doppia migrazione verso l'odierna Gran Bretagna mostra una nettissima evoluzione di questo popolo tra 900 e 500 a.C.. La prima ondata migratoria fu legata a popoli di lingua gaelica, che, forse partiti dalla Spagna settentrionale, approdarono in Irlanda, Scozia e Isola di Mann e svilupparono una lingua denominata Celtico Q, poiché al posto della lettera k si utilizzava la lettera q.
L'OGHAM, l'alfabeto celtico.
Ogni OGHA, simbolo-lettera, è l'iniziale
di un'albero-pianta, con i nomi in
gaelico: inoltre qui indichiamo la
corrispondenza con il calendario
arboricolo proposto da Robert Graves.
Clicca l'immagine per ingrandirla.
La seconda migrazione fu caratterizzata da popoli britannici, che partiti dal Belgio in piena età lateniana, dunque nella massima fase dello sviluppo socio-economico, colonizzarono Inghilterra, Galles e Cornovaglia, sviluppando il Celtico P, poiché la k era sostituita da p (ad esempio, cavallo, in indoeuropeo "ekuos" divenne "equos" in gaelico e "epos" in britanno).
Reperti celtici in ferro.
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La mutazione consonantica q-p non fu che una delle differenze tra le popolazioni delle due ondate: le prime vivevano in fortificazioni, le seconde in villaggi ed è probabile che la migrazione dei secondi spinse i primi verso zone più lontane.
Non a caso il termine "gaelico" deriva dalla parola "gwyddel" che significa "selvaggi" e fu attribuita, nella seconda migrazione, dai Gallesi agli avi degli Irlandesi della prima migrazione (15). Per visualizzare il post "Ogham: la scrittura rituale degli antichi Celti", clicca QUI.
Celti - OGHAM, l'alfabeto celtico. Ogni OGHA, simbolo-lettera, è l'iniziale
di un'albero-pianta, un uccello e un colore, con i nomi in gaelico:
inoltre qui è indicata la loro corrispondenza con il calendario arboricolo
proposto da John King. Clicca l'immagine per ingrandirla.

Carta geografica della diffusione
dei Celti nel III sec. a.C.
DIFFUSIONE DEI CELTI NELLA LORO ETA' D'ORO
Il IV secolo a.C. segna l'apogeo della grandezza delle tribù celtiche, stanziate praticamente ovunque in Europa, come  facilmente visibile dando un'occhiata ad una cartina degli stanziamenti del periodo.
Alcuni thuath Celti stanziati in Europa:
in Gallia Transalpina (attuali Belgio, Francia e Svizzera):
Carta geografica dei  Celti in
Gallia nel I sec a.C.
 Allobrogi(Vienne); Ambiani (Amiens); Ambiliati; Andecavi o Andi (Angers); Aquitani (Bordeaux); Atrebati (Arras); Arverni (Auvergne); Aulerci Eburovici (Normandia); Ausci (Aquitania); Baiocassi (Bayeux, poi in Pannonia); Bellovaci (Beauvais); Betasii; Bigerrioni(Aquitania); Biturigi (Bourges); Boi (Aquitania, poi in Emilia Romagna, Pannonia e Boemia); Carnuti (Chartres); Catalauni (Chalons); Caturigi (valle dell'alta Durance); Cenomani (Le Mans, poi in Lombardia e Veneto); Ceutroni (valli dell'Isere e dell'Arc); Cocosati (Aquitania); Coriosiliti (Corseul); Diablinti; Edui - Bibracte (Saone et Loire); Elusati (Aquitania); Elvezi (La Tene); Garonni (Aquitania); Gati (Aquitania); Graioceli (Moncenisio); Lemovici (Limoges); Lessovi (Normandia); Leuci; Lingoni; Mandubi; Mediomatrici (Metz); Meduli (Medoc); Meldi (Meaux); Menapi (Cassel); Morini ( Boulogne-sur-Mer); Namneti (Nantes); Nantuati (Martigny); Nervi (Bavay ); Osismi; Parisi (Parigi); Petrocori (Périgord); Pictoni (Poitiers); Ptiani (Aquitania); Redoni (Rennes); Remi (Reims); Santoni (Saintes); Seduni (Martigny); Segusiavi (Loira); Senoni (Orleans); Sequani (Besançon); Sibuzati (Aquitania); Soziati (Aquitania); Suessioni (Soissons); Tarbelli (Aquitania); Tarusati (Aquitania); Tolosati (Tolosa); Treviri, Treveri (Trier); Tricassi (Troyes); Tungri (Tongeren); Turoni (Tours); Unelli (Normandia); Vangioni (Worms); Veliocassi (Rouen); Vellavi (Ruessium); Veneti (Bretagna); Veragri (Martigny); Viducassi (Vieux); Viromandui (Vermandois); Vocati (Aquitania); Voconzi (Vaison-la-Romaine);
in Germania: Boii (Boemia e Baviera, che da loro hanno preso il nome); Cotini (prima in Pannonia a nord della Drava poi a nord del Danubio; Volci (valle del Danubio in una zona compresa fra la Franconia e la Boemia).
Carta con i popoli Celti
nella Gallia del nord
e in  Britannia
nel I sec a.C. 
In Britannia (attuali Inghilterra, Irlanda, Scozia e Galles): Ancaliti (Hampshire e Wiltshire, Inghilterra); Atecotti (Scozia o Irlanda); Atrebati (Hampshire e Berkshire, Inghilterra); Autini (Irlanda); Belgi (Wiltshire e Hampshire, Inghilterra); Bibroci (Berkshire, Inghilterra); Briganti (Inghilterra settentrionale); Briganti (Irlanda); Cereni (Sutherland, Inghilterra); Caledoni (Invernessshire, Scozia); Cantiaci (Kent, Inghilterra); Carnonaci (Highland scozzesi occidentali); Carvezi (Cumberland, Inghilterra); Cassi (Inghilterra); Catuvellauni (Hertfordshire, Inghilterra); Cauci (Irlanda); Corieltauvi (Leicestershire); Coriondi (Irlanda); Corionotozi (Northumberland, Inghilterra); Cornovi (Caithness, Inghilterra); Cornovi (Cheshire, Inghilterra); Cornovi (Cornovaglia, Inghilterra); Creoni (Argyllshire, Scozia); Damnoni (Strathclyde, Inghilterra); Darini (Irlanda); Deceangli (Flintshire); Decanzi (Ross orientale, Inghilterra); Demezi (Dyfed, Galles); Dobunni (Gloucestershire); Dumnoni (Devon, Inghilterra); Durotrigi (Dorset, Inghilterra); Eblani (Irlanda); Epidi (Kintyre, Inghilterra); Gangani (Irlanda); Gangani (penisola di Lleyn); Erpeditani (Irlanda); Iberni (Irlanda); Iceni (East Anglia, Inghilterra); Lugi (Sutherland orientale, Inghilterra); Magnazi (Irlanda); Manapi (Irlanda); Novanzi (Galloway, Inghilterra); Ordovici (Gwynedd, Galles); Parisi (East Riding, Inghilterra); Regnensi (Sussex, Inghilterra); Robogdi (Irlanda); Segonziaci (Inghilterra); Selgovi (bacino superiore del Tweed, Inghilterra); Setanzi (Lancashire, Inghilterra); Siluri (Gwent, Galles); Smerzi (Sutherland meridionale, Inghilterra); Tassali (Aberdeenshire, Scozia); Trinovanti (Essex, Inghilterra); Vacomagi (Banffshire, Inghilterra); Velabri (Irlanda); Veniconi (Strathmore, Inghilterra); Vennicni (Irlanda); Vodie (Irlanda); Votadini (Lothian, Scozia).

Carta dell'Europa nel 58 a.C., con le popolazioni dei Celti rimasti
autonomi in verde, i Germani in rosa, i Daci in arancione, gli Illiri
in nocciola e i domini della Repubblica di Roma in giallo, quando
aveva già assoggettato i Celti della Gallia Cisalpina, Narbonese
e i Celtiberi d'Hispania.

In It
alia settentrionale (Gallia Cisalpina): Anari (Emilia); Boi (Emilia); Carni (Carnia); Cenomani (Brescia); Anari (Oltrepò Pavese); Graioceli (Moncenisio); Insubri (Lombardia); Lingoni (Ferrara); Orobi (tra Como e Bergamo); Salassi (Aosta e Canavese); Taurini, più Liguri che Celti (Torino); Vertamocori (Novara).
In Italia centrale: Senoni (dalla Romagna al Piceno nelle Marche).
In Europa centrale: Anartii (Ungheria); Arabiati (Illiria); Boi (Repubblica ceca, Slovacchia, Ungheria e Germania: Boemia, che prende il nome da loro); Cotini (Slovacchia); Eravisci (Ungheria); Ercuniati (Illirico); Osii (Slovacchia); Scordisci (Croazia, Serbia); Taurisci (Norico).
Nella penisola Iberica: Arevaci; Asturi; Cantabri; Carpetani; Celtiberi (Spagna); Cineti (Algarve, Portogallo meridionale); Calleci (Portogallo e Spagna); Lusitani (Portogallo); Vaccei; Vardulli.
In Anatolia: Galati (da Volci Tectosagi con Tolistobogi e Trocmi).

TRISKEL, simbolo solare
 della trinità dell'Uno ( O I W ):
Nerz (Forza), Skiant (Saggezza)
 e Karantez (Amore)

Celti - "Galata morente" statua romana
(da notare la torques al collo).
SOCIETA' E CULTURA
Alla base della società celtica c'era la famiglia (16), non monocellulare perché ne facevano parte integrante gli antenati ed i parenti collaterali oltre ai discendenti diretti. In questo modo, come nel caso del clan scozzese, la famiglia poteva essere costituita da migliaia di individui. In genere veniva riconosciuto un capofamiglia, affiancato da una o più mogli, dai figli, dalle nuore e dai nipoti. I matrimoni avvenivano all'esterno della famiglia e, nel caso dei nobili, all'esterno della tribù detta thùath.
I celti riconoscevano comunque l'autorità di un re (rix). Questi rendeva conto alla classe sacerdotale dei Druidi. Il re veniva di solito scelto fra coloro che si erano guadagnati maggiore stima nella tribù, sempre sotto il controllo dei Druidi. Dopo il Re il maggior prestigio sociale spettava ai nobili, la classe dei dei cavalieri da cui dipendeva la sicurezza della tribù stessa. Considerazione appena minore era riservata agli uomini d'arte che erano le persone esperte nell'interpretazione ed applicazione delle leggi, quanto i poeti, i musicisti e gli artigiani dei quali siamo in grado di riconoscere la straordinaria abilità dai reperti di ferro, bronzo, argento ed oro, portati alla luce dagli scavi archeologici.
Torques, tipici collari
 dei Celti.
Vi era, poi, la massa degli uomini liberi, costituita nella sostanza da contadini e dai piccoli allevatori che corrispondevano al re od a un nobile, dei tributi in natura. Gli schiavi erano i prigionieri.Il territorio occupato da una Tuath era di solito definito da confini naturali (corsi d'acqua, montagne, colline). All'interno la terra non era suddivisa secondo un criterio di proprietà individuale ma rappresentava un bene comune della famiglia.I druidi controllavano la vita pubblica e privata. Presiedevano non solo il culto, ma esercitavano la loro autorità anche nella sfera morale e culturale. Erano sacerdoti, astrologi, interpreti dei segni divini, maestri e uomini di scienza. Erano l'elemento unificante nel suo particolarismo tribale e nella estensione geografica.
Periodicamente si tenevano assemblee di druidi appartenenti a tribù diverse, che potevano anche essere in contrasto fra di loro. Erano esonerati da ogni dovere civile e dal pagamento dei tributi e quando non celebravano i loro complessi e misteriosi riti, insegnavano all'aperto richiamando molti giovani che (spontaneamente) li ascoltavano. La trasmissione del sapere era essenzialmente orale e basata sul continuo esercizio della memoria. Scopo principale dell'insegnamento druidico era la conoscenza della natura, delle sue energie (telluriche e cosmiche), delle sue leggi, dei suoi ritmi.

Croce o Ruota celtica.
PENSIERO E SPIRITUALITA'
La croce celtica deriva dalla sovrapposizione di un cerchio vuoto e di una croce greca o latina, di modo che il centro del cerchio coincida con il punto di intersezione dei bracci della croce. Nelle regioni celtiche d'Irlanda e Gran Bretagna si trovano molte croci celtiche isolate, erette a partire per lo meno dal VII secolo. Alcune di queste portano iscrizioni in alfabeto oghamico (alcune in runico, che è germanico, non celtico!). Tali croci si rinvengono in Cornovaglia, Galles, sull'Isola di Iona e nelle Isole Ebridi, ma la maggior parte si trova in Irlanda. Altre croci di pietra sono state rinvenute in Cumbria e nel sud-est della Scozia, anche se alcune di questo sono di fabbricazione anglosassone. Le croci celtiche più famose sono la Croce di Kells, County Meath, e le croci in Monasterboice, County Louth, e la Croce delle Scritture, Clonmacnoise, queste ultime in Irlanda. Ci sono numerose rappresentazioni di croci con un cerchio anche prima del Cristianesimo. Spesso chiamate "croci solari", sono state rinvenute nel Nord Ovest dell'Europa (il simbolo fu associato al dio Norreno Odino) e anche nei Pirenei e nella Penisola Iberica. Non vi sono però prove di un collegamento o di un'origine comune con la croce Cristiana.
Ruota di Medicina
dei Nativi Americani
(Indiani d'America).
Ma vediamo di approfondire l'insegnamento celato in questo antico simbolo:
da "Il Vischio e la Quercia" di Riccardo Taraglio: Appare ormai evidente che le conoscenze e gli insegnamenti spirituali che ci giungono dalle popolazioni animiste dei vari continenti, fra loro non differiscono molto nei contenuti al modo di pensare “mitico” dei Celti. Nell'affrontare questo argomento, ci si può servire, almeno per i concetti generali, di termini che non appartengono alla tradizione celtica ma a quella dei Nativi-Americani.
Per visualizzare il post "La Ruota di Medicina", clicca QUI.
I Celti vivevano in un'Europa coperta di foreste e i ritrovamenti di oggetti ornati con innumerevoli spirali, figure vegetali, animali e umane che si avvinghiano e s'intrecciano senza sosta, testimoniano il loro profondo legame con la natura e le sue manifestazioni, e certamente ha contribuito a sviluppare una tradizione spirituale in armonia con essa. E' ormai assodato che qualsiasi dottrina (religiosa, politica, filosofica) non è altro che un insieme di concetti che gli esseri umani utilizzano per dare un'interpretazione della realtà che li circonda e vivere una vita quotidiana secondo le regole accettate dal gruppo che segue tale sistema di pensiero , lo «strumento concettuale»: qualunque sia la dottrina seguita e adottata, essa avrà un riscontro nella realtà e chi la segue si sentirà quindi di «possedere» la verità circa l'interpretazione del mondo. Avrà inoltre delle argomentazioni per ridicolizzare o rendere non-valide le dottrine degli altri popoli che a loro volta si sentiranno «padroni» di una verità da difendere contro gli «infedeli». Risulta perciò perfettamente inutile mettersi a discutere se la dottrina che ciascun individuo o popolo segue sia «la Verità» nel senso assoluto del termine, ma sarebbe meglio ritenerla un utile strumento, in qualsiasi momento modificabile, per trovare ed entrare in contatto nel modo migliore possibile con quella che è la «nostra strada» (individuale o sociale che sia...). Il termine «medicina» nelle tradizioni nordamericane serve a indicare un'energia vitale, nel senso di «Energia della Vita», che è disponibile ovunque, in qualunque momento e per qualsiasi persona voglia ottenerla. Per farlo è però necessario che l'individuo adotti determinate pratiche che lo portino a modificare il proprio stato di coscienza, in modo da entrare in contatto e utilizzare i propri «poteri» interiori. Questi si manifestano semplicemente con un'intensificata sensibilità e consapevolezza verso il mondo nella sua complessità, globalità, ma anche nei suoi più piccoli componenti. L'individuo, cioè, diviene cosciente dell'utilità di ogni singola parte del creato in rapporto alla totalità e realizza (cioè «rende reale» grazie alla luce della propria coscienza) l'Unità del Tutto. Scopre quindi che non vi sono cose, esseri o eventi senza scopo né causa e comprende che ogni cosa è inserita in un contesto con un preciso significato.
La nostra cultura occidentale «ufficiale», tuttavia, non è riuscita a sviluppare un sistema di pensiero in grado di portare la maggior parte degli individui a vivere in armonia con i concetti espressi sopra, non semplicemente come mera credenza ma come esperienza. Ecco perché molte persone di cultura occidentale si sono rivolte alle tradizioni native e sciamaniche delle popolazioni che hanno il pregio di aver conservato un tale approccio alla realtà. È evidente (dallo stato di salute fisica, emotiva e psichica in cui abbiamo obbligato il pianeta) che come società occidentale viviamo con un'interpretazione «esplosa» della realtà, senza comprendere il legame dei vari componenti e degli eventi che si verificano nel mondo, anzi mostrando un'arrogante sufficienza quando qualcuno cerca di farceli notare, invitandoci a riflettere sulle nostre scelte.
Monolito a Kilnasaggart,
 in Irlanda, in cui sono
state incise sia la croce
Latina che la croce Celtica.
La Ruota di Medicina è uno degli strumenti concettuali che permettono all'individuo che la utilizza di entrare in contatto con la realtà vivendo consapevolmente eventi e persone che in essa si muovono. Con «Ruota di Medicina» si intende un sistema di «lettura» della realtà circostante per mezzo dei quattro punti cardinali maggiori più quelli minori, associando a ciascuno di essi tutta una serie di simboli. Viene generalmente rappresentata con un cerchio in cui è inscritta una croce (o due, se si aggiungono i punti cardinali minori) e che era conosciuta presso i Celti con il nome di «Croce Celtica», presente nella tradizione già come simbolo precristiano. Una cosa fondamentale nell'utilizzo della Croce Celtica come punto di riferimento per l'interpretazione della mitologia e soprattutto degli avvenimenti del calendario, è tenere presente che quando si considera uno dei punti cardinali è come se ci si ponesse con i piedi su di esso, guardando lo schema verso il centro (perché sia sempre davanti a noi in senso interiore) e quindi avendo di fronte il punto cardinale opposto con tutti i suoi simboli e qualità associati. Questa visione risponde a quella che potremmo chiamare «Legge di Corrispondenza».
La tradizione celtica irlandese è quella che ci ha tramandato in forma scritta numerose informazioni circa la cultura precristiana dell'isola. In diverse occasioni vengono citati i punti cardinali associandoli ad alberi, città, fortezze, festività ecc. Proporrei, però, di non attenersi rigidamente alle quattro direzioni canoniche nel considerare la Croce Celtica, perché, come si è già detto, i Druidi insegnavano che era negli stati intermedi che si celava il potere.

Nell'ordine terrestre, le direzioni si
sfasano di 45° rispetto alla posizione
celeste. Analogamente ne "I King",
o "I Ching" c'è un ordine del mondo
delle Cause (Premundano) sfalsato
rispetto all'ordine del mondo degli
Effetti (Postmundano).
Fra buio e luce,
fra giorno e notte;
è Crepuscolo che crea Magia.
Né pioggia né acqua marina,
né flusso né acqua di pozzo;
è Rugiada che crea Magia.
Né pianta né albero,
né fusto né foglia;
è Muschio che crea Magia.

Nei testi ognuna delle quattro province d'Irlanda è associata a un punto cardinale preciso (a Est il Leinster, a Ovest il Connacht, a Sud il Munster, a Nord l'Ulster), mentre nella realtà geografica esse sono poste in quelli intermedi. Vorrei quindi proporre una lettura dei punti cardinali basata su questo assunto: quando ci si riferisce a luoghi sulla Terra, i punti cardinali sono quelli intermedi (SE, NE, SO, NO), mentre quando si fa riferimento a luoghi od oggetti mitici, così come agli dèi, i punti cardinali da considerare sono quelli principali (E, S, N, O). Ma non è tutto...
Musi di cinghiali
inferociti
costituivano la
campana
delle "carnix", le
temutissime
trombe da guerra
celtiche.
Il termine utilizzato dai Celti per definire il «basso» era lo stesso che indicava il Nord e viceversa per il Sud ed è bene perciò avere una visione tridimensionale della Ruota di Medicina celtica, piuttosto che a due dimensioni. Inoltre è necessario pensare ai punti cardinali celesti e non a quelli terrestri. Infatti, come abbiamo visto, i Druidi avevano il sole come punto di riferimento e base per il loro insegnamento spirituale e questo si trova esattamente sopra le nostre teste a mezzogiorno, in direzione sud, e sotto i nostri piedi a mezzanotte, in direzione nord (ecco perché il Sud è considerato «sopra» e il Nord «sotto»!).
Per comprendere meglio il discorso che stiamo per affrontare, immaginiamo di porci al centro di un cerchio guardando verso Sud-Est, il punto in cui il sole sorge al solstizio d'inverno, e di tracciare una linea che da sopra la nostra testa attraversi il nostro corpo e prosegua sotto di noi oltre i nostri piedi (l'asse Nord-Sud). Avremo così dietro di noi il Nord-Ovest, alla nostra destra il Sud-Ovest e alla nostra sinistra il Nord-Est. Questa ricostruzione della visione celtica può essere non molto ortodossa, ma corrisponde esattamente con le qualità che venivano associate a ogni provincia, come vedremo più avanti.
Nel testo “Lebor uà hUidre” è contenuto un capitolo intitolato “Cethri arda in domain” (I quattro punti cardinali del mondo) in cui viene scritto che per ogni punto cardinale è presente un uomo incaricato di narrare le storie antiche del mondo: a ovest vi è Fintan, a nord Feren, a est Fors, a sud Annoit.
Cartina dell'Irlanda con le
principali città e le 4
province di Ulster (sotto
il dominio britannico),
Connaught, Leinster
e Munster.
Un'altra testimonianza sull'importanza data ai punti cardinali dalla tradizione celtica è contenuta in uno scritto che parla della disposizione dei vari re al festino di Tara. Nel testo si pongono le province e le popolazioni che vi giungono secondo i punti cardinali principali, ma sia geograficamente che per un discorso simbolico è bene fare riferimento a quanto segue.
Come si è già detto l'Irlanda era divisa in quattro parti chiamate «province» (in gaelico coìced), governate ciascuna da un re (ogni provincia era ulteriormente suddivisa in trenta tùath retti da trenta re «minori»). Ogni provincia aveva poi offerto una parte del proprio territorio per formare una quinta provincia, quella del Meath (Mide), sede dell'Ard rì, il re supremo, e ciascuna di esse era associata a un luogo geografico, a un punto cardinale, a una popolazione e a una qualità simbolica.
Al festino di Tara il re supremo si sedeva al centro della sala, rappresentando la provincia del Meath (Mide), mentre alla sua destra si sedevano il re della provincia, i re delle tribù e gli uomini del Munster (Mumu); alla sua sinistra quelli dell'Ulster (Ulaid); alle sue spalle quelli del Connaught (Connacht) e di fianco a lui (o di fronte?) quelli del Leinster (Lagin).
Scudo in bronzo del I sec.
a.C. ritrovato nel Tamigi,
a Battersea, Inghilterra.
Alla provincia di Meath, il centro, corrispondeva la Sovranità (ogni individuo che si trovi al centro di se stesso è sovrano del proprio mondo interiore, il regno).
Il re guardando verso Sud-Est aveva di fronte la provincia del Leinster che rappresentava la Prosperità (che andava tenuta sempre di fronte a sé per essere considerati degni di occupare il trono).
Alle sue spalle (Nord-Ovest) il Connaught portava la qualità della Scienza (che va cercata perché non la si possiede in modo innato).
Alla sua destra aveva la provincia del Munster (a Sud-Ovest), con le sue qualità della Musica e dell'Arte in generale.
Nord-Est infine la Battaglia, che era rappresentata dall'Ulster, posta alla sua sinistra (Nord-Est era considerata una direzione infausta, poiché si vede il tramonto del sole nel giorno più oscuro dell'anno: il solstizio d'inverno).

I nomi per definire i punti cardinali che ci sono stati tramandati provengono ancora una volta dalla tradizione irlandese. Possediamo così i nomi di Tair (la regione che sta) «davanti», per definire l'Est (anair, «da oriente»); quello di Anairdes per indicare Sud-Est (nel senso di «proveniente da SE»); di Anairtuaid per il Nord-Est («proveniente da NE»); Tuas per il Sud, l'alto e la destra; Tiar (la regione che sta) «dietro», per l'Ovest (aniar è «da O»; «che va a O» invece, si dice siar) e con Tuath-Tuaid si indicava il Nord, il basso, la sinistra.

Croce Celtica - Affinità fra direzioni, elementi, miti, divinità e ricorrenze.

Un'altra importante serie di simboli legati alla Croce Celtica, la Ruota di Medicina occidentale, era quella che prendeva origine da quattro città mitiche situate «nelle isole a nord del mondo», in ciascuna delle quali un Druido svolgeva il ruolo di saggio. Fu da queste città che vennero i Tuatha Dé Dannan, portando con loro, oltre alle qualità già descritte, quattro formidabili oggetti. Il Libro giallo di Lecan riporta un'interessante poema che descrive la storia delle quattro città, dei loro Druidi, degli oggetti e dell'arrivo dei Tuatha Dé Danann in Irlanda. Lo scritto riporta che gli dèi trassero l'insegnamento dalla saggezza perfetta, dal druidismo e dalla magia, insegnamento che si apprendeva nelle città di Falias, Gorias, Murias e Findias.
I Tuatha Dé Danann dovettero però impegnarsi «in un combattimento accanito per apprendere la vera scienza».
Falias (dal termine celtico fai, «sovranità») si trovava il Druido Morfesa («Grande Sapere»), e in senso simbolico tale città può essere messa in relazione con l'elemento Terra.
Gorias (il cui nome ha radice nella parola celtica gor, «fuoco»; detta «la pura» o «dal desiderio violento») si trovava il Druido Esras («Opportunità»), e l'elemento associato alla città è appunto il Fuoco.
Murias (dal termine celtico muir, «mare»; detta «dal grande valore» o «fortezza delle navi») vi era il Druido Semias («Sottile»), e l'elemento associato è l'Acqua.
Findias (dal gaelico finn, «bianco», che indicava anche il ciclo nel senso spirituale) si trovava il Druido Uscias («Acqua»), e l'elemento associato è l'Aria.

Inoltre da ogni città fu portato un oggetto eccezionale che rappresentava anche una qualità specifica:
da Falias venne la Lia Fail, la Pietra del Destino (o «Pietra della Sovranità», associata al Nord e al dio Ogma);
da Gorias venne la Spada di Nuada, la Claimh Solais («Spada di Luce», associata al Sud nella Croce Celtica);
da Findias venne la Lancia di Lugh, la Sleà Bua («Lancia della Vittoria», associata all'Est);
da Murias proveniva il Calderone di Dagda, il Coire Raidhse («Calderone dell'Abbondanza», associato all'Ovest e alle qualità di abbondanza e generosità, principali attributi della regalità).

Celti - Dagda che immerge un guerriero nel "calderone della trasformazione"
che procura la morte ai vivi e la vita ai morti (dal Calderone di Gundestrup)

È interessante notare come i quattro simboli dell'epoca celtica si ritrovino anche nelle leggende di Re Artù e dei Cavalieri della Tavola Rotonda, più o meno con gli stessi attributi e posti sugli stessi punti cardinali della Croce Celtica. L'estrazione della Spada dalla Roccia (la Pietra) è l'azione che costituì il riconoscimento di Artù come sovrano. La Coppa del Graal riempì i piatti del cibo preferito e gli animi di una serenità ineguagliabile ai Cavalieri seduti attorno alla Tavola Rotonda. La Lancia che Parsifal vide nella processione nel Castello del Graal grondava sangue dalla punta. Ma non è tutto, perché questi simboli passarono dai luoghi mitici dei racconti alla realtà fisica quotidiana quando furono utilizzati come segni delle carte: le Spade (divenute Picche), le Coppe o Calderoni (Cuori), i Bastoni o Lance, (Fiori), gli Scudi o Denari (Quadri). Gli oggetti sacri portati dai Tuatha Dé Danann in Irlanda, i loro corrispondenti delle leggende arturiane e della Cerca del Graal e i semi delle carte sono inoltre legati ai quattro elementi e alle quattro stagioni: i Bastoni-Picche all'Aria e alla Primavera; le Spade-Fiori al Fuoco e all'Estate; le Coppe-Cuori all'Acqua e all'Autunno; i Denari-Quadri alla Terra e all'Inverno. Ma veniamo alla «lettura» degli elementi sulla Croce Celtica. Alcune tradizioni nordiche riferiscono che l'orologio delle stagioni è la costellazione dell'Orsa Maggiore e che la sua coda ne è la lancetta: essa indica uno dei punti cardinali e quindi la stagione in cui ci si trova.

Standing Stone di Salachary,
Argyll, in Scozia. Al di sotto di
tali monoliti si credeva stesse
l'Aldilà, per in cui questi luoghi
venivano a danzare le Fate.
L'Est, la direzione dello Spirito, della Luce Nascente (la Supercoscienza nella psiche umana), era il luogo da cui proveniva la Lancia di Lugh. L'elemento naturale a essa associato era l'Aria (l'Uomo Alato rappresentante il segno zodiacale dell'Acquario e simbolo dell'evangelista Matteo), poiché la Lancia è in grado di volare nel cielo e la città da cui fu portata era Findias, il cui nome è associato al bianco come colore dei Cicli in senso spirituale. La Lancia era l'oggetto che conferiva la regalità a chi ne era in possesso, cioè riconosceva il potere di «sovrano» del proprio mondo interiore a chi aveva la propria coscienza focalizzata sul piano spirituale. Questo è in perfetta sintonia con l'insegnamento druidico per il quale lo spirito è la qualità che legittima ogni cosa.

L'Ovest, la direzione legata alle Terre al di là del mare e quindi all'elemento Acqua (l'Aquila, simbolo del segno zodiacale dello Scorpione e dell'evangelista Giovanni), era il luogo da cui era stato portato il Calderone di Dagda, l'oggetto che donava abbondanza, il ricettacolo di ogni cosa. Per i Celti a Ovest erano situate le Terre dei Morti, degli Antenati, e il Calderone dell'Abbondanza era anche il Calderone della Trasformazione in cui venivano rigenerati i guerrieri morti o nel quale trovavano la morte quelli votati all'iniziazione (nella psiche umana rappresenta il Subconscio, contenitore di tutte le esperienze). La città da cui era stato portato il calderone, Murias, ha nel suo nome la radice celtica che indica il mare, confermando quanto esposto. Inoltre l'Ovest è chiaramente legato al dio Manannan, il maestro dell'illusione, il Signore dei Morti, nel senso che la morte crea l'illusione che tutto finisca al momento del suo giungere, ma può anche significare che al suo arrivo tutto ciò che fino ad allora abbiamo giudicato importante nel nostro percorso terreno è pura illusione. Fatto estremamente interessante è il significato del termine che indica l'antico canto gaelico intonato alla morte di qualcuno, conosciuto con il nome di caoine, che, oltre a «lamento», vuoi dire anche «sottile», proprio come il nome del Druido legato a Murias e all'Ovest, «Terra dei morti».

Menhir che si trova
sul percorso del Passo
della Mezzaluna, nei
pressi di Carmo dei
Brocchi, in frazione
Andagna, provincia
di Imperia.
Il Nord, direzione legata al corpo e al grande Inconscio Collettivo (la Coscienza della Terra) nella Croce Celtica, era associato all'elemento Terra (il Toro Alato rappresentante il segno zodiacale del Toro e l'evangelista Luca) ed era il luogo da cui proveniva la Pietra del Destino. Essa aveva come qualità associata la sovranità. Quando un essere umano possiede un corpo infatti vive la parte oscura della propria coscienza spirituale e fa una serie di esperienze che comunemente si definiscono «il proprio destino». Inoltre la qualità associata è quella della sovranità, probabilmente intesa nel senso che la Terra stessa riconosce con un grido chi ne diviene il legittimo sovrano e non sente quindi di essere profanata. È come se il corpo volesse legittimare chi ha la dignità per renderlo un vero tempio invece che un postribolo di ladri e prostitute (intesi sempre in senso simbolico, quindi il corpo come ricettacolo di pensieri ed emozioni più o meno degni di un «reale» essere umano). Il fatto che il Druido della città di Falias («Sovranità») si chiamasse Morfesa («Grande Sapere») ci indica che colui che compie un reale cammino di realizzazione del proprio potenziale interiore, deve Conoscere in modo profondo e tutte le tradizioni iniziatiche ci tramandano che l'uomo compie un viaggio all'interno della Terra per trovare la Conoscenza e rinascere. Il viaggio del sole nel suo ciclo passa dal punto cardinale Ovest, luogo delle Terre dei morti e quindi della morte (reale e simbolica), per andare verso Nord, luogo di iniziazione alla Grande Conoscenza. Il nord è tradizionalmente il luogo della magia, dei poteri dell'Altro-mondo, e ha una certa implicazione con la mitologia legata alle stelle e alle costellazioni. Il dio Ogma, l'inventore della scrittura oghamica (Per visualizzare il post "Ogham: la scrittura rituale degli antichi Celti", clicca QUI) e considerato il Signore dell'Eloquenza e della Saggezza-Conoscenza, è posto a Nord sulla Croce Celtica e lo si può ritenere l'iniziatore di chi si avvicina a lui, ben rispondendo alla poesia che il File Nede cita nel Colloquio dei Due Saggi:
Io sono il figlio della Poesia,
Poesia, figlia della Riflessione,
Riflessione, figlia della Meditazione,
Meditazione, figlia della Tradizione,
Tradizione, figlia della Ricerca,
Ricerca, figlia della Grande Conoscenza,
Grande Conoscenza, figlia dell'Intelligenza,
Intelligenza, figlia della Comprensione,
Comprensione, figlia della Saggezza,
Saggezza, figlia dei tre dèi di Dana.

Il Sud nella Croce Celtica era associato alle emozioni/sentimenti e alle azioni nel mondo, all'/o (la Coscienza di Sé), all'elemento Fuoco (il Leone Alato, simbolo del segno zodiacale del Leone e dell'evangelista Marco), ed era il luogo da cui proveniva la Spada di Nuada. La Spada è l'oggetto che simboleggia la propria responsabilità (abilità a dare la riposta) nel prendere decisioni nei confronti degli avvenimenti della vita. Essa rappresenta le azioni (giuste o sbagliate) che si compiono e rende chi la possiede «re del proprio regno». La città mitica di Gorias ha nella sua radice la parola «fuoco» e veniva definita «la pura» per l'aspetto positivo che possono avere le emozioni e i sentimenti umani nella guida della nostra azione nel mondo, ma l'altro suo nome, per l'aspetto negativo di essi, era «dal desiderio violento». Le emozioni, infatti, sono per la maggior parte dell'umanità il «motore» delle azioni e il punto da cui viene presa una decisione per agire. Al Sud era associata la dea Ceridwen e quindi l'aspetto dell'OIW di Karantez, l'Amore-Creatività-Produttività, e di conseguenza essa esprimeva caratteristiche connesse con il punto cardinale opposto (Nerz, la Forza-Volontà-Potere). Il Druido del Sud era Esras, il cui nome significa «Opportunità», forse a indicare l'opportunità che ci viene data nella nostra azione cosciente nel mondo, o l'opportunità che abbiamo nell'esprimere emozioni e sentimenti purificandoli nell'azione.

La spiegazione dettagliata dell'utilizzo nella vita quotidiana della Croce Celtica come sistema di riferimento, con i suoi simboli e implicazioni inferiori, richiederebbe un discorso approfondito: volendo però avere almeno un'indicazione generale, si può procedere in questo modo:
Rappresentazione di Fomoro
da parte di un artista Celta.
per prima cosa è necessario leggere le caratteristiche degli dèi associati ai punti cardinali e i simboli legati alle quattro direzioni, cercando di riflettere, per esempio, sulla figura di Manannan o su quella di Ogma, sui loro attributi, sulle avventure che compiono nella mitologia celtica, sulle qualità di ciascun punto cardinale. Quindi osservare la propria situazione attuale e domandarsi verso quale direzione ci si sente più affini in questo momento specifico. A questo punto si sarà in grado di comprendere che il lavoro interiore da compiere sarà affine ai simboli del punto cardinale opposto a quello con cui identifichiamo la nostra situazione, per il semplice fatto che lo scopo del lavoro con la Croce Celtica è ritornare verso il proprio Centro e per farlo bisogna spesso muoversi nella direzione opposta a quella in cui siamo. Il passo successivo, dopo aver intrapreso il «cammino», sarà di osservare gli eventi che si presenteranno, i colori, le canzoni, i simboli che ci colpiranno di più e trovare dove si collocano sulla Croce Celtica. Questo darà l'indicazione per l'interpretazione.
Volendo offrire un esempio di riflessione e utilizzo dei vari simboli legandoli fra loro per ottenere un quadro più o meno significativo, consideriamo quanto segue:
l'Irlanda aveva quattro grandi alberi considerati sacri, posti ciascuno in una delle quattro province. Nella provincia del Leinster si trovava la Quercia di Mugna, associata al solstizio d'inverno. Il Frassino di Dathe era nel Munster. Un altro Frassino, quello di Tortu, si trovava nella provincia del Connacht, mentre il Tasso di Ross era nell'Ulster, associato al solstizio d'estate.
Celti - Decorazione Celtica:
Miniatura irlandese del VII
sec. con TRISKEL, simbolo
 solare della trinità dell'Uno
( O I W ): Nerz (Forza),
Skiant (Saggezza)
e Karantez (Amore),
e spirali.
Può sembrare strano che il Leinster, provincia legata al SE e alla prosperità abbia come simbolo una Quercia (e legata qui al solstizio d'inverno, momento tutt'altro che prospero...), albero che rappresenta la Conoscenza-Saggezza, ma anche la Forza, qualità legate al NO e al Nord. Tutto invece ha una sua logica. Immaginarne di camminare lungo la circonferenza di un cerchio (la Croce Celtica) guardando verso il Centro. Quando ci troviamo a NO vedremo sorgere il sole a SE nel giorno del solstizio d'inverno. Se siamo nel luogo della Prosperità e guardiamo verso il Centro della Croce Celtica, automaticamente ci siamo voltati verso le qualità opposte, quelle del NO, e il sole sorge in questa direzione proprio al solstizio d'inverno.
Sulla Croce Celtica, come è ben comprensibile, si potrebbero aggiungere continuamente oggetti, divinità, alberi, animali, periodi dell'anno, qualità, luoghi ecc. rendendo sempre più complessa, ma sempre più completa, una sua lettura e una sua interpretazione. Per "La Croce Celtica o Ruota Celtica: Storia, Cultura e significati", clicca QUI.

Creazione degli abili orafi Celti.
L'ARTE
Nel 1846 a Hallstatt, vicino a Salisburgo, in Austria, fu scoperta una grande necropoli preromana. Contiene reperti che risalgono a un periodo tra il 750 e il 400 a.C. e che, in certi casi, indicano un alto grado di civilizzazione e intensi scambi commerciali. Ci si trovano ambra del Baltico, vetri fenici e lamina d’oro di fattura orientale. Vi sono spade di ferro con impugnature e foderi dalle ricche decorazioni in oro, avorio e ambra.
Calderone celtico in argento dell'inizio
del I sec. a.C. rinvenuto a Gundestrup,
in Danimarca.  Clicca l'immagine
 per ingrandirla 
La civiltà celtica rappresentata dai resti di Hallstatt si sviluppò in seguito nella civiltà di La Tène. La Tène era un insediamento all’estremità nordorientale del lago di Neuchatel, e da quando il sito venne esplorato per la prima volta nel 1858 sono stati rinvenuti molti oggetti di grande interesse. Questi antichi reperti rappresentano il periodo culminante della civiltà gallica, e possono essere datati attorno al III sec. a.C. Il genere d’arte rinvenuto in questo sito deve essere valutato alla luce di un’osservazione fatta da Romilly Allen nel suo Celtic Art : “La grande difficoltà nel comprendere l’evoluzione dell’arte celtica sta nel fatto che nonostante i Celti sembrino non aver mai avuto idee originali, essi dimostravano un’attitudine straordinaria ad acquisire idee dalle diverse popolazioni con le quali entravano in contatto per motivi bellicosi o commerciali. E una volta presa un’idea dai vicini, i Celti riuscivano a darle un tocco celtico talmente marcato da renderla presto quasi irriconoscibile da ciò che era in origine”. Per quanto riguarda la cultura artistica che in Europa raggiunse il suo apice nei reperti di La Tène, i Celti presero in prestito alcuni motivi naturalistici delle decorazioni greche: in particolare la palmetta e la greca. Ma era caratteristico dei Celti evitare l’imitazione o anche solo l’approssimazione artistica di forme naturali appartenenti al mondo vegetale e animale. Essi riducevano tutto a puro segno decorativo. Apprezzavano l’alternanza di lunghe curve sinuose e ondulate e dell’energia concentrata di spirali compatte o di borchie, e con questi semplici elementi, uniti alla suggestione di alcuni motivi mediati dall’arte greca, elaborarono un sistema di decorazione bellissimo e raffinato che applicarono alle armi, agli ornamenti, agli oggetti della cura personale e a utensili di ogni tipo in oro, bronzo, legno, pietra e forse anche alle stoffe, ma non abbiamo mezzi per stabilirlo.
Elmo da parata celtico,
realizzato in oro, bronzo
e corallo.
Un particolare metodo di decorazione dei manufatti in metallo sembra aver avuto origine interamente nel mondo celtico. L’arte di smaltare era ignota ai popoli del mondo classico fino a quando non l’appresero dai Celti. Come si può notare da un riferimento di Filostrato, ancora nel III sec. d.C. nel mondo classico essa non era conosciuta: “Dicono che i barbari che vivono nell’oceano (i Britanni) versano i colori sull’ottone riscaldato e che questi aderiscono, diventano duri come la pietra e conservano i disegni tracciati su di essi”.
Nei Proceedings of the Society of Antiquaries of Scotland il dott. J.Anderson scrive: “I Galli, come i Britanni - dello stesso ceppo celtico -, effettuavano decorazioni a smalto prima della conquista romana. Di recente, dalle rovine della città distrutta da Cesare dalle sue legioni, sono stati riportati alla luce i laboratori di Bibratte per la decorazione a smalto, con fornaci, crogiuoli, stampi, mole e smalti grezzi nei diversi stadi di preparazione. Ma a paragone di quelli britanni, gli smalti di Bibratte sono opera di semplici dilettanti. La patria di quest’arte era la Britannia, e lo stile del disegno, come il contesto in cui sono stati trovati gli oggetti così decorati, ha dimostrato con certezza che essa aveva raggiunto il massimo grado di sviluppo prima di entrare in contatto con la cultura romana”.
Al National Museum di Dublino sono conservati molti superbi esemplari d’arte decorativa irlandese in oro, bronzo e smalto e in essi il tocco celtico di cui parla Romilly Allen è altrettanto evidente che nei reperti di Hallstatt o di La Tène. Ogni cosa, dunque, indica un’identità culturale, un’identità genetica del carattere, presente su tutto il vasto territorio noto nell’antichità come “Celtica”.
Green Lands - L'Eredità dei Celti (Dan Ar Braz & C.)

In giallo il Gallo italico in una carta sui
diletti germanici Svevo ed Alemanno.
I CELTI IN ITALIA
La prima cultura celtica in Europa è quindi sorta in Italia, a Golasecca, come argomentato qui sopra, fin dal 1.200 p.e.v. (a.C.). La più evidente testimonianza delle culture celtiche dell'Italia settentrionale è attestata dai dialetti parlati in quella che fu la la Gallia Cisalpina (in latino cis = al di qua, mentre trans = al di là), la terra dei Galli, nome che i Romani davano ai Celti, al di qua delle Alpi. Venezie a parte, nell'Italia Settentrionale si parlano dialetti definiti "Gallico Italico" e perfino il più antico dialetto ligure ne è profondamente contaminato, a conferma dell'antica fusione fra le stirpi Liguri e quelle Celtiche.
Cartina geografica delle popolazioni
Liguri, Etrusche, Celtoliguri e Celtiche
nel Centro-Nord italico intorno al 600
a.C. : in questa carta è raffigurata
l'ipotesi di un Mare Padano, da:
Per quanto riguarda la penisola italica, una prima mescolanza tra i Celti e gli Etruschi dell’Italia centro-settentrionale, probabilmente del V secolo a.C.,  è confermata da scavi archeologici di sepolture che fanno pensare a frequenti matrimoni misti fra i due popoli, e soprattutto di oggetti identici a quelli ritrovati in area celtica transalpina. Sono reperti significativi di una contiguità che venne a crearsi già dal primo momento, e forse anche di rapporti non sempre ostili. E' difficile definire le caratteristiche delle prime invasioni. I Liguri, popolazione antichissima con un DNA legato al popolo Basco, ad un certo punto diventarono Celtoliguri (17). Per "Liguri: storia e cultura" clicca QUI.
Carta delle Popolazioni Celtoliguri
e Celtiche nel Centro-Nord
italico nel IV sec.a.C.
L’unica certezza è che i Celti italici mantennero relazioni con quelli d’Oltralpe e che la successiva invasione (IV sec. p.e.v. o a.C.) fu preparata ed eseguita con la loro collaborazione. I motivi che spinsero i Celti ad occupare l’Italia sono oscuri: forse furono attratti dalla fertilità e dal clima mite del Meridione, o più probabilmente furono costretti a spostarsi a causa della pressione demografica unita alla scarsità di terre coltivabili e ad altri problemi di carattere politico e sociale. Dopo Golasecca, all’inizio del IV secolo a.C. i Celti (o Galli, secondo la definizione latina) in Lombardia erano stanziati Insubri e Cenomani fino ai confini con il Veneto, in Emilia Anari e Boi, in Romagna i Lingoni e nelle Marche i Senoni, che si diressero verso i territori che erano stati di Etruschi e Umbri. I Liguri Friniati o Friniates erano un'antica popolazione insediata nell'area corrispondente all'Appennino reggiano, modenese e parte del pistoiese. Insieme ai Liguri Apuani, insediati in Lunigiana e Garfagnana, appartenevano alla famiglia etno-linguistica dei liguri orientali. Anticamente il loro areale comprendeva anche gran parte dell'alta pianura reggiana e modenese, ma vennero sospinti nelle montagne dalla grande invasione gallica del IV secolo a.C., che vide l'insediamento dei Galli Boi, la popolazione gallica più numerosa e potente nel Nord italia, nella fascia pedemontana e nell'alta pianura reggiana e modenese. Risulta interessante la collaborazione che si creò tra i primi coloni Celti e le successive ondate migratorie, che si susseguirono fino a tutto il IV secolo p.e.v. o a.C.. La comunanza di usi, costumi, lingua e culti religiosi, non fece altro che cementare accordi ed unioni fra le diverse nazioni celtiche che si ritrovarono a fronteggiare unite prima gli Etruschi poi gli Umbri, Veneti ed infine la potenza espansionistica di Roma. Le popolazioni celtiche riuscirono quindi, per due secoli, a radicarsi sul territorio dell'intera penisola italica, vivendo a contatto con le genti autoctone, integrandosi con successo e lasciando tracce indelebili che sono tutt'oggi riscontrabili nella cultura e negli usi di tutta la pianura Padana ed in alcuni paesi del centro e nel sud della penisola italiana.  
Dracma Padana. Le dracme d'argento padane furono coniate
dai Celti Cenomani della pianura padana, e il loro prototipo
fu la moneta di Marsiglia (l'antica Massalia fondata dai greci
di Focea), portata in Italia dai Celti che passarono le Alpi nel
 IV sec. a.C.: la cosiddetta "dracma pesante" di Marsiglia, in
argento (peso medio 3,74 grammi), che recava al diritto la testa
di Artemide, protettrice della loro città, e al rovescio un leone
che avanza ruggendo. Questa dracma, emessa nel 390-386 a.C.,
 ha in una faccia la rappresentazione di un gambero di fiume, e
sembra derivare dalle monete in argento dello stesso periodo
 della città greca di Elea/Velia, in Magna Grecia (a sud di
Poseidonia/Paestum), fondata anch'essa dai Focei, forse per
il pagamento dei mercenari celti, reclutati nell'entroterra di
Marsiglia o nell'Italia settentrionale, al servizio della stessa
Massalia. Al loro ritorno in Italia i mercenari celti avrebbero
portato con sé le dracme del loro compenso.
Senoni stanziati in Italia(18): stando a Polibio, attorno al 400 a.C. un gruppo di Senoni attraversò le Alpi e, scacciati gli Umbri, si stanziò sulla costa orientale dell'Italia, nei territori orientali della Romagna e settentrionali delle Marche, in quello che venne denominato in età augustea ager Gallicus. Ad ovest del fiume Montone, infatti, cominciava il territorio dei Galli Boi. Tale posizione, strategica per i contatti con le vie marittime e la valle del Tevere, fu il punto di partenza per le loro successive incursioni nell'Italia meridionale e centrale. Qui i Senoni fondarono Sena Gallica (Senigallia), che divenne la loro capitale. Nel 391 a.C. invasero l'Etruria e assediarono Chiusi. Gli abitanti di questa città chiesero aiuto a Roma che intervenne ma fu sconfitta nella battaglia del fiume Allia il 18 luglio del 390 a.C. - cronologia di Varrone - o nel 387 secondo Polibio. La stessa Roma fu presa e saccheggiata dai Senoni guidati da Brenno (in realtà Brennan, nome del dio della guerra, era assunto da ogni capotribù in battaglia).
Brenno, condottiero
dei Celti.
La presa di Roma (390-386 a. C.) da parte di Brenno fu vissuta, secondo le fonti antiche, come un evento traumatico e fu  probabilmente per questo che  il fiero popolo romano volle giustificare quella sconfitta con la ferocia degli aggressori. Oggi, invece, si tende a considerare l’invasione celtica non come quella di un’orda selvaggia, ma piuttosto di una vasta comunità costretta a lasciare il proprio territorio d’origine per problemi di sopravvivenza. E’ possibile che l'espansione sia poi proseguita verso sud-est senza ulteriori grossi traumi (19). Per impedire che gli invasori incendiassero la città, i romani furono costretti all'umiliante riscatto di mille libre d'oro. Un esercito di soccorso guidato dal dittatore Camillo riuscì a liberare la città. Per oltre 100 anni tra questi due popoli si verificarono molti scontri, finché, a seguito della battaglia del Sentino (295 a.C.) i Galli Senoni furono debellati dai consoli Publio Decio Mure e Quinto Fabio Massimo Rulliano e quindi sottomessi nel 283 a.C. dal console Publio Cornelio Dolabella. L'occupazione romana non avvenne prima del 272 a.C., anno in cui Roma portò a termine la guerra con Taranto. A Sena Gallica fu dedotta una colonia romana. La presenza dei Galli Senoni è testimoniata nell'ager Gallicus anche dopo la sottomissione ai romani; sono attestate fasi di convivenza con i Romani insediati nelle città di fondovalle di Suasa, Ostra antica, etc. e i Senoni appostati nei loro villaggi sulle alture, ad esempio il sito archeologico di Montefortino di Arcevia, ed è probabile che la popolazione e la cultura gallica fu gradualmente assorbita da quella romana. Come spesso avveniva dopo una conquista, a cambiare non era la popolazione intera ma solamente il ceto dirigente che imponeva la propria cultura e gradualmente assimilava alla "romanità" i popoli sottomessi in battaglia; prova di ciò è la presenza tuttora fortissima della cosiddetta "cadenza celtica" nei dialetti della provincia di Pesaro e Urbino. Al tempo di Gaio Giulio Cesare un gruppo di Galli Senoni viveva nel territorio oggi occupato dai distretti di Seine-et-Marne, Loiret e Yonne. Dal 53 al 51 a.C. furono in guerra con Cesare, dopodiché scomparvero dalla storia. Furono poi inclusi nella Gallia Lugdunensis. (Lugdunum “accampamento di Lugh”, divinità solare celtica, è il toponimo di molte città odierne. Qui si intende la zona in cui ora sorge Lion, ma lo stesso toponimo è in London, Lugos, Lugo di Romagna etc..) (20).
Comunque, nel Senato Romano vi erano Celti provenienti dall'ager Gallicus a dimostrazione della rappresentanza di tutte le tribù del territorio di Roma, cosa di cui i romani andavano fieri (17), e non tutti i Celti combattevano contro i romani, alcuni erano loro alleati, poiché molti guerrieri Celti si mettevano al servizio di chi offriva loro denaro. Il destino dei Galli cisalpini si decise però, allorquando questi ultimi legarono la propria sorte allo svolgimento dei conflitti punici che videro Roma opporsi alla nascente potenza militare di Cartagine. I Celti si schierarono con quest'ultima fin dal 263, contribuendo in modo determinante all'impresa di Annibale iniziata nel 221 con la campagna di Spagna e culminata nel 218 con la battaglia di Canne.
Carta geografica della penetrazione
delle popolazioni Celtoliguri e
Celtiche nel territorio italico
nel  III sec. a.C. 
Già dal 243 i Celti della Pianura Padana avevano cercato, forse per una sorte di premonizione, l'appoggio dei fratelli d'oltralpe nel tentativo di opporsi in modo solidale alla minaccia espansionistica romana. Le soliti liti e faide interne impedirono che l'alleanza, che forse avrebbe cambiato l'assetto futuro della storia, si realizzasse…
Fu con gli scontri di Talamone ( 225a.C.) e di Clastidium ( Casteggio, 222 a.C.) che il sogno  della grande Gallia Cisalpina unita, terminò definitivamente. A Talamone, una coalizione di Insubri, Gesati, Boi e Taurini (popolazione di liguri) si immolarono in una gloriosa ma inutile resistenza, troppo presi dal loro ardore per contrastare la gelida efficienza bellica romana.
Poco dopo, a Casteggio, i romani completarono l'opera infliggendo un ennesima cocente sconfitta ai Celti, arrivando fino alle porte di Mediolanum (Milano) e costringendo gli Insubri a tentare una resistenza disperata fuggendo sulle montagne, per non perire assieme alla loro capitale.
Finiva così un'epoca che aveva visto fronteggiarsi fieramente per duecento anni le due differenti etnie.
In rosso i confini della Repubblica
di Roma nel 272 a.C., segnati a nord
dai fiumi Magra e Rubicone. In blu
i territori di Cartagine.
Piegati i Celti del nord della Gallia Cisalpina, i romani si dedicarono alla disfatta ed all'annientamento di quella che era considerata la più potente fra le nazioni celtiche stanziate al disotto del fiume Po, i Boi. Prima di allora tutta la Valle e pianura Padana, erano considerate dagli stessi romani "Gallia" mentre il resto del territorio della penisola era "Italia".
La tribù degli Ambroni (o Ambrones) (18) apparve brevemente nelle fonti romane realtive al II secolo a.C. La loro posizione all'inizio della loro breve storia fu la costa dell'Europa settentrionale, a nord del Rhinemouth, nelle Isole Frisone. La regione è oggi occupata dai resti dello Zuider Zee e del Jutland, che essi condivisero con i propri vicini: Cimbri e Teutoni. Non si è sicuri sulla loro provenienza. I Teutoni erano probabilmente Germani, ma esiste qualche prova che dimostrerebbe che Ambroni e Cimbri avevano radici miste. In seguito, durante il breve e sanguinario attraversamento dell'Europa, i Cimbri vennero guidati da Boiorix, un nome celtico che significa "Re dei Boi". Il prefisso Amb è usuale in molti nomi tribali celtici (per il post "Ambra: pietra di Energia solare" clicca QUI). Gli Ambroni seguirono i costumi celtici urlando il nome della propria tribù durante le entrate in battaglia. I romani li consideravano Germani, non Celti, e si allearono con i Celti combattendo contro di loro. Queste circostanze suggeriscono la presenza di un'etnia mista, probabilmente in origine celtica ma assimilata dai Germani. Non solo provenivano da una regione settentrionale recentemente germanizzata, ma in questo periodo le tribù germaniche vennero pesantemente influenzate dalla cultura celtica. I tre vicini iniziarono entrarono nella storia romana sotto forma di alleanza determinata ad emigrare nelle terre meridionali. Forse gli Ambroni vennero guidati dalle recenti alluvioni dello Zuider Zee, non ancora inondato. In tutto si parla di circa 300.000 uomini, dei quali 30.000 erano Ambroni. La migrazione si trasformò ben presto in razzie. Mentre puntavano verso la Boemia, vennero bloccati dai Boi, che in quel periodo abitavano le terre che ancora oggi portano il loro nome. 
Carta dell'invasione di Cimbri,
Teutoni e Ambroni II sec. a.C.
Il punto di divisione rappresenta la base stabilita in Gallia. I Cimbri proseguirono verso Vercellae, mentre Teutoni ed Ambroni finirono a Sextiae . Girando attorno ai Boi, i tre alleati entrarono in Serbia ed in Bosnia oltrepassando il Sava e la Morava, ma ben presto lasciarono questo terreno montuoso per i verdi pascoli della Gallia, seguendo un tragitto che passava a nord delle Alpi e dei pericolosi Romani. I Romani tentarono di mettersi sulla loro strada subendo pesanti perdite, a causa della rivalità tra i consoli al comando; un esercito venne sconfitto sotto Gneo Papirio Carbone (Perseus, Carbo No. 4) nel 113 a.C. a Noreia in Stiria, un altro guidato da Marco Giunio Silano Torquato (Marcus Junius Silanus Torquatus) (Perseus, Silanus, Junius No. 17) in Gallia nel 109 a.C., un terzo guidato da Gaio Cassio Longino nel 107 a.C., ed il quarto da Quinto Servilio Cepione e Gneo Mallio Massimo nel 105 a.C. (Battaglia di Arausio).
Cartina delle Popolazioni Liguri,
Etrusche, Celtoliguri (i Celto-Ligi) e
Celtiche nel Centro-Nord italico.
intorno al 300 a.C..
I tre alleati tennero una base in Gallia dividendosi poi in due fronti. Gli Ambroni ed i Teutoni transitarono in Liguria (est di Marsiglia), mentre i Cimbri entrarono in Italia passando più a nord. A questo punto i Romani decisero di nominare di nuovo console Gaio Mario, illegalmente, visto che aveva già ricoperto il ruolo. Mario marciò in Liguria stabilendo un campo sul percorso del nemico. I Teutoni assaltarono il campo venendo respinti. Decisero di proseguire aggirando il campo. Mario li seguì accampandosi vicino a quella che sarebbe passata alla storia col nome di battaglia di Aquae Sextiae, ai piedi delle Alpi (l'attuale Aix en Provence). L'anno era il 102 a.C. La battaglia iniziò come incontro casuale, ma i Romani la trasformarono in schiacciante vittoria. Quando gli Ambroni attaccarono i Romani questi stavano attingendo l'acqua da un vicino fiume. I Liguri erano alleati dei Romani, e accorsero per aiutarli ricacciando gli Ambroni dietro al fiume. I Romani compattarono i ranghi rigettando gli Ambroni che tentavano di nuovo di oltrepassare il fiume. Gli Ambroni persero buona parte delle loro forze. Due giorni dopo Mario respinse un attacco al campo e strinse le forze nemiche tra il proprio esercito ed un'imboscata di 3.000 uomini alle spalle. Mario fece 100.000 prigionieri, praticamente annientando gli Ambroni. Il campo presente in Gallia sopravvisse alla disfatta. Fondendosi con i Celti locali, diedero vita ad una nuova tribù, gli Aduatuci. Fu la fine degli Ambroni. Questa storia si può trovare nell'opera Vite Parallele di Plutarco, per la precisione nella vita di Gaio Mario scritta nell'80. Plutarco, nella vita di Mario (10, 5-6), scrive che gli Ambroni cominciarono a gridare "Ambrones!" all'inizio della battaglia; i Liguri, che fiancheggiavano i Romani, sentendo l'urlo e riconoscendo il nome che anch'essi usavano per i loro discendenti (οὕτως κατὰ ὀνομάζουσι Λίγυες), risposero con lo stesso grido "Ambrones!".
Carta con il confine del Rubicone
che divideva il territorio amministrato
direttamente da Roma dalla Provincia
della Gallia Cisalpina.
Si hanno notizie di eroici e sfortunati tentativi di ribellione da parte dei Galli fino all' 82 a.C., allorchè la Gallia Cisalpina venne dichiarata provincia romana.
Il 10 gennaio del 49 a.C., Giulio Cesare attraversava con le sue legioni il Rubicone, confine tra il territorio controllato direttamente da Roma e la Provincia romana della Gallia Cisalpina.
Nell'anno 6 d.C., l'imperatore Ottaviano Augusto trasformò la Provincia della Gallia Cisalpina in 4 nuove regioni soggette all'amministrazione del territorio di Roma. 
Carta del 6 d.C., la Provincia Romana
della Gallia Cisalpina si trasforma
 in 4 nuove Regio (Regioni)
 del territorio di Roma.
Clicca l'immagine per ingrandirla.
I Celti però non scomparvero (16). Gran parte dei loro combattenti fu incorporato nelle legioni romane, contribuendo ai successi bellici dell'Urbe, sui nuovi scenari bellici in Gallia Transalpina ed in Britannia. La classe dei produttori si inserì perfettamente nel tessuto sociale italico, portando con sé un bagaglio di conoscenze e nuove tecniche nella lavorazione dei metalli e degli utensili, ricreando il gusto artistico nella ceramica e nella decorazione.
Le 11 Regioni istituite Ottaviano
Augusto nel 6.d.C.: 
I Lazio e Campania,
II Puglia e Calabria,
III Lucania e Bruzi,
IV Sannio,  V Piceno,
VI Umbria, VII Etruria,
VIII Emilia, IX Liguria,
X Veneto e Istria,
XI Transpadania.
I druidi, poco alla volta, accettarono la nuova religione del Cristo, oppure si amalgamarono con la categoria medica, introducendo preziose nozioni e conoscenze nella preparazione dei medicamenti, e di loro si perse, forse, ogni traccia… Ma com'erano questi pagani? Gli storici del tempo (Posidonio di Apamea e Diodoro Siculo) li descrivevano come tipacci enormi con capelli rossicci ritorti sul capo e lunghi baffi che scendevano a ricoprire la bocca. In battaglia, incitati dai tamburi e dalle carnix, le lunghe trombe che emettevano orribili muggiti, molti combattevano nudi per mostrare sprezzo della morte, e “quando sfidano qualcuno a duello, squassano le armi per atterrire, decantano le glorie degli avi e le proprie; disprezzano e umiliano l'avversario, per sminuire la sua fiducia in sé. Appendono al collo dei cavalli le teste mozzate dei nemici e mentre i servi ne prendono le spoglie insanguinate, innalzano le loro grida di vittoria. Conservano quelle spoglie come trofei nelle loro abitazioni e le teste in cassette di legno di cedro unte con grasso per mostrarle agli ospiti”. Posidonio fu colto addirittura da malore allorché mentre viaggiava nelle loro terre si imbatté in un gruppo di cavalieri celti i destrieri dei quali recavano, appese al collo, intere collane di teste mozzate grondanti sangue.
Resti di castelliere celto-ligure
sul  Monte Vallasa (AL)
I loro sciamani (i druidi) ritenevano di poter indovinare il futuro squarciando il petto d'un poveraccio per studiarne le convulsioni nell'agonia o osservare in quale direzione colava il sangue di vene e arterie recise e da ciò trarre gli attesi auspici, ma tra loro non mancavano i musici, i poeti, i filosofi. Il celta, in verità, era sì un un tipo rustico, ma possedeva pure un senso della spiritualità molto elevato che lo spingeva ad entrare quanto più possibile in sintonia con i fenomeni della natura, nei quali individuava la divinità. La sua società era suddivisa in tre classi: la sacerdotale, composta da druidi, bardi e vati; la guerriera, alla quale appartenevano gli aristocratici, i cavalieri e l'oligarchia dirigente-combattente; e la produttrice, della quale facevano parte commercianti, artigiani, agricoltori e allevatori.
Guerriero galata che si uccide, dopo
aver tolto la vita anche alla moglie,
per evitare la schiavitù in seguito
alla sconfitta subita sul campo di
battaglia (statua Romana, copia di
un originale in bronzo del I secolo
a.C.). Delle donne celtiche si
racconta che, al pari dei loro uomini,
fossero fiere, coraggiose e
appassionate amanti della libertà.
druidi, la principale autorità della comunità, erano sacerdoti che praticavano i sacrifici, emettevano le sentenze e davano un'istruzione ai giovani, ma, soprattutto, officiavano i riti sacri nei nemeton (santuari) della tribù, di solito una semplice radura circondata da fitte foreste (il dio albero).
bardi coltivavano la musica e le poesie, arti alle quali i Celti attribuivano un valore sacrale. I vati, infine, erano gli stregoni, individui ai quali si riconoscevano doti divinatorie.
Quanto alla classe guerriera, è facile capire cosa fosse: militari forti, feroci e spietati, che però consideravano primari valori quali l'onore, il rispetto, la lealtà. Raccontava Polibio, descrivendo l'avvio di una battaglia fra Boi e Insubri da un lato e Romani dall'altra, che “innumerevole era la quantità dei buccinatori e dei trombettieri schierati: un così prolungato e assordante clamore essi produssero quando tutti insieme intonarono il peana, che perfino i luoghi vicini, e non solo le trombe dell'esercito, riecheggiavano il frastuono. Terribili erano inoltre l'aspetto e gli uomini nudi schierati dinnanzi a tutti gli altri, tutti nel pieno delle forze e di bellissimo aspetto".

Per il Video con Musica Celtica e immagini di guerrieri:
"Battle Swing" di Ar Re Yaouank, clicca QUI

Celto-Liguri sulle montagne e Celti nelle pianure resero molto dura la vita ai Romani, ma il futuro era ormai scritto. Mentre i Genuati, le tribù del levante ligure tigullense, i Taurini e i Sanniti (italici del  Sannio) si erano giò schierati con i Romani, prima i Senoni (celti delle Marche), quindi Boi e Lingoni (celti dell'Emilia e della Romagna), i Cenomani (celti dell'Adda e dell'Oglio), e infine i celti Insubri (Milano), furono sconfitti e sottomessi con perdite spaventose, con decine di migliaia di caduti. Nello stesso tempo, dovettero cedere uno dopo l'altro le armi i liguri Apuani (Garfagnana e alto Magra), i liguri Friniati (Appennino parmense, reggiano e modenese), i liguri Veleiati (Appennino piacentino) e i liguri Ingauni ed Intemelii (Ponente ligure). A quel punto tutta la penisola si ritrovò sotto il domino romano.

I CELTI IN EUROPA
Dal 700 a.C. - I Celti sono cacciati dai loro insediamenti nel centro europeo da popolazioni migranti di Germani. Nel 98 lo storico romano Tacito scrive "De origine situ germanorum", dove riporta i risultati delle "interviste" che aveva fatto ai soldati romani di ritorno dai territori in cui erano insediati i Germani, le cui tribù incontrate dalle legioni romane erano state 40 e più. Tacito era così venuto a conoscenza che le tribù dei germani discendevano dai tre grandi ceppi provenienti dall'Oceanus Germanicus (il mare del Nord), dal Suevicum (territori limitrofi al mar Baltico) e dal Cimbrico (lo Jutland, nell'attuale Danimarca), mentre le antiche migrazioni germaniche erano avvenute lungo due grandi direttrici, dalla Scandinavia a sud-ovest verso il Reno e a sud verso il Danubio. I popoli germanici erano chiamati dai Romani "Germani" poiché una delle prime tribù che conobbero e che sconfissero era quella dei Jerman, proveniente dalla penisola dello Jutland e scesa verso il Danubio superiore, ai confini dell'Impero romano, insieme ai Suebi (genericamente chiamati Marcomanni), Cimbri, Ambroni e Teutoni. Noi sappiamo poi che i i Germani entrarono in contatto con le civiltà celtiche che si erano diffuse in Europa fin dal 1200 a.C. con l'età del ferro (cultura di Golasecca, poi Hallstatt e Nauchâtel). I Celti abitavano l'Italia settentrionale, alcune zone del nord ispanico e i territori intorno ai fiumi Mosa, Reno, Meno, Marna e il territorio dello Champagne: tutti queste popolazioni celtiche erano chiamati dai Romani "Galli". Altri gruppi celtici dominarono invece l'intero corso del Danubio, dalle sorgenti in Svevia fino al Mar Nero mentre i Celti Galati andarono in Asia Minore, prima come soldati di Filippo il Macedone e poi del figlio, Alessandro Magno. A causa delle migrazioni germaniche dal nord Europa, iniziate nel 700 a.C., un buon numero di Celti furono cacciati dai loro insediamenti nel centro europeo, come i Boi che erano prima in Boemia e poi in Baviera (Baiovara), rimasti nei toponimi di quelle regioni, per cui di Celti ne rimarranno in Italia Settentrionale, alcuni fondendosi con gli antichi Liguri, in Francia, nella Galizia iberica, in tutta la Britannia (Scozia inclusa) e Irlanda.

Nel 249 a.C. - I Celti Boi chiamarono in soccorso i Galli transalpini, innescando una nuova crisi che si concluderà nel 225 a.C., l'anno in cui si registra l'ultima invasione gallica dell'Italia. Quell'anno, infatti, cinquantamila fanti e venticinquemila cavalieri Celti varcarono le Alpi in aiuto dei Galli cisalpini (si trattava di una coalizione di Celti Insubri, Boi e Gesati), e se prima riuscirono a battere i Romani presso Fiesole, vennero poi sconfitti e massacrati dalle armate romane nella battaglia di Talamone (a nord di Orbetello), spianando così a Roma la strada per la conquista della pianura padana.

- Nel III secolo a.C. i Romani, avendo avuto ragione degli Etruschi e integrato i loro territori, si trovarono a diretto contatto con i Liguri. L'espansionismo romano puntava verso i ricchi territori della Gallia e della penisola iberica (allora sotto il controllo cartaginese) e il territorio ligure era il percorso per accedervi (i Liguri controllavano le coste liguri e le Alpi meridionali). All'inizio i Romani ebbero un atteggiamento piuttosto accondiscendente poiché il territorio dei Liguri era considerato povero, mentre la fama dei suoi guerrieri era nota (li avevano già incontrati in qualità di mercenari), inoltre erano già impegnati nella prima guerra punica e non erano intenzionati ad aprire nuovi fronti; pertanto cercarono innanzitutto di farseli alleati. Nonostante i loro sforzi, solo poche tribù liguri fecero con i Romani accordi di alleanza (famosa l'alleanza con i Genuati), mentre gli altri si dimostrarono ostili. Le ostilità furono aperte nel 238 a.C. da una coalizione di Liguri e di Galli Boi, ma i due popoli si trovarono ben presto in disaccordo e la campagna militare si arrestò con lo sciogliersi dell'alleanza. In seguito una flotta romana comandata da Quinto Fabio Massimo sbaragliò navi liguri (probabilmente pirati) lungo la costa ligure (234-233 a.C.), permettendo ai Romani il controllo della rotta costiera da e per la Gallia.

Carta geografica del III sec. a.C. con le
diversificazioni, in Europa e Anatolia,
delle genti Celtiche e la loro fusione
con genti già stanziate in quei territori:
Celtiberi, CeltoLiguri o CeltoLigi.
Clicca sull'immagine per ingrandirla.
Dal 225 a.C. - Con gli scontri di Talamone (225 a.C.) e di Clastidium (Casteggio, 222 a.C.) il sogno della grande Gallia Cisalpina unita nel dominio celtico, terminò definitivamente. A Talamone, una coalizione di Celti  Insubri, Gesati, Boi e Taurini si immolarono in una gloriosa ma inutile resistenza, troppo presi dal loro ardore per contrastare la gelida efficienza bellica romana. Per la prima volta l'esercito romano poteva spingersi oltre il Po, dilagando in Gallia Transpadana: la battaglia di Clastidio (l'odierna Casteggio), nel 222 a.C., valse a Roma la presa della capitale insubre di Mediolanum (Milano). Per consolidare il proprio dominio Roma creò le colonie di Placentia, nel territorio dei Boi, e Cremona in quello degli Insubri. Il destino dei Galli cisalpini si era deciso allorquando legarono la propria sorte allo svolgimento dei conflitti punici che videro Roma opporsi alla nascente potenza militare di Cartagine. I Celti si schierarono con quest'ultima fin dal 263, contribuendo in modo determinante all'impresa di Annibale iniziata nel 221 con la campagna di Spagna e culminata nel 218 con la battaglia di Canne.
Carta geografica con l'incursione
a Telamon (Talamone) da
parte delle popolazioni Celte e
Celto-liguri degli Insubri,
Gesati, Boi e Taurini che furono
sconfitti nel 225 a.C. dai
Romani. 
Già dal 243 i Celti della Pianura Padana avevano cercato, forse per una sorte di premonizione, l'appoggio dei fratelli d'oltralpe nel tentativo di opporsi in modo solidale alla minaccia espansionistica romana. Le soliti liti e faide interne impedirono che l'alleanza si realizzasse. Con gli scontri di Talamone ( 225 a.C.) e di Clastidium ( Casteggio, 222 a.C.), il sogno della grande Gallia Cisalpina unita, terminò definitivamente. A Talamone, una coalizione di Insubri, Gesati, Boi e Taurini si immolarono in una gloriosa ma inutile resistenza, troppo presi dal loro ardore per contrastare la gelida efficienza bellica romana. Poco dopo, a Casteggio, i romani completarono l'opera infliggendo un ennesima cocente sconfitta ai Celti, arrivando fino alle porte di Mediolanum (Milano) e costringendo gli Insubri a tentare una resistenza disperata fuggendo sulle montagne, per non perire assieme alla loro capitale. Finiva così un'epoca che aveva visto fronteggiarsi fieramente in Italia, per duecento anni, Celti e Romani. Piegati i Celti del nord, della Gallia Cisalpina, i romani si dedicarono alla disfatta ed all'annientamento di quella che era considerata la più potente fra le nazioni celtiche stanziate al disotto del fiume Po, i Boi. Prima di allora tutta la Valle e pianura Padana, erano chiamate di stessi romani "Gallia Cisalpina", sotto le Alpi, il resto del territorio era "Italia". 

La via Flaminia romana dalla Tabula Peutingheriana,
da: http://www.prolocofano.it/itinerari-via-flaminia/.
Dal 220 a.C. - Per consentire ai propri eserciti un rapido accesso alla Gallia Cisalpina, al fine di conquistarla, Roma costruisce la via Flaminia, che la collega a Fano e Rimini. L'Italia Settentrionale era conosciuta dai Romani durante l'epoca repubblicana come Gallia Cisalpina. La Gallia Cisalpina comprendeva la Pianura Padana, di gran lunga la più grande pianura fertile della penisola italica e perciò il più ampio territorio coltivabile d'Italia. Conquistando quest'area i Romani avrebbero avuto l'opportunità di accrescere enormemente la propria popolazione e le proprie risorse economiche. I Romani sottomisero i Galli della Pianura Padana attraverso una serie di campagne militari alla fine del III secolo a.C. La costruzione di una via militare che collegasse Roma a Fano e Rimini per consentire all'esercito il rapido accesso alla futura regio VIII Aemilia, fu completata già nel 220 a.C. (via Flaminia) mentre la via Emilia sarebbe stata completata nel 187 a.C. l'espansione romana fu infatti ritardata di circa venti anni a causa della seconda guerra punica. Con l'invasione dell'Italia da parte dei cartaginesi guidati da Annibale (218-203 a.C.) Roma perse il controllo della Pianura Padana.

- Nell'intervallo di tempo fra la prima e la seconda guerra punicaCartagine dovette subire e reprimere una rivolta delle truppe mercenarie che aveva impiegato. La rivolta era dovuta all'impossibilità dei punici di pagare le truppe stesse alla fine del conflitto. Dopo tre anni di battaglie i mercenari furono sgominati e Cartagine poté riprendere il suo percorso per riconquistare il vigore economico precedente, cercando di compensare le perdite economiche subite con la prima guerra punica grazie una sistematica penetrazione in Spagna, diretta da Amilcare Barca e poi da Asdrubale (il genero). Dopo acerrime lotte politiche fra le due principali fazioni cittadine, Amilcare Barca, padre di Annibale e capostipite dei cosiddetti Barcidi, partì per la Spagna con un piccolo esercito di mercenari e cittadini punici. Dopo aver perso isole fra cui la Sicilia, i cartaginesi cercavano una riscossa nel Mediterraneo e fonti di ricchezza per pagare le forti indennità di guerra dovute a Roma. Amilcare marciò per tutta la costa del Nordafrica e buona parte della costa spagnola sottomettendone molte popolazioni e alla sua morte fu sostituito dal genero Asdrubale che consolidò le conquiste fatte, fondò la città di Carthago Nova (oggi Cartagena) e stipulò un trattato con Roma che poneva i limiti dell'espansione punica in Iberia a sud del fiume Ebro. Quando anche Asdrubale fu ucciso, l'esercito scelse come capo Annibale, ancora ventisettenne. Cartagine accettò la designazione e dopo due anni, Annibale decise di portare la guerra in Italia, scatenando la seconda guerra punica.


Cartina della seconda guerra punica
 con itinerari e date di Annibale e
Asdrubale e le principali battaglie.
Nel 218 a.C. Seconda guerra punica fra Roma e Cartagine, con l'invasione dell'Italia da parte di Annibale Barca (Cartagine, 247 a.C. - Libyssa, 183 a.C.) e del fratello Magone, figli di Amilcare Barca, (Barca in cartaginese significava "folgore") che era stato il comandante supremo dell'esercito cartaginese. Annibale valicò, con un'esercito e degli elefanti, le Alpi occidentali, per cogliere Roma alle spalle. Probabilmente gli elefanti morirono quasi tutti nell'attraversamento delle Alpi ma Annibale, disponendo fra l'altro di pochi uomini rispetto alle legioni romane,  contava  sulla  sollevazione delle popolazioni sottomesse da Roma sul suolo italico, Liguri, Celti, Greci e Sanniti numerosi alleati di Roma contro Roma stessa, infatti Liguri Celti si allearono a lui, e così fece Capua, che fu poi punita con la distruzione. Le tribù Liguri ebbero atteggiamenti differenti: una parte (le tribù del ponente, quelle apuane e appenniniche) si allearono con i cartaginesi, fornendo soldati alle truppe di Annibale mentre un'altra parte (i Genuati, le tribù del levante ligure tigullense e i Taurini) si schierarono in appoggio ai Romani. Annibale, appena superate le Alpi, attaccò i Taurini (218 a.C.) e distrusse la loro capitale Taurinorum (Torino).
Annibale Barca
(Barca in cartaginese
significava Folgore).
 I Liguri pro-cartagine parteciparono alla battaglia della Trebbia, in cui i cartaginesi ottennero la vittoria. Celti e Liguri della Gallia Cisalpina (l'Italia settentrionale) furono fondamentali nelle vittorie di Annibale al Trasimeno (217 a.C.) e a Canne (216 a.C.). I Boi riuscirono, inoltre, a battere i Romani nell'agguato della Selva Litana. Invece, anche popolazioni da poco romanizzate, che potessero covare rancori, come i Sanniti, tennero fede all'alleanza con Roma, segnalando così che la politica di integrazione nei loro confronti, aveva dato ai romani buoni frutti e probabili vantaggi ai Sanniti. Altri Liguri si arruolarono nell'esercito di Asdrubale, quando questi calò in Italia (207 a.C.), nel tentativo di ricongiungersi con le truppe del fratello Annibale.
Antica bireme Romana con rostro.
Nel porto di Savo (l'attuale Savona), allora capitale dei Liguri Sabazi, trovarono riparo le navi triremi della flotta cartaginese del generale Magone Barca, fratello di Annibale, destinate a tagliare le rotte commerciali romane nel mar Tirreno. Nel 205 a.C., Genua fu attaccata e rasa al suolo da Magone. Con il rovesciamento delle sorti della Seconda Guerra Punica, ritroviamo Magone (203 a.C.) tra i Liguri Ingauni, a tentare di bloccare l'avanzata romana: subì una grave sconfitta che gli costò anche la vita; nello stesso anno venne riedificata Genua. Truppe liguri sono ancora presenti, come truppa scelta di Annibale, alla battaglia di Zama, che decreterà la sconfitta di Cartagine con la vittoria di Scipione, nel 202 a.C. Si dirà poi che Annibale, pur avendo vinto tutte le battaglie aveva perso la guerra. Annibale, marciando dalla Spagna, attraverso i Pirenei, la Provenza e le Alpi, era sceso in Italia, dove aveva sconfitto, insieme a Liguri e Celti, le legioni romane in quattro battaglie principali: battaglia del Ticino (218 a.C.), battaglia della Trebbia (218 a.C.), battaglia del Lago Trasimeno (217 a.C.) e battaglia di Canne (216 a.C.), oltre ad altri scontri minori.
Cartina della prima e seconda guerra
 punica con gli itinerari di Annibale,
 Asdrubale e Magone, Gneo e Publio
 Scipione e le principali battaglie,
anche in Spagna.
Dopo la battaglia di Canne però, i Romani avevano rifiutato lo scontro diretto e gradualmente avevano riconquistato i territori del sud Italia di cui avevano perso il controllo. La Seconda guerra punica terminò con l'attacco romano a Cartagine, che costrinse Annibale al ritorno in Africa nel 204 a.C., dove fu definitivamente sconfitto nella Battaglia di Zama, nel 202 a.C.. Dopo la fine della guerra, Annibale governò Cartagine per parecchi anni, cercando di ripararne le devastazioni, fino a quando i Romani non lo forzarono all'esilio, nel 195 a.C., presso il re seleucide Antioco III di Siria dove continuò a propugnare guerre contro Roma fino a quando, nel 189 a.C., con la sconfitta di Antioco III da parte romana, Annibale dovette ricominciare la fuga, questa volta presso il re Prusia I in Bitinia. Quando i Romani chiesero a Prusia la sua consegna, Annibale preferì suicidarsi; era il 182 a.C.. Annibale è considerato uno dei più grandi generali della storia. Polibio, suo contemporaneo, lo paragonava a Publio Cornelio Scipione Africano; altri lo hanno accostato ad Alessandro Magno, Giulio Cesare e Napoleone.

- All'indomani della vittoria nella seconda guerra punica, Roma procedette alla definitiva sottomissione della pianura padana, che aprì un territorio vasto e fertile agli emigranti originari dell'Italia centrale e meridionale, nonostante le vittorie celtiche nella battaglia di Cremona, nel 200 a.C. e in quella di Mutina (Modena), nel 194 a.C.. Pochi decenni dopo, lo storico greco Polibio poteva già personalmente testimoniare la rarefazione dei Celti in pianura padana, espulsi dalla regione o confinati in alcune limitate aree subalpine. L'avanzata romana continuò anche nella parte nord-orientale con la fondazione della colonia di Aquileia nel 181 a.C., come raccontano gli autori antichi, nel territorio degli antichi Carni.

- Per quello che riguarda la parte occidentale della Gallia Cisalpina, con lo scoppio della seconda guerra punica (218 a.C.) le tribù Liguri avevano avuto atteggiamenti contrastanti: una parte (le tribù del ponente, quelle  apuane e appenniniche) si erano alleate con i cartaginesi, fornendo soldati alle truppe di Annibale quando giunse in nord-Italia (sperando così che il generale cartaginese li liberasse dal vicino romano) mentre un'altra parte (i genuati, le tribù del levante e i Taurini) si erano schierate in appoggio ai Romani. Da http://nuovotuttosapere.altervista.org/la-conquista-romana-dellattuale-liguria/?doing_wp_cron=15850
53063.0515789985656738281250 preso da Cultura-Barocca  http://www.cultura-barocca.com/ ma modificato: “Benché Annibale nel 218 a.C., durante la II guerra punica, fosse entrato in Italia per altri valichi, ai Romani non sfuggiva l’importanza della via costiera della Liguria. Gli Ingauni possedevano un territorio molto vasto, che dal mare raggiungeva le valli della Bormida e del Tanaro e penetrava in area pedemontana, mentre il territorio intemelio rappresentava un passaggio obbligato per qualsiasi esercito che dovesse dovuto raggiungere la Gallia Narbonese, che diventerà Provincia (da cui Provenza) nel 121 a.C., senza valicare le Alpi.
Mediterraneo occidentale nel 226 a.C.
dopo la prima guerra illirica (230-229
a.C.), l'avanzata cartaginese fino
all'Ebro e l'alleanza romana con
Cenomani e Veneti in Pianura
Padana. Di Cristiano64, questo file
deriva da: West Mediterranean sea
topographic map.svgPethrus-
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Oltre a tutto ciò i Liguri, con la loro attitudine alla pirateria, potevano sempre disturbare i traffici, sia militari che mercantili, di chi attraversasse vie, sia terrestri che marittime, soggette al loro controllo: per questo Roma affidò a due duumviri navales il compito, non semplice, di domare queste scorrerie piratesche. Scontri militari fra Romani e popolazioni liguri si erano verificate anche prima del conflitto annibalico, ma in quell'occasione, per un’antica alleanza coi Cartaginesi, scesero in campo contro la maggiore potenza italica, molte genti costiere del territorio compreso tra Vada Sabatia [Vado Ligure (IM)], centro dei Liguri Sabazi ed Albintimilium [Ventimiglia (IM)], centro dei Liguri Intemelii, ad infoltire le truppe di Magone, fratello di Annibale, tra il 205 ed il 203 a.C.. Inoltre agli Ingauni, in cambio della promessa di fornirgli truppe ausiliarie, Magone fece il non trascurabile favore di infliggere pesanti sconfitte a Montani ed Epanterii, i rozzi liguri dell’interno, che saccheggiavano spesso il territorio ingauno. La sconfitta di Magone da parte del Pretore Publio Quintilio Varo nel 203 a.C. costrinse i Liguri, ed in particolare gli Ingauni, a stipulare una serie di trattati coi Romani per il timore di rappresaglie, viste le precedenti alleanze con i Cartaginesi. Lo storico Romano Tito Livio (Patavium, 59 a.C. - Patavium, 17) menziona un trattato di non belligeranza che appare esteso alla sola Albingaunum, ma ciononostante è da credere, visto il peso politico degli Ingauni, che quel trattato di non belligeranza si ritenesse esteso a tutte le genti del ponente ligure.
Il Mediterraneo al tempo della pace
siglata al termine della seconda guerra
punica (201 a.C.). Roma ottenne il
controllo dell'intera penisola italica,
di Sardegna, Corsica, Sicilia e delle
coste mediterranee della penisola
Iberica, estendendo la sua influenza
fino all'area dell'Egeo. Di Cristiano64
File che deriva da: West Mediterranean
sea topographic map.svgPethrus-
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I Liguri rimasero però sempre gelosi della loro autonomia e quindi, dal 201 a.C. vissero in uno stato di costante belligeranza e guerriglia contro Roma, che cercò di porvi rimedio con uno sforzo militare decisivo, specie dopo il poco onorevole episodio del pretore Lucio Bebio Divite, che venne sconfitto dagli eserciti congiunti dei Liguri non lontano da Massalia, città in cui si rifugiò con le truppe superstiti e dove morì per le ferite subite, come scrissero Livio (XXXVII, 5) ed Orosio (IV, 20, 24). L’incentivazione romana delle operazioni belliche in Liguria si può datare dal 188 a.C. con le imprese del console M. Valerio Massimo (Livio, XXXVIII, 35, 7 e 42, 1). I risultati non furono definitivi né pari alle aspettative di Roma, così il Senato affidò ad entrambi i consoli del 187 a.C. (Marco Emilio Lepido e Gaio Flaminio) la provincia della Liguria col compito di pacificarla definitivamente (Livio, XXXVIII, 42, 8). Nonostante l’abilità dei Liguri a combattere nel loro aspro territorio, servendosi della velocità e di armi leggere che permettevano rapide fughe ed improvvisi attacchi, le legioni romane ottennero questa volta dei risultati importanti (Livio, XXXIX, 1, 1). La pressione militare di Roma aumentò ancora dal 185 a.C. ed i popoli liguri subirono una serie di pesanti sconfitte. Mentre il console Marco Sempronio Tuditano sottometteva il levante ligure, il suo collega Appio Claudio Pulcro lo eguagliava “con alcune fortunate battaglie nel territorio dei Liguri Ingauni”, come ancora scrisse Livio (XXXIX, 38, 1). Nonostante questi successi la Liguria non fu del tutto piegata e per garantire un più rigido controllo ed una maggior possibilità di celere intervento militare, fu a lungo assegnata come provincia consolare (al tempo della Repubblica di Roma, per provincia consolare si intendeva quella che veniva assegnata ad un console perché vi capitanasse una guerra o dovesse compiervi operazioni militari, N.d.R.). Nel 184, peraltro, gli Ingauni ed i loro alleati, essendo consoli Publio Claudio Pulcro e Lucio Porcio Licino, presero a riorganizzarsi, con una serie di successi militari culminati, nel 181 a.C., in una potente “lega militare” che respinse e poi assediò il proconsole Lucio Emilio Paolo che s’era mosso contro di loro a capo di una discreta forza di guerra. Lucio Emilio Paolo, che era però un buon comandante ed un soldato valoroso, seppe rompere l’assedio posto al suo accampamento ed alla fine inflisse una dura sconfitta alla coalizione di Liguri, il cui grosso dell'esercito era composto da Ingauni. Dopo la sconfitta definitiva degli Ingauni (nel 181 a.C.) da parte di Lucio Emilio Paolo, il console Aulo Postumio Albino, dal territorio degli Apuani si spinse via di mare ad ispezionare quello intemelio, spedizione che fa presumere che, pacificati gli Ingauni, anche gli Intemelii avessero accettata la supremazia romana. La guerra coi Liguri era stata abbastanza dura ed il Senato, di fronte ad imminenti conflitti in Oriente, preferì mitigare le richieste nei confronti dei popoli vinti, anche per evitare possibili insurrezioni. Il dominio sugli Intemelii, al pari di quello delle altre genti liguri, prese la forma di foedus onorevole e la sua capitale Albintemilia acquisì la denominazione di “città federata” (cioè legata da vincoli di alleanza) nei confronti di Roma. Non è semplice oggigiorno ricostruire le forme tra i possibili “accordi” stipulati coi Romani dai Liguri vinti ma è certo che non si ebbero più insurrezioni e che i Liguri assolsero ai propri doveri con rigore (queste genti - come ricorda Sallustio nel De Bello Iugurt. 77, 4 e 93-94 - vennero inquadrate in coorti ausiliarie e se una di queste, assieme a 2 “turme” di Traci e pochi altri soldati, si macchiò del tradimento del legato romano Aulo Postumio Albino, causandone la sconfitta a Suthul in Numidia, è altrettanto vero che proprio un soldato ligure, col suo coraggio, permise a Gaio Mario di occupare una città dei Numidi). Poco per volta, per quanto abbastanza impermeabili in un primo tempo all’acculturazione romana, i Liguri si inserirono nel contesto statale di Roma (pur fondendosi con le genti celticheN.d.R.).”

Carta dell'anno 6 con la IX regio romana, la Liguria e dintorni, con i
nomi delle varie popolazioni Liguri ormai romanizzate.

Iberia nel 200 a.C., di The Ogre - self-made from
Image:Blank-peninsula Iberica.png, CC BY-SA
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.
I Celtiberi, cioè i Celti stanziati nella penisola iberica (non una mescolanza tra due popoli), erano lì stanziati a seguito di varie ondate migratorie, di cui prima ebbe luogo nel VI secolo a.C., e pur portando con sé elementi tipici delle culture celtiche, adottarono anche alcuni usi e costumi delle popolazioni autoctone della regione, di cui i Baschi erano certamente i più antichi, mentre nel 6.000 a.C., quando era in corso l'emigrazione degli Indoeuropei verso l'Europa (e verso Iran, Afganistan e l'Indo), nella penisola iberica affluiva la stirpe camita-berbera dall'Africa. In seguito, ai Liguri stanziati nel sud della penisola (Tartesso) si sostituirono i Fenici, mentre e i Greci fondarono loro colonie. Dal 237 a.C. al 218 a.C., il sud e l'est della penisola erano divenuti comunque appannaggio dei fenici di  Cartagine.
Dal nucleo originario, collocato nell'odierna Spagna centro-settentrionale, i Celtiberi si estesero in un secondo momento verso sud (nell'attuale Andalusia) e verso nord-ovest, fino a toccare le coste atlantiche della penisola (Galizia). A indicare i confini esatti della penetrazione celtica nella Penisola iberica sono la toponomastica (caratteristici sono i prefissi seg- e i suffissi -samo e, soprattutto, -briga, derivato dalla diffusa radice indoeuropea *bhrgh: si tratta dello stesso tipo di insediamento chiamato dai Galli δοῦνον, dūnum o -dun e dai latini oppidum) e la diffusione del corpus delle iscrizioni in celtiberico, all'interno del quale spiccano i Bronzi di Botorrita.
La cultura celtibera era basata sulla transumanza stagionale di bestiame, sotto la protezione di un'élite guerriera, come accadeva anche in altre regioni europee. Frazionati, come tutti i Celti, in numerose tribù, a differenza delle popolazioni iberiche, i Celtiberi preferivano vivere in piccoli insediamenti rurali, villaggi fortificati che potessero controllare le più importanti vie di comunicazione e i pascoli. Questii insediamenti erano frequentemente indicati in celtiberico con il suffisso "-briga" e i principali nuclei urbani erano strutturati secondo il tipico schema indoeuropeo della "fortezza di collina", come Numanzia, Kalakoricos (l'odierna Calahorra, chiamata dai Romani Calagurris) e l'attuale Calatayud (Bilbilis per i latini).

Il mediterraneo nel 218 a.C. con
la penisola iberica divisa fra
 Celtiberi e popolazioni Iberiche.
Immagine di Cristiano64, file
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.
Nel 218 a.C., nel contesto della seconda guerra punica fra Roma e Cartagine, inizia la conquista romana della penisola iberica, così chiamata dal più lungo e importante fiume spagnolo, l'Ebro (dal latino Iberus), visto che lì i Cartaginesi controllavano territori e popolazioni. Annibale aveva attraversato il territorio iberico con un granade esercito per poter attaccare da nord-ovest l'Italia, dove Celti e Liguri erano suoi alleati in chiave anti-romana.
Dopo dodici anni di scontri, i romani conquistarono definitivamente ai Cartaginesi il sud e l'est della penisola iberica. Successivamente, la decisiva sconfitta di Zama avrebbe estromesso Cartagine dalla storia.
Le province romane in Iberia
nel 197 a.C., da https://people
.unica.it/federica falchi/fil
es/2020/03/Cicerone.pdf
.
Nel 197 a.C., la parte romana della penisola Iberica viene divisa in due province: Hispania Citerior a nord (la futura Hispania Tarraconensis con capitale Tarraco) e Hispania Ulterior a sud con capitale Corduba. Le due province erano governate da due biannuali proconsoli. La provincia Ulterior si libera però dal giogo romano quando il suo governatore è ucciso durante una ribellione della popolazione locale turdetana.
Nel 195 a.C., Roma è costretta a inviare in Hispania il console Marco Catone, che giunge trovando la provincia Citeriore quasi completamente occupata dai ribelli, con le truppe romane che controllano solo alcune città fortificate. Catone seda la rivolta nell'estate dello stesso anno e ristabilisce il controllo romano sulla provincia, ma non riesce conquistarsi le simpatie dei nativi e dei Celtiberi, mercenari pagati dai turdetani. Dopo aver dato una prova di forza facendo attraversare alle legioni romane il territorio celtiberico, Catone li convince a posare le armi, ma per poco, poiché quando si diffuse la voce che presto Catone sarebbe tornato in Italia, scoppiò un'altra rivolta. Catone ancora una volta riuscì a sedare la rivolta, vendendo gli istigatori della rivolta come schiavi. La popolazione nativa venne totalmente disarmata. Catone ritornò a Roma venendo festeggiato dal Senato romano con una fanfara. Portò con sé un enorme bottino di guerra di oltre 11.000 chili di argento, 600 kg di oro, 123.000 denarii, e 540.000 monete d'argento, tutte sottratte alle popolazioni Hispaniche nel corso dei combattimenti. In tal modo, mantenne la sua promessa a Roma prima dell'inizio delle ostilità: "la guerra si pagherà da sola". Il successivo passo da compiere dei Romani era la conquista della Lusitania che alla fine avvenne grazie a due decisive vittorie: una nel 189 a.C. ottenuta dal proconsole Lucio Emilio Paolo, e un'altra ottenuta dal pretore o proconsole Gaio Calpurnio nel 185 a.C.

Tiberio Sempronio Gracco, padre di Tiberio e di Gaio Sempronio Gracco, nel 180 fu pretore con l'assegnazione della provincia della Spagna Citeriore: in quell'occasione ricercò una politica di buoni rapporti con i Celtiberi, con i quali concluse un trattato di pace nel 178; pur non avendo ottenuto nessuna vittoria militare di rilievo, gli fu concesso il trionfo a Roma e l'elezione al consolato l'anno successivo. La regione centrale della penisola, la Celtiberia, venne ufficialmente conquistata nel 181 a.C. da Quinto Fulvio Flacco. Vinse i locali Celtiberi e rivendicò il controllo di alcuni territori, ma gran parte del merito della conquista romana andò al pretore Tiberio Sempronio Gracco, padre dell'omonimo tribuno della plebe, che dal 179 al 178 a.C. conquistò trenta città e villaggi. Ne conquistò alcune con la forza e altre sfruttando le rivalità tra i Celtiberi e i Vasconi (baschi) a nord, infatti le sue alleanze con i Vasconi avrebbero facilitato la conquista romana della Celtiberia. In quei tempi, alcuni villaggi e città basche potevano già essere state assoggettate a Roma, ma in ogni caso un numero significativo di  insediamenti baschi entrerà a far parte dell'Impero volontariamente.
Tiberio Sempronio Gracco fondò una nuova città, Gracurris, sulle fondamenta della preesistente città di Ilurcís, probabilmente l'odierna Alfaro in La Rioja o Corella in Navarra; in ogni caso nella valle dell'Ebro, a nord di Saragozza. I suoi edifici erano tipicamente romani e sembra aver ospitato gruppi disorganizzati di Celtiberi. La città sarebbe stata fondata nel 179 a.C. circa secondo scritti posteriori. La fondazione di questa città segnò la fine della civiltà Celtibera e il consolidamento dell'influenza Romana nella zona.
Graccuris dovrebbe essere situata nel bel mezzo di una regione che era accesamente contesa tra i Celtiberi e i Vasconi. L'area corrisponde più o meno all'odierna valle del fiume Ebro. Tiberio Sempronio Gracco era probabilmente responsabile della maggioranza dei trattati firmati con i due popoli. I trattati generalmente stabilivano che le città vinte dovessero pagare un tributo in argento o in altri prodotti della terra. Ogni città doveva fornire un predeterminato numero di uomini all'esercito, e solo poche tra esse ebbero il diritto di battere moneta.
Gli abitanti delle città sottomesse con la forza non furono quasi mai costretti a pagare tributi: quando opponevano resistenza ai Romani e venivano sconfitti, essi venivano venduti come schiavi. Quelli che si arrendevano prima della sconfitta venivano riconosciuti come cittadini delle loro rispettive città ma era negata loro la cittadinanza romana. Quando le città si sottomettevano a Roma volontariamente, i loro abitanti diventavano cittadini, e le città mantenevano la loro autonomia municipale e a volte, erano esenti dal pagare tasse.
Per più di un secolo, Vasconi e i Celtiberi avevano lottato fra di loro per il possesso della ricca terra della valle del fiume Ebro. I Celtiberi di Calagurris, oggi Calahorra, sopportarono probabilmente il maggior peso nella lotta, anche se appoggiati da tribù alleate. Pur avendo distrutto le città dei Vasconi ed essere dilagati oltre l'Ebro, i Celtiberi erano nemici di Roma mentre i Vasconi (baschi) ne erano invece alleati, per evidenti motivi strategici. Quando Calagurris venne distrutta dai Romani, venne ripopolata con dei Baschi, e fu così probabilmente la prima città basca sulla sponda a ovest del fiume, malgrado le precedenti distruzioni, prima da parte dei celtiberi, poi di altri vasconi.
I proconsoli, ovvero i governatori provinciali in Hispania, adottarono il costume di arricchirsi a spesa dei loro sudditi. I doni forzati e gli abusi erano la norma. Nei loro viaggi, il proconsole e i suoi funzionari dovevano essere ospitati gratuitamente; occasionalmente, potevano anche confiscare la casa. Il proconsole poteva anche imporre prezzi bassi per la fornitura di grano per sé, per i suoi funzionari e le loro famiglie e talvolta per i suoi soldati. Il malcontento risultante fu talmente forte che il senato romano, dopo aver ascoltato un'ambasciata di ispanici provinciali, promulgò nel 171 a.C. alcune leggi di controllo: ad esempio, i tributi non poterono più essere riscossi da militari; i pagamenti in natura (cereali) rimasero consentiti, ma il proconsole non poté esigere più di un quinto del raccolto, né poté più fissare il prezzo del grano arbitrariamente; infine, le contribuzioni a sostegno di feste popolari a Roma dovettero essere limitate, e i contingenti forniti all'armata imperiale dovettero essere approvvigionati da Roma e comunque, dal momento che il giudizio sui proconsoli che avessero commesso abusi era amministrato dal Senato attraverso gli stessi proconsoli, i processi furono assai rari.
La Lusitania era probabilmente la regione della penisola che resistette più a lungo all'invasione romana. Fino all'anno 155 a.C., il sovrano dei Lusitani, Punico, effettuò incursioni nella parte della Lusitania controllata da Roma, che terminarono con la pace ventennale fatta dall'ex pretore Sempronio Gracco. Punico ottenne un importante vittoria contro i pretori Manilio e Calpurnio, infliggendo loro 6.000 perdite. Dopo la morte di Punico, il suo successore Caisaros continuò la guerra contro Roma, sconfiggendo di nuovo le truppe Romane nel 153 a.C., sottraendo loro nel corso della battaglia le insegne, che trionfalmente mostrò al resto delle popolazioni iberiche per mostrare loro la vulnerabilità di Roma. All'epoca, i Vetoni e i Celtiberi si erano uniti nella resistenza, rendendo per Roma la situazione precaria in quella regione del Hispania. I Lusitani, Vetoni e Celtiberi effettuarono incursioni sulle coste del Mediterraneo partendo da basi del Nordafrica, dove s'erano acquartierati. Fu in quell'anno che due nuovi consoli arrivarono in Hispania, Quinto Fulvio Nobiliore e Lucio Mummio. L'urgenza di restaurare la dominazione romana sulla Spagna fece su che i due consoli entrarono in battaglia dopo solo due mesi e mezzo. I Lusitani inviati in Africa vennero sconfitti a Okile (moderna Arcila in Marocco) da Mummio, che li costrinse ad accettare un trattato di pace.

Da Google Map, il sito diMilles
de la Polvorosa, nei pressi del 
quale sorgeva Numanzia.
Numanzia (in latino Numantia) era un'antica roccaforte celtibera che sorgeva nei pressi di Milles de la Polvorosa, nell'attuale provincia spagnola di Soria, dove il Ter affluisce nell'Esla, che in epoca romana era conosciuto come Astura, l'affluente di maggior portata del Duero.
Venne fondata probabilmente nel IV secolo a.C. dal popolo celtibero degli Arevaci (Arevacos in spagnolo). Dopo essere entrata nella sfera punica negli ultimi decenni del III secolo a.C., pur senza mai venir conquistata dai Cartaginesi divenne, nel II secolo a.C., baluardo della resistenza iberica contro l'espansionismo romano in Hispania.

Presunta posizione di Numanzia,
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.

Nell'anno 153 a.C. un esercito celtibero numantino, sotto la guida di un certo Segeda Caro, era riuscito a battere un esercito romano di 30.000 armati, guidato dal console Quinto Fulvio Nobiliore.

Nobiliore venne sostituito l'anno successivo (152 a.C.) da Marco Claudio Marcello, che era già stato proconsole nel 168 a.C., che verrà a sua volta sostituito, nel 150 a.C., da Lucio Lucullo, che si distinguerà per la sua crudeltà e infamia.
Nel 151 a.C. Servio Sulpicio Galba era stato nominato pretore della Spagna Ulteriore, nella quale era in corso la guerra per la sottomissione dei Lusitani. Al suo arrivo, dopo una marcia di 90 km, mise in fuga i Lusitani e li inseguì; per la stanchezza dell'esercito l'inseguimento fu tuttavia inefficace e i Lusitani tornarono indietro uccidendo 7.000 legionari. Galba con la sua cavalleria fu costretto a rifugiarsi nella città di Carmo, dove raccolse una forza di 20.000 uomini tra gli alleati, e svernò quindi nell'accampamento di Conistorgis. Nella primavera del 150 a.C. Galba attaccò i Lusitani devastandone il territorio, come faceva dal lato opposto anche il console Lucio Licinio Lucullo. I Lusitani gli inviarono un'ambasceria chiedendo di rinnovare l'accordo già stipulato con il suo predecessore, Marco Attilio, sebbene non lo avessero rispettato. Galba si mostrò favorevole, attribuendo la causa della loro ostilità verso Roma, alla povertà del suolo, che li costringeva alle ruberie e ad agire ostilmente; proponeva quindi di assegnargli terre più ricche, in cambio della loro fedeltà a Roma. I Lusitani gli credettero, abbandonarono quindi i propri territori e furono da lui suddivisi in tre grandi gruppi, che fece accampare in tre luoghi distinti in attesa dell'assegnazione delle terre promesse. Si recò poi separatamente presso ciascun gruppo richiedendo la deposizione delle armi in segno di amicizia e avendola ottenuta li fece circondare dai propri soldati che li massacrarono o li presero prigionieri per venderli come schiavi. Tra i pochi Lusitani sfuggiti alla strage ci fu Viriato, che negli anni seguenti si mise a capo della rivolta antiromana. Appiano, che racconta questo episodio nel suo resoconto della conquista romana della Spagna, esprime un giudizio fortemente negativo del personaggio Servio Sulpicio Galba, accusato di aver trattenuto per sé la maggior parte del bottino e di ricorrere alla menzogna e allo spergiuro per aumentare le proprie già cospicue ricchezze.Nel 147 a.C. il nuovo leader lusitano, Viriato, si ribella contro Roma. Sfuggito a Servius Sulpicius Galba tre anni prima e avendo unificato le tribù lusitane, inizia una feroce guerriglia che colpisce duramente il nemico senza tuttavia mai sfociare in battaglie campali. Dirige numerose campagne, giungendo con le sue truppe fino alle coste di Murcia. Le sue numerose vittorie e l'umiliazione che infligge ai Romani lo rendono celebre e passa alla storia spagnola e portoghese come un eroe che combatté senza respiro per la libertà della sua gente. Viriato è stato assassinato nel 139 a.C. da Audace, Ditalco e Minuro, probabilmente pagati dal generale romano Marco Popillio Lena. Con la sua morte, l'organizzata resistenza lusitana non scomparirà, anche se Roma continuerà a espandersi nella regione.
Tra il 135 a.C. e il 132 a.C., il console Decimo Giunio Bruto Callaico conduce una spedizione a nord dell'attuale Portogallo e Galizia.

Nel 135 a.C., al suo ritorno a Roma dalla Libia, Tiberio Sempronio Gracco, figlio dell'omonimo pretore che aveva operato in Hispania, viene eletto questore e deve partire per la guerra contro i Numantini sotto il comando del console Gaio Ostilio Mancino.

L'esito della guerra sarà disastroso e una volta messi in fuga i Romani, i Numantini si dichiararono disposti a trattare l'armistizio romano soltanto con Tiberio, memori delle gesta del padre che in passato era stato loro alleato. Tiberio Sempronio Gracco accettò di trattare con i Numantini anche per recuperare il diario e le tavole del suo ufficio di questore, che erano state rubate nel saccheggio successivo alla fuga romana. Tornato a Roma fu accusato e biasimato per il suo gesto, ma il popolo e le famiglie dei soldati (20.000 vite furono risparmiate) scampati al massacro lo acclamarono come un salvatore. La reazione ostile nei suoi confronti veniva dai senatori, poiché i romani erano stati sviliti nel tentativo di prendere Numanzia e avevano patteggiato un armistizio non da vincitori ma da vinti. Il senato rimandò a Numanzia Gaio Ostilio Mancino come prigioniero per causa di disonore, in secondo luogo non ratificò la pace che Tiberio Gracco aveva formulato. L'anno successivo, Tiberio Sempronio Gracco sarà eletto tribuno della plebe dalla plebe stessa.

Celtiberi in Iberia, in rosso gli
Arevaci, da https://commons.
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.
Dopo venti anni di guerre ininterrotte fra gli Arevaci, appoggiati dalle altre tribù celtibere, e i romani, che per ben cinque volte avevano tentato senza successo di espugnare la città, l'esercito romano della Tarraconense è affidato, nel 134 a.C., a Publio Cornelio Scipione Emiliano, nipote dell'eroe della seconda guerra punica vincitore di Cartagine e a sua volta generale della terza guerra punica. Costui, dopo aver saccheggiato il paese dei Vaccei, cinse d'assedio Numanzia nel 134 - 133 a.C. L'armata comandata da Scipione era integrata da un nutrito contingente di cavalleria numidica, fornita dall'alleato Micipsa, al cui comando si trovava il giovane nipote del re, Giugurta. Per prima cosa, Scipione si adoperò per rincuorare e riorganizzare l'esercito scoraggiato dall'ostinata ed efficace resistenza della città ribelle; poi, nella certezza che la cittadella poteva essere presa solo per fame, fece costruire una doppia circonvallazione atta a isolare Numanzia e a privarla di qualsiasi aiuto esterno. Il console si adoperò poi a scoraggiare gli Iberi dal portare aiuto alla città ribelle, presentandosi con l'esercito alle porte della città di Lutia e obbligandola alla sottomissione e alla consegna di ostaggi.

Il romano Gaio Mario si distinse per le notevoli attitudini militari dimostrate in occasione dell'assedio di Numanzia, tanto da farsi notare da Publio Cornelio Scipione Emiliano (in seguito soprannominato Africano Minore). Non è dato sapere con certezza se venne in Spagna al seguito dell'esercito di Scipione oppure se si trovasse già in precedenza a servire nel contingente che, con scarso successo, da tempo cingeva d'assedio Numanzia.
Dopo quasi un anno di assedio (l'assedio di Numanzia ispirò a Cervantes un dramma, “El cerco de Numancia”), i numantini, ridotti alla fame, cercarono un abboccamento con Scipione ma, saputo che questi non avrebbe accettato altro che una resa incondizionata, i pochi uomini in condizione di combattere preferirono gettarsi in un ultimo, disperato assalto contro le fortificazioni romane. Il fallimento della sortita spinse i superstiti, secondo la leggenda, a bruciare la città e a gettarsi fra le fiamme. Non tutti però persero la vita; i capi celtiberi si suicidarono insieme alle loro famiglie e il resto della popolazione venne ridotta in schiavitù. Alcuni sfilarono a Roma durante il trionfo di Scipione. La città fu rasa al suolo come Cartagine.
A partire da quel momento i Celtiberi, come tutte le altre popolazioni della Penisola iberica, subirono un intenso processo di latinizzazione, dissolvendosi come popolo autonomo.
Le province iberiche romane con
indicati gli anni delle conquiste da:
Nel 123 a.C. i Romani occuparono le Isole Baleari, stabilendo lì un insediamento di 3.000 ispanici di lingua latina. Il fatto che riuscissero a fare ciò dopo appena un secolo di dominazione dà un'impressione della profonda influenza culturale che Roma esercitava sulla Penisola.
Numanzia è così passata alla storia per l'autodistruzione operata dai suoi abitanti che, gelosi della loro indipendenza, non intendevano in nessun modo sottomettersi al potere dei Romani.
Il bellum numantinum acquista particolare importanza, perché segna il pieno affermarsi dell'egemonia romana nell'Hispania centro-settentrionale e la definitiva pacificazione della massima parte della penisola iberica, anche se il potere romano sulle due province di Lusitania e Tarraconiensis poté considerarsi pienamente consolidato solo dopo l'assoggettamento dei Cantabri in età augustea.
La conquista romana dell'intera penisola iberica, chiamata Hispania dai Romani, si è completata ad opera dell'imperatore Ottaviano Augusto, nel 17 a.C. Il nome Hispania o Ispania deriva dal termine di probabile origine punica (cartaginese) che significa terra di conigli. Appare in letteratura e in storiografia fin dalla tarda età repubblicana: anche Tito Livio utilizza i termini di Hispania e di Hispani (o Hispanici) per designare il territorio iberico e i popoli che lo abitavano.

Carta dell'Occitania (di cui solo
Provenza e Languedoc, Aquitania
esclusa) provincia Romana.
Nel 121 a.C. - Proclamazione della Provincia Romana della Gallia Narbonensis. Nel crogiuolo occitanico, composto da iberi, liguri, baschi, celto-liguri, greci e romani, diventati tutti cittadini romani nel 121 a.C., con la proclamazione della Provincia della Gallia Narbonensis (da cui il termine Provenza), si mescolano successivamente popoli germanici (goti e franchi) e semito-camitici (ebrei e arabo-berberi) che si convertono spontaneamente alla lingua ed alle culture latine. La lingua d'Oc è una delle lingue neolatine che si formano sul substrato degli antichi dialetti regionali e della lingua ufficiale e colta della Roma conquistatrice e padrona, fin dalla fine dell'Impero. Se in quella parte di continente che denominiamo Francia settentrionale (e che allora era lungi dall'essere un'entità definita e definibile) si andava affermando la Langue d'Oil, in una zona compresa tra le Valli alpine del Piemonte e la Catalogna  prendeva forma la lingua d'Oc (anche se in realtà non dovette esserci per il volgo, il popolo non colto, un significativo distacco dal dialetto parlato in precedenza). Per "Occitani: storia e cultura": QUI.

Fori Imperiali di Roma:
statua di Gaio
Giulio Cesare.
Nel 58 a.C. - Gaio Giulio Cesare inizia la conquista dell'intera Gallia. Caio Giulio Cesare, (Roma 100 - 44 a.C.), generale e uomo politico romano, una delle figure più leggendarie e controverse del mondo antico, gettò le basi del futuro sistema imperiale romano alla fine della repubblica di Roma. Nato da famiglia nobile, appartenente alla gens Julia, suo zio acquisito fu Gaio Mario, esponente dei  populares, che aveva sposato la sorella del padre e la cui influenza fu determinante per il futuro politico di Cesare. Quando il rivale di Mario, Silla, esponente del partito degli optimates, dopo aver vinto la guerra civile fu nominato dittatore nell'82 a.C., ordinò a Cesare di ripudiare la moglie Cornelia, figlia di Cinna (che era seguace di Mario e perciò nella lista dei proscritti fatta stilare da Silla), egli si rifiutò di sottostare alle disposizioni del dittatore e perciò fu messo al bando e dovette allontanarsi da Roma. Vi rientrò nel 78 a.C., dopo la morte di Silla, e in seguito si recò a Rodi, dove intraprese, secondo le usanze del tempo, studi di retorica. I territori delle future province di Germania inferiore e superiore entrarono nella sfera di influenza romana ai tempi della conquista della Gallia di Gaio Giulio Cesare degli anni 58 e 57 a.C.
Cartina  delle Gallie nel 58 a.C.
con i nomi delle popolazioni
locali, prima della conquista
di Gaio Giulio Cesare, in cui
erano province Romane
solo le Gallie Cisalpina e
Narbonensis.
Si racconta infatti, che Cesare, una volta battuti gli Elvezi, rivolse la sua attenzione a chi aveva invaso la Gallia: le popolazioni germaniche comandate dal re Ariovisto. Quest'ultimo aveva invaso, insieme alle sue genti, popolazioni di Suebi, i territori della riva sinistra del Reno fin dal 72 a.C., provenienti dalle vallate dei fiumi Neckar e Meno. Nel corso degli anni le popolazioni germaniche che avevano passato il Reno erano cresciute in numero fino a raggiungere rapidamente le 120.000 unità, ma Cesare alla fine ebbe la meglio riuscendo a batterle in Alsazia, in una piana ai piedi dei monti Vosgi, oggi compresa tra le città di Mulhouse e Cernay (nel 58 a.C.). I Germani al termine di uno scontro assai cruento, furono sconfitti e massacrati dalla cavalleria romana mentre cercavano di riattraversare il Reno, e lo stesso Ariovisto scampò a stento alla morte, riuscendo a guadare il fiume insieme a pochi fedeli. Da quel momento Ariovisto scomparve dalla scena storica. Cesare, respingendo gli Suebi (Svevi) al di là del Reno, trasformò questo fiume in quella che sarebbe stata la barriera naturale dell'Impero per i successivi quattro-cinque secoli.

Carta con i Celti Veneti in Armorica.
Nel 56 a.C. - Gaio Giulio Cesare sconfigge i Celti Veneti.
La popolazione celtica dei Veneti abitava la zona del Morbihan, in Armorica, nell'attuale Bretagna (in quella che divenne Gallia Lugdunensis). La loro città più famosa (probabilmente la loro capitale) era Darioritum (oggi nota come Vannes), menzionata nella Geografia di Tolomeo. « I Veneti sono il popolo che, lungo tutta la costa marittima, gode di maggior prestigio in assoluto, sia perché possiedono molte navi, con le quali, di solito, fanno rotta verso la Britannia, sia in quanto nella scienza e pratica della navigazione superano tutti gli altri, sia ancora perché, in quel mare molto tempestoso e aperto, pochi sono i porti della costa e tutti sottoposti al loro controllo, per cui quasi tutti i naviganti abituali di quelle acque versano loro tributi.. » (Giulio Cesare: de bello Gallico, III, 8). I Veneti furono una grande ed influente potenza marittima e commerciale. Avevano una forte organizzazione ed erano probabilmente dotati di un Senato. Avevano un'importante flotta per commerciare con le Isole britanniche e l'Italia, da cui diffusero il vino e l'olio, (che i Romani avevano impiantato in Armorica da Bordeaux) nell'Armorica stessa e nella Britannia partendo da Vannes e dall'attuale regione del Malouine, in particolare a Hengistbury Head (non lontano da Bournemouth nel Dorset attuale) e contemporaneamente vendendo tra l'altro prodotti salati, salumeria che erano ben conosciuti ed apprezzati a Roma, nonché stagno, piombo e rame provenienti dalla grande isola. Più a sud dell'Armorica c'erano i Namneti, stanziati nella foce della Loira e che diedero il loro nome alla città di Nantes. I Namneti erano chiamati Sanniti da Strabone e da Tolomeo, ma furono semplicemente una tribù dei Veneti. (Giulio Cesare, de bello Gallico, II, c-8). « I Pictoni erano ostili ai Veneti come si può dedurre dalla loro alleanza con il proconsole Giulio Cesare nella sua prima campagna e dalle navi costruite o fornite ai Romani da parte loro, dei Santoni a da altri popoli gallici per facilitare la rovina del Veneti. » (Cesare, de bello Gallico, VIII e III, 11). Nel 56 a.C. le navi di Cesare fornite dagli altri popoli gallici distrussero la flotta veneta nella battaglia del Morbihan. Il parlamento fu passato per le armi e le donne ed i bambini venduti come schiavi.

In rosso, gli stanziamenti dei primi
Germani e le espansioni fino al 50 a.C.
Nel 55 a.C. - Gaio Giulio Cesare decide di passare per la prima volta il Reno, nei pressi dell'attuale città di Colonia, penetrando prima nel paese alleato degli Ubi, e poi volgendo le sue armate (composte da 8 legioni) verso nord, dove per 18 giorni mise a ferro e fuoco i territori delle vicine popolazioni germaniche dei Sigambri. Questo popolo, dunque, abitava sulla riva destra del Reno, di fronte al popolo degli Eburoni, nella regione dei fiumi Sieg e Wupper, a nord degli Ubi. Due anni più tardi, lo stesso Cesare raccontava che il suo legato, Quinto Tullio Cicerone, a capo di 7 coorti legionarie della legio XIV, veniva sconfitto presso Atuatuca (Tengeren, nel Belgio fiammingo) da 2.000 guerrieri Sigambri. Cesare, venuto a conoscenza dell'accaduto, raggiunse il Reno, lo passò per la seconda volta, e messo piede sul territorio germanico, qui lasciò 12 coorti di fanteria legionaria a guardia della riva destra del grande fiume, per ricordare ai Germani delle precedenti devastazioni e dissuaderli dal compiere nuove scorrerie nelle Gallie. Gaio Giulio Cesare compie due spedizioni memorabili, in Germania ed in Britannia, territori fino ad allora mai esplorati dagli eserciti romani. Spinte alle spalle dalla pressione dei Suebi (Svevi), le tribù germaniche degli Usipeti e dei Tencteri avevano vagato per tre anni, e si erano spinti dai loro territori, a nord del fiume Meno, fino a raggiungere le regioni abitate dai Menapi alla foce del Reno. I Menapi possedevano, su entrambe le sponde del fiume, campi, casolari e villaggi; ma, spaventati dall'arrivo di una massa tanto grande (Cesare sostiene fossero ben 430.000 persone), abbandonarono gli insediamenti a ovest del fiume e posero alcuni presidi lungo il Reno, per impedire ai Germani di passare in Gallia. Non riuscendo ad attraversare il fiume, Tencteri ed Usipeti simularono la ritirata; una notte, però, la loro cavalleria tornò all'improvviso e fece strage dei Menapi che erano tornati nei loro villaggi. Si impadronirono delle loro navi e passarono il fiume. Occuparono villaggi e si nutrirono per tutto l'inverno con le loro provviste. Venuto a conoscenza di questi fatti, Cesare decise di anticipare la sua partenza per la Gallia e raggiungere le sue legioni, che svernavano nei territori della Gallia Belgica. Era venuto inoltre a sapere che alcune tribù galliche avevano invitato le tribù germaniche ad abbandonare i territori appena conquistati del basso Reno, per inoltrarsi in Gallia. « Attratti da questa speranza, i Germani si spinsero più lontano con le loro scorrerie, fino ai territori degli Eburoni e dei Condrusi, che sono un popolo cliente dei Treviri [...] Cesare dopo aver blandito ed incoraggiato i capi della Gallia, ed avergli richiesto reparti di cavalleria alleata, stabilì di portare la guerra ai Germani [...] Cesare dopo aver provveduto a raccogliere frumento ed arruolati i cavalieri si diresse verso le regioni dove si diceva si trovassero i Germani. » (Cesare, De bello Gallico, IV, 6-7,1). I Germani, che si trovavano in una località non molto distante dall'attuale città olandese di Nimega (in olandese Nijmegen), una volta venuti a conoscenza dell'avvicinamento dell'esercito romano decisero di inviare ambasciatori a Cesare, per chiedere al generale il permesso di insediarsi in quei territori ed offrendo in cambio la loro amicizia. Gli ricordarono il motivo per cui erano stati costretti a migrare ed il loro valore in battaglia, ma Cesare negò loro il permesso di occupare territori della Gallia: sostenne che non era giusto che i Germani si impadronissero delle terre di altri popoli; proprio loro, che non erano stati capaci di difendere i propri territori dalle scorrerie dei Suebi.
Cesare consigliò loro di ripassare il Reno e di occupare i territori del popolo amico degli Ubi. Fu stabilita quindi una tregua da utilizzare per giungere a un compromesso con questo popolo, ma, durante la tregua, i Germani si scontrarono con uno squadrone di cavalleria gallo-romana, che fu messa in fuga. Cesare li accusò di non aver rispettato l'accordo e così, quando gli ambasciatori di Usipeti e Tencteri si recarono da lui per giustificarsi, li fece imprigionare, dopodiché, con una mossa fulminea, piombò sull'accampamento germanico difeso solo da carri e bagagli, massacrando i nemici e costringendoli alla fuga in direzione della confluenza del Reno con la Mosa (lungo il tratto chiamato Waal). Ottenuta una nuova vittoria sulle genti germaniche,  Cesare decise di passare il Reno e di invadere la stessa Germania. La ragione principale che lo spinse a portare la guerra oltre il Reno fu l'intenzione di compiere un'azione dimostrativa e intimidatoria che scoraggiasse i propositi germanici di invadere in futuro la Gallia. Troppo spesso essi avevano fornito truppe mercenarie ai Galli e si erano intromessi nelle loro vicende interne.
Ricostruzione del ponte romano sul
Reno fatto costruire da Giulio Cesare.
Il fiume Reno si presentava allora particolarmente largo e profondo, inoltre la rapidità delle sue acque richiedeva una struttura molto solida. Per questo motivo furono utilizzati come sostegni dei cavalletti a due gambe, di cui ciascuna costituita da due pali molto robusti (con un diametro di 45 cm) ricavati da robusti tronchi della foresta tedesca, uniti tra loro da traverse lunghe circa 60 cm. Questa struttura diede a ciascuna gamba l'aspetto di una scala a pioli, ma essa si opponeva efficacemente alla corrente del fiume. I pali avevano lunghezza variabile a seconda della profondità del fiume e furono calati nel fiume con apposite attrezzature, quindi messi in posizione e infissi con dei battipali. La parte che veniva appuntita veniva conficcata nel fondo del fiume, e non si innalzavano perpendicolarmente al letto, ma venivano inclinati in modo che i pali a monte avessero la corrente contro, mentre quelli a valle l'avessero a favore. Sul letto del fiume le due gambe del cavalletto avevano una distanza di 12 cm. Una grossa trave teneva unita la coppia di piloni, completando il cavalletto. Su questa struttura poggiavano travi spesse 60 cm e lunghe quanto la distanza che vi era tra un pilone e l'altro, cioè 5 m. La pavimentazione era costituita di un’intelaiatura di legno poggiata su tronchi trasversali e ricoperta di tavole. Alla solidità bisognava affiancare l'elasticità, per cui non vennero utilizzati chiodi, ma legature in corda. Vennero anche approntate altre opere di rinforzo secondarie: a valle furono fissati altri pali obliqui per aumentare la resistenza alla corrente del ponte, mentre poco più a monte vennero costruite delle palizzate per attutire eventuali colpi subiti da alberi o navi che le popolazioni germaniche potevano lasciare nel fiume in modo da danneggiare il ponte. Il ponte doveva avere una carreggiata di circa 4 m ed era lungo poco meno di 500 m., con 56 campate di 8 m. che costituivano il ponte sul Reno. L'opera secondo Cesare fu completata in soli dieci giorni.
Approntato un lungo ponte di legno sul Reno (tra Coblenza e Bonn, lungo probabilmente 400 metri), il proconsole passò prima nel territorio amico degli Ubi, poi deviò verso nord nel territorio dei Sigambri, dove per diciotto giorni compì devastazioni e saccheggi a rapidità incredibile. Terrorizzati a sufficienza i Germani, decise di far ritorno in Gallia, distruggendo il ponte alle proprie spalle e fissando il confine delle conquiste della Repubblica romana sul Reno. Nella tarda estate del 55 a.C. Cesare invase la Britannia, perché: « [...] comprendeva che in quasi tutte le guerre galliche, i rinforzi erano giunti dall'isola ai nostri nemici; se non fosse bastata la buona stagione per condurre la guerra, tuttavia pensava che avrebbe tratto grande utilità anche da una semplice visita nell'isola, da un'esplorazione dei suoi abitanti e da una ricognizione dei luoghi, dei porti e degli accessi; tutte cose che erano quasi del tutto ignote ai Galli. Ad eccezione dei mercanti, nessuno infatti rischiava di recarsi là e anche la conoscenza che loro avevano dell'isola non andava oltre la costa e le regioni che si trovano di fronte alla Gallia. » (Cesare, De bello Gallico, IV, 20). Per questi motivi, Cesare non fu in grado di ottenere dai mercanti sufficienti informazioni su quanti e quali popoli vi abitassero, quali tattiche di guerra utilizzassero, quali porti fossero idonei per l'attracco della sua flotta. Decise allora di mandarvi in avanscoperta Gaio Voluseno, con una nave da guerra, mentre nel frattempo si spostò nel territorio dei Morini, dove ordinò di radunare quella stessa flotta che aveva combattuto contro i celti Veneti nel 56 a.C., poiché da questa regione la traversata per la Britannia risulta più breve. Mentre Cesare preparava la spedizione, alcuni mercanti informarono i Britanni circa le intenzioni del proconsole romano. Spaventati dalla possibile invasione romana, decisero di inviare ambasciatori a Cesare, promettendogli di consegnare ostaggi e di obbedire all'autorità di Roma. Cesare accolse le loro promesse e permise loro di ritornare in patria, mandando con loro Commio, da lui imposto sul trono degli Atrebati. Aveva il compito di visitare la Britannia, di esortare le sue popolazioni ad essere fedeli a Roma e di annunciare loro che presto si sarebbe recato in Britannia egli stesso. Voluseno frattanto tornò con molte informazioni, mentre i Morini decidevano di sottomettersi a Cesare, scusandosi per il comportamento passato. Allo scopo di rendere più sicura la situazione in Gallia prima di partire, Cesare dispose che gli fossero consegnati un gran numero di ostaggi, e come li ebbe ricevuti, accettò la loro sottomissione. Quindi salpò alla volta della Britannia, da Portus Itius (o Gesoriacum, l'attuale Boulogne-sur-Mer), con circa ottanta navi, sufficienti a trasportare due legioni (la VII e la X), ma lasciando indietro la cavalleria (su altre diciotto imbarcazioni da carico), che avrebbe dovuto partire da un altro porto (forse Ambleteuse, distante otto miglia). I Britanni si erano appostati sulle bianche scogliere di Dover, aspettando l'esercito di Cesare, il quale, avvicinatosi all'alta scogliera , si accorse che lì si era appostato il grosso dell'esercito nemico, che dall'alto osservava la flotta romana. Cesare ritenne impraticabile uno sbarco in quel punto e decise di riprendere il mare; giunse così in un tratto di costa aperta e piana che si trovava a circa sette miglia da Dover. Qui, ancora una volta, si trovò di fronte al nemico schierato. Infatti i Britanni avevano mandato avanti la cavalleria ed i combattenti sui carri per attendere Cesare in riva al mare, mentre il grosso dell'esercito li avrebbe raggiunti. In questo luogo ebbe luogo un'importante battaglia, poiché l'esercito dei Britanni tentò di impedire l'approdo delle navi e il conseguente sbarco dei Romani. Questi ultimi, dopo molte difficoltà, riuscirono (grazie anche alle potenti armi da getto dell'artiglieria pesante collocata sulle navi) a scendere a terra, dove i due eserciti si scontrarono. Dopo un duro combattimento, i Britanni furono messi in fuga, ma i vincitori non furono in grado di inseguirli, poiché mancava loro la cavalleria rimasta in Gallia. Le tribù britanniche, vinte in battaglia, si decisero a mandare ambasciatori per chiedere la pace. I messi condussero con loro Commio (che era stato fatto prigioniero e che liberarono dalle catene davanti a Cesare) e offrirono numerosi ostaggi. Quando però seppero che la cavalleria romana era stata ricacciata sulle coste belgiche dal cattivo tempo e che le maree oceaniche avevano danneggiato pesantemente le navi di Cesare, i Britanni decisero di riprendere le armi contro l'invasore romano e, dopo aver rinnovato a parole l'alleanza con Cesare, lasciarono furtivamente il campo del proconsole. Ma Cesare, che aveva intuito le intenzioni del nemico, predispose tutto il necessario per un eventuale attacco, compreso il reperimento del frumento necessario per rifornire l'esercito e la riparazione di più navi possibili (fece utilizzare, come "pezzi di ricambio", parti di quelle maggiormente danneggiate, ormai inutilizzabili per la traversata di ritorno). Durante queste operazioni fu inviata una sola legione, la VII, a raccogliere il grano necessario, non essendoci stato alcun sospetto di una ripresa ostilità da parte delle tribù indigene. La legione, però, una volta allontanatasi dal campo principale fu circondata ed attaccata da ogni parte. Cesare, accortosi dell'accaduto (anche da lontano si poteva scorgere un polverone maggiore del solito), prese con sé otto coorti della X legione e si mise in marcia a grande velocità. Riuscì a salvare la legione assediata, bersagliata da proiettili da ogni parte, ed a riportarla all'interno del campo base, dove era certo avrebbe dovuto sostenere l'ultimo e decisivo assalto nemico. Alla fine, i Britanni, dopo aver radunato una grande massa di fanti e di cavalieri, attaccarono: furono nuovamente sconfitti, subendo perdite ingenti. I Romani inseguirono il nemico finché le forze lo consentirono loro, incendiando in lungo ed in largo tutti i casolari della zona. La vittoria romana costrinse i Britanni a chiedere la pace e questa volta Cesare, ottenuta la promessa di ricevere il doppio degli ostaggi, ripartì per la Gallia, dove una volta sbarcate, le sue legioni furono però aggredite anche dai Morini, che speravano in un ricco bottino. I nemici furono respinti anche questa volta ed il proconsole inviò Tito Labieno a punire questo popolo, mentre Quinto Titurio Sabino e Lucio Aurunculeio Cotta furono inviati a devastare le terre dei vicini Menapi. Al termine delle operazioni, Cesare dislocò le legioni negli accampamenti invernali, questa volta tutti nella Gallia Belgica. Frattanto solo due nazioni inviarono gli ostaggi promessi dalla Britannia, mentre le altre vennero meno agli accordi. Ordinò, infine, ai suoi legati, prima di lasciare i quartieri d'inverno per recarsi in Italia, di provvedere durante l'inverno alla costruzione del maggior numero di navi possibile ed alla riparazione di quelle vecchie, disponendo che le nuove navi fossero più basse e più larghe di quelle che abitualmente erano usate nel mar Mediterraneo (così da reggere meglio le onde dell'oceano). Una volta tornato a Roma, furono decretati venti giorni di festa in suo onore.

Elmo celtico da combattimento a
due corna, rinvenuto in Inghilterra.
Nel 54 a.C. - Il ritorno in Britannia e le prime rivolte in Gallia. Dopo aver posto fine in Illiria agli attacchi dei Pirusti, Cesare decise di far ritorno in Gallia, dove volle ispezionare tutti i quartieri d'inverno e le numerose navi che erano state fino a quel momento costruite: ben seicento, che decise di radunare presso Portus Itius. Venuto a sapere che tra i Treveri serpeggiava una voglia di rivolta - non solo non partecipavano più alle riunioni comuni dei Galli, ma avevano mantenuto dei buoni rapporti con i Germani d'oltre Reno -, decise di muovere verso di loro con quattro legioni ed ottocento cavalieri. Raggiunti i Treveri, richiese a Induziomaro, uno dei due uomini più influenti di questo popolo e favorevole alla cacciata dei Romani dalla Gallia, numerosi ostaggi tra i suoi famigliari, mentre a Cingetorige, che si era dimostrato fedele ed amico del popolo romano, affidò il comando su questa nazione. A questi eventi si aggiunse la morte dell'eduo Dumnorige il quale, dopo aver terrorizzato i nobili della Gallia sostenendo che Cesare li avrebbe trucidati una volta sbarcati in Britannia, fu messo a morte per evitare possibili sentimenti di rivolta tra i Galli.
Cesare, lasciato in Gallia Tito Labieno con tre legioni e duemila cavalieri a guardia dei porti, a provvedere al vettovagliamento ed a controllarne la situazione, salpò per la seconda volta da Portus Itius alla volta della Britannia con una forza militare più consistente di quella dell'anno precedente: cinque legioni e duemila cavalieri a bordo di oltre ottocento navi. Al suo seguito si aggiunsero anche numerosi mercanti attratti dai racconti sulle favolose ricchezze dell'isola. Sbarcato nello stesso luogo dell'anno precedente senza trovare nessuna opposizione, Cesare, lasciate a guardia della flotta dieci coorti e trecento cavalieri sotto il comando di Quinto Atrio, marciò verso l'interno dove, a circa diciotto miglia dal campo base, trovò la prima vera opposizione dei Britanni, i quali furono sconfitti sebbene si fossero attestati in una posizione favorevole. La mattina seguente giunsero presso il campo del generale romano alcuni cavalieri inviati da Quinto Atrio per informarlo che la notte precedente una tempesta aveva danneggiato la maggior parte delle navi. Il proconsole romano si recò quindi a constatare di persona i danni e a predisporre il necessario per far riparare le navi. Tornato presso le legioni, scoprì che nel frattempo si era radunato nei pressi del campo romano un imponente esercito nemico guidato da Cassivellauno (che regnava sulle genti a nord del Tamigi). L'attacco dei Britanni che ne seguì è così descritto dallo stesso Cesare: « Cesare inviò in loro aiuto due coorti e scelse due legioni che presero posizione [...] ma i nemici con grande coraggio, mentre i Romani erano atterriti dal nuovo modo di combattere, riuscirono a sfondare passando nel mezzo, riuscendo a mettersi in salvo. In questo giorno cadde ucciso il tribuno militare Quinto Laberio Duro, ed i Britanni furono respinti con l'invio di numerose coorti [...] osservando il combattimento, Cesare comprese che i Romani non potevano inseguire gli avversari quando si ritiravano per la pesantezza delle armi [...] allo stesso modo i cavalieri combattevano con grande pericolo, poiché i Britanni di proposito si ritiravano e quando li avevano allontanati un po' dalle legioni, scendevano dai carri ed a piedi li attaccavano in modo diseguale [...] in questo modo il pericolo risultava identico per chi inseguiva e chi si ritirava, inoltre i Britanni non combattevano mai riuniti ma in ordine sparso [...] in modo che potessero coprirsi la ritirata e soldati freschi sostituire quelli stanchi. » (Cesare, De bello Gallico, V, 15-16). Il giorno seguente i Britanni, che sembravano essersi ritirati lontano dal campo romano, decisero di tornare ad attaccare le tre legioni e la cavalleria che erano state inviate a fare provviste. Ed anche in questa circostanza la miglior disciplina dell'esercito romano prevalse sulle genti della Britannia, con i Romani che riuscirono a respingere i nemici, infliggendo loro numerose perdite. Cesare, deciso a passare al contrattacco, condusse la sua armata fino ai domini di Cassivellauno. Attraversato il Tamigi attaccò il nemico, che si era appostato sulla riva settentrionale, in mondo così improvviso che i Britanni furono costretti alla fuga. Proseguì poi le operazioni fino alla conquista di un oppidum nemico più a nord.
L'ultimo tentativo di Cassivellauno di attaccare il campo navale e le forze romane lasciate a presidio della costa si rivelò anch'esso un totale fallimento, tanto che il re britanno fu costretto a intavolare trattative di pace con Cesare, attraverso la mediazione dell'atrebate Commio. I Britanni furono costretti a sottomettersi, a pagare un tributo annuale ed a consegnare ostaggi al proconsole romano in segno di resa, mentre allo stesso Cassivellauno fu vietato di recare ulteriore danno a Mandubracio e ai Trinovanti che avevano chiesto protezione contro di lui a Cesare. Il generale romano fece ritorno in Gallia, dove, dopo aver assistito all'assemblea dei Galli a Samarobriva (forse l'odierna Amiens), mandò le legioni nei quartieri d'inverno. Benché non avesse ottenuto alcuna nuova conquista territoriale in Britannia, era riuscito nell'intento di terrorizzare quelle genti, limitandosi a creare tutta una serie di clientele che avrebbero portato questa regione nella sfera d'influenza di Roma, oltre ovviamente ad essere stato il primo romano a coprirsi di gloria per aver attraversato con le sue legioni il Mare del Nord. Da qui scaturirono quei rapporti commerciali e diplomatici che apriranno la strada alla conquista romana della Britannia nel 43.
La rivolta in Gallia. Ricevuti gli ostaggi britanni, Cesare ritornò in Gallia dove, dopo aver assistito all'assemblea dei Galli a Samarobriva, mandò le legioni nei quartieri d'inverno. Una legione affidata al legato Gaio Fabio fu inviata tra i Morini (presso l'attuale cittadina di Saint-Pol-sur-Ternoise); un'altra, assegnata a Quinto Cicerone, si posizionò tra i Nervi (presso Namur); una terza (Lucio Roscio) fu inviata tra gli Esuvi (presso Nagel-Séez-Mesnil, nell'Alta Normandia); una quarta (Tito Labieno) tra i Remi, al confine con i Treveri (probabilmente in località Lavacherie, a circa sedici chilometri a nord-ovest di Bastogne); tre legioni andarono tra i Belgi, sotto il comando del questore Marco Crasso (nella zona di Beauvais) e dei legati Lucio Munazio Planco (presso Lutezia) e Gaio Trebonio (presso Samarobriva); e una legione (appena arruolata nella Gallia Cisalpina) con cinque coorti, affidate a Quinto Titurio Sabino e Lucio Aurunculeio Cotta, raggiunsero le terre degli Eburoni (non molto distante da Atuatuca). Cesare stesso, invece, avrebbe fatto ritorno in Italia, non appena avesse saputo che ogni legione aveva preso posizione nel luogo assegnato.
In Gallia, però, si respirava aria di rivolta e tutto il Paese era in fermento. I primi segnali si ebbero già a partire dall'autunno di quell'anno, quando i Carnuti (stanziati nella zona di Chartres e Orléans) uccisero il re filo-romano Tasgezio, che Cesare aveva posto sul trono apprezzandone il valore, la discendenza e la devozione. Quando lo seppe, il proconsole, temendo una sollevazione generale del popolo dei Carnuti, decise di inviare Lucio Munazio Planco con la sua legione a svernare in quella regione. Nel frattempo venne a sapere che tutte le altre legioni erano giunte nei quartieri invernali e che le fortificazioni erano state completate. Quindici giorni dopo che le legioni si erano acquartierate nei loro rispettivi hiberna, scoppiò improvvisamente una rivolta tra gli Eburoni (regione delle Ardenne) guidata da Ambiorige e Catuvolco. Le truppe romane furono attaccate mentre erano intente a far provvista di legna fuori dal campo base, e l'accampamento romano di Sabino e Cotta, che si trovava con ogni probabilità presso Atuatuca (oggi chiamata Tongeren), fu completamente circondato: « [...] si trattava di un disegno comune di tutta la Gallia, quello era il giorno fissato per un attacco da parte dei Galli a tutti i quartieri invernali di Cesare, perché nessuna legione potesse prestare aiuto alle altre. » (Cesare, De bello Gallico, V, 27). Ambiorige decise di cambiare tattica. Avendo considerato che il campo romano era difficilmente attaccabile e che comunque sarebbe caduto solo a prezzo di ingenti perdite tra i suoi, riuscì a convincere con l'inganno i Romani ad uscire dall'accampamento. Suggerì loro di ricongiungersi con le legioni più vicine (quelle di Labieno o di Cicerone), che distavano una cinquantina di miglia, assicurando che non avrebbe interferito nella marcia. Dopo un acceso dibattito tra i due comandanti romani, alla fine prevalse l'ipotesi (sostenuta da Quinto Titurio Sabino) di abbandonare il campo con grande rapidità, poiché erano state segnalate orde di Germani in avvicinamento. Ma quando le truppe si trovarono allo scoperto, al centro di una vallata boscosa, l'esercito degli Eburoni le attaccò in massa e massacrò quasi completamente una legione, cinque coorti romane ed i loro comandanti. Solo pochi superstiti riuscirono a raggiungere il campo di Labieno ed avvertirlo dell'accaduto. Dopo questa vittoria, Ambiorige riuscì ad ottenere l'appoggio degli Atuatuci, dei Nervi e di numerosi popoli minori come i Ceutroni, i Grudi, i Levaci, i Pleumossi ed i Geidunni, per assediare il campo di Quinto Cicerone e della sua legione (attestati presso l'oppidum di Namur). L'assedio durò un paio di settimane, fino all'arrivo dello stesso Cesare: il generale era stato informato dal suo legato grazie ad uno stratagemma cui questi aveva fatto ricorso durante uno dei numerosi attacchi subiti da parte del nemico. Cicerone, infatti, si era servito di un fedele e nobile gallo della tribù dei Nervi, il quale aveva cercato presso di lui rifugio fin dal principio dell'assedio e gli aveva dimostrato grande lealtà, per consegnare a Cesare una lettera, riuscendo ad allontanarsi senza destare sospetto, poiché celta tra i Celti. Nel corso di questo assedio, particolarmente difficile per la legione romana, i Galli riuscirono a mettere in atto tecniche e strumenti di assedio simili a quelle dei Romani, dai quali le avevano ormai in parte appresi (anche grazie ai prigionieri romani ed ai disertori). Anche questa volta Ambiorige tentò di convincere il legato ad abbandonare il campo, promettendogli di proteggere la sua ritirata. Ma Quinto Cicerone, a differenza di Sabino, non cadde nel tranello del capo degli Eburoni, pur non sapendo che poco prima ben quindici coorti erano state massacrate, e riuscì a resistere, tra enormi sforzi e numerose perdite umane, fino all'arrivo di Cesare. Il proconsole, ricevuta la lettera da parte di Cicerone, marciò da Samarobriva con grande rapidità a capo di due legioni che era riuscito a reperire dopo essersi ricongiunto con Gaio Fabio e Marco Crasso. Giunto in prossimità di Cicerone, questi lo informò che la grande massa di assedianti (circa sessantamila Galli) si stava dirigendo contro lo stesso Cesare. Il proconsole, costruito un campo con grande rapidità, non solo riuscì a battere gli aggressori ed a metterli in fuga, ma anche a liberare definitivamente Cicerone dall'assedio, elogiandolo pubblicamente, insieme alla sua legione, di fronte all'esercito schierato. In seguito a questi eventi Cesare decise di svernare con le sue truppe in Gallia, disponendo che tre legioni rimanessero con lui presso Samarobriva, suo quartier generale. Cesare, dopo aver convocato presso di sé i capi di buona parte della Gallia, venne a sapere di una nuova ribellione da parte dei Senoni. La tribù era riuscita, dichiarandogli apertamente guerra, a convincere molte genti ad unirsi ad essa (tra cui i vicini Carnuti); soltanto Edui e Remi sarebbero rimasti fedeli a Roma. Oltre a ciò, prima che terminasse l'inverno, il legato Tito Labieno fu nuovamente attaccato dai Treveri, guidati da Induziomaro. Fortuna e abilità consentirono tuttavia al legato di battere un nemico nettamente più numeroso e di ucciderne il capo. « Tito Labieno, che non usciva dal campo, che era ben difeso sia dalla natura del luogo sia dalle fortificazioni romane, si preoccupava che non gli sfuggisse un'azione di valore [...] egli trattenne i suoi dentro l'accampamento, cercando di dare l'impressione che i Romani avessero paura e poiché Induziomaro si avvicinava al campo romano ogni giorno con crescente disprezzo, Labieno fece entrare numerosi cavalieri alleati di notte nel campo [...] frattanto, come faceva tutti i giorni, avvicinatosi al campo Induziomaro [...] i cavalieri galli scagliarono dardi sui Romani provocandoli a combattere [...] dai Romani non giunse nessuna risposta [...] al nemico gallo quando parve il momento di allontanarsi al calar della sera [...] velocemente Labieno ordina ai suoi di far uscire dalle due porte del campo tutti i suoi cavalieri, ed ordina che una volta terrorizzati e messi in fuga i nemici cerchino Induziomaro e [...] di ucciderlo, non badando ad altri, promettendo grandi ricompense [...] la fortuna confermò i suoi piani e [...] Induziomaro viene preso mentre sta guadando il fiume ed ucciso, e la sua testa viene portata al campo romano [...] » (Cesare, De bello Gallico, V,57-58). Cesare, in seguito agli eventi di quest'ultimo inverno, si era definitivamente convinto che l'anno successivo avrebbe dovuto riprendere l'iniziativa e condurre una campagna punitiva nel nord della Gallia, per evitare una sollevazione generale.

Le varie tribù celtiche e germaniche in
Gallia e quelle nel sud della Britannia.
Nel 53 a.C.
- Cresce la rivolta in Gallia. Con l'inizio del nuovo anno, il proconsole decise di arruolare due nuove legioni, per compensare la perdita della legio XIV, oltre a chiedere una legione a Gneo Pompeo; questi acconsentì, per il bene della Repubblica romana e l'amicizia nei confronti di Cesare, che poté così portare il numero delle proprie legioni a dieci. Con la morte di Induziomaro, i suoi parenti, mossi ancor di più dal rancore nei confronti del proconsole della Gallia, decisero non solo di cercare alleati tra i Germani d'oltre Reno (con i quali scambiarono ostaggi e garanzie reciproche), ma anche tra gli Eburoni di Ambiorige, i Nervi e gli Atuatuci. Contemporaneamente, sul fronte occidentale, i Senoni ed i Carnuti si erano rifiutati di obbedire alla convocazione di Cesare dell'assemblea della Gallia e si accordarono con le popolazioni limitrofe per ribellarsi al potere romano. Venuto a conoscenza di questi fatti, il generale romano decise di condurre quattro legioni nel territorio dei Nervi, con mossa fulminea. Giunto nei loro territori, dopo aver catturato una grande quantità di bestiame e di uomini (preda che lasciò ai suoi soldati), oltre ad aver devastato i loro campi di grano, costrinse i Galli (sorpresi dalla rapidità con cui era stata condotta l'azione) alla resa ed alla consegna di ostaggi. In seguito rivolse le sue armate ad occidente, ottenendo anche qui la resa di Carnuti e Senoni senza colpo ferire. Essi vennero a lui, infatti, supplici ed ottennero il perdono grazie all'intercessione di Edui e Remi. Solo il principe dei Senoni Accone, che li aveva sobillati, fu condotto in catene davanti a Cesare e poco dopo decapitato, quale monito per tutta la Gallia.
Campagna di Cesare in Gallia  e Germania. Nel 55 e poi definitivamente nel 53 a.C., Cesare rivolse le sue armate verso il nord-est della Gallia, prima contro i Treveri e gli Eburoni di Ambiorige, oltre ai loro alleati. Per prima cosa credette di dover attaccare gli alleati del principe eburone prima di provocalo a guerra aperta, evitando così che, persa la speranza di salvarsi, potesse nascondersi tra il popolo dei Menapi o al di là del Reno, tra i Germani. Una volta stabilito questo piano, il proconsole romano spedì tutti i suoi carriaggi, accompagnati da due legioni, nel Paese dei Treveri, al campo base di Tito Labieno, dove lo stesso aveva svernato con un'altra legione. Egli stesso con cinque legioni, senza bagagli, si mise in marcia alla volta dei Menapi (i cui territori saranno inglobati quasi 150 anni più tardi nella provincia della Germania inferior), i quali, grazie alla conformazione del terreno, decisero di non radunare l'esercito, ma di rifugiarsi nelle fitte foreste e paludi con i loro beni più preziosi, poiché sapevano che avrebbero avuto la peggio in uno scontro aperto con il generale romano. La reazione di Cesare fu quella di dividere il suo esercito in tre colonne parallele: una guidata dal luogotenente Gaio Fabio, una dal questore Marco Crasso e la terza, presumibilmente quella centrale, sotto la sua guida. Le operazioni cominciarono con la devastazione dei territori del nemico in ogni direzione; molti villaggi furono incendiati, mentre una grande parte del bestiame dei Galli fu razziata, e molti dei loro uomini furono fatti prigionieri. Alla fine anche i Menapi inviarono a Cesare ambasciatori per chiedere la pace. Il proconsole acconsentì a condizione di riceve un adeguato numero di ostaggi ed a fronte della promessa di non dare asilo ad Ambiorige o ai suoi sostenitori. Portata a termine anche questa operazione, Cesare lasciò sul posto l'atrebate Commio con la cavalleria, affinché mantenesse l'ordine, e si diresse verso il territorio dei Treveri, più a sud (territorio della futura provincia di Germania superior). È proprio da questa campagna che i territori della futura provincia della Germania inferior, entrarono nella sfera di influenza e furono occupati in modo definitivo dai Romani. Nel frattempo Labieno, una volta lasciati tutti i carriaggi all'interno del forte romano in compagnia di cinque coorti, mosse con grande rapidità incontro ai Treveri, con le restanti 25 coorti e la cavalleria, prevenendone un loro attacco. La battaglia che ne derivò avvenne nei pressi di un fiume, identificabile con il Semois, a circa quattoridici miglia ad est della Mosa. Labieno ricorse a uno stratagemma: fece credere al nemico di essere stato terrorizzato dal suo gran numero e di aver deciso di far ritorno al campo base, ma quando i Treveri, passato il fiume in massa, si misero all'inseguimento dell'esercito romano, che credevano essere in fuga, trovarono al contrario un'armata schierata che li stava aspettando. La battaglia fu favorevole ai Romani, i quali non solo riuscirono ad ottenere la resa di questo popolo e la fuga dei parenti di Induziomaro, ma trasferirono il potere nelle mani di Cingetorige, da sempre principe filo-romano.
Cesare passa il Reno per la seconda volta. Venuto a sapere del nuovo successo ottenuto dal suo legato sui Treveri, Cesare decise di passare per la seconda volta il Reno, costruendovi un secondo ponte con la stessa tecnica del primo. I motivi che lo spinsero a prendere questa decisione erano due: non solo i Germani avevano mandato aiuti ai Treveri contro i Romani, ma Cesare temeva anche che Ambiorige potesse trovarvi rifugio, una volta sconfitto. « Stabilito ciò, decise di costruire un ponte un poco più a monte del luogo dove aveva attraversato il fiume la volta precedente [...] dopo aver lasciato un forte presidio a capo del ponte nel territorio dei Treveri, per impedire che si sollevassero di nuovo [...] portò sulla sponda germanica le altre legioni e la cavalleria. Gli Ubi, che in passato avevano consegnato ostaggi e riconosciuto l'autorità romana, per allontanare da loro possibili sospetti, mandarono a Cesare degli ambasciatori [...] non avevano infatti né inviato aiuti ai Treveri, né avevano violato i patti [...] Cesare scoprì infatti che gli aiuti erano stati inviati dai Suebi [...] Accetta pertanto le spiegazioni degli Ubi e si informa sulle vie da seguire per giungere nel paese dei Suebi. » (Cesare, De bello Gallico, VI, 9). Ma i Suebi, che ormai conoscevano le gesta militari del generale romano, decisero di ritirarsi nell'interno ed aspettare, in luoghi remoti e difesi dalle insidie delle fitte foreste e delle pericolose paludi, il possibile arrivo di Cesare. Il generale, tenendo conto del suo obiettivo principale (la sottomissione della Gallia) e considerando anche la difficoltà degli approvvigionamenti di frumento in un territorio tanto selvaggio, decise di tornare indietro. « Cesare per lasciare ai barbari il timore di un suo ritorno [...] una volta ricondotto l'esercito in Gallia, fece tagliare l'ultima parte del ponte per una lunghezza di circa 200 piedi, ed all'estremità fece costruire una torre di quattro piani, oltre ad una fortificazione imponente munita di ben 12 coorti, assegnando il comando al giovane Gaio Vulcacio Tullo. » (Cesare, De bello Gallico, VI, 29).
Sterminio degli Eburoni - Per Cesare era a quel punto opportuno rivolgere l'intera armata contro Ambiorige ed il popolo degli Eburoni. Una volta attraversata la foresta delle Ardenne, mandò a precederlo con l'intera cavalleria Lucio Minucio Basilo, con l'ordine di sfruttare la rapidità della marcia e di sorprendere il nemico. Ambiorige riuscì per poco a sfuggire alla cattura romana: Basilio era riuscito ad individuarne il nascondiglio, ma Ambiorige, protetto dai suoi, riuscì a volgere in fuga nei fitti boschi che circondavano il luogo. Il panico per l'avanzata romana portò l'intero popolo degli Eburoni a cercare rifugio nelle foreste, nelle paludi e nelle isole, mentre Catuvolco, re della metà degli Eburoni, data l'età ormai avanzata e disperando ormai di potersi salvare, decise di suicidarsi, dopo aver maledetto Ambiorige per averlo coinvolto nella rivolta. Il terrore si diffuse anche tra le popolazioni limitrofe, tanto che sia i Segni, sia i Condrusi, popoli che vivevano tra i Treviri e gli Eburoni, inviarono a Cesare ambasciatori per pregarlo di considerarli amici del popolo romano, pur appartenendo alla stirpe dei Germani. Cesare, per provarne l'autenticità dei sentimenti, ordinò che gli fossero consegnati tutti gli Eburoni rifugiati presso di loro; in cambio, assicurava che non avrebbe invaso e devastato i loro territori. Segni e Condrusi si piegarono. Isolato così Ambiorige, raggiunse l'oppidum di Atuatuca, dove lasciò i carriaggi carichi di bottino, duecento cavalieri ed una legione (la legio XIV, appena riformata) a loro protezione, affidandoli al giovane legato Quinto Tullio Cicerone. Con le restanti nove legioni, divise in tre colonne parallele (formate ciascuna da tre legioni), delegò a Tito Labieno il compito di controllare i Menapi fino all'oceano, a Gaio Trebonio quello di devastare i territori contigui al paese degli Atuatuci. Il comandante in capo raggiunse invece la confluenza tra il fiume Schelda e la Mosa, dove gli era stato riferito che Ambiorige si era diretto con pochi cavalieri. Dispose infine che le colonne avrebbero dovuto riunirsi tutte sette giorni dopo, ancora ad Atuatuca. Cesare aveva in mente non solo di catturare il capo degli Eburoni, ma anche di sterminarli tutti, vendetta per le quindici sue coorti massacrate a tradimento nel corso dell'inverno precedente. La difficoltà del generale romano era riuscire a scovarli, poiché l'essersi dispersi e rifugiati ovunque nelle foreste e nelle paludi offriva loro qualche speranza di difesa o salvezza. Il proconsole romano inviò ambasciatori a tutte le genti della regione affinché, con la promessa di un ricco bottino, fossero gli stessi Galli a rischiare la vita in quei luoghi angusti (e non i suoi legionari) ed a cancellare completamente il popolo degli Eburoni. Il massacro ebbe inizio poco dopo, poiché una grande moltitudine di Galli si radunò rapidamente nei loro territori. Parteciparono alle operazioni anche i Germani Sigambri che, una volta attraversato il Reno con duemila cavalieri, entrarono nel territorio degli Eburoni e si impadronirono di una grande quantità di bestiame. Informati però che presso Atuatuca solo un'esigua guarnigione era stata lasciata a guardia dell'enorme bottino fatto da Cesare nel corso di quegli anni, decisero di recarsi con grande velocità in questa località per impadronirsene prima del ritorno del proconsole. Cicerone, il legato rimasto a guardia di Atuatuca, dopo aver atteso il ritorno di Cesare per sette giorni e non vedendolo tornare, decise di inviare cinque coorti a mietere frumento. Ma proprio quel giorno i legionari romani, intenti a fare raccolto, furono intercettati dalla cavalleria dei Sigambri. Nello scontro che ne seguì, nel tentativo di riguadagnare il forte romano, due delle cinque coorti furono massacrate. Gli assalti che si susseguirono al castrum romano furono drammatici; perfino i feriti romani furono costretti ad imbracciare le armi e a partecipare alla difesa disperata, che riuscì a respingere l'assalto nemico. Alla fine i Germani, persa la speranza di espugnare il forte e forse venuti a conoscenza dell'imminente ritorno del proconsole, si ritirarono oltre il Reno. Alla fine dell'estate Cesare era riuscito a devastare interamente il Paese degli Eburoni: « Tutti i villaggi e le fattorie [...] venivano incendiati, il bestiame ucciso, ovunque si saccheggiava, il frumento era consumato dalla moltitudine dei cavalli e degli uomini è [...] cosicché anche una volta allontanatosi l'esercito invasore, chiunque (tra gli Eburoni), anche se fosse riuscito a nascondersi, non avrebbe potuto evitare di morire per la carestia. [...] ed intanto Ambiorige riusciva a fuggire per nascondigli e boschi con la protezione della notte e si trasferiva in altre regioni, sotto la scorta di quattro cavalieri ai quali soltanto affidava la sua vita. » (Cesare, De bello Gallico, VI, 42). Con la fine dell'estate Cesare ricondusse l'esercito a Durocortorum, tra i Remi. Qui convocò un'assemblea affinché conducesse un'inchiesta sulla congiura promossa da Senoni e Carnuti. Dopo la conclusione delle indagini, fece prima flagellare e poi decapitare il capo ribelle, Accone, quale monito per tutti i Galli. Sciolta l'assemblea e provveduto al frumento necessario per l'inverno, collocò due legioni al confine con i Treveri, due nel Paese dei Lingoni e le sei restanti ad Agendico, tra i Senoni, prima di far ritorno in Italia come sua abitudine.

Vercingetorige da: https://www.ilter
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Nel 52 a.C. - Rivolta di Vercingetorige. L'ultimo atto delle guerre galliche fu rappresentato dalla rivolta scoppiata nel 52 a.C. e guidata dal re degli Arverni, Vercingetorige, attorno al quale si strinsero i popoli della Gallia centrale, a eccezione dei Lingoni e dei Remi. Anche gli Edui, da sempre alleati dei Romani, si schierarono contro Cesare, che si trovò così ad affrontare un nemico temibile sia per la consistenza numerica del suo esercito, sia per la disciplina che Vercingetorige seppe impartirgli (anche grazie al fatto di aver servito, per un certo periodo, nella cavalleria alleata di Roma). Cesare, che ancora si trovava nella Gallia Cisalpina (a Ravenna) per arruolare nuovi legionari da portare con lui in Gallia per completare le file delle legioni decimate dalla guerra dell'ultimo anno, venne a sapere di nuove agitazioni tra i Galli. I principi delle tribù si erano infatti accordati durante l'inverno per mettere in atto un piano che prima di tutto impedisse al proconsole di ricongiungersi al suo esercito, ed in secondo luogo per attuare la tattica dell'anno precedente, attaccando separatamente tutti i campi base delle legioni romane. I Galli, infine, sostenevano che: « Era molto meglio cadere in battaglia piuttosto che rinunciare all'antica gloria militare ed alla libertà che avevano ricevuto dagli avi. » (Cesare, De bello Gallico, VII, 1). Furono i Carnuti a dare il via alla rivolta, guidati da Cotuato e Conconnetodunno («due scellerati», nelle parole di Cesare). Essi si radunarono a Cenabo e qui uccisero tutti i cittadini romani che vi dimoravano, esercitando il commercio in quelle regioni. Rapidamente la notizia giunse in ogni angolo della Gallia, compreso il Paese degli Arverni dove Vercingetorige, figlio del nobile Celtillo (un tempo principe di questo popolo), sebbene ancora giovane, infiammò gli animi di una parte della popolazione. Ma se in un primo momento alcuni capi di questa tribù si opposero al suo desiderio di muovere guerra ai Romani e lo cacciarono da Gergovia, capitale degli Arverni, Vercingetorige, non rinunciando a questa sua idea, arruolò nelle campagne circostanti un numero di armati sufficienti a rovesciare il potere nella sua tribù ed a farsi proclamare re. La mossa successiva fu quella di inviare messi a tutte le popolazioni limitrofe, per trovare nuovi alleati per il tentativo di liberare definitivamente la Gallia dal giogo romano. In breve tempo riuscì a legare a sé Senoni, Parisi, Pictoni, Cadurci, Turoni, Aulerci, Lemovici, Andi e tutte le tribù che abitavano la costa atlantica. « [...] a Vercingetorige, all'unanimità viene affidato il comando supremo. Ricevuto questo potere comanda a tutte le tribù di inviargli ostaggi [...] ed un determinato numero di soldati, stabilisce la quantità di armi che ciascun popolo deve produrre entro una data certa, e si occupa soprattutto della cavalleria. A questo suo zelo affianca una grande severità nell'esercitare il potere [...] » (Cesare, De bello Gallico, VII, 4). Riunito rapidamente un esercito, Vercingetorige decise di inviare il cadurco Lucterio nel Paese dei Ruteni con una parte delle truppe, mentre egli stesso si diresse nel territorio dei Biturigi. I vicini Edui, di cui i Biturigi erano popolo cliente, dopo aver inviato in soccorso al popolo alleato alcuni reparti di cavalleria e fanteria preferirono non passare il fiume Loira per paura di essere traditi, sospettando fossero divenuti ora alleati degli Arverni, come del resto sarebbe accaduto da lì a poco. Nel frattempo Cesare, venuto a conoscenza dei piani di Vercingetorige e delle nuove alleanze che Lucterio era riuscito ad ottenere con Ruteni, Nitiobrogi e Gabali, si affrettò a raggiungere la Gallia Narbonense. Giunto nella provincia, dispose presidi armati tra i Ruteni stessi, i Volci Arecomici, i Tolosati e nei dintorni della capitale, Narbona (tutti luoghi che confinavano con i territori del nemico). Ordinò, infine, che la parte rimanente delle truppe di stanza nella provincia, unitamente alle coorti dei complementi che aveva arruolato durante l'inverno in Italia e condotto con sé, fossero riuniti nel Paese degli Elvi, che confinavano con gli Arverni. Lucterio, venuto a conoscenza delle mosse del proconsole romano, decise di ritirarsi, mentre Cesare, al contrario, passò al contrattacco attraversando la catena delle Cevenne, dove i passi, in quel periodo dell'anno, erano ricoperti da uno strato altissimo di neve: « [Cesare], sgombrata la neve, che era alta sei piedi, ed aperta la via, grazie alle grandi fatiche dei legionari, riuscì a raggiungere il Paese degli Arverni. Questi furono colti di sorpresa, poiché credevano di essere difesi dai monti Cevenne, come fossero delle barriere naturali e che nessuno mai in quella stagione avrebbe potuto passare per quelle vie. Cesare così diede ordine che la cavalleria facesse scorrerie per lo spazio più ampio possibile, al fine di provocare nel nemico il massimo del terrore. » (Cesare, De bello Gallico, VII, 8). A questa notizia Vercingetorige fu costretto a rientrare dal Paese dei Biturigi ed a far ritorno in quello degli Arverni. Cesare, che aveva previsto questa mossa, dopo soli due giorni lasciò al comando delle truppe provinciali Decimo Giunio Bruto Albino e si recò a marce forzate, via Vienne lungo il Rodano, nel Paese dei Lingoni dove svernavano due legioni. « [Cesare] giunto colà invia messaggeri alle altre legioni e le riunisce in un solo luogo [probabilmente ad Agendicum, dove si trovava il grosso dell'esercito], prima che gli Arverni sappiano del suo arrivo. Conosciuta la cosa Vercingetorige conduce nuovamente l'esercito nel Paese dei Biturigi, e da lì muove verso l'oppidum di Gorgobina, città dei Boi. » (Cesare, De bello Gallico, VII, 9). Radunato l'esercito, Cesare invitò gli Edui a fornirgli le necessarie vettovaglie per la nuova campagna. Una volta avvertiti i Boi che presto li avrebbe raggiunti, affinché resistessero all'assedio di Vercingetorige, si mise in marcia a capo di otto legioni, mentre le rimanenti due le lasciò ad Agendicum con l'intero bagaglio. Lungo il percorso pose sotto assedio ed occupò, una ad una, le città di Vellaunodunum (dei Senoni), di Cenabum (capitale dei Carnuti) e di Noviodunum dei Biturigi - l'odierna Nouan-le-Fuzelier).
Quando Vercingetorige venne a conoscenza dell'arrivo di Cesare, tolse l'assedio da Gorgobina e si mise in marcia per affrontarlo. Il proconsole romano, frattanto, dopo aver fatto bottino nelle tre città appena conquistate, mosse verso la città più grande dei Biturigi: Avaricum. Cesare confidava che, qualora fosse riuscito a conquistare una fra le città meglio fortificate e più ricche dell'intera Gallia, questo successo gli avrebbe garantito la piena sottomissione dell'intero popolo dei Biturigi. La città fu posta sotto assedio dai Romani con opere di imponente ingegneria militare. Dopo 27 giorni di estenuante assedio anche l'oppidum dei Biturigi capitolò. Vercingetorige, benché avesse un esercito più numeroso di quello di Cesare, si sottrasse allo scontro in campo aperto. La sua strategia (una guerriglia continua e di blocco dei rifornimenti ai Romani, mentre questi erano impegnati nell'assedio) non ebbe però successo: non solo perse l'occasione per impegnare il nemico in un territorio a lui favorevole, ma assistette al massacro finale dell'intera popolazione, una volta conquistata la città dai Romani. Quarantamila abitanti furono massacrati e se ne salvarono solo ottocento. Questa dura repressione rese però ancor più determinati i ribelli ed estese l'alleanza anticesariana a nuove nazioni della Gallia. Vercingetorige era riuscito, infatti, a coalizzarne di nuove ed a chiedere a ciascuna di loro un determinato numero di armati, tra cui numerosi arcieri: « Vercingetorige stava per unire alle nazioni [già in guerra contro i Romani] quelle che fino ad allora non avevano aderito. Egli avrebbe così creato una sola volontà di tutta la Gallia, e ad una tale unione il mondo intero non avrebbe potuto resistere. E Vercingetorige era prossimo alla realizzazione di questo progetto. » (Cesare, De bello Gallico, VII, 29, 6). Cesare, dopo aver portato a termine l'occupazione dell'ultimo baluardo dei Biturigi, insieme alle altre tre importanti città della Gallia centrale, decise di fermarsi per alcuni giorni ad Avarico per rifocillare le truppe, avendo trovato nella capitale dei Biturigi abbondanza di frumento ed altre vettovaglie. Con la fine dell'inverno (primi di aprile), Cesare era deciso a riprendere la campagna militare per condurre a termine in modo definitivo l'occupazione dell'intera Gallia, quando venne a conoscenza di alcuni dissidi interni sorti nell'alleata popolazione degli Edui. La situazione era assai critica e necessitava di un intervento del proconsole romano per evitare una guerra civile tra due fazioni opposte. Cesare racconta che, quell'anno, erano stati creati, contrariamente alla normale tradizione di questo popolo, non uno ma due magistrati supremi con potere regale: Convittolitave e Coto. Questa doppia magistratura aveva determinato che l'intero popolo fosse in armi, il senato fosse diviso, il popolo pure, e ciascuno dei due contendenti avesse propri clienti. Cesare, pur reputando svantaggioso sospendere le operazioni militari ed allontanarsi dal nemico, non poteva di certo ignorare che uno dei principali popoli a lui alleati, e fondamentali per il prosieguo della guerra (anche in termini di armati forniti e di vettovaglie) fosse sull'orlo di una guerra civile. Decise pertanto di recarsi personalmente presso gli Edui e di convocare il loro senato presso Decezia. Una volta valutata la situazione, costrinse Coto a deporre il potere, affidandolo interamente nelle mani di Convittolitave; emessa la sentenza li esortò a spedirgli rapidamente tutta la cavalleria e diecimila fanti, con i quali intendeva istituire alcune guarnigioni a protezione del vettovagliamento. Divise, infine, l'esercito in due parti: a Tito Labieno lasciò quattro legioni, inviandolo a nord per sopprimere la rivolta di Senoni e Parisi; a sé stesso riservò le rimanenti sei legioni e puntò verso sud, seguendo il fiume Elaver, verso la capitale arverna: Gergovia (le cui rovine sorgono nei pressi di Clermont-Ferrand). Alla notizia dell'avanzata di Cesare, Vercingetorige abbatté tutti i ponti di quel fiume e si mise in marcia lungo la sponda opposta. Intanto aveva guadagnato alla sua causa anche gli Edui, da sempre alleati di Cesare. Il proconsole fu così costretto a ritirarsi provvisoriamente da Gergovia per riprendere il controllo degli Edui; dopodiché si ripresentò sotto le mura della capitale degli Arverni. Qui fu sconfitto, anche se di misura, e per i due giorni successivi schierò le truppe in modo da attrarre il capo gallico alla battaglia finale, quella che avrebbe sancito definitivamente le sorti della guerra in Gallia. Ma Vercingetorige, pur avendo appena ottenuto quel piccolo successo, non ingaggiò battaglia, temendo la tattica romana e le capacità militari del suo avversario. Al termine di quei due giorni il proconsole decise di togliere l'assedio e di ricongiungersi con le quattro legioni che aveva lasciato presso i Parisi sotto il comando di Labieno: riteneva necessario compattare le forze ed affrontare il nemico prima che il malcontento si diffondesse all'intera Gallia. Gli stessi Edui si erano ribellati nuovamente, quando dall'assedio di Gergovia ritornarono Viridomaro ed Eporedorige: questi avevano contribuito a sobillare il popolo ed a massacrare numerosi cittadini romani a tradimento, cominciando poi, per il timore di una rappresaglia del proconsole romano, ad arruolare dalle regioni confinanti nuove truppe e a disporre presidi e corpi di guardia sulle rive della Loira per fermare il proconsole romano. Cesare, ormai sapeva di non poter più contare su alcun alleato in Gallia (salvo Lingoni e Remi): doveva ricongiungersi a Labieno nel tentativo di ottenere uno scontro risolutivo contro Vercingetorige. Sarebbe comunque stato in una situazione di grande inferiorità numerica e avrebbe potuto far affidamento solo sul suo genio militare e sulla miglior disciplina dell'esercito romano.
Nel frattempo Labieno, partito da Agendico per Lutezia, riuscì non solo a battere una coalizione di popolazioni a nord della Loira, comandate dall'aulerca Camulogeno, ma anche a ricongiungersi con Cesare, sfuggendo ai tentativi di accerchiamento condotti prima dai Bellovaci, anch'essi ribellatisi al dominio romano, e poi dagli Edui. Mentre i Romani erano riusciti a ricongiungersi, Vercingetorige aveva ricevuto ufficialmente il comando supremo nella capitale edua di Bibracte nel corso di una dieta pangallica, a cui non parteciparono però Treveri, Remi e Lingoni (questi ultimi due popoli ancora alleati di Cesare), che avevano deciso di non aderire alla rivolta. « Vercingetorige ordina alle nazioni della Gallia di fornirgli ostaggi e stabilisce un giorno per la consegna. Comanda che vengano velocemente raccolti tutti i cavalieri in numero di 15.000. Afferma che bastava la fanteria che aveva avuto fino ad ora, ma che non avrebbe tentato la sorte, attaccando Cesare in una battaglia campale, ma poiché aveva cavalleria in abbondanza, gli sarebbe riuscito più facile impedire ai romani l'approvvigionamento di frumento e fieno, a condizione che i Galli si rassegnassero a distruggere il loro frumento e ad incendiare le loro case. In questa perdita dei loro beni dovevano vedere il mezzo per conseguire l'indipendenza nazionale [...] Prese poi queste decisioni: comanda a 10.000 fanti e 800 cavalieri Edui e Segusiavi, sotto il comando di Eporedorige [...] di portar la guerra agli Allobrogi della Provincia romana; dall'altra parte manda i Gabali e gli Arverni contro gli Elvi, e così anche i Ruteni e Cadurci a devastare il Paese dei Volci Arecomici [...] ma per tutte queste evenienze erano predisposti dei presidi romani per complessive 22 coorti, arruolate dal legato Lucio Cesare [parente del proconsole] » (Cesare, De bello Gallico, VII, 64-65). Cesare, unitosi a Labieno e alle sue legioni ad Agedinco, decise di riparare presso i vicini ed alleati Lingoni, rafforzando le sue truppe con reparti di cavalleria germanica mercenaria (era il secondo squadrone che il generale romano arruolava nel corso della guerra). Riprese, infine, la strada verso sud in direzione della Gallia Narbonense, ma a nord-est di Digione le legioni (che probabilmente erano undici) furono attaccate dall'armata di Vercingetorige (alla fine di settembre del 52 a.C.). L'attacco della cavalleria gallica fu però respinto dalle legioni romane in marcia e dalla cavalleria germanica. La fiducia dei ribelli vacillò e Vercingetorige decise di riparare con il suo esercito ad Alesia. Qui, una volta raggiunto da Cesare, fu posto sotto assedio senza più alcuna possibilità di scampo.
Ubicazione di Alesia, da: http://www
.arsbellica.it/pagine/antica
/Alesia/alesia.html
La fine della rivolta e la resa di Vercingetorige ad Alesia. Cesare piombò su Alesia e la cinse d'assedio: fece costruire un anello di fortificazioni lungo sedici chilometri tutto intorno all'oppidum nemico ed, all'esterno di questo, un altro di ventun chilometri circa, in previsione di un possibile attacco dalle spalle. Le opere d'assedio di Cesare comprendevano così due valli (uno interno ed uno esterno), fossati pieni d'acqua, trappole, palizzate, quasi un migliaio di torri di guardia a tre piani (a 25 metri circa, l'una dall'altra), ventitré fortini (occupati ciascuno da una coorte legionaria, nei quali di giorno erano posti dei corpi di guardia perché i nemici non facessero improvvise sortite, mentre di notte erano tenuti da sentinelle e da solidi presidi), quattro grandi campi per le legioni (due per ciascun castrum) e quattro campi per la cavalleria (legionaria, ausiliaria e germanica), posti in luoghi idonei. Dopo circa un mese di lungo e logorante assedio, giunse lungo il fronte esterno delle fortificazioni romane un potente esercito gallico di circa 240.000 armati ed 8.000 cavalieri, giunto in aiuto degli assediati. « Ordinano agli Edui ed alle loro tribù clienti, Segusiavi, Ambivareti, Aulerci Brannovici, Blannovi 35.000 armati; egual numero agli Arverni insieme agli Eleuteti, Cadurci, Gabali e Vellavi che a quel tempo erano sotto il dominio degli Arverni; ai Sequani, Senoni, Biturigi, Santoni, Ruteni e Carnuti 12.000 ciascuno; ai Bellovaci 10.000 (ne forniranno solo 2.000); ai Lemovici 10.000; 8.000 ciascuno a Pittoni e Turoni, a Parisi ed a Elvezi; ai Suessoni, Ambiani, Mediomatrici, Petrocori, Nervi, Morini, Nitiobrogi ed agli Aulerci Cenomani, 5.000 ciascuno; agli Atrebati 4.000; ai Veliocassi, Viromandui, Andi ed Aulerci Eburovici 3.000 ciascuno; ai Raurici e Boi 2.000 ciascuno; 10.000 a tutti i popoli che si affacciano sull'Oceano e per consuetudine si chiamano genti Aremoriche, tra cui appartengono i Coriosoliti, i Redoni, gli Ambibari, i Caleti, gli Osismi, i Veneti, Lessovi e gli Unelli... » (Cesare, De bello Gallico, VII, 75). Al comando di questo immenso esercito di soccorso furono posti: l'atrebate Commio, gli Edui Viridomaro ed Eporedorige, e l'arverno Vercassivellauno, cugino di Vercingetorige. Per quattro giorni le legioni cesariane resistettero agli attacchi combinati dei Galli di Alesia e dell'esercito accorrente. Il quarto giorno, questi ultimi riuscirono ad aprire una breccia nell'anello esterno, ma furono respinti grazie all'accorrere prima del legato Labieno, poi dello stesso Cesare, il quale riuscì a rintuzzare l'attacco nemico al comando della cavalleria germanica e delle truppe di riserva raccolte lungo il percorso. Il nemico gallico fu accerchiato, con un'abile manovra esterna. Era la fine del sogno di libertà della Gallia, Vercingetorige si consegnò al proconsole romano.
Ricostruzione delle fortificazioni
dell'esercito di Cesare ad Alesia
(MuseoPark di Alesia), da: https:
La fine di Alesia fu il termine della resistenza delle tribù della Gallia. I soldati di Alesia, così come i sopravvissuti dell'esercito di soccorso, furono fatti prigionieri. In parte furono venduti come schiavi ed in parte ceduti come bottino di guerra ai legionari di Cesare, ad eccezione dei membri facenti parte delle tribù Edui e degli Arveni che furono liberati e perdonati per salvaguardare l'alleanza di queste importanti tribù con Roma. Dopo la vittoria, il Senato decretò venti giorni di festa in onore del proconsole, mentre Vercingetorige fu mantenuto in vita nei sei anni successivi, in attesa di essere esibito nella sfilata di trionfo di Cesare. E, come era tradizione per i comandanti nemici catturati, alla fine della processione trionfale fu rinchiuso nel Carcere Mamertino e strangolato. Al termine di questo settimo anno di guerra, Cesare, dopo aver raccolto la resa della nazione degli Edui, dispone per l'inverno del 52-51 a.C. le undici legioni come segue: le legioni VII, XV e la cavalleria con Tito Labieno ed il suo luogotenente, Marco Sempronio Rutilo, tra i Sequani a Vesontio; la legione VIII con il legato Gaio Fabio e la IX con il legato Lucio Minucio Basilo presso i Remi (probabilmente nei pressi di Durocortorum e Bibrax), per proteggerli dai vicini Bellovaci ancora in rivolta; la legione XI con Gaio Antistio Regino tra gli Ambivareti; la legione XIII con Tito Sestio tra i Biturigi (probabilmente a Cenabum); la legione I con Gaio Caninio Rebilo tra i Ruteni; la legione VI con Quinto Tullio Cicerone a Matisco e la XIV con il legato Publio Sulpicio a Cabillonum presso gli Edui. Egli stesso fissò il suo quartier generale a Bibracte e vi si recò con le legioni X e XII.

Carta delle Gallie nel 44 a.C., dopo la conquista di
Caio Giulio Cesare.
Nel 51 a.C. - Ultime rivolte in Gallia. Sconfitto definitivamente Vercingetorige, Cesare sperava di poter far finalmente riposare le truppe, che avevano combattuto incessantemente per sette anni. Invece venne a sapere che diversi popoli stavano rinnovando i piani di guerra e stringendo alleanze tra di loro, con l'intento di attaccare contemporaneamente e da più parti i Romani. L'obiettivo era quello di costringere il proconsole a dividere le sue forze, nella speranza di poterlo finalmente battere. Il generale romano decise, però, di muovere con grande tempestività, anticipando i piani dei rivoltosi, contro i Biturigi. Questi, sorpresi dalla rapidità con cui era stata condotta questa nuova campagna, furono fatti prigionieri a migliaia. Cesare ottenne così la loro definitiva sottomissione, costringendo anche molte delle popolazioni limitrofe a desistere dai loro piani di ribellione. I Biturigi, ormai sottomessi al dominio romano, chiesero aiuto a Cesare contro i vicini Carnuti, lamentandone continui attacchi da parte loro. Il proconsole mosse con altrettanta rapidità contro questo popolo, che alla notizia dell'arrivo dei Romani si diede alla fuga. Frattanto i Bellovaci, superiori a tutti i Galli e ai Belgi quanto a gloria militare, e i popoli limitrofi stavano radunando in un solo luogo gli eserciti (sotto la guida del bellovaco Correo e dell'atrebate Commio), per poi attaccare in massa le terre dei Suessioni, vassalli dei Remi. Cesare richiamò dal campo invernale l'undicesima legione; inviò quindi una lettera a Gaio Fabio, affinché conducesse nei territori dei Suessioni le due legioni che aveva ai suoi ordini. A Labieno, infine, richiese una delle due legioni di cui disponeva. Puntò quindi sui Bellovaci, stabilendo il campo nei loro territori e compiendo rastrellamenti con squadroni di cavalleria in tutta la zona, al fine di catturare prigionieri che lo mettessero al corrente dei piani nemici. Cesare venne così a sapere che tutti i Bellovaci in grado di portare armi si erano radunati in un solo luogo, insieme anche agli Ambiani, agli Aulerci, ai Caleti, ai Veliocassi e agli Atrebati. I rivoltosi avevano scelto per accamparsi una località d'altura, in una selva circondata da una palude, e avevano ammassato tutti i bagagli nei boschi alle spalle. Tra i capi dei ribelli, il più ascoltato era Correo, noto per il suo odio mortale verso Roma. Cesare marciò contro i nemici. Dopo alcuni giorni di attesa e scaramucce, i due eserciti vennero allo scontro (nei pressi dell'attuale Compiègne lungo il fiume Axona) e i Romani misero in rotta il nemico, facendone strage: lo stesso Correo morì in battaglia. I pochi superstiti vennero accolti dai Bellovaci e da altri popoli, che decisero di consegnare ostaggi al proconsole. Cesare accettò la resa di nemici. Di fronte a ciò, l'atrebate Commio riparò presso le genti germaniche dalle quali aveva ricevuto rinforzi: la paura gli impediva infatti di mettere la propria vita nelle mani di altri. L'anno precedente, infatti, mentre Cesare si trovava nella Gallia Cisalpina per amministrare la giustizia, Tito Labieno, avendo saputo che Commio sobillava i popoli e promuoveva una coalizione anti-romana, aveva cercato di assassinare il gallo, attirandolo con il pretesto di un abboccamento. L'agguato però fallì e Commio, sebbene ferito gravemente, era riuscito a salvarsi. Da allora, aveva deciso che mai si sarebbe incontrato con un romano.

Nel 7/6 a.C. - Viene edificato il Trofeo delle Alpi (detto anche Trofeo di Augusto) imponente monumento romano sull'Alpe Summa (Alpis Summa), a 480 metri di altitudine, nell'attuale comune di La Turbie. Il monumento venne eretto, sulla via Julia Augusta, negli anni 7-6 a.C. in onore dell'imperatore Augusto per commemorare le vittorie riportate dai suoi generali (tra cui i figliastri Druso maggiore e Tiberio) e la definitiva sottomissione di 46 tribù alpine. L'Alpe Summa, detta anche Turbia (la Turbie in francese), che sorge nel dipartimento francese delle Alpi Marittime, a breve distanza dal Principato di Monaco, è contraddistinta da evidenti forze geomagnetiche, percepite da sempre e descritte anche nel racconto delle 12 fatiche di Ercole, quando il semidio ritorna dall'Hiberia con le mandrie di Gerione e ingaggia la battaglia dei Campi Lapidarii contro i liguri, guidati dai giganti Albione e Dercino, dove Zeus farà piovere sassi in soccorso al suo pupillo, in difficoltà nella lotta contro i liguri. Lo storico e viaggiatore greco Posidonio, vivente fino all'anno 50 e.V. nell’isola di Rodi, segnalava la presenza, fin dal secondo secolo prima di Cristo, di una strada tra Piacenza e Marsiglia, che valicava l’Alpis Summa, l’odierna Turbia, conosciuta col nome di Via Heraclea o Herculea, giacché si voleva tracciata dall’eroe greco nel corso del suo ritorno dalla decima fatica, quando andò a rapire la mandria di buoi a Gerione, nell’isola di Erizia, sulle sponde dell’Atlantico. Questo territorio d’eccezione dal punto di vista esoterico, fu eletto a sito  della celebrazione di Augusto  come imperatore di Roma, evocando ulteriormente la memoria di Ercole (il mitico semidio greco Heracle), oltre ai trionfi celebrati da Augusto il 12 agosto, giornata consacrata ad Heracles Invictus ed il giorno successivo, consacrato a Heracles Victor. Qui è stato edificato il Trofeo delle Alpi  (detto anche Trofeo di Augusto) imponente monumento romano a 480 metri di altitudine, nel comune di La Turbie. Il monumento venne eretto, sulla via Julia Augusta, negli anni 7-6 a.C. in onore dell'imperatore Augusto per commemorare le vittorie riportate dai suoi generali (tra cui i figliastri Druso maggiore e Tiberio) e la definitiva  sottomissione di 46 tribù alpine. Servì inoltre a demarcare la frontiera tra l'Italia romana e la Gallia Narbonese lungo la Via Julia Augusta. Questo trofeo nel tempo segue, nelle Gallie, il trofeo di Pompeo, in Summum Pyrenaeum, quello di Briot (ora al museo di Antibes) e altri. La costruzione, parte in marmo lunense e parte in pietra locale, concepita secondo il modello architettonico vitruviano sul modello del Mausoleo di Alicarnasso, consisteva di un piedistallo quadrato misurante 38 m di lato, sulla cui facciata occidentale era apposta un'iscrizione con la dedica ad Augusto. Ai lati dell'iscrizione c'erano dei trofei. Il secondo ordine era composto da un basamento, anche questo quadrato ma di dimensione minore, su cui poggiavano 24 colonne, con capitelli dorici, poste in cerchio e adornate da un fregio dorico con alternanza di metope e triglifi. All'interno del colonnato si trovava una torre cilindrica in cui, alternate alle colonne, si trovavano delle nicchie dove erano state collocate le statue dei comandanti militari che avevano partecipato alla spedizione, tra cui quella di Druso. Sulle colonne poggiava infine una copertura conica a gradoni, coronata da una imponente statua di Augusto in bronzo dorato raffigurato nell'atto di sottomettere due barbari inginocchiati ai suoi piedi. La solenne iscrizione, di cui rimanevano solo alcuni frammenti, è stata ricostruita completamente durante il restauro del monumento curato da Jules Formigé, grazie alla menzione fattane da Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia (III, 133 segg.). Il testo riporta tutti e 46 i nomi delle tribù sconfitte in ordine cronologico e geografico ed è affiancato da due bassorilievi della Vittoria alata. Parimenti visibile è il "trofeo" in senso stretto, ossia una raffigurazione delle armi conquistate ai nemici e appese ad un tronco d'albero. Ai due lati del trofeo sono raffigurati coppie di prigionieri galli in catene. «All'imperatore Augusto, figlio del divo [Giulio] Cesare, pontefice massimo, acclamato imperatore per XIV volte, essendo investito per la XVII volta della potestà tribunizia, il senato e il popolo romano [eressero] poiché sotto la sua guida e i suoi auspici tutte le genti alpine, che si trovavano tra il mare superiore e quello inferiore sono state assoggettate all'impero del popolo romano. Genti alpine sconfitte: Triumpilini, Camunni, Venosti, Vennoneti, Isarci, Breuni, Genauni, Focunati, le quattro nazioni dei Vindelici: Cosuaneti, Rucinati, Licati e Catenati, gli Ambisonti, Rugusci, Suaneti, Caluconi, Brixeneti, Leponzi, Uberi, Nantuati, Seduni, Veragri, Salassi, Acitavoni, Medulli, Ucenni, Caturigi, Brigiani, Sogionti, Brodionti, Nemaloni, Edenati, Vesubiani, Veamini, Galliti, Triullati, Ecdini, Vergunni, Eguituri, Nematuri, Oratelli, Nerusi, Velauni, Seutri.». I lavori di riduzione in pristino sono stati resi possibili dagli studi dell'architetto Jules Formigé e dal generoso finanziamento del mecenate statunitense Edward Tuck. L'altezza del monumento misura oggi 35 metri, mentre originariamente, grazie alla statua, raggiungeva i 50 metri. Dalla sua terrazza panoramica è possibile godere d'un punto d'osservazione che, in giornate limpide, consente di spaziare visivamente dalla riviera ligure di ponente al golfo di Saint-Tropez.

- Nel I secolo gran parte del territorio boemo (a cui storici di epoca romana si riferivano con Boiohaemum,  terra dei Celti Boi) è teatro delle invasioni barbariche da parte sia di tribù  germaniche (probabilmente SuebiMarcomanni) che ne conquistano la parte occidentale, che di Slavi. I Celti (Galli per i Romani) Boi si spostano per la maggior parte verso ovest, nei territori della moderna Svizzera e nel sud-est della Gallia, mentre alcuni si spingono a sud fino a conquistare Bononia, l'antica Félsina etrusca (Bologna).

Campagne romane
in Britannia.
Nel 43 - Romani invadono l'isola Britannica. La conquista romana della Britannia iniziò sistematicamente dal 43 d.C., per volere dell'imperatore Claudio. Tuttavia, l'attività militare romana era iniziata nelle isole britanniche già nel secolo precedente, quando nel 55 e nel 54 a.C. l'esercito di Gaio Giulio Cesare mosse dalla Gallia, dov'era impegnato nella sottomissione di queste regioni, alla volta della Britannia. Di fatto, queste operazioni militari non portarono a nessuna conquista territoriale, creando però una serie di clientele che avrebbe portato la regione, specie il sud dell'isola, nella sfera d'influenza economica e culturale di Roma. Da qui scaturirono quei rapporti commerciali e diplomatici che apriranno la strada alla conquista romana della Britannia. Il grosso delle truppe romane sarebbe salpato da Boulogne e sbarcato a Rutupiae (sulla costa orientale del Kent). Secondo Svetonio il resto delle truppe, sotto la guida dell'imperatore Claudio, salparono da Boulogne. La resistenza britannica fu guidata da Togodumno e Carataco, figli del re catuvellauno Cunobelino. Un consistente esercito britannico diede battaglia alle legioni romane vicino a Rochester, sul fiume Medway. La battaglia infuriò per due giorni e visto il ruolo decisivo da lui svolto, Osidio Geta fu insignito degli ornamenta triumphalia. I Britanni furono incalzati oltre il Tamigi dai Romani che inflissero loro gravi perdite. Togodumno morì poco dopo. In breve, i Romani dilagarono e conquistarono il sud-est dell'isola, ponendo la capitale a Camulodunum. Claudio tornò a Roma per celebrare la vittoria ed ottenere il titolo di Britannicus. Carataco scappò a ovest per continuare da lì la resistenza. Vespasiano marciò ad ovest, sottomettendo le tribù almeno fino all'Exeter, probabilmente raggiungendo Bodmin. Svetonio racconta infatti che Vespasiano sottomise l'isola di Wight (Vette) e penetrò fino ai confini del Somerset, in Inghilterra: «[...] [Vespasiano] venne trenta volte a battaglia con il nemico. Agli ordini prima di Aulo Plauzio e poi dello stesso Claudio, costrinse alla resa due fortissime tribù e più di venti oppida, conquistando l'isola di Vette, vicina alla costa della Britannia.» (Svetonio, Vita di Vespasiano 4).

Nel 60/61 - L'imperatore Nerone, che nel corso del suo principato aveva continuato la conquista della Britannia, deve far fronte ad una rivolta capeggiata da Budicca, la regina della tribù degli Iceni.

Adriano: Museo delle
Terme, Roma. Foto di
Livioandronico2013
da QUI.
Nel 122 - In Britannia viene eretto il Vallo di Adriano per contenere gli assalti dei Celti (in particolare i Pitti). Publio Elio Traiano Adriano, noto semplicemente come Adriano (Italica, antica città della Spagna romana vicino all'attuale Siviglia, primo insediamento di romani e italici nella penisola iberica, 24 gennaio 76 - Baia, frazione di Bacoli, comune della città metropolitana di Napoli e parte dei Campi Flegrei, 10 luglio 138), è imperatore romano della dinastia degli imperatori adottivi dal 117 alla sua morte. 

Valli di Adriano e Antonino.
Nel 142 - Costruzione in Britannia del Vallo di Antonino, iniziata nel 142 (sotto Antonino Pio imperatore) e completata nel 144. Il vallo si estendeva per 39 miglia (pari a 63 chilometri) da Old Kirkpatrick nel West Dunbartonshire sul Firth of Clyde a Bo'ness sul Firth of Forth. La fortificazione fu costruita per rafforzare il Vallo di Adriano, posto 160 km più a sud come confine settentrionale della Britannia. I romani, anche se riuscirono a insediare accampamenti e fortilizi temporanei a nord del vallo, non arrivarono mai a conquistare e sottomettere le tribù indigene celtiche, in particolare i Pitti, che resistettero ed infersero danni alla fortificazione. 
Busto di Antonino Pio
conservato a Monaco
di Baviera
Nel 138 Cesare Tito Elio Adriano Antonino Augusto Pio, nato come Tito Aurelio Fulvo Boionio Arrio Antonino (Lanuvio, 19 settembre 86 - Lorium, 7 marzo 161), è eletto imperatore romano fino al 161. Imperatore saggio, l'epiteto pius gli venne attribuito per il sentimento di amore filiale che manifestò nei confronti del padre adottivo che fece divinizzare. Il suo regno fu caratterizzato da  un'epoca di pace  interna e di floridezza economica. L'unico fronte in movimento fu quello in Britannia, dove Antonino avanzò oltre il Vallo di Adriano, facendo erigere un altro vallo più a nord, che però fu abbandonato dopo solo venti anni dalla costruzione. Antonino mantenne sempre un atteggiamento deferente verso il senato, amministrò saggiamente l'impero evitando sperperi e non avviò nuove costruzioni importanti o riforme urbanistiche. Fu attento alle tradizioni religiose senza però perseguitare i culti non ufficiali. In questo periodo l'impero ottenne il pieno consenso delle élite cittadine e delle province, che beneficiavano ampiamente della Pax Romana.

Nel 368 - Gli Alemanni, confederazione di tribù suebe, travolgono Mogontiacum (Magonza, l'attuale Mainz) e costringono l'imperatore Valentiniano I ad accorrere, insieme al figlio ed augusto Graziano. I due imperatori passano il Reno e si spingono fino al fiume Neckar, dove ottengono un'importante vittoria sulle genti germaniche nei pressi di Solicinium, località posta fra Glauburg (nel circondario Wetteraukreis) a nord e Rottenburg am Neckar a sud. A Treviri però, a Valentiniano giunge notizia che la Britannia è stata devastata dai Pitti e dagli Scoti e Attacotti celti, che avevano ucciso inoltre i generali Nettarido e Fullofaude. I Pitti erano probabilmente una popolazione di origine pre-celtica, stanziata nell’antica Caledonia, in Scozia e menzionati per la prima volta alla fine del II secolo d.C., quando iniziarono una serie di scorrerie contro la provincia di Britannia. Sono state proposte due possibili etimologie per il loro nome. La prima prevede che esso derivi dal latino pictus (plurale: picti) che significa dipinto, forse a causa della loro abitudine di pitturarsi o tatuarsi i corpi nudi. Una seconda ipotesi etimologica suggerisce una derivazione dal gaelico peicta o dal gallese peith, "combattente". Non si conosce con quale nome i Pitti usassero definirsi. I gaelici d'Irlanda e Dál Riata chiamavano i Pitti Cruithne. C'erano anche dei Cruithne nell'Ulster, in particolare i sovrani del regno di Dál nAraidi. I britanni e i primi gallesi meridionali li conoscevano come Prydyn o Pryd. I termini "cruth" in antico inglese e "pryd" in gallese deriverebbero dal celtico comune *kʷritus che significherebbe "forma", ulteriori riferimenti alla pratica dei Pitti di tatuare i propri corpi. Da essi sarebbero derivate le attuali Pechts in scozzese e Fichti in gallese. Sebbene sia rimasto poco di scritto dei Pitti, la loro storia, a partire dal tardo VI secolo in poi, è conosciuta da una varietà di fonti, comprese le vite dei santi (come quella di Columba di Iona, scritta da san Adomnán) e da diversi annali irlandesi. Anche Isidoro di Siviglia citava «si tatuano il corpo secondo il loro rango». Caduto l’impero di Roma in quelle regioni, i Pitti, dopo varie lotte, si fusero con gli Scoti, popolo celtico originario dell’Irlanda che, nel IV secolo aveva invaso la Caledonia e da loro la regione trasse il suo nome, Scozia. Per alcuni studiosi, Attacotti (Ategutti nei testi latini) deriva dall'irlandese antico "aithechthúatha", che indicava gruppi di popolazioni di basso status esistenti in Irlanda e indicati in inglese con gli equivalenti di "tribù tributarie", "comunità vassalle" o "popoli tributari". La comparsa di Attacotti ostili nelle fonti romane negli anni sessanta del IV secolo corrisponde alle migrazioni dinastiche e tribali dall'Irlanda meridionale con insediamenti in Britannia. Successive tradizioni irlandesi e gallesi riguardanti questi movimenti di popoli hanno tramandato i nomi di alcuni gruppi irlandesi tributari, che sembrano essere stati costretti a spostarsi dall'espansione degli Eóganachta, un gruppo di clan che dominò il Munster nel tardo IV secolo. Secondo alcuni storici antichi, gli Attacotti erano una popolazione aborigena pre-indoeuropea della Britannia settentrionale. D'altronde, sono state scoperte numerose pietre monumentali a Caithness e in altre zone della Scozia del nord con iscrizioni in alfabeto ogamico che non rientrano nelle lingue indoeuropee. Valentiniano invia quindi in Britannia delle truppe al comando prima di Severo poi di Giovino e Protervuide ma, di fronte agli insuccessi subiti, decide di inviare nell'isola il valoroso comes (conte) Flavio Teodosio (il Vecchio, padre di Teodosio I) che, sbarcato in Britannia, riuscìrà a porre fine alle incursioni annientando gli invasori e ripristinando la pace. Il futuro usurpatore Magno Massimo combattè con Teodosio il Vecchio nella campagna in Britannia, distinguendosi per le sue qualità militari contro i Pitti.


Nel 375 - Durante il regno di Valentiniano I, l'impero è  ripetutamente devastato da invasioni barbariche. Nel 375, alla notizia di un'invasione da parte della tribù dei Quadi, si dice  che  Valentiniano I sia stato preso da un tale accesso di collera da stramazzare al suolo, morendo per un'emorragia cerebrale, anche se secondo altre fonti, l'imperatore Valentiniano I mosse guerra ai Quadi nei loro stessi territori a nord di Brigetio e fu proprio in questa località che l'imperatore si spense per un colpo apoplettico durante le trattative di pace, il 17 novembre del 375.  Brigetio (l'odierna Komárom ungherese, sul Danubio) era una località appartenente all'antica tribù degli Azali, di chiara origine illirica, ma con connotazioni anche celtiche, tanto che l'origine del suo nome deriverebbe proprio dal celtico brig-, col significato di "fortezza". Si trova nel territorio della moderna Ungheria, mentre in Slovacchia, al di là del Danubio sorge l'equivalente Komárno. 

Invasione di Iuti, Angli e Sassoni
nella Britannia romana, da QUI.
Dal 410 - I germani IutiAngli e Sassoni e altre popolazioni di stirpe germanica come i Franchi, invadono la Britannia. L'invasione, anche indicata come la colonizzazione anglosassone della Britannia, è l'insieme delle migrazioni avvenute nel V secolo d.C. di parecchie genti germaniche dalle coste occidentali dell'Europa continentale per insediarsi in Britannia, l'attuale Gran Bretagna. Non sono note date precise, ma si sa che l'invasione iniziò al principio del V secolo, dopo che le truppe romane avevano lasciato la Britannia nel 410, con l'iniziale sbarco dei Sassoni in prossimità del Vallo di Antonino, e proseguì per i decenni successivi. Il loro arrivo è chiamato Adventus Saxonum nei testi latini, una definizione utilizzata per la prima volta da Gildas verso il 540. L'Adventus Saxonum è considerato il punto di inizio della Storia dell'Inghilterra ed è tradizionalmente ritenuto un'invasione piuttosto che una colonizzazione, con date che differiscono e circostanze solamente ipotizzate. Qualunque possa essere la migliore data di inizio, una misura del successo iniziale che gli Anglosassoni ebbero giunse nel 441, quando la Cronica gallica del 452 registrò che la Britannia cadde sotto la dominazione sassone dopo aver subito molti disastri e razzíe, intendendosi con questo che per quella data tutti i contatti con la costa britannica erano stati interrotti. Il dibattito, sia fra gli studiosi sia in altri ambiti, è tuttora aperto in merito alle modalità e alle ragioni per le quali gli insediamenti anglosassoni ebbero successo, così come riguardo a quali fossero i rapporti fra Anglosassoni e Britanni romanizzati, in particolare in che misura i nuovi venuti cacciarono o sostituirono gli abitanti già presenti. I Britanni non romanizzati (Celti) che vivevano nell'ovest e nel nord della Britannia restarono in gran parte estranei all'insediamento degli Anglosassoni. L'unica fonte scritta affidabile e utile riguardante le genti note con il nome di Anglosassoni e i luoghi da cui provenivano è la Historia ecclesiastica gentis Anglorum, scritta verso il 731 dal Venerabile Beda. Essa identifica i migranti come Angli, Sassoni e Juti e afferma inoltre che i Sassoni venivano dall'Antica Sassonia e gli Angli dall'Anglia, che si trovava tra le terre di origine di Sassoni e Juti. Si ritiene ragionevolmente che l'Anglia corrisponda all'antico Schleswig-Holstein (lungo l'attuale confine tra Germania e Danimarca), includendo l'attuale Angeln. Lo Jutland era la patria degli Juti e la costa tra i fiumi Elba e Weser è il punto d'origine dei Sassoni.
Quando gli anglo-sassoni si trasferirono in Gran Bretagna, alcuni dei nativi gallesi celti (welsh, dalla parola germanica Welschen che designa gli "stranieri", parola che deriva dal nome della tribù celtica dei Volci Tectosagi che erano appunto confinanti e talvolta in guerra con le tribù germaniche e pertanto stranieri per questi) attraversarono la Manica e si stabilirono nella Bretagna Armoricana, nell'attuale Francia, portandosi la loro lingua madre che diventò in seguito il bretone, che rimane ancora oggi parzialmente intelligibile con il gallese moderno ed il cornico.

Dal 1.002 - Brian Bórumha mac Cennétig (Brian Boru) è sovrano supremo di tutta l'Irlanda, primo ed ultimo a riuscirci, fino al 1014.

Nel 1.014 - A Clontarf, in Irlanda, vengono sconfitti gli scandinavi "vichinghi" ormai stanziati nella vicina Normandia, che prenderà il suo nome da quegli stessi "normanni", uomini del nord. Nel X secolo, erano presenti due insediamenti nel luogo dove oggi sorge la moderna città di Dublino. Un insediamento vichingo, conosciuto come An Dubh Linn (o Black Pool, in riferimento a un laghetto di acqua nera, era chiamato Dyflin o Dyflinnaborg dai vichinghi), situato nella zona oggi conosciuta come Wood Quay, e un insediamento celtico, Áth Cliath ("guado recintato") più lontano, sul fiume. Dal nome dell'insediamento celtico deriva quello della città in lingua irlandese (Baile Átha Cliath), mentre il nome in inglese moderno deriva dall'insediamento vichingo. I vichinghi, o Ostmen nella loro lingua, dominarono Dublino per almeno tre secoli, malgrado la loro sconfitta da parte del Re Supremo d'Irlanda Brian Boru nella battaglia di Clontarf nel 1014. I Normanni si erano insediati in Irlanda durante il X secolo ed ebbero un effetto profondo sulla cultura, la storia e la composizione etnica (e anche sulla lingua) dell'Irlanda, con una fusione e una mescolanza molto rapida. I Normanni s'insediarono soprattutto nella parte orientale dell'isola verde, poi conosciuta come Pale, dove costruirono molti castelli e insediamenti, come quelli di Trim e di Dublino.

- Alan Stivell ha riproposto il canto An Alarc'h ('Il Cigno' in bretone) sulle gesta del duca Jean de Montfort (1339-1399) che lottò per l'autonomia della Bretagna Armoricana celtica. Giovanni IV di Montfort il Conquistatore, in bretone Yann IV, in francese Jean IV e tradizionalmente in fonti inglesi sia Giovanni di Montfort che Giovanni V, (1339 - 1 novembre 1399) è stato Duca di Bretagna e Conte di Montfort dal 1345 fino alla sua morte e 7 ° conte di Richmond dal 1372 fino alla sua morte. Era figlio di Giovanni di Montfort e di Giovanna delle Fiandre. Suo padre aveva rivendicato il titolo di Duca di Bretagna ma non era stato in grado di far valere la sua richiesta per più di un breve periodo e il solo re inglese la riconoscette, per cui nelle fonti francesi è indicato come "Giovanni IV" e suo padre semplicemente come "Giovanni di Montfort" (Jean de Montfort), mentre nelle fonti inglesi è conosciuto come "John V". Tuttavia l'epiteto di "The Conqueror" rende la sua identità inequivocabile. Nella prima parte della sua vita si combatteva la guerra di successione bretone, combattuta dal padre contro sua cugina Giovanna di Penthièvre e suo marito Carlo di Blois. Con il supporto militare francese, Carlo fu in grado di controllare la maggior parte della Bretagna. Dopo la morte di suo padre, la madre di Giovanni, Joanne, tentò di continuare la guerra in nome del  figlio e diventò famosa come "Jeanne la Flamme" per la sua personalità focosa. Tuttavia, alla fine fu costretta a ritirarsi con suo figlio in Inghilterra chiedendo l'aiuto di Edoardo III. In seguito fu dichiarata pazza e imprigionata nel castello di Tickhill nel 1343 e Giovanni e sua sorella Giovanna di Bretagna furono portati nella casa del re britannico. Giovanni tornò poi in Bretagna per reclamare il suo titolo con l'aiuto inglese  e nel 1364 ottenne una vittoria decisiva contro la Casata di Blois nella battaglia di Auray, con l'appoggio dell'esercito inglese guidato da John Chandos . Il suo rivale Carlo di Blois rimase ucciso nella battaglia e la vedova di Carlo, Joanna, fu costretta a firmare il Trattato di Guérande il 12 aprile 1365, secondo cui Joanna rinunciava ai suoi diritti sulla Bretagna e riconosceva John come unico padrone del ducato. Avendo ottenuto la vittoria con il sostegno inglese (ed essendosi sposato con un'esponente della famiglia reale inglese), il duca Giovanni IV fu costretto a confermare diversi baroni inglesi in posizioni di potere in Bretagna, specialmente come controllori di roccaforti strategicamente importanti nei dintorni del porto di Brest, permettendo così ai militari inglesi l'accesso alla penisola e consentendo che le entrate dalla Bretagna affluissero verso la corona inglese. I potentati inglesi in Bretagna causavano risentimenti negli aristocratici bretoni e alla monarchia francese, così come l'uso di consiglieri inglesi da parte di Giovanni. Tuttavia, Giovanni IV si dichiarava vassallo del re Carlo V di Francia e non di Edoardo III d'Inghilterra, pur non placando i suoi critici, che mal tolleravano la presenza di truppe e signori inglesi. A causa dell'ostilità della nobiltà bretone, Giovanni IV non fu in grado di ottenere un sostegno militare contro le mire del re francese Carlo V, che esercitava pressioni per il controllo della Bretagna. Senza il sostegno locale, nel 1373 Giovanni fu nuovamente costretto all'esilio in Inghilterra e il re francese Carlo V tentò di annettere il ducato di Bretagna alla Francia. Bertrand de Guesclin fu inviato per sottomettere il ducato al re francese con la forza delle armi nel 1378. I baroni bretoni si ribellarono e invitarono il duca Giovanni IV a tornare dall'esilio nel 1379. Giovanni sbarcò a Dinard e prese il controllo del ducato con il supporto dei baroni locali. Un esercito inglese al comando di Tommaso di Woodstock, primo duca di Gloucester, sbarcò a Calais e marciò verso Nantes per prendere il controllo della città. Tuttavia, Giovanni IV successivamente si riconciliò con il nuovo re francese, Carlo VI di Francia e pagò le truppe inglesi per evitare uno scontro. Da allora in poi governò il suo ducato in pace sia con la corona francese che con quella inglese per oltre un decennio, mantenendo i contatti con entrambe ma riducendo al minimo i legami aperti con l'Inghilterra. Tra il 1380 e il 1385, Giovanni IV costruì a Vannes il castello dell'Hermine (Castello di Hermine ), che divenne una fortezza difensiva e dimora dei duchi di Bretagna. Lo costruì per beneficiare della posizione centrale della città di Vannes nel suo ducato. Nel 1397, il duca Giovanni IV riuscì finalmente a liberare Brest dal controllo inglese usando pressioni diplomatiche e incentivi finanziari. Nel 1392 Pierre de Craon tentò di uccidere Olivier de Clisson, il Conestabile di Francia, un vecchio nemico del duca Giovanni e non riuscendovi fuggì in Bretagna. Si presumeva che il duca Giovanni fosse coinvolto nel complotto e Carlo VI ne approfittò per attaccare ancora una volta la Bretagna, ma prima di raggiungere il ducato il re fu vittima dalla follia. I parenti di Carlo VI incolparono Clisson e avviarono procedimenti legali contro di lui per minarne la posizione politica. Privato del suo status di Constable, Clisson si rifugiò nella stessa Bretagna dove si riconciliò con Giovanni (1397), diventando uno stretto consigliere del duca. Giovanni IV fu nominato cavaliere dal re Edoardo III tra il 1375 e il 1376 come membro dell'Ordine della Giarrettiera, unico duca di Bretagna ad aver ottenuto questo onore inglese. Il duca Giovanni IV si è sposato tre volte: 1) con Maria d'Inghilterra (1344-1362), figlia del re Edoardo III e Philippa di Hainault, da cui non ebbe figli; 2) con Lady Joan Holland (1350-1384), figlia di Thomas Holland, 1° conte di Kent e Joan of Kent, a Londra, nel maggio 1366, da cui non ebbe figli; 3) con Giovanna di Navarra (1370-1437), figlia del re Carlo II di Navarra e Giovanna di Valois, a Saillé-près-Guérande, vicino a Nantes, il 2 ottobre 1386 da cui ebbe nove figli. Dopo la morte di Giovanni, Giovanna di Navarra divenne reggente del figlio, Giovanni V duca di Bretagna e alla fine sposò il re Enrico IV d'Inghilterra. I figli di Giovanni e Giovanna di Navarra sono stati: Jeanne of Brittany ( Nantes , 12 agosto 1387-7 dicembre 1388); Isabella di Bretagna (ottobre 1388 - dicembre 1388); Giovanni V, duca di Bretagna (Château de l'Hermine, vicino a Vannes, Morbihan, 24 dicembre 1389 - Manoir de La Touche, vicino a Nantes, 29 agosto 1442); Maria di Bretagna (Nantes, 18 febbraio 1391 - 18 dicembre 1446), signora di La Guerche , sposò al castello de l'Hermine il 26 giugno 1398 Giovanni I di Alençon; Margherita di Bretagna (1392-13 aprile 1428), signora di Guillac, sposata il 26 giugno 1407 con Alain IX, visconte di Rohan e conte di Porhoët († 1462); Artù III, duca di Bretagna (Castello di Succinio , 24 agosto 1393 - Nantes, 26 dicembre 1458); Gilles of Brittany (1394 - 1412), signore di Chantocé e Ingrande; Riccardo di Bretagna (1395 - Castello di Clisson 2 giugno 1438), conte di Benon , Étampes e Mantes, sposò al castello di Blois, Loir-et-Cher il 29 agosto 1423 Margaret d'Orléans, contessa di Vertus , figlia di Luigi di Valois, duca d'Orléans; Bianca di Bretagna (1397 - prima del 1419), che sposò a Nantes il 26 giugno 1407 Giovanni IV, conte di Armagnac. Vedi anche https://it.wikipedia.org/wiki/Giovanni_V_di_Bretagna 


Lionel Royer: "Vercingetorige getta le
sue armi ai piedi di Cesare" (1899)
Musée Crozatier, Le Puy (F).
UN' IPOTESI SUL MOTIVO DEL TRAMONTO DEI CELTI
Come poté accadere, dunque, che un insieme di popolazioni così vasto e così socialmente strutturato, sia sul piano delle relazioni interne che nelle questioni politico-economiche internazionali, potesse essere sconfitto da un popolo meno numeroso, come quello romano? La risposta a questa domanda risiede essenzialmente in due soli concetti: unità e organizzazione militare. In primo luogo, si è in precedenza detto che è assolutamente scorretto parlare di un "popolo celtico": sia dai racconti degli storici romani che dagli scarsi documenti scritti celtici pervenutici (soprattutto da cronache irlandesi) risulta assolutamente evidente (21) che nessun celta, pur comprendendo di far parte di un vasto gruppo etno-culturale, sentisse alcun legame verso il proprio macro-insieme di popolazione.
Statua di Vercingetorige,
posta da Napoleone III
nel 1865 ad Alise-
Sainte-Reine.
I vincoli di fedeltà erano, tuttalpiù, personali verso un capotribù (con conseguente vincolo solo tribale), ma, in larga parte, unicamente sentiti verso il proprio nucleo familiare allargato, il clan. È ovvio che, con queste premesse, fosse praticamente impossibile per i  celti organizzare alleanze estese in funzione antiromana: solo in qualche caso, ad esempio contro Cesare, riuscirono ad organizzare qualche    forma di unione provvisoria e instabile tra tribù, ma furono   esperienze   limitate sia nel numero che nel tempo, che mancarono sempre della coesione necessaria ad affrontare una organizzazione sociale come quella romana, che faceva del culto patrio una sorta di religione di stato: la società dei Celti, sebbene nell’ultimo periodo della sua storia fosse arrivata ad un ragguardevole livello di organizzazione, purtroppo rimase sempre prigioniera delle proprie divisioni interne. Fu principalmente questo, e non la barbarie, l’ignoranza e l’arretratezza di un popolo che non aveva nessuna di queste tre prerogative, a determinare la loro sconfitta da parte dei Romani che ebbero la meglio prima sulle popolazioni insediatesi in Italia Settentrionale (la cosiddetta Gallia Cisalpina) e poi, con Cesare, anche su quelle che abitavano l’Europa continentale (la Gallia Transalpina). All’epoca delle guerre galliche, infatti, molte tribù non videro in Cesare l’“invasore”, ma solo un altro potenziale alleato con il quale stabilire eventuali intese. Così, anche di fronte ai Romani, le tribù celtiche non trovarono una ragione di unione, ma si divisero fra quelle che avevano deciso di sostenere Cesare e quelle che invece avevano risolto di combatterlo.
A parte le breve parentesi della ribellione guidata da Vercingetorige e dall'insurrezione capeggiata dalla regina Budicca, le varie popolazioni celtiche non fecero mai causa comune. In Britannia i Romani furono quasi debellati da Budicca (o Budikka, o Boadicea). Boudicca o Boudica, Boudicca, Buduica, Bonduca, oltre a molte altre forme (vissuta tra il 33 e il 60/61 d.C.), è stata una regina della tribù degli Iceni, che viveva nell'odierna zona di Norfolk (Inghilterra orientale). Guidò la più grande rivolta anti-romana delle tribù dell'isola. Molti sono i modi in cui è stato tramandato il nome della regina, a causa di diverse corruttele presenti in molti manoscritti medioevali, ma è ormai abbastanza certo che la forma corretta sia Boudicca o Boudica, derivante dalla parola celtica bouda, cioè vittoria (in irlandese bua e in gallese buddug). Il nome è attestato in alcune iscrizioni: Boudica in Lusitania, Boudiga a Bordeaux e Bodicca in Britannia. Basandosi sull'evoluzione del gallese e dell'irlandese, Kenneth Jackson conclude che la forma corretta del nome sarebbe stato Boudica. Le fonti principali su questi eventi sono Tacito e Cassio Dione Cocceiano.
Rappresentazione di
Budikka, o
Budicca (Boadicea),
regina di Britanni
La celtica Budicca, sovrana degli Iceni di Britannia conquistata dai Romani, è un esempio di donna che ha combattuto e portato un esercito in battaglia. Il marito, morendo, aveva lasciato il regno in eredità alle due figlie, ma ciò contrastava con la legge romana per la quale le donne non potevano ereditare; il re alleato era comunque tenuto a cedere il dominio a Roma dopo la propria morte. Budicca e le figlie vennero oltraggiate, lei con la fustigazione e le figlie con lo stupro, e le terre passarono sotto il dominio dei Romani. Evidentemente l’insulto non poteva essere accettato da questa donna, che viene riferita come alta e terrificante, forte di voce e di sguardo feroce, dalle chiome rosse e sempre armata di lancia. Budicca radunò diverse tribù e lanciò la sua ribellione, approfittando del malcontento dei Britanni sottomessi al giogo di Roma. Poiché il governatore Svetonio Paolino era impegnato in una campagna per soffocare la voce dei Druidi nell’isola di Anglesey, la reazione romana fu all’inizio incerta, e i ribelli riuscirono a bruciare la città di Colchester, sconfiggendo la IX legione che era intervenuta. Paolino guadagnò tempo per radunare i suoi reparti, lasciando in preda ai rivoltosi la città di Londra, che venne distrutta anch’essa. I Britanni di Budicca avevano così ucciso decine di migliaia di nemici, in buona parte anch’essi Britanni, ma romanizzati; allo scontro decisivo però la sapiente astuzia tattica di Svetonio Paolino li condannò a una sconfitta inequivocabile e pesantissima, tanto che Budicca sembra si sia avvelenata per non essere presa viva. La sua rivolta, pur partendo da una questione personale, aveva coinvolto l’intero popolo. Ma a parte le brevi parentesi di ribellione, le varie popolazioni celtiche non fecero mai causa comune. Fu questo il motivo di base della caduta di quella civiltà che, se solo più coalizzata, avrebbe potuto dominare su tutta l’Europa centrale (22). In secondo luogo (ma forse si potrebbe più propriamente parlare di un semplice corollario della ragione sopra accennata), forse proprio i punti di forza di quello che è oggi il  fascino peculiare dell'antico mondo celtico, la sua spiritualità e la sua individualità sfrenata, furono gli elementi che portarono al suo tramonto quando questo mondo entrò in contatto con la disincantata civiltà romana, che viveva agli opposti concettuali: alla spiritualità opponeva la prammatica praticità e all'individualismo, l'arma più distruttrice e dominatrice mai creata: le legioni romane, sottoposte a ferrea disciplina. L'individualismo guerriero venne meno al confronto con la fredda e calcolata strategia militare, nonostante i Celti fossero più numerosi dei romani e impugnassero armi spaventosamente più micidiali. «Se vuoi sapere come i Romani hanno conquistato il mondo conosciuto,» afferma il grande scrittore fantasy ed esperto di strategie militari David Gemmell (23), «la risposta è il gladio, la corta spada che usavano. Una lama di 18 pollici con cui effettui affondi è diversa da una spada di tre piedi con cui fai dei fendenti: questo significa che puoi stare spalla a spalla con i compagni, ed invece usare una lama calata di taglio ti costringe a mantenere una distanza di sei piedi in ogni direzione dai tuoi compagni. Non importa quanto i Celti superassero in numero i Romani, al momento del contatto in battaglia erano tre a uno per i Romani». Così, dunque, la più grande civiltà dell'età del ferro, con la sola eccezione di Scozia e Irlanda, venne sottomessa e inglobata nell'Impero, colonizzata e romanizzata, snaturandosi e finendo per "scomparire" per oltre 2.000 anni.

QUELLO CHE ANCORA VIVE DEI CELTI
Carta con il gallico italico.
Le lingue celtiche insulari sono le lingue celtiche  parlate ancora  oggi in Gran Bretagna, Irlanda, Isola di Man, Bretagna e sulla costa atlantica della Francia, che si contrappongono alle lingue celtiche continentali ormai estintesi fra cui il gallico ed i suoi parenti più stretti, il lepontico, il norico ed il galato. Queste lingue venivano parlate in un vasto spazio che andava dalla Francia fino alla Turchia, dal Belgio fino all'Italia settentrionale, dove sopravvive nei dialetti di LombardiaEmilia-RomagnaPiemonte  Liguria.
Croce Celtica di Muiredach,
del X sec., alta 7 m., a
Monasterboice in Louth,
in Irlanda.
Complessivamente si stima che le lingue celtiche insulari siano parlate da circa 900.000 persone. La più diffusa è la lingua gallese, con 526.000 locutori censiti nel Regno Unito nel 2011. Segue la lingua bretone, che contava 206.000 locutori nel 2007. La lingua gaelica irlandese, o semplicemente lingua irlandese, è parlata da 106.210 persone, di cui 72.000 censite nel 2006 nella Repubblica d'Irlanda. Per la lingua gaelica scozzese si stimano 63.130 locutori. La lingua cornica e la lingua mannese, un tempo considerate estinte, al censimento del Regno Unito del 2011 risultavano essere la lingua principale, rispettivamente, di 557 e 33 persone. La lingua gaelica iberno-scozzese era diffusa in Irlanda e Scozia, ma è ritenuta estinta dal XVIII secolo. Secondo Ethnologue, la classificazione delle lingue celtiche insulari è la seguente: Lingue brittoniche: lingua bretone [codice ISO 639-3 bre], lingua cornica [cor], lingua gallese [cym]. Lingue goideliche o gaeliche: lingua gaelica iberno-scozzese [ghc], lingua gaelica irlandese [gle], lingua gaelica scozzese [gla], lingua mannese [glv]. Altri studiosi distinguono invece un celtico-Q da un celtico-P, a seconda dello sviluppo della consonante indoeuropea . La lingua bretone è brittonica, non gallica. Quando gli anglo-sassoni si trasferirono in Gran Bretagna, alcuni dei nativi gallesi (welsh, dalla parola germanica Welschen che designa gli "stranieri", parola che deriva dal nome della tribù celtica dei Volci Tectosagi che erano appunto confinanti e talvolta in guerra con tribù germaniche e pertanto stranieri per questi ultimi) attraversarono la Manica e si stabilirono in Bretagna, portandosi la loro lingua madre che diventò in seguito il bretone, che rimane ancora oggi parzialmente intelligibile con il gallese moderno ed il cornico. Per tutte, il sistema di scrittura è l'alfabeto latino.
Decorazione in legno Celtica: Lupi annodati
Note:
(1) Gaio Giulio Cesare, De Bello Gallico, passim (“Qua e là”).
(2) Strabone, Geografia, libri III, IV, VI , VII.
(3) Tito Livio, Storia di Roma, libro V.
(4) Cassio Dione Cocceiano, Storia di Roma, libri LI-LIV.
(5) C. Renfrew, Archeology and Language - the Puzzle of IndoEuropean Origins, Penguin, Londra 1989.
(6) Ad esempio, J. Layard, I Celti - alle radici di un inconscio europeo, Xenia, Milano 1995, pp. 28-42.
(7) Ad esempio, L. Melis,  Shardana - I Popoli del Mare, CDE, Cagliari 2002, passim e L. Sudbury, Hanebu. I Popoli Perduti che Crearono il Mediterraneo, in Hera, dicembre 2007.
(8) P. Berresford Ellis, The Celts, Carroll & Graf, Manchester 2003, passim.
(9) Ad esempio,  B. Cunliffe, The Ancient Celts, Penguin, London 2000, pp. 36-48.
(10) L. Sudbury, BarBar o «della genericità», www.storiamedievale.net, gennaio 2008.
(11) Tra gli altri, B. McEvoy, M. Richards, P. Forster, D. G. Bradley, The Longue Durée of Genetic Ancestry: Multiple Genetic Marker Systems and Celtic Origins on the Atlantic Facade of Europe, in The American Journal of Human Genetics, ottobre 2004.
(12) B. Cunliffe, The Oxford Illustrated Prehistory of Europe, Oxford O.U.P, 1994, pp. 250-254.
(13) J.Collis, The Celts: Origins, Myths, Invention, Tempus, London 2003, passim.
(14) P. Berresford Ellis, The Celts cit., pp. 112-141.
(15) J. Carey, J.T. Koch, The Celtic Heroic Age: Literary Sources for Ancient Celtic Europe & Early           Ireland & Wales, David Brown Book Company, Cardiff 2003, pp. 81.
(16) Alcune parti riguardanti società, nonché parti della storia dei Celti nella penisola italica sono tratte da www.lacerchia.it
(17) Le parti riguardanti, i Liguri, i Celtoliguri ed i Celti nel Senato Romano è a cura di chi scrive.
(18) Le parti riguardanti i Senoni, Ambroni Cimbri e Teutoni sono tratte da Wikipedia.
(19) J. De Galibier, L'epopea dei Celti. Storia e Mistero, Keltia, Aosta 1998, passim e www.celticanapoletana.org.
(20) Parti tratte da "Il Vischio e la Quercia" di Riccardo Taraglio ed. L'Età dell'Acquario
(21) Un'ampia sintesi è rinvenibile in J. Carey, J.T. Koch, The Celtic Heroic Age: Literary Sources for     Ancient Celtic Europe & Early Ireland & Wales cit., passim.
(22) C.Nicolet, Rome et la Conquête du Monde Méditerranéen, tomo I, PUF, Parigi 2001, pp. 409 ss. e   www.signainferre.it.
(23) Citato in F. Truppi, La riscoperta di una civiltà, in www.celticworld.it.

Torques celtico con teste di Drago.

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