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martedì 22 gennaio 2019

Storia dell'Europa n.19: dal 500 al 450 p.e.v. (a.C.)

Cartina della massima espansione
del commercio fenicio nel Mare
Mediterraneo (nel 500 a.C.) nelle
aree blu. Sono indicate le maggiori
città mediterranee e l'antica Grecia
con le sue maggiori città in verde.
Nel 500 a.C. - Si ha la massima espansione del commercio Fenicio.

Carta geografica tratta dalla rivista
"Ecco i Fenici", supplemento a
"La Stampa" n.48 del 3 marzo 1988,
p.64. Sono evidenziate le principali
vie del commercio nell'antichità storica
aventi come protagonisti i mercanti e
gli esploratori fenici quando avevano
ormai conquistato Tartesso e i mercati
oltre le colonne d'Ercole, appannaggio
dei proto-Liguri.
- Dal V° secolo a.C.  Tartesso, citata più volte nelle scritture ebraiche ('Tarshish', conosciuta anche come 'Tarsis' o 'Tarsisch'), non esisterà più: non ci è noto il motivo, se naturale o per assoggettamento da parte dei Cartaginesi. Nella Bibbia Tartesso è citata in ventuno paragrafi, undici volte nei libri dei Profeti e sei volte in altri libri. Sembra quindi che la parola Tartesso sia di origine semitica, e potrebbe significare "fine della terra". E' singolare il continuo rimando biblico alle cosiddette "navi di Tarsis", in cui si portavano enormi tesori e che riuscivano a fare viaggi lunghi e difficili. Ezechiele 27, 12 dice: "Tarschisch commerciava con te (Tiro), a causa della moltitudine di mercanzie di cui disponeva: argento, ferro, stagno e piombo." Tartesso, indicata come Tarsis (o Tarshish, o Tarsish) nei testi biblici:
Nave da guerra assira di produzione
fenicia, VII secolo a.C., da Ninive,
Palazzo Sud-Ovest, stanza VII,
pannello 11 (Londra, British
Museum), da QUI e QUI.
- "I re di Tarsis e delle isole deve offrire i loro doni ..." - Bibbia, Libro Secondo dei Salmi, 72,10.
- "Tutti i calici di re Salomone erano d'oro (...) Non c'era argento, nessun caso ha fatto nulla di tutto questo nei giorni di Salomone, quando il re aveva in mare le navi di Tarsis con Hiram e ogni tre anni venivano le navi di Tarsis portando oro, argento, avorio, scimmie e pavoni." E segue: "Hiram, re di Tiro (969-936 a.C.) di potenza fenicia, successore di Sidone. Questo re aveva stabilito accordi con il re Davide, durante la costruzione del Palazzo Reale e il Tempio di Gerusalemme, e poi con Salomone." - Bibbia, I Re, 10, 21-22.
- "Perché gli dèi delle nazioni sono vane: un albero del bosco, il lavoro delle mani del maestro con l'ascia lo interruppe con argento e oro impreziosisce, provenienti da Tarsis laminato argento, oro di Ofir e maestro lavorazione mani orafo, di blu e porpora e di scarlatto è il suo vestito, tutti sono il lavoro degli artigiani. Con il martello e chiodi che tengono in modo che non si muova. Sono come spaventapasseri nei campi, che non parlano. Bisogna portarli, perché non possono camminare. Non abbiate paura di loro, perché non fanno nulla di buono o cattivo." - Bibbia, in Geremia, (nato nel 645 a.C.) 10, 3.
- "(Descrizione di Tiro e di ricchezza). Tarsis commerciava con te in abbondanza tutti i tipi di prodotti: argento, ferro, stagno e piombo per la vostra merce (...) Le navi di Tarsis erano le tue carovane che portano merci. Così si diventa ricchi e ricchi nel cuore dei mari." - Bibbia, Ezechiele, (inizio sec. VI a.C.) 27, 12.
Carta geografica del sud dell'Iberia (Spagna) alla
 fine del I° secolo a.C.: risulta che all'epoca romana
(principato di Augusto) di Tartesso già non c'è già
più traccia, ma il golfo che attualmente prende il nome
dalla città di Cadiz (Cadice, antica Gadira o Gades) si
chiamava allora Tartessius Sinus (golfo di Tartesso).
- "Giona si levò per fuggire a Tarsis, lontano dal Signore, scese a Giaffa, dove trovò una nave che doveva andare a Tarsis. Ha pagato il prezzo della corsa e scese in essa per andare con loro in Tarsis dal Signore." - Bibbia, Giona, (IV sec. a.C.) 1, 3.
Dal Blog "Sanremo Mediterranea":
per il post "Tartesso: prima i Liguri, poi Fenici e Greci", clicca QUI.
Per il post "Ercole e altri miti a Tartesso", clicca QUI.
Per il post "Il Lago Ligure nella mitica Tartesso", clicca QUI.
Per il post "Tartesso: l'Economia", clicca QUI.

Verso il 500 a.C. i Galli Cenomani, insediati stabilmente nell'attuale bassa Lombardia orientale e nel basso Veneto occidentale, ossia nel territorio compreso tra il fiume Adige e l'Adda, risalirono alla conquista delle valli alpine combattendo contro le popolazioni indigene. A loro si opposero fieramente gli Stoni. Ne deve essere seguita una convivenza inizialmente difficile, che portò lentamente a una popolazione abbastanza omogenea, tanto che i Romani li identificano  con l’unica denominazione di Reti.

Carta delle popolazioni Celtiche in Europa. Clicca per ingrandire.

Le vie dell'ambra nell'Europa
del 500 a.C..
- Dal V al I secolo a.C., i Germani premettero costantemente verso sud, venendo a contatto (e spesso in conflitto) con i Celti e, in seguito, con i Romani. Lo spostamento verso sud fu probabilmente influenzato da un peggioramento delle condizioni climatiche in Scandinavia tra il 600 a.C. e il 300 a.C. circa. Il clima mite e secco della Scandinavia meridionale (una temperatura di due-tre gradi più elevata di quella attuale) peggiorò considerevolmente, il che non solo modificò drammaticamente la vegetazione, ma spinse le popolazioni a cambiare modi di vivere e ad abbandonare gli insediamenti. Intorno a tale periodo questa cultura scoprì come estrarre il "ferro di palude" (limonite) dal minerale nelle paludi di torba. Il possesso della tecnologia adatta ad ottenere minerale di ferro dalle fonti locali può aver favorito l'espansione in nuovi territori. Nell'area di contatto con i Celti, lungo il Reno, i due popoli entrarono in conflitto. Sebbene portatori di una civiltà più articolata, i Galli subirono l'insediamento di avamposti germanici nel loro territorio, che diedero origine a processi di sovrapposizione tra i due popoli: insediamenti appartenenti all'uno o all'altro ceppo si alternavano e penetravano, anche profondamente, nelle rispettive aree d'origine. Sul lungo periodo, a uscire vincitori dal confronto furono i Germani, che qualche secolo più tardi sarebbero dilagati a occidente del Reno. Identico processo si sarebbe verificato, a sud, lungo l'altro argine naturale alla loro espansione, il Danubio. Dal Blog "Sanremo Mediterranea": Per il post "Dal Ligure al Celtico, dagli antichi alfabeti dell'Italia Settentrionale al Runico", clicca QUI.

Carta della Venetia, X Regio della Roma Imperiale.
Clicca sull'immagine per ingrandirla.  
- Nel V secolo a.C. i Veneti vennero a contatto, ad occidente con i Galli: ad ovest si stanziarono i Galli Cenomani (con cui si sarebbero alleati, insieme ai Romani), a sud i Boi (con cui invece furono sovente in guerra) e a nord-est i Carni. A ad est e a sud-est rimasero prevalentemente in contatto con le popolazioni illiriche. Anche all'interno del Veneto vi fu qualche stanziamento di Galli, anche se in minima entità, probabilmente non sempre di tipo pacifico. L'influsso culturale celtico diventò comunque via via importante, e la cultura veneta lentamente mutò e si adeguò ai tempi; sempre importante si mantenne il rapporto con le popolazioni balcaniche di oltre Adriatico come quelle illiriche, con cui i Veneti venivano facilmente confusi dagli storici greci e che furono considerati parenti stretti dei Veneti fino al primo Novecento. Successivamente divenne decisivo il contatto con la civiltà romana, anche per i reiterati rapporti di alleanza che legarono i Veneti ai Romani e per la tradizionale ipotesi di parentela tra Veneti e Latini. La cultura veneta venne assimilata in quella romana già in età tardo repubblicana, anche se alcune specificità venete rimasero, presumibilmente, nelle zone marginali anche in tarda età imperiale.
Cavallo degli antichi Veneti o Venetici.
Il cavallo, chiamato Ekvo dai Veneti antichi, animale-totem della protostoria dell'Europa, giocò nella loro cultura un ruolo di prim'ordine. Questi animali erano allevati per la loro valenza economica e come simbolo di predominio aristocratico e militare. I cavalli dei Veneti erano noti per la loro abilità nella corsa ed erano spesso riprodotti negli ex voto, nelle aree più sacre. Centinaia di bronzetti a forma di cavallo o di cavaliere su cavallo provengono dai luoghi di culto dei Veneti. Al cavallo erano riservati appositi spazi di sepoltura nelle necropoli. Il cavallo compare in vari manufatti come immagine simbolica o elemento decorativo.

- In Grecia, le due città greche più importanti, Atene e Sparta, erano divise quasi su tutto: avevano diversi interessi, diversi rapporti fra le classi, diversa concezione della vita e della cultura. E anche, naturalmente, una diversa concezione della guerra.
Opliti Spartiati - Clicca sull'immagine per ingrandirla.
Per quanto fin dalla sua fondazione, nel 1.200 a.C., Sparta eccellesse per le proprie produzioni artistiche e, ad esempio, per i propri cori religiosi, probabilmente a causa della migrazione in Arcadia di molti esponenti della tribù di Beniamino (vedi eventi del 1.140 a.C.), nel 750 a.C. aveva rinunciato a produrre arte, poesia, artigianato in bronzo e ceramica, vanto del centro religioso che era stato e decise di occupare la Messenia (di un'estensione di 8.000 Kmq.) assoggettando la sua società e le sue grandi risorse agricole e di ferro; si dovette così concentrare a dominare una popolazione di 250.000 uomini con 10.000 guerrieri. Per organizzarsi a questo scopo, Sparta si era trasformata in una società militarista egualitaria: ogni cittadino-guerriero spartiato aveva la stessa quantità di terre degli altri, non disponeva di denaro e non poteva vestirsi in maniera diversa dalla moltitudine. Gli Spartani, vivevano nel continuo timore di una rivolta dei propri sudditi, gli iloti, che essi trattavano con una durezza senza confronti nel mondo greco.
Costituzione di Sparta. Clicca sull'immagine per ingrandirla.
Pertanto, non potendo contare su una sottomissione e una fedeltà spontanee, dovevano organizzarsi, nella propria terra, come un esercito accampato in una regione straniera. I maschi adulti passavano l'intera vita sotto le armi, mentre la giovinezza era solo una breve preparazione alla vita militare. Gli Spartani fondavano la propria sicurezza interamente sull'affidabilità del proprio esercito, al punto che non vollero mai proteggere con mura la propria città pur essendo, alla lettera, circondati da nemici. In questo modo essi si guadagnarono la fama di essere grandi combattenti e Sparta veniva considerata la maggiore potenza militare della Grecia, e rappresentava un modello di virtù.
Le armi di un oplita greco
del 500 a.C.: elmo,
corazza, lancia di cui
si vede solo la punta,
spada. Clicca per
ingrandire.
Diversa era la situazione ad Atene all'inizio del secolo. Lì  non si passava la vita sotto le armi, anzi, non c'era nessuno che facesse il soldato per professione: i cittadini venivano chiamati di volta in volta alle armi, in caso di necessità, sotto il comando di capi militari (gli strateghi) che venivano eletti di anno in anno. Nonostante che, dopo la riforma di Clistene, le cariche pubbliche venissero sorteggiate fra tutti gli aventi diritto, a quella di stratega veniva attribuita una componente di competenza tecnica, per cui era riservata, per comune consenso, alle persone riconosciute più esperte. Una cosa però accomunava le tecniche di guerra di Ateniesi e Spartani (e in realtà di quasi tutti i Greci) al momento dell'invasione persiana: per gli uni come per gli altri, il nerbo dei rispettivi eserciti era costituito dalla fanteria oplitica.
Costituzione di Atene. Clicca sull'immagine per ingrandirla.
Gli opliti (da Yoplon, lo scudo tondo del diametro di un metro, in legno ricurvo corazzato in bronzo od ottone) erano cittadini liberi, appartenenti per lo meno al ceto medio, i quali potevano permettersi di equipaggiarsi con la pesante armatura di bronzo adottata dalle armate greche fin dalla fine dell'VIII secolo a.C. L'equipaggiamento difensivo (chiamato panoplia) era composto da una corazza, sagomata in modo da avere la forma di un torso maschile, a protezione del busto; da un elmo, sempre di bronzo, che riparava anche il naso e le guance; da protezioni metalliche per la parte inferiore delle gambe; infine dal grande scudo argivo (Yoplon), da cui derivava appunto il termine 'oplita'. Le armi offensive erano una lancia e una spada di ferro. La fanteria oplitica combatteva in formazione serrata e pertanto si muoveva con lentezza, ma con efficacia, ed era in grado di resistere anche a una carica di cavalleria. L'armatura di bronzo bastava spesso a proteggere i soldati dalle frecce scagliate da lontano, o anche da una lancia scagliata senza sufficiente forza e precisione. Per sconfiggere gli opliti, dunque, era necessario affrontarli a distanza ravvicinata.
Modalità dell'ostracismo, praticato ad Atene.
L'introduzione di questo modo di combattere soppiantò i combattimenti individuali sui carri trainati da cavalli e i duelli tra aristocratici raccontati da Omero nelle gesta degli eroi Micenei. Poiché per costruire una falange occorreva un gran numero di uomini e grazie al fatto che l'oplita non aveva bisogno del cavallo, che doveva essere spesato dal cavaliere, quindi un'aristocratico, artigiani e mercanti entrarono a far parte dell'esercito ottenendo il diritto di cittadinanza: questo permise che il potere militare finisse nelle mani dei comuni cittadini. Pertanto l'introduzione della guerra oplitica fu uno dei fattori che contribuì a minare il primato dell'aristocrazia, che perse il predominio sulla forza militare. Alla lunga la nuova tecnica di combattimento finì con il creare tensioni anche all'interno della disciplinatissima società spartana. Comunque ad Atene e in molte altre città il potere politico era passato nelle mani dell'assemblea dei cittadini.
La falange greca, formazione serrata con cui
combattevano gli Opliti dell'antica Grecia.
Questa situazione creò ulteriori tensioni fra Sparta e Atene: entrambe, infatti, costituivano un modello per le opposizioni interne, rispettivamente appoggiate dall'esterno dall'una e dall'altra città. Fu su questo sistema politico fragile e attraversato da laceranti contrasti che si abbattè, nel 490 a.C., la temibile macchina da guerra dell'esercito persiano. Dario inviò in Grecia una potente flotta e un corpo di spedizione forte di ventimila uomini, del quale facevano parte molte truppe non iraniche (questo contingente era in effetti poca cosa per l'esercito del Gran Re, ma era pur sempre più del doppio dell'esercito ateniese). 

Ecateo di Mileto, (Mileto, 550 - 476 a.C.) è stato un geografo e storico greco antico. Visse attorno al 500 a.C. e fu tra i primi autori di scritti di storia e geografia in prosa del mondo greco. I logografi erano uomini che viaggiavano molto e descrivevano i paesi che visitavano nei loro vari aspetti: cultura, storia, geografia del luogo in cui vivevano, tradizioni, usi, costumi, religione. Grazie ai suoi numerosi viaggi lungo l'ecumene, la terra abitata conosciuta allora e formata dall'impero persiano, dalla Grecia, dall'Egitto, dal bacino del Mediterraneo, egli disegnò una carta geografica che perfezionava quella di Anassimandro e fu autore di una Periégesis, forse conosciuta da Erodoto. Essa rappresenta la fase intermedia tra poesia epica e storiografia. Figlio di Egesandro, aristocratico, si vantava, secondo quanto racconta Erodoto (Storie, II, 143), di avere avuto, nella propria genealogia, un dio per antenato della sedicesima generazione: i sacerdoti egiziani del dio Amon gli mostrarono nel tempio ben 345 statue di sacerdoti della stessa stirpe e il più antico di essi era ancora un uomo. Il senso dell'episodio sembra essere che egli cominciasse a considerare razionalmente i miti e a basarsi sui fatti per valutare le tradizioni. Sempre Erodoto (Storie, V, 36) racconta che al tempo della rivolta delle città ioniche contro i persiani (500 - 494 a.C.) Ecateo consigliò di costruire una flotta utilizzando il tesoro del tempio dei Branchidi per poter combattere con successo e fu poi tra gli ambasciatori che trattarono la pace col satrapo Artaferne; anche questo episodio mostrerebbe la sua spregiudicatezza e la sua noncuranza per ciò che allora era considerato sacro e inviolabile. Le Genealogie (Geneelogiai) sono una sua opera in 4 libri di natura storica, con un'esposizione di avvenimenti mitici ordinati cronologicamente per generazioni, in cui una generazione corrisponde a circa quarant'anni. Probabilmente Ecateo considerava il periodo dai deucalionidi, da Prometeo a Eracle. Restano una trentina di frammenti dai quali non si può ricavare carattere e distribuzione della materia trattata anche se sono considerate un tentativo di razionalizzare gli elementi mitici della storia primitiva della Grecia. Nel II libro erano narrati alcuni miti di Eracle e nel IV delle leggende milesie, del popolo degl'Itali e dei Morgeti. Restano frammenti anche del Giro della Terra (Periegesis), opera di natura geografica, pubblicata alla fine del VI secolo, in due libri riguardanti l'Europa e l'Asia, una descrizione di luoghi visitati, con indicazione delle distanze e osservazioni etnografiche: secondo Erodoto, disegnò una carta geografica che rappresentava la Terra come un disco rotondo circondato dall'Oceano, concezione del resto a lui anteriore.
Ecumene di Ecateo di Mileto.
Clicca sull'immagine
per ingrandirla.
Esordisce nelle Genealogie con la perifrasi "os emoi dokei", "io scrivo cose che credo vere; invece molti racconti greci sono ridicoli". Questa fu una delle prime individualizzazioni dell'autore nella storia della letteratura, mentre in precedenza (basti pensare ai poemi omerici) lo scrittore non compare nell'opera, anzi essa è raccontata dalla musa per mezzo del poeta, non è frutto della fantasia o dell'abilità del poeta stesso. Considerando leggende molte tradizioni della sua terra, cerca di comprendere i miti, razionalizzandoli: così, per esempio, spiega la leggenda di Eracle che, nel capo Tenaro, scende nell'Ade per portare il cane infernale Cerbero a Euristeo, verificando che in quel luogo non c'è nessuna strada sotterranea e nessun ingresso all'Ade; dunque, secondo lui, Eracle ha semplicemente catturato in quel luogo un comune serpente chiamato, per la sua velenosità, cane dell'Ade. In questo modo il mito viene adattato ai tempi ma mantenuto, perché Ecateo non interpreta e mantiene reali Eracle e l'Ade, che sono i fondamenti della leggenda. È il limite di ogni razionalizzazione: in realtà le mitologie vanno spiegate storicizzandole, cioè comprendendo come e perché siano sorte, altrimenti vengono soltanto modificate, creandone altre, come infatti la storia insegna. Ma Ecateo non poteva “storicizzare”, proprio a causa dell'inesistenza, ai suoi tempi, di una storiografia e perciò di una metodologia storiografica e tuttavia, per il suo sforzo di mettere in discussione le narrazioni del passato, per la ricerca della verosimiglianza dei fatti e il rifiuto dell'autorità, merita il nome di padre della storiografia greca.

Dal 499 a.C. - Iniziano gli eventi che porteranno in Grecia le Guerre Persiane: Creso, re di Lidia, che aveva sottomesso le città greche della costa ionica nel 546 a.C. è rovesciato da Ciro il Grande, re di Persia, che si annette anche le città greche dell'Asia Minore.
Bronzetto raffigurante
un Guerriero Greco.

- Nello stesso anno si verifica la prima ribellione delle città greche contro il potere persiano, fomentata dalla città ionica di Mileto, a cui Atene si allea e gli fornisce navi. I Greci milesi incendiano Sardi, vicino capoluogo della Satrapia  Persiana: nell'incendio viene distrutto il tempio di Cibele. Anche Focea aderisce alla rivolta ionica contro Dario I di Persia e Dionisio di Focea comanda la flotta ionica nella battaglia di Lade (494 a.C.), in cui i Focesi poterono schierare solo tre navi su un totale di 350. I persiani vinsero la battaglia e poco dopo schiacciarono la rivolta. A Dario viene riferito che è stata Atene a fornire aiuto alle pòleis Greche ribelli.

Nel 494 a.C. - Il re di Persia Dario saccheggia Mileto e ristabilisce il controllo sulla Ionia, ma chiede ad un servitore di ricordargli, ogni giorno prima dei pasti, della pericolosità degli Ateniesi.

Nel 491 a.C. - A capo di una grande flotta, Dario si dirige su Atene, ma la flotta è distrutta da una tempesta.

Cartina geografica politica con i nomi delle regioni e
province dell'antica Grecia durante le Guerre Persiane
 con le spedizioni persiane di Dati - Ertafeme e Serse,
i percorsi e le battaglie (490- 480 a.C.).
Nel 490 a.C. - Dati, generale del re persiano Dario, intraprende la seconda spedizione (prima guerra persiana) verso Atene. Sapendo che l'armata persiana si dirige su Atene, gli ateniesi chiedono aiuto a Sparta, che detiene la supremazia militare ellenica; Sparta risponde che sono in atto celebrazioni religiose e che al momento non manderanno aiuti. La grande armata persiana è sconfitta a terra dagli Ateniesi guidati da Milziade, che adotta un'astuta strategia di battaglia, a Maratona. Milziade non sa se la flotta Persiana ha raggiunto Atene, e invia un messaggiero, il più veloce e resistente che ha, Filippide, ad avvertire i concittadini della vittoria. Dopo i 42 chilometri di corsa, Filippide riuscirà solo a pronunciare "Nike", "vittoria" e morirà d'infarto. Da questo episodio nasce la maratona sportiva.

Dal 487 a.C. - Ad Atene si assiste al declino del potere dell'Areopago, grazie alla rivoluzione democratica già avviata nel 508/7 a.C. da Clistene, la cui costituzione aveva assegnato il potere a una Bulé composta da cinquecento membri, sorteggiati da una lista di candidati precedentemente eletti dalle tribù ateniesi.

Dal 482 a.C. - Si combattono le guerre fra Roma e Veio. Nel capitolo 43 del suo secondo libro, Tito Livio cita i Veienti: siamo al consolato di Quinto Fabio Vibulano e Gaio Giulio Iullo, ovvero nel 482 a.C. circa. I Veienti, approfittando dell'impegno di Roma per riprendere la supremazia sulle popolazioni latine, ripresero (oppure non avevano smesso) le armi venendo a stento tenuti a freno. L'anno successivo, consoli Cesone Fabio Vibulano e Spurio Furio Fusone, «Gli Equi attaccarono una città latina, Ortona e i Veienti, ormai sazi di bottino, minacciavano di attaccare la stessa Roma.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 43, op. cit.). Gaio Giulio partì contro gli Equi. Fabio portò l'esercito contro Veio. Una pagina nera nella storia dell'esercito romano. Per i motivi di frizione sopra sommariamente descritti, nonostante la bravura militare del console che schierò le truppe per consentire alla sola carica della cavalleria di sgominare il nemico, i fanti, componenti della plebe, si rifiutarono persino di inseguire i nemici in fuga, volsero le spalle e ritornarono agli accampamenti. L'anno seguente l'aristocrazia cambiò tattica: sotto l'impulso di Appio Claudio il senato iniziò a cercare l'aiuto di almeno uno dei tribuni per metterlo contro il collega e neutralizzare, con una forza uguale e contraria, i difensori della plebe. La posta era una delle molte ripresentazioni di una legge agraria che voleva contrastare lo strapotere dei ricchi possidenti. Questi, per potenza economica o politica riuscivano spesso ad impossessarsi dei terreni conquistati dall'esercito dirigendo gli sforzi dell'intera popolazione (anche della plebe) verso poche e ricche tasche. La mossa politica riuscì e «avvenne la partenza per la guerra contro Veio, cui erano giunti aiuti da ogni parte dell'Etruria non per particolare gratitudine ai Veienti, ma per la speranza che quella fosse l'occasione in cui Roma, logorata dalla lotta intestina, potesse subire il tracollo.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 44, op. cit.). La descrizione dei prodromi della battaglia e del suo svolgimento, delle astute resistenze di consoli ad attaccare per aumentare la vergogna e quindi l'ira dei Romani, gli atti di eroismo dei semplici combattenti e dei componenti la gens Fabia che affiancavano il consanguineo console Quinto Fabio e della morte dell'altro console Gneo Manlio Cincinnato merita una voce a sé stante. Questa, ad ogni modo, è la prima descrizione accurata di una battaglia fra Romani e Veienti. In questo periodo i Fabi sorsero in grande importanza all'interno di Roma, la famiglia dava ogni anno un console alla città. L'anno successivo, infatti, Cesone Fabio Vibulano salvò Roma da un attacco dei Veienti che il collega del console, Tito Virginio Tricosto Rutilo aveva sottovalutato. Da quel momento con i Veienti si instaurò una situazione di "non-pace e non-guerra" con azioni di puro brigantaggio nei territori avversari. Gli etruschi non affrontavano le legioni romane ritirandosi dentro le mura e quando i Romani si allontanavano uscivano per compiere razzie. Poiché gli eserciti di Roma erano spesso impegnati in vari altri fronti, i Fabii giunsero a chiedere una sorta di appalto della guerra contro Veio. La città poteva portare i suoi eserciti contro Equi e Volsci; la gens Fabia avrebbe preso su di sé l'intero peso della guerra con Veio, impegnandosi a «salvaguardare l'autorità di Roma nel settore e condurre la guerra come un affare di famiglia finanziandola privatamente senza che la città dovesse impegnare né denaro né uomini.». (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 48, op. cit.). La guerra con Veio diventò endemica generando un famoso episodio della storia di Roma. I Fabii condussero la guerra, una sorta di bracconaggio invero, provocando i Veienti, rubando le loro messi e le loro mandrie, resistendo agli attacchi dei nemici fino a quando questi, stanchi di "perdere la faccia", non si organizzarono, articolando una trappola e trucidando tutti i componenti della gens Fabia nella Battaglia del Cremera. Era il 13 luglio del 477 a.C.; dei Fabii rimase un solo componente, il futuro console Quinto Fabio Vibulano. Come conseguenza i Veienti ripresero coraggio e arrivarono persino al Gianicolo senza saper approfittare dell'occasione. Si fecero sconfiggere nuovamente con un trucco simile a quello utilizzato contro i Fabii e vennero sterminati.

Carta con le Termopili e altre battaglie
con i percorsi dei persiani.
Nel 481 a.C. - Il re persiano Serse I, figlio di Dario, attraversa l'Ellesponto (antico nome dello stretto dei Dardanelli) con un'armata composta da più di 200.000 uomini e fiancheggiata da centinaia di navi (seconda guerra persiana). Capendo che tutta la Grecia è a rischio, si costituisce una lega panellenica, a cui Sparta concederà Leònida, uno dei suoi due re e 300 opliti, il meglio della guardia reale.
Dopo aver sopraffatto al costo di numerosi reparti del suo esercito, compresi gl'immortali, la guardia del grande re persiano, i trecento spartiati del re Leònida e il migliaio di alleati Greci rimasti, al passo delle Termopili, l'armata persiana raggiunge Atene, che è stata abbandonata, la saccheggia e la incendia, templi compresi, vendicandosi finalmente di quello che i greci di Mileto fecero a Sardi. Ma all'isola di Salamina la flotta greca, comandata da Temistocle sconfigge la più imponente flotta persiana. Serse I fugge e i resti delle truppe e della flotta saranno poi vinti dall'alleanza Greca. Dopo la sconfitta di Serse I nel 480 a.C. nella Seconda guerra persiana, Atene accrebbe la propria potenza. Focea entrò nella Lega di Delo emanata dagli ateniesi, pagando ad Atene un tributo di due talenti.

Nel 479 a.C. - Le residue forze di terra persiane sono annientate a Platea. Atene si erge così come la città-stato più influente di tutta l'Ellade, sotto la guida politica di Aristide e impone uno stato di sudditanza alle altre città.

Carta geografica ottenuta dal Periplo di Scilace, parte tratta da: http://
- Scilàce di Cariànda fu un antico navigatore, geografo e cartografo greco che visse tra il VI e il V secolo a.C. I cartaginesi gli commissionarono alcune esplorazioni, chiedendogliene il resoconto. Il Periplo di Scilace è quindi una descrizione scritta delle coste del Mediterraneo e del Mar Nero, redatta tra il VI e il V secolo a.C. Fra le tante osservazioni, riporta la presenza dei Liguri, mescolati agli Iberi, tra i Pirenei e il fiume Rodano e dei "Liguri veri e propri" sulle coste tra il Rodano e il fiume Arno.  

- In Italia, nella Magna Grecia viene fondata un'altra scuola filosofica, la scuola Eleatica, che prese il suo nome da Elea, fondata dai Focei, Velia per i Romani, oggi nel comune di Ascea (Salerno), sulle coste del Cilento, patria dei suoi più importanti esponenti: Parmenide e Zenone. La sua fondazione è spesso attribuita al più anziano Senofane di Colofone ma, sebbene nella sua dottrina ci siano molti elementi che faranno parte integrante della speculazione della Scuola eleatica, è probabilmente più corretto guardare a Parmenide come suo fondatore. Il pensiero di Senofane era legato alla scuola ionica di Mileto, quella di Talete, Anassimandro e Anassimene. Parmenide di Elea visse all'incirca dal 515 al 460 (secondo altre testimonianze nacque invece intorno al 540 a.C.), e il suo spirito di libero pensiero si sviluppò in senso ontologico.
Parmenide di Elea.
Egli dice che l'uomo durante la vita si trova sostanzialmente di fronte due vie:
- l' alétheia (letteralmente = non velata), il sentiero della Verità, basato sulla ragione, che ci porta a conoscere l'essere vero;
- la doxa, basata sui sensi, ci fa conoscere l'essere apparente. La sua filosofia si sintetizza in una frase: "L'essere è e non può non essere, il non essere non è e non può essere". Significa che l'essere esiste, il non essere non esiste e non può essere pensato né espresso. L'essere sembra avere delle connotazioni divine perché è:
- ingenerato e imperituro perché se nascesse o morisse implicherebbe in qualche modo il non essere (in quanto nascendo verrebbe dal nulla e morendo tornerebbe al nulla);
- eterno
- immutabile e immobile perché se si trasformasse o si muovesse diventerebbe qualcosa che prima non era (non essere)
- unico e omogeneo
- finito (nell'antichità il finito è sinonimo di perfezione).
Parmenide però poi aggiunse un' altra via:
- la doxa plausibile, che esclude il non essere facendo leva sul dualismo luce-notte. Questa via dice che gli opposti (luce-notte, maschio-femmina...) sono entrambi essere ma senza entrambi ci sarebbe il nulla. Escludendo il non essere la terza via esclude anche la morte infatti anche il cadavere non è tale perché percepisce silenzio, freddo... In seguito, o perché le sue speculazioni risultavano offensive per i contemporanei cittadini di Elea, o a causa della mancanza di una salda guida, la scuola degenerò concentrandosi su temi eristici e retorici, mentre i migliori frutti di questa corrente furono assorbiti dalla metafisica platonica. Dibattuto è il tema dell'influenza del pensiero di Parmenide su quello di Eraclito o viceversa. Secondo Diogene Laerzio fu il primo ad affermare che la Terra è sferica e occupa il centro dell'universo. Parmenide di Elea distinse due livelli di conoscenza: secondo verità e secondo opinione. Per lui il Sole e la via lattea erano esalazioni di fuoco. Anche la Luna era esalazione di fuoco, ed era illuminata dal Sole. La tradizione lo considera anche il primo ad aver riconosciuto che Espero e Lucifero erano lo stesso astro, il pianeta Venere. Senofane di Colofone fu il primo a muovere all'attacco della mitologia della Grecia arcaica, nella metà del VI secolo a.C., scagliandosi contro l'intero sistema antropomorfico sancito dai poemi di Omero ed Esiodo. Gli eleatici ricercavano un essere unico, eterno, immutabile di fronte al quale il nostro mondo è solo apparenza, e Senofane diceva che gli dei non sono antropomorfi, cioè non hanno caratteristiche e sembianze umane, ma secondo lui esisteva una sola divinità che si identifica con l'universo, un dio-tutto, eterno.

Filosofo greco da alcuni
identificato come Eraclito.
Roma, musei capitolini.
- Eraclito di Efeso (Efeso 535 a.C. - Efeso, 475 a.C.) è stato un filosofo greco antico, uno dei maggiori pensatori presocratici. Il suo pensiero risulta particolarmente difficile da comprendere ed è stato interpretato nei modi più diversi a causa del suo stile oracolare e della frammentarietà nella quale ci è giunta la sua opera. Eraclito aveva comunque fama di cripticità già nella sua epoca. Ad esempio Aristotele, che si suppone ne abbia letto integralmente l'opera, lo definisce «l'oscuro»; persino Socrate ebbe problemi a comprendere gli aforismi dell'«oscuro», sostenendo che erano profondi quanto le profondità raggiunte dai tuffatori di Delo. Eraclito influenzò in vario modo i pensatori successivi: da Platone allo stoicismo, la cui fisica ripropone in gran parte la teoria eraclitea del logos. Della vita di Eraclito si hanno pochissime notizie, così come della sua opera filosofica sono sopravvissuti soltanto pochi frammenti. Il nome "Eraclito" (Herákleitos) ha lo stesso significato di quello di Eracle, cioè "gloria di Era". Nacque in una famiglia aristocratica; il padre, dal nome incerto era un discendente di Androclo, il fondatore di Efeso, e possedeva mezzo stadio di terra e una coppia di buoi. Nonostante discendesse da una famiglia di nobile origine, a Eraclito non interessava né la fama né il potere né la ricchezza; infatti, nonostante in quanto primogenito avesse diritto al titolo onorifico di basileus (che in greco significava re ed era la massima autorità sacerdotale), rinunciò a esso in favore del fratello minore. Quando il re di Persia Dario, dopo aver letto il suo libro “Sulla natura”, lo invitò a corte promettendogli grandi onori, Eraclito rifiutò la sua proposta, rispondendogli che, mentre "tutti quelli che vivono sulla terra sono condannati a restare lontani dalla verità a causa della loro miserabile follia" (che per Eraclito consiste nel "placare l'insaziabilità dei sensi" e nell'ambizione al potere), lui invece è immune dal desiderio e rifugge ogni privilegio, fonte d'invidia, restando a casa sua e accontentandosi di quel poco che ha. Per il suo distacco dai beni materiali e il disprezzo per il potere e per la ricchezza, Eraclito non piaceva molto agli Efesini, che erano esattamente l'opposto, per questo venne da loro criticato quando riuscì a convincere il tiranno Melancoma ad abdicare e ad andare a vivere nei boschi, ad aperto contatto con la natura. Visse in solitudine nel tempio di Artemide ove, stando a quanto dice Diogene Laerzio, depose il suo libro, «avendo deciso intenzionalmente, secondo alcuni, di scriverlo in forma oscura, affinché ad esso si accostassero quelli che ne avessero la capacità e affinché non fosse dispregiato per il fatto di essere alla portata del volgo». Mentre Teofrasto sostiene che, a causa del temperamento melanconico di Eraclito, esso non fu mai portato a termine e fu scritto in modo discontinuo. Il testo sempre a quanto presentato da Diogene Laerzio «godette di una tale fama che alcuni se ne fecero seguaci e furono chiamati Eraclitei». La deposizione del libro nel tempio conferma peraltro il suo temperamento aristocratico, essendo un gesto volto a proteggerlo dalla massa degli umani. Vivendo per lo più isolato, Eraclito trascorse gli ultimi anni prima della morte sui monti, cibandosi di sole piante, adottando una dieta strettamente vegetariana. Durante l'eremitaggio sui monti, si ammalò di idropisia (un accumulo di liquidi negli spazi interstiziali dell'organismo) e quindi «tornò in città e, in forma di enigma, chiese ai medici se fossero capaci di far sì che dall'inondazione venisse la siccità; e poiché quelli non lo comprendevano, si seppellì in una stalla sotto il calore dello sterco animale, sperando che l'umore evaporasse». Da qui si raccontano cinque versioni leggermente diverse. Nella prima, «non avendone, neppure così, alcun giovamento, morì dopo essere vissuto sessant'anni.». Ermippo presenta invece «ch'egli chiese ai medici se qualcuno fosse capace di essiccare l'umore vuotando gli intestini; alla loro risposta negativa, si distese al sole e ordinò ai ragazzi di ricoprirlo di sterco animale. Stando così disteso, il secondo giorno morì e fu seppellito nella piazza». Mentre Neante di Cizico «dice che era rimasto lì non essendo più riuscito a staccarsi lo sterco di dosso, e che, divenuto irriconoscibile per la deformazione, fu divorato dai cani». È possibile che la causa di morte di Eraclito sia stata proprio l'annegamento nello sterco di mucca, anche se Diogene Laerzio scrisse: «Aristotene nell'opera “Su Eraclito” dice che era guarito dall'idropisia e che era morto per un'altra malattia; questo lo afferma anche Ippoboto». Per il suo pessimismo, in età medievale, seguendo una tradizione antica esposta nei “Dialoghi” di Luciano di Samosata, Eraclito venne detto il "filosofo del pianto", in contrapposizione a Democrito, detto "filosofo del riso". Dell'opera di Eraclito ci rimangono testimonianze e frammenti sparsi, in forma di aforismi oracolari. Sempre a quanto posto da Diogene Laerzio vi furono moltissimi che diedero interpretazioni del suo libro tra i quali: Antistene, Eraclide Pontico, Cleante, Sfero lo Stoico, Pausania detto l'Eraclitista, Nicomede, Dionisio, Diodoto che negò che il testo trattasse della natura ma riguardasse la politica, Ieronimo e Scitino. Eraclito manifesta un atteggiamento filosofico che potremmo definire "iniziatico", ritenendo infatti di non poter essere compreso dalla moltitudine. A conferma di ciò disse: «Uno è per me diecimila, se è il migliore» (Galeno, De Dignoscendis Pulsibus; frammento 49). Ma non si limitò alla folla, infatti criticò apertamente anche i più sapienti dell'epoca, colpevoli di non aver compreso l'unitarietà del Logos: « Sapere molte cose non insegna ad avere intelligenza: l'avrebbe altrimenti insegnato ad Esiodo, a Pitagora e poi a Senofane e ad Ecateo. » (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX, 1; frammento 40). In lui probabilmente sono presenti anche alcuni legami con la tradizione orfica e dionisiaca. Eraclito è comunemente passato alla storia come il "filosofo del divenire" legato al motto «tutto scorre» (in greco pánta rhêi), ma in realtà il famoso detto non è attestato nei frammenti giunti fino a noi ed è probabilmente da attribuirsi al suo discepolo Cratilo che svilupperà il pensiero del maestro, estremizzandolo. In ogni caso la formula lessicale "panta rei" verrà coniata ed utilizzata la prima volta da Simplicio in "Phys", 1313, 11. «Non ascoltando me, ma il logos, è saggio intuire che tutte le cose sono Uno e che l'Uno è tutte le cose.» (Eraclito, DK, FR 50). Se da un lato è sensato, per buona parte della critica storico-filosofica, riferirsi ad Eraclito come il "filosofo del divenire", su un altro versante interpretativo sembra essere altrettanto appropriato approcciarsi al pensiero dell'efesio considerando la sua speculazione come incentrata su una prima e fondamentale importanza data al lògos. Nel sopra citato frammento, infatti, si nota quanto sia presente un non troppo implicito carattere rivelativo del lògos filosofico. Eraclito è il primo a mettersi in disparte: è perfettamente consapevole che l'ascolto debba essere indirizzato al lògos stesso e non, quasi profeticamente parlando, alla sua parola. In questo senso è egli stesso a farsi mero portavoce di un qualcosa che "già è" e che, in primis, "sempre è". Come ha giustamente osservato Giorgio Colli, il verbo greco eidénai indica preminentemente un "congetturare per immagini", un "intuire". Tale analisi filologica, evidenzia quella peculiare tensione del mondo greco antico a legare l'atto stesso della conoscenza con quello della visione. È in questo senso che, circa un secolo dopo, Platone userà il termine "eidòs" per enfatizzare il carattere mnemonico della conoscenza sensibile: infatti, il conoscere è, per Platone, risvegliare nell'anima dell'uomo l'idea (sempre e solo come tensione) di ciò che è stato già visto in un iperuranio ideale, esterno al mondo sensibile, in cui l'anima si trovava - contemplando e vedendo quelle idee - prima di incarnarsi nel corpo materiale. Emerge così, alla luce di queste precisazioni, la natura stessa del lògos eracliteo: è il senso del tutto che permea il tutto, rivelandosi indirettamente e rendendosi afferrabile tramite intuizione. Ricorre nel pensiero filosofico di Eraclito la contrapposizione fra i desti e i dormienti: è «unico e comune il mondo per coloro che sono svegli», ossia quelle persone che, andando oltre le apparenze, sanno cogliere il senso intrinseco delle cose, mentre «agli altri uomini rimane celato ciò che fanno da svegli, allo stesso modo di quando non sono coscienti di quel che fanno dormendo», riferendosi alla mentalità degli uomini comuni, i dormienti appunto. Eraclito intende per filosofi tutti quelli che sanno indagare a fondo la loro anima, che, essendo illimitata, offre all'interrogando la possibilità di una ricerca altrettanto infinita. Il pensiero eracliteo è quindi aristocratico, in quanto egli definisce la maggioranza degli uomini superficiali, poiché tendono a dormire in un sonno mentale profondo che non permette loro di comprendere le leggi autentiche del mondo circostante. Secondo Eraclito infatti «rispetto a tutte le altre una sola cosa preferiscono i migliori: la gloria eterna rispetto alle cose caduche; i più invece pensano solo a saziarsi come animali». La testimonianza di Diogene Laerzio conferma come Eraclito fosse uno «spregiatore del volgo». «Rispetto a tutte le altre una sola cosa preferiscono i migliori: la gloria eterna rispetto alle cose caduche; i più invece pensano solo a saziarsi come bestie» da Clemente Alessandrino, Stromateis (Miscelanea). Eraclito pone in contrapposizione i "migliori" (ἄριστοι, aristoi), i quali, a suo avviso, «preferiscono una sola cosa a tutte le altre: la gloria eterna alle cose caduche», e i "più" (οἱ δὲ πολλοὶ, oi de polloi), i quali «invece pensano solo a saziarsi come bestie», e da tale contrapposizione si deduce che per Eraclito i "più" sono in maggioranza rispetto ai "migliori". Ancora, con queste premesse, si potrebbe attribuire ad Eraclito un pensiero non solo filosoficamente aristocratico, ma anche politicamente oligarchico, o monarchico: «Legge è anche ubbidire alla volontà di uno solo» da Clemente Alessandrino, Stromateis (Miscelanea). «Uno è per me diecimila, se è il migliore» da Galeno, De Dignoscendis Pulsibus. Si deduce di conseguenza una netta contrapposizione tra la "gloria eterna", la quale è sia ciò che è preferito dai "migliori" sia ciò che in quanto tale ne attesta l'essere "migliore", e tutte le altre cose, ossia quelle "caduche, mortali", tra le quali vi è anche il "pensare solo a saziarsi come bestie", che è quanto pensato dai "più". «Polemos è padre di tutte le cose, di tutte re; e gli uni disvela come dèi e gli altri come uomini, gli uni fa schiavi gli altri liberi.» da Ippolito di Roma, “Confutazione di tutte le eresie”, IX, 9, 4; frammento 53. La dottrina dell'unità dei contrari è forse l'aspetto più originale del pensiero filosofico eracliteo. La legge segreta del mondo risiede nel rapporto di interdipendenza di due concetti opposti (fame-sazietà, pace-guerra, amore-odio ecc.) che, in quanto tali, lottano fra di loro ma, nello stesso tempo, non possono fare a meno l'uno dell'altro, poiché vivono solo l'uno in virtù dell'altro: ciascuno dei due infatti può essere definito solo per opposizione, e niente esisterebbe se allo stesso tempo non esistesse anche il suo opposto. Così, ad esempio, una salita può essere pensata come una discesa da chi vi si trova in cima. Tra i contrari si crea una sorta di lotta. In questa dualità, questa guerra fra i contrari (polemos) in superficie, ma armonia in profondità, Eraclito vide quello che lui definiva il logos indiviso, ossia la legge universale della Natura. Ed è proprio la dottrina dei contrari che fa di Eraclito il fondatore di una logica degli oppostiantitetica a quella aristotelica e fondata sulla legge del divenire della realtà. In essa, infatti, tesi e antitesi (essere e non-essere) sono una sintesi contraddittoria e permanente nella realtà che solo così può divenire, attraverso i suoi due coessenziali aspetti ("nello stesso fiume scendiamo e non scendiamo"; "siamo e non siamo"); ed è antitetica alla logica aristotelica perché opposta al suo principio di non contraddizione e del terzo escluso ("Il mare è l'acqua più pura e impura: per i pesci è potabile e gli conserva la vita, per gli uomini è imbevibile e mortale"). I primi filosofi greci cercavano l'arché negli enti della realtà sensibile, a partire da Talete di cui restano solo testimonianze aristoteliche in cui sembrerebbe affermare che l'arché è l'acqua. In realtà, tale termine, a detta degli studiosi, è una teoria di stampo più prettamente aristotelico. È costante nella filosofia antica la consapevolezza che le cose derivino da un principio che in quanto tale è unicoingenerato e imperituroindivisibile ed immutabile; tuttavia la denominazione vera e propria di arché appartiene ad Aristotele. La dottrina delle quattro essenze fondamentali della Terra, acqua, terra, aria, fuoco, fornisce gli elementi tra i quali i primi filosofi greci scelsero l'arché, i più generali tra i costituenti del mondo sensibile. Platone mostrerà che l'arché del sensibile sono le idee iperuraniche, e che dunque non può essere trovata nemmeno nei costituenti fondamentali, e che il sensibile postula l'esistenza di una realtà trascendente che lo causa. Aristotele affermò che l'arché secondo Eraclito fosse il fuoco. In alcuni frammenti, effettivamente, sembra che Eraclito sostenga questa tesi: il fuoco, condensandosi, diventa aria, quindi acqua e poi terra; dopodiché, esso può rarefarsi per tornare ad essere acqua, aria, e in seguito fuoco. Quindi tutto ha origine e fine nel fuoco. Questo permetterebbe di collegare Eraclito con le ricerche naturalistiche dei filosofi di Mileto. In realtà, è probabile che il riferimento al fuoco vada inteso in senso più metaforico: in questo elemento fisico sembra infatti mostrarsi la teoria ontologica di Eraclito. Il fuoco è sempre vivo, in continuo movimento; è in ogni momento diverso dal momento precedente, ma allo stesso tempo sempre uguale a sé stesso. Analogamente l'arché è il primo ed unico principio, la nascita e la morte, l'inizio e la fine: come il fuoco, che nella giusta misura ora si accende e ora si spegne. Questa visione cosmologica sfocia nell'identificazione panteistica dell'universo con Dio, inteso come unità dei contrari, mutamento continuo e fuoco generatore. Questo Dio-tutto comprende quindi in sé ogni cosa, costituisce una realtà increata che esiste da sempre e per sempre. Eraclito crede anche nella ciclicità del cosmo, concepita come insieme di fasi alterne di distruzione-produzione, al punto che alcuni autori attribuiscono a lui il concetto di ekpyrosis, una sorta di grande conflagrazione universale. La contrapposizione del "panta rei" eracliteo al pensiero di Parmenide, filosofo dell'essere, ebbe un'influenza determinante su Platone, il quale per risolverla cercherà di mostrare come il non-essere esiste solo in senso relativo, dando così un fondamento filosofico al senso greco del divenire. Hegel intravide in questo passaggio la dialettica fondamentale della filosofia greca. Secondo la sua interpretazione la filosofia di Parmenide è riassumibile nella frase "tutto è, nulla diviene" (tesi), mentre quella di Eraclito in "tutto diviene, nulla è" (antitesi); il momento di sintesi sarebbe quindi rappresentato da Platone. Lo stesso Hegel si considerava filosoficamente erede di Eraclito al punto da affermare: «Non c'è proposizione di Eraclito che io non abbia accolto nella mia Logica» (Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia). Eraclito però, a differenza di Hegel non concepiva il divenire come una progressiva presa di coscienza dell'assoluto; per lui il divenire sembra consistere piuttosto nelle variazioni di un identico sostrato o Lògos: «tutte le cose sono Uno e l'Uno tutte le cose»; «questo Cosmo è lo stesso per tutti... da sempre è, e sarà». Da questa visione del mondo verrà influenzato soprattutto lo stoicismo. In seguito, se la tradizione filosofica aristotelica giudicò Eraclito incompatibile con i princìpi della logica formale, sebbene lo stesso Aristotele (come già Platone) ne accoglieva la teoria del divenire nel tentativo di conciliarla con la rigida staticità di Parmenide e introducendo così la dottrina del perenne passaggio dalla potenza all'atto, sarà presso i mistici neoplatonici che Eraclito troverà maggior fortuna. Secondo Plotino, che pure tiene fermi i capisaldi della logica parmenidea, «Eraclito seppe che l'Uno è eterno e spirituale: poiché solo ciò che è corporeo diviene eternamente e scorre» (Enneadi, V, 9). Anche i mistici cristiani come Meister Eckhart e Nicola Cusano poterono far propria la concezione eraclitea degli opposti collocandola su un piano trascendente e sovra-razionale: per costoro infatti, mentre sul piano immanente della vita quotidiana continuano a valere i princìpi della razionalità sillogistica, in Dio si troverebbe invece la comune radice di ciò che appare contraddittorio alla semplice ragione, perché in Lui è presente quell'unità degli opposti che esplicandosi e materializzandosi nel mondo giunge poi a diversificarsi. Eraclito verrà infine riabilitato del tutto da Hegel, il quale però reinterpretò la sua identità degli opposti non più in senso mistico e trascendente, ma in un'ottica immanente. Anche Nietzsche ebbe un'alta stima di Eraclito: la sua grandezza, per il filosofo tedesco, sta anche nel fatto che la nobiltà di ciò che ha da dire non si presta alla chiarezza superficiale. Martin Heidegger, che alla fine degli anni sessanta tenne un famoso seminario sul filosofo greco insieme con Eugen Fink a Friburgo, ritiene che il concetto di verità, intesa come  alétheia (ἀλήθεια), come "non-nascondimento" (in tedesco Unverborgenheit), sia una sorta di parafrasi del frammento eracliteo n. 93 DK: "Il signore, il cui oracolo è a Delfi, non dice né nasconde, ma indica": per Heidegger la filosofia di Eraclito serve come una conferma delle sue posizioni.

Zenone di Elea.
Zenone di Elea (in greco: Ζήνων, Zenon; 489 a.C. - 431 a.C.) è stato un filosofo greco antico presocratico della Magna Grecia e un membro della Scuola eleatica fondata da Parmenide. Aristotele lo definisce inventore della dialettica. È conosciuto soprattutto per i suoi paradossi, che Bertrand Russell definì come «smisuratamente sottili e profondi». Vi sono poche notizie certe sulla vita di Zenone. Anche se composta quasi un secolo dopo la morte di Zenone, la principale fonte di informazioni biografiche sul filosofo è il dialogo “Parmenide” di Platone. Nel dialogo, Platone descrive una visita di Zenone e Parmenide ad Atene, nel periodo in cui Parmenide ha "circa 65 anni", Zenone "quasi 40" e Socrate è "un uomo molto giovane". Grazie a queste indicazioni, attribuendo a Socrate un'età di 20 anni e assumendo come data di nascita di quest'ultimo il 469 a.C., è possibile stimare la nascita di Zenone nel 490 a.C. Di Zenone Platone ci dice che era "alto e di bell'aspetto" e che "venne identificato in gioventù come l'amante di Parmenide". Altri dettagli, forse meno affidabili, sono contenuti nelle “Vite dei filosofi” di Diogene Laerzio, dove si riporta che Zenone era figlio di Teleutagora, ma figlio adottivo di Parmenide, e che inoltre era "abile a sostenere entrambi i lati di ogni discorso" e che venne arrestato e forse ucciso dal tiranno di Elea. Secondo Plutarco, Zenone tentò di uccidere il tiranno Demilo e, avendo fallito, per non rivelare l'identità dei suoi complici, "con i suoi stessi denti si strappò la lingua e la sputò in faccia al tiranno". Ciò che si è conservato delle concezioni di Zenone è stato tramandato da Platone nel Parmenide e da Aristotele, che nel suo scritto Fisica[8] ne analizza il pensiero, definendo l'eleate "scopritore della dialettica". Diogene Laerzio, nel suo Vite dei filosofi[9], racconta della valenza politica di Zenone, il quale avrebbe ordito una congiura contro il tiranno della sua città natale (tale Nearco, o Diomedonte). Zenone è conosciuto soprattutto per i suoi paradossi formulati in relazione alla tesi della impossibilità del moto. Oggi sono conosciuti con il nome di paradossi di Zenone. Tre di essi, in particolare, sono noti come "paradosso dello stadio", "paradosso di Achille e la tartaruga", "paradosso della freccia". In tutti il fine è quello di dimostrare che accettare la presenza del movimento nella realtà implica contraddizioni logiche ed è meglio quindi, da un punto di vista puramente razionale, rifiutare l'esperienza sensibile ed affermare che la realtà è immobile. Questi paradossi implicano anche il concetto di infinita divisibilità dello spazio ed è questa la ragione per cui hanno ricevuto una notevole attenzione da parte dei matematici. Infatti il filosofo sosteneva che per raggiungere un punto preciso, bisogna prima raggiungerne il punto medio. Per giungere ad esso si deve arrivare a sua volta al suo punto medio, e ancora al punto medio del punto medio ecc, fino a che non ci si ritrova nello stesso identico punto in cui siamo al momento della partenza, e quindi il movimento non esiste, ma è soltanto un concetto che noi percepiamo. A mettere in discussione le affermazioni di Zenone interviene Aristotele, dicendo che Zenone si sbagliava, poiché il movimento è un insieme di punti distinti soltanto in "potenza", e non in "atto". In atto il tempo e lo spazio sono un tutt'uno, di punti non distinti tra loro. Sulle orme di Parmenide, Zenone tenta di affermare - attraverso la dialettica e la logica - le teorie di immutabilità dell'Essere, riducendo all'assurdo il suo contrario. Le tesi confutate da Zenone appartengono ai pitagorici, convinti della molteplicità dell'Essere in quanto numero, e ad Anassagora e Leucippo, suoi contemporanei, il primo esponente della teoria dei semi (spermata in greco) chiamati da Aristotele "omeomerie" e il secondo dell'atomismo. Zenone fu discepolo prediletto di Parmenide. Nel “Parmenide” platonico Pitodoro racconta ad Antifonte che i due "una volta vennero alle Grandi Panatenee" (Parmenide, 127 A-B) e che in tale occasione avrebbero conosciuto Socrate. Notizia non confermata da Diogne Laerzio che, al contrario, sostiene che egli non si sia mai recato ad Atene. Zenone mise al servizio delle dottrine del maestro la sua notevole abilità logica e dialettica, inventando una serie di argomenti volti a screditare i critici della visione parmenidea dell'universo e i sostenitori del pluralismo ontologico e del divenire. Sebbene molti autori antichi si riferiscano agli scritti di Zenone, nulla di essi è sopravvissuto intatto. Platone afferma che gli scritti di Zenone siano stati "portati ad Atene per la prima volta in occasione della visita di Zenone e Parmenide". Platone riporta inoltre che Zenone avrebbe detto che la sua opera "ha lo scopo di difendere gli argomenti di Parmenide"; i suoi scritti furono composti nella gioventù del filosofo e vennero in seguito rubati e pubblicati senza il consenso dell'autore. Secondo il Commentario al Parmenide di Platone di Proclo, Zenone produsse "non meno di quaranta argomenti mostrando le contraddizioni", ma solo nove sono oggi noti.

Un'antica trireme greca ricostruita. Navi lunghe e strette,
veloci e molto manovrabili, il loro impiego fu decisivo
nella battaglia di Salamina. Clicca sull'immagine
per ingrandirla.
Nel 478 a.C. - Viene creata in Grecia la Lega Delio-Attica che vanta vittorie contro Cartagine  e gli Etruschi. La qualità speculativa della ragione e la nuova consapevolezza di libertà individuale (ottenuta parallelamente alla creazione di un mercato di schiavi), ha elaborato nuove forme di governo del potere nella res-pubblica: la Democrazia. Il potere è condiviso dalle varie parti della società degli uomini liberi, con e senza possedimenti fondiari, la terra: unici esclusi sono gli schiavi, ritenuti più merci che persone. Il culmine dello splendore politico e culturale di Atene è raggiunto con Pericle. Accentuato il carattere democratico con leggi che consentivano ai cittadini delle classi meno abbienti di accedere a cariche pubbliche. Favorito il sorgere di regimi democratici anche in altre città. Durante l'Età di Pericle si ha la costruzione del Partenone, dell'Eretteo, dei Propilei e di altri edifici pubblici. La letteratura si esprime con le tragedie di Eschilo, Sofocle e Euripide le commedie di Aristofane, la filosofia splende con Socrate e Platone.
Atene, Eretteo, la loggia delle
cariatidi. Clicca sull'immagine
per ingrandirla.
Con il governo di Pericle, l'artefice della democrazia ateniese, e sotto la supervisione dello scultore Fidia, la rocca di Atene si trasformò in un frenetico cantiere dove affluivano gli ingegni e gli artisti migliori del tempo. Si costruirono il Partenone, tempio così chiamato da Athena Parthénos, la dea protettrice della città; i Propilei, cioè l'ingresso monumentale all'area sacra; il Tempio di Atena Nike, di piccole dimensioni ma di squisita eleganza; l'Eretteo, un tempio costituito da diversi ambienti tra cui la celebre Loggia delle Cariatidi, dove le colonne sono sostituite da eleganti figure femminili.

Pericle.
- Pericle, in greco Περικλῆς, Periklēs, "circondato dalla gloria" (nato a Cholargos nel 495 a.C. circa, morto ad Atene nel 429 a.C.), è stato un politico, oratore e stratega ateniese durante il periodo d'oro della città, tra le Guerre Persiane e la Guerra del Peloponneso. Discendeva, da parte di madre, dalla potente e storicamente influente famiglia degli Alcmeonidi. Pericle ebbe una così profonda influenza sulla società ateniese che Tucidide, uno storico contemporaneo a lui, lo acclamò "Primo cittadino di  Atene". Durante i primi due anni delle Guerre del Peloponneso, Pericle fece della Lega Delio-Attica (una alleanza fra Atene e altre città, con Delo, isola sacra poiché ritenuta il luogo di nascita di Apollo, come riferimento per l'alleanza), un impero comandato da Atene. Promosse le arti e la letteratura; questa fu la principale ragione per la quale Atene detiene la reputazione di centro culturale dell'Antica Grecia. Cominciò un progetto ambizioso che portò alla costruzione di molte opere sull'Acropoli (incluso il Partenone, il "tempio della vergine", dedicato ad Atena con un imponente statua d'oro e avorio, alta venticinque metri, costruita da Fidia). Sotto il governo di Pericle, Atene raggiunse il massimo sviluppo democratico, con l'istituzione dell'assemblea cittadina come capo della Lega Delio-Attica. Per avere informazioni sulla vita di Pericle, visualizza il post "Paolo Rossi: Pericle e la Democrazia" cliccando QUI.
Ecco il suo Discorso agli Ateniesi riportato da Tucidide in "La guerra del Peloponneso" II, 37-41: "Qui ad Atene noi facciamo così: qui il nostro governo favorisce i molti, invece dei pochi, e per questo viene chiamato democrazia. Qui ad Atene noi facciamo così: le leggi, qui, assicurano una giustizia eguale per tutti nelle loro dispute private, ma noi non ignoriamo mai i meriti dell’eccellenza, quando un cittadino si distingue, allora esso sarà a preferenza di altri chiamato a servire lo stato, ma non come un atto di privilegio, come una ricompensa, al merito, e la povertà non costituisce un impedimento. Qui ad Atene noi facciamo così: la libertà di cui godiamo si estende anche alla vita quotidiana, noi non siamo sospettosi l’uno dell’altro, e non infastidiamo mai il nostro prossimo, se al nostro prossimo piace vivere a modo suo, noi siamo liberi, liberi di vivere, proprio come ci piace, e tuttavia siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo. Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari, quando attende alle proprie faccende private, ma soprattutto non si occupa dei pubblici affari per risolvere le sue questioni private. Qui ad Atene noi facciamo così: ci é stato insegnato di rispettare i magistrati e ci è stato insegnato anche di rispettare le leggi, e di non dimenticare mai coloro che ricevono offesa, e ci è stato anche insegnato di rispettare quelle leggi non scritte, che risiedono nell’universale sentimento di ciò che è giusto, e di ciò che è buonsenso. Qui ad Atene noi facciamo così: un uomo che non si interessa allo stato noi non lo consideriamo innocuo, ma inutile, e benché in pochi siano in grado di dar vita a una politica, beh, tutti qui ad Atene siamo in grado di giudicarla. Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia. Noi crediamo che la felicità sia il frutto della libertà, ma la libertà sia solo il frutto del valore. Insomma io proclamo Atene scuola dell’Ellade, e che ogni ateniese cresce prostrando in se una felice versatilità, la fiducia in se stesso e la prontezza a fronteggiare qualsiasi situazione. Ed é per questo che la nostra città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno straniero.
Qui ad Atene noi facciamo così!"

Anassagora.
- Anassagora di Clazomene visse all'incirca dal 500 al 430 a.C. E' probabile che abbia trascorso la sua giovinezza nella natia Ionia (Clazomene era una città nelle vicinanze di Smirne). Le fonti più importanti su Anassagora sono Aristotele, Platone, Teofrasto, Aetius, Plutarco, Ippolito. Si dice che, di famiglia facoltosa, abbia trascurato le ricchezze per dedicarsi allo studio. Si dice anche che sia stato lui il primo filosofo ad introdurre in Atene la filosofia (fino ad allora confinata alla Ionia) quando, poco più che ventenne, vi si trasferì. E' largamente accettato che ad Atene egli divenne amico di Pericle, più giovane di lui di cinque anni. Ma, come è noto, l'amicizia con Pericle gli costò cara: i nemici politici di Pericle per colpirlo si rifecero su Anassagora facendolo imprigionare e costringendolo all'esilio. Sembra addirittura che il provvidenziale intervento di Pericle abbia salvato Anassagora da sanzioni più gravi. Le accuse ad Anassagora consistevano, come è noto, nell'aver egli affermato che il Sole non era altro che "una pietra infuocata" (evidentemente, nell'Atene del 450 a.C. l'attitudine mentale tradizionale era ancora fortemente legata a valori sacrali e lo svilirli a una interpretazione naturalistica non poteva ancora essere accettato). Comunque, Anassagora si rifugiò a Lampsaco (sulla costa orientale dell'Ellesponto), dove si dice abbia fondato una Scuola filosofica. Nella dottrina filosofica di Anassagora si aveva una accentuazione del nous inteso come "mente", oppure "ragione", cioè disanima dei fenomeni secondo principi di razionalità. Secondo Aetius (che cita Teofrasto), Anassagora sosteneva che la Luna brilla di luce non propria ma riflessa dal Sole, così come la pensava Parmenide. Ippolito e altri ci informano delle corrette interpretazioni date da Anassagora, per primo, delle modalità del compiersi delle eclissi di Sole e di Luna. Sulle modalità di svolgimento delle eclissi di Luna, comunque, Anassagora introduce una credenza erronea, ammettendo la possibilità che ad oscurare la Luna siano anche altri corpi interposti. C'è un notevole grado di incertezza su quanto fossero estese le sue cognizioni matematiche. Vitruvio ci dà una intrigante informazione su Anassagora. Ci dice che, mentre si trovava in prigione, scrisse un trattato nel quale si davano istruzioni su come dipingere gli scenari per le commedie che venivano rappresentate ad Atene: come dovevano essere dipinti i pezzi che dovevano apparire sullo sfondo, e come quelli che dovevano apparire in primo piano. Si potrebbe arguire da ciò che Anassagora produsse una specie di trattato sulla prospettiva ma manca completamente qualunque altra notizia che confermi queste affermazioni di Vitruvio. E' noto anche la battuta con la quale si dice abbia risposto a che gli chiedeva quale riteneva fosse lo scopo della sua vita: "Investigare il Sole, la Luna e le stelle".

Empedocle.
- Empedocle di Agrigento visse all'incirca dal 480 al 420 a.C. Aristotele dice che morì ad Atene all'età di 60 anni, mentre secondo un'altra tradizione sarebbe precipitato nel cratere dell'Etna. Delle due opere certamente attribuitegli ci restano ampi frammenti: 100 versi del poema "Purificazioni" e 400 versi di "Sulla natura". Ispirandosi al pensiero di Eraclito, di Pitagora e di Parmenide, formulò la dottrina dei quattro elementi, da lui detti in realtà radici, più tardi riconosciuti come i quattro elementi naturali (aria, fuoco, terra e acqua). Accettò l'idea di Parmenide secondo cui la Luna rifletteva la luce solare e dette una spiegazione corretta del meccanismo delle eclissi solari. Aristotele sosteneva che Anassagora era prima di Empedocle per età ma dopo di lui per opere. Teofrasto sostiene che Aristotele riteneva Anassagora inferiore ad Empedocle nel pensiero. Aristotele riporta anche che Empedocle ebbe l'intuizione fisica importantissima secondo cui la velocità della luce era finita, per cui impiegava un certo tempo a percorrere una distanza.

Nel 475 a.C. - Si arriva all'alleanza di Roma con i Sabini. Publio Valerio Publicola, il console, si fece aiutare dai socii Latini ed Ernici ed entrò in contatto con Veienti e Sabini. Per prima cosa si scagliò contro i Sabini, ne espugnò l'accampamento mettendo in crisi anche la fiducia dei Veienti che stentarono ad organizzare una difesa comune. Questa difesa non ebbe grande riuscita. La cavalleria di Valerio riuscì a scompaginare i difensori e a sbaragliare gli Etruschi. Appena in tempo per fermare un attacco dei Volsci che a loro volta approfittavano delle difficoltà romane per compiere razzie e devastazioni. I consoli dell'anno successivo furono Lucio Furio Medullino e Gaio Aulo Manlio. A quest'ultimo fu affidata l'ennesima guerra con Veio. I risultati furono notevoli; i Veienti, senza combattere, chiesero e ottennero una tregua di quarant'anni.

Questo elmo appartenne a un
guerriero etrusco e fu preso a
simbolo della vittoria dei
siracusani contro la flotta
etrusca a Cuma nel 474 a.C.
Fu ritrovato durante gli scavi
di Olimpia, dove era stato
probabilmente offerto dallo
stesso Ierone, tiranno di
Siracusa, che si fregiava della
decisiva vittoria che aveva
segnato il definitivo declino
della potenza marittima degli
Etruschi nel mare Tirreno.
Londra, British Museum.
Nel 474 a.C. - La flotta riunita delle città-stato costiere dell'Etruria meridionale, Cere e Tarquinia, naviga verso sud-est lungo la costa laziale con l'obiettivo di attaccare e  conquistare la colonia greca di Cuma. Dopo la prima battaglia di Cuma del 525 a.C., i rapporti fra Etruschi e Greci erano diventati ancora più conflittuali dopo la battaglia di Aricia del 505 - 504 a.C., quando la sconfitta degli Etruschi da parte di un'alleanza Greco-Latina aveva determinato la fine del commercio via terra tra l’Etruria e la Campania  attraverso il Lazio, interrotto inizialmente dai Latini dopo la caduta della monarchia e della dinastia etrusca a Roma. Per questo motivo la via marittima diventava sempre più strategica per gli Etruschi che vedevano proprio nella città di Cuma, con il suo porto ben organizzato, una seria minaccia per la loro navigazione. L’attacco etrusco alla città greca prevedeva un assalto combinato da terra e dal mare. Ma i Cumani vennero a conoscenza in anticipo della strategia etrusca e chiesero aiuto a Ierone I (o Gerone), tiranno di Siracusa, che non esitò a inviare in soccorso la sua intera flotta. Proprio quando gli Etruschi stavano iniziando l’operazione di accerchiamento da terra e dal mare spuntò, inattesa, la flotta da guerra di Siracusa, composta da moderne triere, che gettò nello scompiglio le navi etrusche che furono costrette a invertire la rotta e a dirigersi contro il nemico. Lo scontro probabilmente avvenne in mare aperto presso il vicino capo Miseno dove, ai piedi della scogliera alta 160 metri a picco sul mare, si accese una sanguinosa battaglia con un corpo a corpo tra navi che penalizzava fortemente i legni etruschi, più agili ma meno potenti e veloci delle triere greche. I Siracusani affondarono e catturarono numerose navi, costringendo alla fuga le poche superstiti. L’esercito di terra, intimorito e scoraggiato, tolse l’assedio a Cuma e tornò in patria. Ierone lasciò un presidio sull'isola di Pitecusa (Ischia). Con la seconda battaglia di Cuma e la disfatta degli Etruschi, fu ristabilito il controllo greco della costa e si indebolì la presenza degli Etruschi in Campania.

Nel 470 a.C. - Ad opera dei Cumani, è fondata, ad oriente del primitivo insediamento di Partenope, la "città nuova",  Neapolis, che vide un rapido sviluppo favorito dal declino del potere siracusano e da uno stretto legame con Atene. Partenope assumerà nel tempo il nome di Palaepolis, "città vecchia". Nel 421 a. C. le popolazioni italiche dell'entroterra conquisteranno sia Capua che Cuma, lasciando invece indenne Neapolis, che comunque risentirà fortemente della loro influenza. 

Nel 462/461 a.C. - Ad Atene, Efialte e Pericle limitano definitivamente i poteri dell'Areopago, che passa a occuparsi solamente dei reati relativi al sacrilegio e all'omicidio volontario. L'organismo riacquistò importanza col declino della democrazia e il sorgere della civiltà ellenistica. 

Nel 453 a.C. - La realizzazione della fortificazione di Genova, sembra rispecchiare una pressante esigenza di difesa, forse in relazione alla situazione di insicurezza determinata dalle incursioni dei greci Siracusani nell’alto Tirreno nel 453 a.C. contro l’isola d’Elba e la Corsica.  
 
Le colonne del tempio di Saturno,
 nel Foro di Roma.
Nel 451/450 a.C. - A Roma vengono scritte le leggi delle XII tavole (duodecim tabularum leges), un corpo di leggi compilato dai decemviri legibus scribundis, contenenti regole di diritto  privato e pubblico derivate  da pronunce pontificali tramandate  oralmente per molto tempo. Rappresentano la prima codificazione scritta del diritto romano, dopo i più antichi mores (consuetudini o costumi) e la lex regia, non scritti. « [...] mi pare che il solo libro delle XII tavole superi per autorità ed utilità le biblioteche di tutti i filosofi » (Marco Tullio Cicerone, De Oratore, I - 44, 195). Le fonti antiche, per giustificare questa innovazione, accennano a contatti con Ermodoro di Efeso, discendente del filosofo Eraclito e in effetti proprio nel VI-V secolo a.C., il mondo greco conobbe la legislazione scritta. Il tribuno della plebe Gaio Terenzilio Arsa aveva proposto, nel 462 a.C., la nomina di una commissione composta da appositi magistrati con l'incarico di redigere un codice di leggi scritte per sopperire all'oralità delle consuetudini (i mores) allora in vigore. Il Senato, dopo un'iniziale opposizione (la proposta fu riformulata l'anno seguente dai cinque tribuni della plebe), votò nel 454 a.C. l'invio di una commissione di tre membri nominati dai concilia plebis in Grecia, per studiare le leggi di Atene e delle altre città. Tito Livio ci fornisce i nomi dei tre componenti la commissione: Spurio Postumio Albo Regillense, Aulo Manlio Vulsone e Servio Sulpicio Camerino Cornuto. Nel 451 a.C. fu istituita una commissione di decemviri legibus scribundis che rimpiazzò le magistrature ordinarie, sia patrizie che plebee, sospese in quell'anno. I componenti della commissione furono scelti tra gli ex-magistrati patrizi. Lo stesso Tito Livio ce ne fornisce i nomi: Appio Claudio Crasso, console; Tito Genucio Augurino, console; Tito Veturio Crasso Cicurino; Gaio Giulio Iullo; Aulo Manlio Vulsone; Servio Sulpicio Camerino Cornuto; Publio Sestio Capitone; Publio Curiazio Fisto Trigemino; Tito Romilio Roco Vaticano; Spurio Postumio Albo Regillense. Seguendo il testo liviano furono nominati decemviri i tre della commissione inviata ad Atene, in qualità di "esperti" e "gli altri furono eletti per far numero" (supplevere ceteri numerum). Le Dodici Tavole (non sappiamo se di legno di quercia, d'avorio o di bronzo) vennero affisse nel foro, dove rimasero fino al saccheggio ed all'incendio di Roma del 390 a.C. da parte dei Celti di Brenno. Cicerone narra che ancora ai suoi tempi (nel I secolo a.C.) il testo delle Tavole veniva imparato a memoria dai bambini come una sorta di poema d'obbligo (ut carmen necessarium) e Livio le definisce come “fonte di tutto il diritto pubblico e privato (fons omnis publici privatique iuris)”. Il linguaggio delle tavole è ancora un linguaggio arcaico ed ellittico. Alcuni studiosi suppongono che le norme siano state scritte in metrica, per facilitarne la memorizzazione. Secondo lo storico Ettore Pais, i redattori non introdussero grandi novità ma si sarebbero limitati a redigere per iscritto gli antichi mores. Per il testo delle Tavole vedi QUI.

Carta geografica degli insediamenti
europei dei Celti dopo Golasecca:
Hallstatt, La Tène, e successive
espansioni.
Dal 450 a.C. - Si sviluppa in Europa centro-occidentale  la cultura celtica di La Tène, preceduta dalla cultura di Hallstatt e ancor prima dalla cultura di Golasecca.
OGHAM, l'alfabeto celtico. Gli
OGHA, simboli-lettere, sono le
iniziali di alberi o piante, con i
nomi in gaelico. Inoltre vi sono le
corrispondenze con il calendario
arboricolo proposto da Robert
Graves.
La fine della cultura di Hallstatt, dovuta probabilmente a conflitti interni, con nuovi ceti che aspirano al potere e soppiantano la vecchia aristocrazia hallstattiana, segna l'inizio della  cultura di La Tène (450 - 50 a.C.), sviluppatasi sul lago di Neuchâtel (nell'attuale Svizzera occidentale) e caratterizzata, oltre che da una spettacolare attività artigianale e artistica, soprattutto dalla nascita di una forte rete di commercio di massa (armi e accessori in ferro, suppellettili in oro, argento e ambra) e dalla conseguente nascita di una proto-borghesia. Mentre fin dal 700 a.C. circa si era consolidata ed espansa la cultura celtica di Golasecca sul Ticino italico, nucleo primario della presenza dei Celti nella Gallia Cisalpina italica e nelle Marche più a sud-est, dalla zona tra  basso Rodano e alto Danubio, il cui centro era La Tène, principalmente per ragioni demografiche di sovrappopolamento, dal 450 a.C. l'espansione dei Celti interesserà l'Europa centrale, le isole britanniche (già raggiunte da una prima ondata precedente) e la penisola iberica (i Celtiberi) e successivamente i territori dei Balcani, in cui vennero a contatto con l'impero di Alessandro Magno e svolsero attività di mercenari, mentre una parte ritornò verso l'Asia Minore (i Galati).


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