Rappresentazione della Storia |
La maggior parte
delle comunità ed entità sociali di questo pianeta, da quelle religiose a quelle politiche fino agli scout, sono
dominate o dirette da individui, gruppi o corporazioni che, anche in contesti democratici, esercitano un controllo su di esse al fine di condizionarne comportamenti ed
ambizioni. Il controllo sulle masse è molto ramificato ed è esercitato sulla maggior parte dei componenti delle varie entità sociali. Il potere dei "centri di controllo" è
ottenuto e mantenuto attraverso un primato in ambito religioso e/o politico.
- Nell'ambito religioso viene proposta (a volte imposta) nella collettività, una visione di valori d'ambito trascendentale convincente, che coinvolga la sfera psicologico-morale, avvalorata da memorie perlopiù scritte (testi sacri) che
assicurino vantaggi individuali, da premi post-mortem a benessere interiore fino a quelli di
tipo economico (per sacerdoti ed apparati clericali). L'assoggettamento, che può anche contemplare la
coercizione sia psicologica che fisica, è spesso associato alla minaccia di una "maledizione" o "punizione spirituale" per chi non appartiene alla comunità. Storicamente, alcune organizzazioni religiose hanno organizzato piccoli gruppi etnici disparati in popoli conquistatori, come ad esempio gli ebrei, gli islamici, i cristiani ecc.
- Mentre nell'antichità il potere politico era associato a quello religioso tramite l'assunto della divinità del monarca, póleis greche e repubblica di Roma a parte, dal secolo scorso possiamo distinguere i nostri sistemi sociali fra dittature (controllo dei mass-media, improntati all'esaltazione eroica, spesso con culto della personalità) e gestioni assembleari come monarchie e repubbliche parlamentari e presidenziali (patriottico-nazionaliste) espresse dai maggiori consensi, tramite elezioni. Per cui si può dire che mentre le religioni hanno assemblato dei Popoli, i partiti politici hanno determinato degli Stati.
In entrambi i casi le parti in gioco avvalorano la propria posizione politica sulla lettura del passato, sviscerando la criticità di determinate situazioni avvenute e proponendo quindi nuove via d'uscita: è determinante quindi la veridicità delle memorie su cui basano le loro argomentazioni e l'opinione che propongono nella lettura degli episodi del passato. Per quanto al momento assistiamo ad una globalizzazione del potere finanziario che non ha frontiere e che subordina, emana e controlla il potere politico, quello che si evince è l'importanza delle fonti storiche nell'analisi delle varie memorie che ci vengono proposte.
Un controllo della comunicazione che si preoccupi di fornire una determinata versione della memoria storica con la conseguente promozione di valori, princìpi e conseguenti costumi e morali (attraverso i mass-media) rimane dunque una costante dei "centri di potere" e mentre i compiti della rappresentazione del sentimento comune "di stato" e popolare sono affidati ad artisti, poeti e letterati, agli storici è affidato il compito di registrare e tramandare la descrizione dei fatti, gli episodi che caratterizzano un determinato arco di tempo. Può capitare (e capita spesso) che esprimano il loro punto di vista, che giustifichino o il proprio "partito" o, quasi sempre, chi il potere lo esercita e gli permetta di rendere pubbliche le proprie opere. Comunque sia, stilando una memoria scritta del loro presente divengono, in tempi successivi, le fonti storiche.
La Storia, comunque, non è una scienza vera e propria. Per quanto si affermi che inizi dai primi documenti scritti, non è possibile dimostrarla in laboratorio e i moventi e le ipotesi che può suggerire possono essere interpretazioni personali e di parte. Una fonte storica può inoltre esporre i fatti accaduti esaltando certi aspetti e/o nasconderne altri. Non a caso si dice che la storia è scritta sempre da chi vince e chi perde non ha voce in capitolo. Gli storici possono diventare strumenti nel controllo della comunicazione e l'affidabilità delle loro narrazioni è proporzionale alla loro integrità, intelligenza e formazione culturale.
Personalmente penso che la Storia sia come un esteso tessuto che può mostrarci un disegno che, per essere compreso, vada analizzato filo per filo, nella trama e nell'ordito, per coglierne l'immagine complessiva.
Friedrich Wilhelm Nietzsche |
Nelle
"Considerazioni inattuali", Friedrich Nietzsche (1844-1900) scrive a
proposito della storia: "non esistono
fatti, ma solo interpretazioni", vale a dire opinioni sui fatti:
ogni fatto che ci viene tramandato o semplicemente raccontato non è mai il fatto in sé, ma è sempre l'interpretazione di quel fatto da parte del narratore, sempre accettando che tale fatto sia realmente accaduto. La cultura moderna appare a Nietzsche come in
preda ad una "ipertrofia" del sapere storico, una sopravvalutazione causante una malattia
storica. Alla descrizione e alla cura di questa nociva malattia,
Nietzsche tenta di provvedere con la seconda delle "Considerazioni
inattuali", intitolata "Sull'utilità e sul danno della
storia per la vita", in cui sostiene che i fatti in sé sono stupidi e ne occorre quindi l'interpretazione. Sono le teorie ad essere intelligenti. Il senso della storia è spesso nemico della vita, perché ci rende schiavi del passato, passivi. Ne consegue una sfiducia nella propria capacità creativa e il formarsi di una pura erudizione da enciclopedie ambulanti, che annulla la personalità: "nessuno osa più esporre se stesso, ma ciascuno prende la maschera di uomo colto, di dotto, di poeta". Si diventa così "uomini che non vedono quello che anche un bambino vede". In particolare riconosce che:
Per cercare di interpretare e criticare il periodo proto-storico, Friedrich Wilhelm Nietzsche ci propone alcune chiavi di lettura. Nietzsche, che vive con disagio il suo periodo storico, contrassegnato dal positivismo, in cui quella che lui definisce la "gaia scienza" la fa da padrona, nel suo primo libro, "La nascita della tragedia", analizza il senso della vita nell'antica Grecia, dove appariranno i primi storici e quindi le più antiche fonti storiche dell'occidente. In quei tempi, quando ancora non erano nate né la scienza né la storia, il sentire metafisico comune oscillava dall'irrazionale collettivo al razionalismo individuale. Nel suo scritto, Nietzsche descrive la prima forma della tragedia greca come una rappresentazione che sottintende uno spirito "irrazionale" e collettivo, dove la narrazione è svolta da un coro e non vi sono attori con partiture individuali né costumi: Dioniso, il dio dell'ebbrezza, è lo spirito di questa fase. Nietzsche se la prende quindi con il successivo Socrate che falsa, secondo lui, il vissuto con la "razionalità", applicando il ragionamento nella lettura del quotidiano e nel pensiero. E Apollo, nella sua individualità solare rappresenterà questa nuova fase nel teatro, per cui nella tragedia appariranno attori e maschere che tratteranno narrazioni più costruite ma soprattutto egocentriche. Con lo sguardo rivolto alla Grecia antica, Nietzsche si sente alieno al mondo moderno, erede dell'ottimismo socratico e intraprende una battaglia contro il presente e la sua mancanza di vera cultura scrivendo le "Considerazioni inattuali": inattuali poiché enunciano tesi contrastanti con i valori dominanti dell'epoca, scritte per stimolare la progettazione di un futuro su altre basi e non per il presente.
Da http://www.treccani.it/enciclopedia/apollineo-dionisiaco_%28Dizionario-di-filosofia%29/ : Lo spirito apollineo è ordine e armonia delle forme, mentre lo spirito dionisiaco è ebbrezza ed esaltazione entusiastica priva di forma: il primo domina l’arte plastica, il secondo pervade la musica. La straordinaria forza vitale della tragedia greca antica nacque, secondo Nietzsche, dal loro incontro: nelle tragedie di Eschilo e Sofocle sarebbe infatti avvenuto il miracolo dell’unione tra l’entusiastica accettazione della vita che si esprime nell’ebbrezza creativa e nella passione sensuale (elemento dionisiaco) e il tentativo di risolvere e superare il caos in forme limpide e armoniche (elemento apollineo). Ma il ‘miracolo’, secondo Nietzsche, ebbe vita breve: già a partire da Socrate prevalse nella cultura greca l’atteggiamento apollineo, ossia l’incapacità di sostenere la tragica realtà della vita - con i suoi dolori, le sue assurdità, le sue insensatezze - e il desiderio di rappresentarsela come una vicenda ordinata, razionale, dotata di senso. La perdita dell’elemento dionisiaco è all’origine, secondo il filologo tedesco, della decadenza del mondo occidentale, che trova espressione nell’allontanamento dai valori vitali (bellezza, salute, forza, potenza) e nella lunga serie di ‘menzogne’ (la più grande delle quali è Dio) con le quali gli uomini hanno ingannato sé stessi per secoli.
- la storia archeologica si ferma al mediocre, si attarda ad ammirare il passato, anche nei suoi aspetti mediocri e meschini, per giustificare la presente mediocrità;
- la storia monumentale cerca nel passato esempi e modelli positivi, che mancano nel presente, onde poter guardare al futuro con la sicurezza che ciò che è stato possibile in passato lo sarà ancora;
- solo la critica della storia è davvero positiva, in quanto non si limita a favorire l'imitazione del passato, anche eroico, ma lo vuole superare.
Fondamentalmente Nietzsche si auspica che l'uomo del futuro, che lui definisce l'"oltre-uomo" (non super-uomo, definizione tradotta erroneamente da "Übermensch") abbia il coraggio di fare a meno di qualsiasi dio (per cui, per l'oltre-uomo, Dio è morto) e di navigare senza legami e senza paura verso il proprio divenire.
Il 29-10-2006, l'archeologo Andrea Carandini, che ha realizzato numerosi scavi nel centro di Roma, racconta alla cittadinanza ( QUI ) gli eventi che portarono al 21 aprile del 753 a.C., data più simbolica che vera della fondazione di Roma. Nel prologo al suo discorso, dice: "Noi archeologi siamo presi da una febbre, una febbre non dell'oro ma della Storia, che ci divora in qualche misura, perché non troviamo evidentemente nella vita tutto quello che vorremmo e lo andiamo a cercare in altre epoche, per allargare la varietà della vita, la varietà della Storia..."
Ora, visto che possiamo pensare che i primi documenti scritti, le prime fonti storiche, risalgano al 3500 p.e.v. (a.C.) con l'introduzione dell'alfabeto cuneiforme sumerico, sappiamo che il primo storico riconosciuto è stato Ecateo di Mileto (Mileto, 550 - 476 a.C.) e per i tempi antecedenti possiamo comunque estrapolare delle informazioni dalle narrazioni mitologiche e/o religiose oltre che dalle manifestazioni di artisti e arti del periodo temporale che si vuole prendere in considerazione.
Fondamentalmente Nietzsche si auspica che l'uomo del futuro, che lui definisce l'"oltre-uomo" (non super-uomo, definizione tradotta erroneamente da "Übermensch") abbia il coraggio di fare a meno di qualsiasi dio (per cui, per l'oltre-uomo, Dio è morto) e di navigare senza legami e senza paura verso il proprio divenire.
Il 29-10-2006, l'archeologo Andrea Carandini, che ha realizzato numerosi scavi nel centro di Roma, racconta alla cittadinanza ( QUI ) gli eventi che portarono al 21 aprile del 753 a.C., data più simbolica che vera della fondazione di Roma. Nel prologo al suo discorso, dice: "Noi archeologi siamo presi da una febbre, una febbre non dell'oro ma della Storia, che ci divora in qualche misura, perché non troviamo evidentemente nella vita tutto quello che vorremmo e lo andiamo a cercare in altre epoche, per allargare la varietà della vita, la varietà della Storia..."
Ora, visto che possiamo pensare che i primi documenti scritti, le prime fonti storiche, risalgano al 3500 p.e.v. (a.C.) con l'introduzione dell'alfabeto cuneiforme sumerico, sappiamo che il primo storico riconosciuto è stato Ecateo di Mileto (Mileto, 550 - 476 a.C.) e per i tempi antecedenti possiamo comunque estrapolare delle informazioni dalle narrazioni mitologiche e/o religiose oltre che dalle manifestazioni di artisti e arti del periodo temporale che si vuole prendere in considerazione.
Per cercare di interpretare e criticare il periodo proto-storico, Friedrich Wilhelm Nietzsche ci propone alcune chiavi di lettura. Nietzsche, che vive con disagio il suo periodo storico, contrassegnato dal positivismo, in cui quella che lui definisce la "gaia scienza" la fa da padrona, nel suo primo libro, "La nascita della tragedia", analizza il senso della vita nell'antica Grecia, dove appariranno i primi storici e quindi le più antiche fonti storiche dell'occidente. In quei tempi, quando ancora non erano nate né la scienza né la storia, il sentire metafisico comune oscillava dall'irrazionale collettivo al razionalismo individuale. Nel suo scritto, Nietzsche descrive la prima forma della tragedia greca come una rappresentazione che sottintende uno spirito "irrazionale" e collettivo, dove la narrazione è svolta da un coro e non vi sono attori con partiture individuali né costumi: Dioniso, il dio dell'ebbrezza, è lo spirito di questa fase. Nietzsche se la prende quindi con il successivo Socrate che falsa, secondo lui, il vissuto con la "razionalità", applicando il ragionamento nella lettura del quotidiano e nel pensiero. E Apollo, nella sua individualità solare rappresenterà questa nuova fase nel teatro, per cui nella tragedia appariranno attori e maschere che tratteranno narrazioni più costruite ma soprattutto egocentriche. Con lo sguardo rivolto alla Grecia antica, Nietzsche si sente alieno al mondo moderno, erede dell'ottimismo socratico e intraprende una battaglia contro il presente e la sua mancanza di vera cultura scrivendo le "Considerazioni inattuali": inattuali poiché enunciano tesi contrastanti con i valori dominanti dell'epoca, scritte per stimolare la progettazione di un futuro su altre basi e non per il presente.
Da http://www.treccani.it/enciclopedia/apollineo-dionisiaco_%28Dizionario-di-filosofia%29/ : Lo spirito apollineo è ordine e armonia delle forme, mentre lo spirito dionisiaco è ebbrezza ed esaltazione entusiastica priva di forma: il primo domina l’arte plastica, il secondo pervade la musica. La straordinaria forza vitale della tragedia greca antica nacque, secondo Nietzsche, dal loro incontro: nelle tragedie di Eschilo e Sofocle sarebbe infatti avvenuto il miracolo dell’unione tra l’entusiastica accettazione della vita che si esprime nell’ebbrezza creativa e nella passione sensuale (elemento dionisiaco) e il tentativo di risolvere e superare il caos in forme limpide e armoniche (elemento apollineo). Ma il ‘miracolo’, secondo Nietzsche, ebbe vita breve: già a partire da Socrate prevalse nella cultura greca l’atteggiamento apollineo, ossia l’incapacità di sostenere la tragica realtà della vita - con i suoi dolori, le sue assurdità, le sue insensatezze - e il desiderio di rappresentarsela come una vicenda ordinata, razionale, dotata di senso. La perdita dell’elemento dionisiaco è all’origine, secondo il filologo tedesco, della decadenza del mondo occidentale, che trova espressione nell’allontanamento dai valori vitali (bellezza, salute, forza, potenza) e nella lunga serie di ‘menzogne’ (la più grande delle quali è Dio) con le quali gli uomini hanno ingannato sé stessi per secoli.
Apollineo e
dionisiaco nella "Nascita della Tragedia"
La fase più antica della cultura greca (omerica) si sviluppò sotto il dominio esclusivo dell'apollineo (nell'epica, appunto). La poesia epica (dal greco épos, racconto) nasce e trova motivo di sviluppo nell'esigenza, che è di tutti i popoli, di conservare nel tempo la memoria delle proprie vicende e dei propri eroi, rendendola un patrimonio comune. Essa, attraverso la narrazione degli eventi di cui sono stati protagonisti i campioni di un popolo, permettono al popolo stesso di riconosce le proprie radici, divenendo anche lo strumento con cui celebrare il sentimento di appartenenza al proprio gruppo. Non è un genere letterario esclusivo della civiltà greca, ma è presente nel patrimonio storico e culturale di molti popoli. Dall'antico poema mesopotamico che ha come protagonista l'eroe Gilgamesh, alla sterminata narrazione indiana del Mahabharata, alle grandi saghe appartenenti alle popolazioni germaniche, come Sigfrido e i Nibelunghi, fino alla Gerusalemme liberata di Tasso o al Kalevala ottocentesco dello svedese Lönnrot, appare evidente come un unico filo leghi ciascun popolo ai miti delle proprie origini e come il bisogno di riconoscersi in una comune identità generi poesia. Durante quella stessa fase arcaica della cultura greca, il dionisiaco era appannaggio dei culti selvaggi del vicino Oriente: la loro progressiva penetrazione in Grecia produsse la reazione ancora riscontrabile nell'irrigidimento apollineo dell'arte dorica. Dal compromesso scaturì il culto greco di Dioniso, raffinato rispetto ai precedenti asiatici e simbolicamente collegato a quello di Apollo proprio nel centro della venerazione apollinea, a Delfi.
La funzione primitiva della tragedia greca, sarebbe quindi stata quella di esprimere, con
quelle figure semibestiali, il sentimento secondo cui in fondo alle
cose la vita è, a dispetto di ogni mutare delle apparenze,
indistruttibilmente potente e gioiosa. Alla presenza di quel coro la
comunità poteva riporre la propria veste civile e recuperare il
senso dell'unità con il tutto della natura: una esperienza
consolatoria resa necessaria dall'estasi dionisiaca, con la quale si
era gettato uno sguardo sull'essenza dolorosa dell'esistenza. I Greci
trovarono nella mediazione artistica del coro satiresco il riscatto
dalla nausea radicale della ebbrezza dionisiaca. Nella loro
condizione estatica i seguaci di Dioniso si vedevano trasformati in
satiri: questo sarebbe dunque stato il punto di partenza del dramma
tragico. A differenza di quella del poeta epico, la visione del coro
non implicava distacco e esteriorità, ma piena partecipazione e
fusione con le figure dell'estasi. Tuttavia tale visione dionisiaca
necessitava di una seconda esperienza visionaria, per poter
realizzare la scena originaria del dramma: la rappresentazione
apollinea del dio da parte di un attore, che affiancava il coro. Ciò
comportò anche la ulteriore frattura nel seguito degli adoratori di
Dioniso, tra coro e spettatori. Il coro aveva allora il compito di
commuovere gli spettatori, così che essi non vedessero un attore in
scena, ma la figura visionaria che l'attore intendeva rappresentare.
In questo lo spettatore doveva ancora partecipare della visione del
coro. La tradizione
antica attesta il nesso tra le prime forme tragiche e i miti relativi
alle sofferenze di Dioniso, il suo sbranamento a opera dei Titani e
la sua rinascita. La dottrina misterica alla base della tragedia
consiste appunto in quanto alluso nel mito: l'unità fondamentale di
tutte le cose, la individuazione come colpa, la speranza della
reintegrazione nell'unità. L'accettazione
del culto pubblico di Dioniso nella seconda metà del VI sec. A.C.
coincide con lo sviluppo del coro ditirambico in vero e proprio
dramma: così anche la sapienza dionisiaca finì per servirsi della
mitologia olimpica per esprimere la propria visione del mondo,
intrecciando il mito dionisiaco con quello della tradizione epica.
Dioniso rimaneva tuttavia l'unico eroe originario, sempre in scena,
dietro la maschera dei diversi eroi della mitologia popolare
olimpica. In questo senso lo scadimento della religiosità olimpica
trovò nella musica dionisiaca uno strumento di catarsi, la sua
corrente trivializzazione si riscattò nella profondità del
pessimismo dionisiaco.
Ogni vera arte è
o apollinea o dionisiaca o risultato di entrambe: si tratta di
impulsi o tendenze artistiche antitetici, dalla cui modulabile
combinazione scaturisce in ogni tempo l'opera d'arte. Apollineo e
dionisiaco costituiscono gli unici veri impulsi artistici: l'arte
apollinea per eccellenza è la scultura, quella dionisiaca la musica
(almeno nelle sue forme più elevate). La tragedia è il classico
esempio di perfetta sintesi dei due impulsi.
Tuttavia
apollineo e dionisiaco trovano espressione anche a livello elementare
nel sogno (che è apollineo) e nell'ebbrezza (che è dionisiaca): nel sogno il
mondo viene plasmato dal soggetto, nell'ebbrezza è invece il
soggetto che viene plasmato dalla natura. In questo senso l'arte
apollinea interagisce con il sogno e quella dionisiaca interagisce con
l'ebbrezza, con l'estasi. L'artista apollineo gioca con la realtà
nella propria ideazione creativa, gioca con il sogno nella propria
traduzione produttiva. L'artista dionisiaco, invece, da un lato si
abbandona all'ebbrezza, dall'altro si spia in quello stato: così
nella sua creazione si intrecciano sobrietà e ebbrezza. Apollo è il dio solare della forma e della bellezza,
dell'equilibrio e della armonia.
Dioniso, invece, il dio della
perdita di ogni individuazione e dell'esperienza mistica dell'appartenenza nel tutto della natura.
La fase più antica della cultura greca (omerica) si sviluppò sotto il dominio esclusivo dell'apollineo (nell'epica, appunto). La poesia epica (dal greco épos, racconto) nasce e trova motivo di sviluppo nell'esigenza, che è di tutti i popoli, di conservare nel tempo la memoria delle proprie vicende e dei propri eroi, rendendola un patrimonio comune. Essa, attraverso la narrazione degli eventi di cui sono stati protagonisti i campioni di un popolo, permettono al popolo stesso di riconosce le proprie radici, divenendo anche lo strumento con cui celebrare il sentimento di appartenenza al proprio gruppo. Non è un genere letterario esclusivo della civiltà greca, ma è presente nel patrimonio storico e culturale di molti popoli. Dall'antico poema mesopotamico che ha come protagonista l'eroe Gilgamesh, alla sterminata narrazione indiana del Mahabharata, alle grandi saghe appartenenti alle popolazioni germaniche, come Sigfrido e i Nibelunghi, fino alla Gerusalemme liberata di Tasso o al Kalevala ottocentesco dello svedese Lönnrot, appare evidente come un unico filo leghi ciascun popolo ai miti delle proprie origini e come il bisogno di riconoscersi in una comune identità generi poesia. Durante quella stessa fase arcaica della cultura greca, il dionisiaco era appannaggio dei culti selvaggi del vicino Oriente: la loro progressiva penetrazione in Grecia produsse la reazione ancora riscontrabile nell'irrigidimento apollineo dell'arte dorica. Dal compromesso scaturì il culto greco di Dioniso, raffinato rispetto ai precedenti asiatici e simbolicamente collegato a quello di Apollo proprio nel centro della venerazione apollinea, a Delfi.
Con il culto di
Dioniso si diffuse potentemente in Grecia anche la musica. Il flauto
e il ditirambo (poesia lirica corale) caratterizzarono il culto del nuovo dio: in
alternativa alla musica apollinea e al suo ritmo, eseguita con la lira, la musica dionisiaca introdusse la potenza emotiva della
tonalità, della melodia e dell'armonia.
La religione
dionisiaca fu una religione misterica: al centro del suo culto si
ritrovano la rievocazione della dolorosa lacerazione della unità
primordiale nella molteplicità propria della individuazione e la
aspirazione degli iniziati alla sua ricostituzione, nella perdita
della personale identità. Così nel ditirambo la potenza della
musica dionisiaca, coniugata ai movimenti della danza, ne riproduceva simbolicamente agonia e gioia.
La religione
olimpica suggerisce una piena adesione e fruizione della vita, in
tutti i suoi aspetti, a dispetto di preoccupazioni d'ordine morale o
della spiritualità propria di una religione della trascendenza.
Tuttavia ai Greci non sfuggiva il volto orrido dell'esistenza: la
verità dionisiaca rivelava lo sfondo tragico della vita, la
irrisolta contraddizione, il dolore e l'eccesso che la
caratterizzano, come maledizioni dell'individuazione. Ne sono ancora
evidenze i risvolti oscuri della mitologia e la sapienza di Sileno.
Nel mito greco, il nome greco Dioniso vuol dire "giovane figlio di Zeus" e infatti Dioniso nacque dall'unione tra Zeus e la bella Semele. Era, venuta a conoscenza della relazione segreta tra i due, assunse le sembianze di una vecchia e consigliò Semele di chiedere a Zeus di mostrarsi nella sua vera natura. Semele credette alla vecchia e insistette a tal punto che Zeus, adirato, mostrò la sua folgore che incenerì all'istante Semele. Anche questa volta Era aveva avuto la sua vendetta ma Zeus volle salvare il frutto della sua relazione, Dioniso. Lo affidò al satiro Sileno che viveva nei boschi e fu per lui maestro di vita.
Nel mito greco, il nome greco Dioniso vuol dire "giovane figlio di Zeus" e infatti Dioniso nacque dall'unione tra Zeus e la bella Semele. Era, venuta a conoscenza della relazione segreta tra i due, assunse le sembianze di una vecchia e consigliò Semele di chiedere a Zeus di mostrarsi nella sua vera natura. Semele credette alla vecchia e insistette a tal punto che Zeus, adirato, mostrò la sua folgore che incenerì all'istante Semele. Anche questa volta Era aveva avuto la sua vendetta ma Zeus volle salvare il frutto della sua relazione, Dioniso. Lo affidò al satiro Sileno che viveva nei boschi e fu per lui maestro di vita.
Correggio: Venere e l'Amore scoperti
da un satiro, 1524/25 (Louvre, Paris),
da: https://commons.wikimedia.
org/wiki/File:V%C3%A9nus_et_ l%27Amour_d%C3%A9couverts_ par_un_satyre,_Corr%C3%A8ge_ (Louvre_INV_42)_02.jpg#/media/ File:V%C3%A9nus_et_l%27Amour_ d%C3%A9couverts_par_un_satyre, _Corr%C3%A8ge_(Louvre _INV_42)_02.jpg |
Sileno (da cui i nomi Silvio e Silvano) era il dio degli alberi, figlio di Pan (il dio silvestre) e di una ninfa. Dall'aspetto di un anziano corpulento, calvo e peloso, spesso raffigurato con attributi animaleschi, aveva il dono di una straordinaria saggezza, disprezzava i beni terreni ed aveva anche il dono della divinazione. Re Mida lo catturò proprio per costringerlo (con successo, secondo alcune versioni del mito) a rivelargli i suoi poteri che davano sconfinata saggezza e la capacità di prevedere il futuro. Si narra che il saggio Sileno, dopo aver svolto il suo ruolo nell'accompagnare il giovane dio durante il cammino della crescita, si sarebbe poi abbandonato completamente al vizio del bere. Si credeva partecipasse ai banchetti sacri a Dioniso presentandosi a cavallo di un'asina e lo si vede spesso far parte del tiaso dionisiaco. Il tìaso era in
origine, nella mitologia greca, il corteo al seguito di Dioniso, i
cui membri più significativi erano le Menadi, o figure demoniache, a
metà strada tra l'uomo e gli animali selvaggi, come i Sileni, i
Satiri, Pan e i Centauri.
Eracle fece parte
del corteo dionisiaco per un breve periodo, dopo essere stato
sconfitto dal dio in una sfida nel bere.
I sileni, nella mitologia
greca, erano divinità minori dei boschi, di natura selvaggia e lasciva,
imparentati con i centauri e nemici dell'agricoltura, molto spesso
assimilati ai satiri, tanto che il termine sileno viene anche usato
per indicare un satiro anziano.
La religione olimpica (con l'arte a essa connessa)
incarnò la reazione allo strato di credenze pre-elleniche: al
terrore titanico succedette la vittoria della gioia olimpica. Il mondo
olimpico consistette nella creazione dell'istinto apollineo per la bella
illusione, mentre il terrore richiedeva la negazione della gioia allo
scopo di rendere sopportabile l'esistenza.
Così nel mondo
greco arcaico la tendenza apollinea risultò dominante, coprendo con
il gusto per la misura e l'equilibrio ogni accenno di eccesso o di
deformità, come pure ogni spinta alla esagerata autoaffermazione,
riferibili in qualche modo allo scenario preellenico. E la successiva
diffusione del culto di Dioniso produsse la risposta dorica. La
tragedia attica costituì una ulteriore fase, di correlazione tra le
due tendenze. La tragedia
nacque dalla lirica, che a sua volta si era delineata come
genere con Archiloco (VII sec. a.C.). La sua natura non sarebbe stata
soggettiva, come tradizionalmente accettato: in essa, come in ogni
vera arte, si deve invece riscontrare la presenza dell'oggettività,
come azzeramento della volontà individuale. Il lirico è in primo
luogo un compositore e in quanto tale, è un artista dionisiaco che
abbandona la propria soggettività individuale per identificarsi con
la vera realtà metafisica ed esprimerla nella musica. Sotto
l'influenza apollinea riesce a simbolizzare la musica in idee e
linguaggi specifici. La musica precede l'idea. Nella Grecia antica, la lirica (o
lyrica) era quel genere poetico che faceva ricorso al canto o
all'accompagnamento di strumenti a corde come la lyra,
differenziandosi in questo dalla poesia recitativa. La lirica poteva
essere accompagnata da strumenti a fiato e si parlava in questo caso
di modo aulodico, o da strumenti a corda e in questo caso si parlava
invece di modo citarodico. Nell'usare oggi l'espressione "lirici
greci" si fa riferimento, in senso più lato, a tutto un modo di
produrre versi che copre in Grecia l'arco di due secoli, il VII ed il
VI secolo a.C.. Il contributo
particolare di Archiloco fu quello di introdurre il canto popolare in
letteratura: come nella lirica, anche in quel caso l'elemento
dionisiaco (la musica) risulta originario rispetto alla simbolizzazione
verbale (apollinea). La tragedia
greca avrebbe avuto originariamente, secondo la tradizione che
risale a Aristotele, una connessione con il culto di Dioniso:
allestita all'interno delle celebrazioni dionisiache ad Atene,
sarebbe sorta dal ditirambo dionisiaco. In questo senso un ruolo
centrale l'avrebbe avuto il coro tragico, a cui si riduceva in origine
l'intera recita. Il coro rappresentava il corteo dei seguaci del dio,
che nell'estasi si ritrovavano trasformati in satiri.
Satiro che feconda una ninfa, da un disegno di Agostino Carracci. |
Metopa del Partenone: lotta fra un Centauro e un Lapita. |
A proposito del fregio sulla metopa del Partenone qui a fianco, nella mitologia greca i Lapiti
erano un popolo leggendario che abitava la vallata del Peneo, in
Tessaglia. L’origine dei Lapiti, al pari dei Mirmidoni e delle
altre tribù tessale, risale ad un’epoca pre-ellenica. Le antiche
genealogie sostenevano che la loro stirpe fosse imparentata con
quella dei Centauri: in particolare, secondo una leggenda, Lapite e
Centauro sarebbero stati fratelli gemelli figli di Apollo e della
Ninfa Stilbe, figlia del dio fluviale Peneo. Lapite era un abile
guerriero, mentre Centauro era un essere deforme che visse insieme a
dei cavalli e si accoppiò con delle giumente, generando i Centauri,
creature metà uomini e metà cavalli. Lapite divenne invece il
progenitore della stirpe che da lui prende il nome, e tra i suoi
discendenti si trovano re e guerrieri come Issione, Piritoo, Ceneo e
Corono, nonché i veggenti Idmone e Mopso. La madre di Piritoo era Dia figlia di
Deioneo (o Ioneo) mentre, come era comune per molti eroi, egli aveva
sia un padre divino che un padre mortale. Il suo padre immortale era
Zeus che però, per mettere incinta Dia, aveva dovuto assumere la
forma di un cavallo, ragion per cui i Lapiti divennero anche abili
cavalieri. A loro era attribuita l’invenzione del morso delle
briglie. Secondo l’Iliade i Lapiti parteciparono alla guerra di
Troia con quaranta navi sotto il comando di Polipete, figlio di
Piritoo e di Leonteo, figlio di Corono.
La Centauromachia - La più
famosa leggenda che coinvolge i Lapiti è quella della loro battaglia
contro i Centauri in occasione della festa nuziale di Piritoo, la
cosiddetta "Centauromachia". I Centauri erano stati
invitati ai festeggiamenti ma, non essendo abituati al vino, ben
presto si ubriacarono, dando sfogo al lato più selvaggio della loro
natura. Quando la sposa Ippodamia ("colei che doma i cavalli")
arrivò per accogliere gli ospiti il centauro Euritione balzò su di
lei e tentò di stuprarla. In un attimo anche tutti gli altri
centauri si lanciarono addosso alle donne ed ai fanciulli.
Naturalmente scoppiò una battaglia nella quale anche l’eroe Teseo,
amico di Piritoo, intervenne in aiuto dei Lapiti. I centauri furono
alla fine sconfitti e scacciati dalla Tessaglia e ad Euritione furono
mozzati naso ed orecchie. Durante lo scontro cadde il Lapite
Ceneo, che originariamente era una ragazza di nome Ceni ed era la favorita di
Poseidone, che per esaudire una sua supplica, la trasformò in un
uomo, rendendola un guerriero invulnerabile. Donne guerriere di
questo tipo, a stento distinguibili dagli uomini, erano comuni tra i
cavalieri Sciti e furono ancora presenti nella tradizione albanese.
Nel corso della battaglia contro i Centauri, Ceneo si era dimostrato
invulnerabile ancora una volta, finché i Centauri non decisero
semplicemente di schiacciarlo con dei massi e dei tronchi d’albero:
a quel punto egli sprofondò, ancora apparentemente illeso, nelle
profondità della terra, dalle quali riemerse trasformato in un
uccellino.
Piero di Cosimo - Battaglia fra Centauri e Lapiti (1500-1515) Da http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Piero_di_ Cosimo_015.jpg#/media/File:Piero_di_Cosimo_015.jpg |
Passo dunque ad inserire un'elenco dei poeti proto-storici e dai più antichi storici dell'occidente a quelli alto-medievali di cui si abbiano notizie o di cui conosciamo almeno parte delle opere, coloro che presumo possano averci lasciato delle fonti storiche su cui impostare delle riflessioni sulla Storia, un esteso tessuto che può mostrarci un disegno che, per essere compreso, va analizzato filo per filo, nella trama e nell'ordito, per coglierne il complessivo:
Raffigurazione di Omero. |
Poeti proto-storici dell'antica Grecia:
Esìodo (Cuma o Ascra in Grecia, VIII
secolo a.C. - VII secolo a.C.)
Archiloco (Paro, 680 a.C. circa - 645 a.C. circa)
Eschilo di Eleusi (Eleusi, 525 a.C. - Gela, 456 a.C.)
Eschilo di Eleusi (Eleusi, 525 a.C. - Gela, 456 a.C.)
Storici antichi dell'Occidente:
1. Ecateo di Mileto (Mileto, 550 - 476 a.C.)
2. Ellanico di Mitilene o
di Lesbo o Lesbio (Mitilene, 490 a.C. circa - Atene, 405 a.C. circa)
3. Erodoto (Alicarnasso,
484 a.C. - Thurii, 425 a.C.)
4. Antioco di Siracusa o Senofaneo (Siracusa, 460 a.C. - ...)
5. Tucidide (Alimunte in Attica, 460
a.C. circa - dopo il 404 a.C., o secondo altri, dopo il 399 a.C.)
6. Stesimbroto di Taso
(Taso, seconda metà del V secolo a.C.)
7. Filisto di Siracusa (Siracusa,
430 a.C. - 356 a.C.)
8. Senofonte (Erchia in Attica, 430/25
a.C. circa - Corinto, 355 a.C. circa)
9. Teopompo
(Chio, anno discusso: 404/3 o 378/7 a.C. - 320 a.C.)
10. Eforo di Cuma (Cuma eolica, Cyme, 400
a.C. circa - 330 a.C. circa)
15. Marco Porcio Catone detto "il Censore" (Tusculum, 234 a.C. circa - 149 a.C.)
11. Anassimène di Lampsaco (Lampsaco, 380 a.C. circa - 320 a.C. circa)
12. Callistene (Olinto, 370 a.C. - 327 a.C.)
13. Timeo di Tauromenio o di Taormina (Tauromenium, 350 a.C. circa - Siracusa, 260 a.C. circa)
14. Eratostene di Cirene (Cirene, 275 a.C. circa
- Alessandria d'Egitto, 195 a.C. circa) 16. Polibio (Megalopoli, 206 a.C. circa - Grecia, 124 a.C.)
17. Marco
Terenzio Varrone (Rieti,
116 a.C. - Roma, 27 a.C.)
18. Diodoro Siculo (Agira, l'antica Agyrion, 90 a.C. circa - 27 a.C. circa)
19. Gaio
Sallustio Crispo (Amiternum, 1º ottobre 86 a.C.
- Roma, 13 maggio 34 a.C.)
20. Strabone (prima
del 60 a.C. - Amasea ?, tra il 21 e il 24 d.C.)
21. Dionisio o Dionigi d'Alicarnasso (Alicarnasso, 60 a.C. circa - 7 a.C.)
22. Tito Livio,
il cui cognomen è sconosciuto (Patavium, 59 a.C. - Patavium, 17 d.C.)
23. Marco Verrio Flacco (Praeneste, 55 a.C. - 20 d.C.)
24. Gneo Pompeo Trogo (Narbona, seconda metà del I secolo a.C. - I secolo d.C.? in cui è citato)25. Gaio
Plinio Secondo
conosciuto come Plinio il Vecchio
(Como, 23 - Stabiae, 25 agosto 79)
26. Tiberio Cazio Asconio Silio Italico (Padova? 25 circa - Campania, 101)
27. Tito Flavio Giuseppe (Gerusalemme, 37 circa - Roma, 100 circa)
27. Tito Flavio Giuseppe (Gerusalemme, 37 circa - Roma, 100 circa)
28. Plutarco
(Cheronea, 46/48 - Delfi, 125/127)
29. Publio
(o Gaio) Cornelio Tacito
(Gallia Narbonese, 56 - 120)
30. Gaio
Svetonio Tranquillo,
chiamato talvolta Suetonio (Ippona in Algeria, 70 - 126)
31. Publio Annio Floro, o Lucio
Anneo Floro o Giulio Floro (Africa, 70/75 circa - Roma, 145 circa)
32. Pausania il Periegeta (Lidia, 110 - 180)
33. Sesto Pompeo Festo (Narbona, II secolo d.C. - ...)
34. Scimno di Chio citato
anche come Sciano di Chio (Chio, fl.= floruit, aveva 40 anni, nel 185 a.C.)
35. Ateneo di Naucrati (Naucrati, ...
- dopo il 192)
36. Lucio Cassio Dione, forse Cocceianus (Nicea in Bitinia, 155 - 235)
37. Marco Giuniano Giustino (fl.= floruit, “fiorì”, nel senso che aveva 40 anni, fra II e III secolo)
38. Gaio Giulio Solino (Italia, 210 circa - dopo il 258?)
39. Eusebio di Cesarea (Cesarea in
Palestina, 265 - Cesarea in Palestina, probabilmente 340)40. La "Storia Augusta" ("Historia Augusta"), biografie da Adriano (117) a Numeriano (284)
41. Flavio Eutropio (Italia, fl.= floruit, aveva 40 anni, nel 363-387; Bordeaux ? - dopo il 387)
42. Rufo Festo Avieno (Volsinii/Bolsena, fl.= floruit, aveva 40 anni nella seconda metà
del IV secolo)41. Flavio Eutropio (Italia, fl.= floruit, aveva 40 anni, nel 363-387; Bordeaux ? - dopo il 387)
43. Ammiano Marcellino (Antiochia di Siria, 330/332 circa - Roma, dopo il 397/400)
48. Flavio Magno Aurelio Cassiodoro
Senatore (Scolacium in Calabria, 485 circa - Scolacium, 580 ca.)
44. Servio Mario Onorato o Deuteroservio o Servio Danielino (fl., aveva 40 anni alla fine del IV sec.)
45. Filostorgio (Borissus in Cappadocia, 368 - 439)46. Paolo Orosio (Braga in Portogallo, 375 circa -
420 circa)
47. Prisco di Panion (Panio in
Tracia, 420 circa - dopo il 471)
49. Procopio di Cesarea (Cesarea marittima, 490 circa -
Costantinopoli, 560 circa)
50. Stefano di Bisanzio,
conosciuto anche come Stefano Bizantino (Costantinopoli, VI secolo - …)
51. Giordane o
Giordano o Jordanes (Impero Romano, fl.= floruit, aveva 40 anni nel 550ca.)
52. Fredegario (Burgundia, fine del VII secolo
d.C. - inizio dell'VIII secolo d.C.)
53. Paolo Diacono
(Cividale del Friuli, 720 - Montecassino, 799)54. Molte fonti storiche sono tramandate dalla Suda o Suida, un lessico e un'enciclopedia storica del X secolo.
POETI PROTO-STORICI dell'antica Grecia in ordine cronologico:
Busto noto come "pseudo Seneca" che ritrae Esìodo. Napoli, museo archeologico. |
Carta dall'antica Asia minore con evidenziata Cuma eolica. |
Carta della Beozia, in Grecia, con indicato dal segnalino rosso il monte Elicona, presso cui sorgeva Ascra. In rosso sono indicati il braccio di mare Euripo e l'isola Eubea. |
Alla morte del
padre, il patrimonio viene diviso tra lui e il fratello Perse, che
dopo avere dilapidato tutta la sua parte, riesce tramite un raggiro
ad impossessarsi della parte di Esiodo (grazie a un processo
giudiziario in cui corrompe i giudici). Plutarco ci
informa della sua morte violenta, ucciso dai fratelli di una donna
che sedusse o tentò di sedurre. Si narra che ai
ludi funebri in onore di Anfidamante, in bravura vinse e superò
persino Omero stesso. Tuttavia questo dato non è storicamente
attendibile, poiché il certamen che lo attesta, l'Agone di Omero e
Esiodo, viene guardato con sospetto, sembrando ai critici
un'invenzione del sofista Alcidamante. Oltre alle "Opere
e i giorni", è possibile attribuire con certezza ad Esiodo
anche la "Teogonia", il primo poema religioso greco che tenta di
stabilire un ordine nella genealogia delle divinità adorate in
Grecia (teogonia è esattamente questo, cioè la nascita delle
divinità). Quest'opera nasce dall'esigenza da parte dell'autore di
"definire" e riorganizzare la fluttuante materia mitologica
che, a causa delle diverse tradizioni locali dell'Ellade, presentava
differenti leggende o addirittura differenti "genealogie"
per il medesimo dio o dea. Essa, inoltre, contiene numerose
informazioni sulle origini dell'universo e sulle divinità
primordiali che contribuirono alla sua formazione e proprio per tale
ragione si ritiene che la Teogonia fu il testo che garantì la
vittoria di Esiodo alle feste Calcidiche, e che quindi vada ritenuto
precedente alle Opere. Oltre alle due
celeberrime opere a noi arrivate per intero, del corpus esiodeo
dovevano far parte anche "Il catalogo delle donne" o
"Eoie", conservato in forma frammentaria, "Lo scudo di
Eracle" e una serie di opere minori, tutte conservate in modo
frammentario, della cui autenticità gli stessi antichi già
dubitavano. Non è per nulla chiaro cosa fossero le "Grandi
Eoie", di cui sono attestati a malapena il titolo e qualche
frammento. Esìodo si occupò
per primo ad una nuova poesia: la poesia "didascalica"
cioè tesa ad insegnare. Essendo una grandissima personalità,
come avvenne per Omero, attirò a sé una discreta quantità di opere
non sue. Le caratteristiche
dell'opera esiodea sono tre:
1) Ideologia - La
proposta di Esìodo si colloca nell'VIII secolo a.C. e dobbiamo
quindi proiettare la sua opera nel pensiero del tempo; è il primo
autore greco a tentare di mettere per iscritto l'antica
mitologia teologica e a farlo con la consapevolezza di essere
un poeta vate. (La figura del poeta vate è attribuita agli
autori che cercano di interpretare e guidare i sentimenti delle masse
di ogni epoca. Tale appellativo fu attribuito per la prima volta ad
autori latini, impegnati nella ricerca dei valori perduti dell'antica
romanità, venuti a mancare durante il periodo di grande corruzione
in cui versò Roma dall'età di Cesare in poi. La funzione di
poeta-vates, attribuita ad esempio a Lucrezio o ad Orazio, è quella,
secondo la concezione latina, di un poeta divinamente ispirato e
quasi profetico, in grado di proporsi come guida della comunità,
impegnato attivamente per il ripristino di valori morali, ma anche
filosofici come nel caso dello stesso Lucrezio, scomparsi o, a volte,
considerati in alcuni casi nefasti, come la stessa dottrina
epicurea.). Fino ad allora
nessuno aveva provato ad introdurre un concetto teologico e teogonico
(Teogonia), affiancandolo ad un complemento etico (come in "Le
Opere e i Giorni"). Ciò pone in risalto l'evidente
complementarità delle due opere principali di Esìodo.
2) Sociologia
- Esìodo è stato giustamente definito da alcuni il poeta
degli umili. Egli infatti
compone l'opera, "Le Opere e i Giorni", che suona come una
critica contro l'inerte oziosità dell'aristocrazia; inoltre, è la
prima volta che i ceti inferiori trovano spazio nella poesia epica
greca. La
poesia epica (dal greco épos,
racconto) nasce e trova motivo di sviluppo nell'esigenza, che è di
tutti i popoli, di conservare nel tempo la memoria delle proprie
vicende e dei propri eroi, rendendola un patrimonio comune. Essa,
attraverso la narrazione degli eventi di cui sono stati protagonisti
i campioni di un popolo, permettono al popolo stesso di riconosce le
proprie radici, divenendo anche lo strumento con cui celebrare il
sentimento di appartenenza al proprio gruppo. Non è un genere
letterario esclusivo della civiltà greca, ma è presente nel
patrimonio storico e culturale di molti popoli. Dall'antico poema
mesopotamico che ha come protagonista l'eroe Gilgamesh, alla
sterminata narrazione indiana del Mahabharata, alle grandi saghe
appartenenti alle popolazioni germaniche, come Sigfrido e i
Nibelunghi, fino alla Gerusalemme liberata di Tasso o al Kalevala
ottocentesco dello svedese Lönnrot, appare evidente come un unico
filo leghi ciascun popolo ai miti delle proprie origini e come
il bisogno di riconoscersi in una comune identità generi poesia.
3) Poetica
- Esìodo configura in modo assolutamente inedito l'attività
poetica. Mentre l'epica tradizionale era oggettiva e impersonale,
senza un autore dichiarato, Esìodo porta l'epica verso
un orizzonte a noi più consono: egli si dichiara e rende la poesia
soggettiva e personale, le conferisce un'individualità
storica. Inoltre, se l'epica
tradizionale aveva una funzione edonistico-pedagogica, in Esìodo la
poesia acquista un timbro schiettamente didascalico: Esìodo si fa
maestro di sapienza, poeta vate; la poesia diviene magistero
sapienziale, ponendo le basi di una radice ineliminabile
nella cultura occidentale.
Lingua, stile e
metrica - Esìodo è un poeta epico, e quindi la sua lingua è quella
dell'epos, condizionata già dall'uso dell'esametro. Esiste
tuttavia qualche eccezione, spesso forme che rimandano ai dialettismi
locali, più presenti nelle Opere. Ovviamente, data la posizione
eolica della Beozia (dove le opere esiodee sono composte), sono più
presenti gli eolismi in confronto all'epos omerico. Da parte
di quei critici che vogliono Esìodo come un rappresentante di una
tradizione poetica indipendente, sono stati considerati con maggiore
attenzione quegli aspetti linguistici estranei totalmente ad Omero,
come alcuni infiniti brevi e accusativi plurali brevi della prima
declinazione. Lo stile formulare
invece, è variegato. Molte difatti le formule prettamente omeriche o
costruite su di esse. Omero inoltre non poteva essere presente come
modello (a differenza di quello che avvenne nell'epica più tarda)
bensì come rappresentante di un genere letterario ancora vivo e
attivo, e la cultura a cui apparteneva Esìodo, quella Beotica, era
diversa da quella che aveva prodotto l'epos.
Lo stile epico
tradizionale ha una tonalità uniforme, senza frastagliature. Invece
lo stile di Esìodo è versicolore, pericolosamente oscillante fra
una tonalità ieratica e una tonalità popolareggiante. Comunque nel
suo complesso ha un andamento icastico, lapidario, tendenzialmente
caustico, ellittico. La grandezza di Esìodo è testimoniata dal
fatto che egli è parimenti abile nel delineare scene di genere,
magari tracciate con una sorta di gusto oleografico ottocentesco,
quanto nel condensare affreschi tipicamente epici. Esìodo
sostanzialmente transcodifica il linguaggio omerico, manipola quindi
il testo omerico in rapporto alle sue necessità contingenti, oppure,
essendo un innovatore, segue la strada della neoformazione, inventa
cioè un nuovo lessico e nuove immagini. Da alcuni, per questo suo
spirito innovativo, è stato paragonato ad un Leopardi dell'epoca. Ad
Esiodo è stato intitolato il cratere Hesiod, sulla superficie di
Mercurio. L'ammonimento
ricordato nei suoi scritti ricorda il proverbio popolare 'd'agosto
moglie mia non ti conosco'. Ad Esiodo è dedicato il primo atto
dell'opera "Le Muse galanti" di Jean-Jacques Rousseau.
Archiloco, da: https: //commons.wikimedia .org/wiki/File:Archi lochus_01_pushkin. jpg#/media/File:Arch ilochus_01_pushkin .jpg |
- Archiloco (in greco antico Ἀρχίλοχος, Archílochos;
Paro, 680 a.C. circa - 645 a.C. circa) è considerato il primo grande
lirico greco e il giambografo più famoso. Il giambo è un tipo di piede adoperato
nella metrica classica, genere di poesia, o componimento poetico, di
tono violentemente polemico, aggressivo e satirico. L'etimologia del nome giambo resta
ignota; i moderni ritengono che derivi dalla terminazione in -αμβος,
(anbos) che accostano a parole come thriambos e ditirambo, nomi di
canti che si riferiscono al culto di Dioniso, la cui etimologia è di
origine anellenica, non greca. La connessione del giambo a Demetra e
ai culti della fertilità però non sembra casuale, in ogni caso il
giambo è associato, sin dalla sua presunta origine mitica, allo
scherzo, alla battuta, al motteggio, come testimoniano i temi della
poesia giambica. Si pensa anche che possa derivare dal nome Ἴαμβος
(Ianbos), il figlio di Ares, abile lanciatore di giavellotto,
paragonando quindi il gesto del lanciatore al ritmo del giambo,
caratterizzato da una sillaba breve e una lunga.
Regioni della Grecia e isole greche con evidenziate Taso (Thassos) e Paro (Paros). Clicca per ingrandire. |
Archiloco nacque probabilmente intorno
al 680 a.C. nell'isola di Paro, (Paros in greco) nelle Cicladi. Il
padre era un nobile, Telesicle, mentre la madre, secondo la
tradizione, era una schiava tracia di nome Enipò. Tale nome potrebbe
essere fittizio, in quanto nato da un'assonanza con il sostantivo
greco enipè (ingiuria), e dunque riconducibile alla sua
attività di poeta giambico, mentre l'origine servile della madre è
probabilmente solo una diceria. Il nonno (o bisnonno) Tellis, alla fine
dell'VIII secolo a.C. partecipò al trasferimento del culto di
Demetra a Taso (Thassos in greco): per tale motivo Pausania, nel
descrivere la Lesche degli Cnidi, a Delfi, ricorda che in essa
Polignoto di Taso (V secolo a.C.) raffigurò anche lo stesso Tellis,
posto accanto alla sacerdotessa Cleobea, fautrice dell'introduzione a
Taso del culto di Demetra. Archiloco visse probabilmente nel
periodo che va dal 680 a.C. al 645 a.C. in quanto in una sua opera
viene menzionata un'eclissi di sole probabilmente avvenuta il 6
aprile 648 a.C., che sconvolse gli abitanti dell'Egeo e alla quale
egli assistette mentre si trovava a Taso. Inoltre l'accenno alla
distruzione di Magnesia al Meandro, avvenuta nel 652 a.C., e il
sincronismo stabilito dagli storici antichi tra la sua attività
poetica e il regno del lido Gige, lasciano pochi dubbi ai critici
moderni. Nella seconda metà del VII secolo
a.C., durante il grande movimento di colonizzazione ellenica, i Pari
colonizzarono a nord l'isola di Taso, ma dovettero sostenere lunghe
lotte contro i barbari del continente e contro le colonie delle città
rivali tra cui la vicina Nasso. Archiloco, figlio del fondatore della
colonia tasia, combatté in tali guerre e ne cantò le vicende. In una sua famosa elegia si mostra
rattristato per la perdita del cognato morto in mare in un naufragio.
Sua è la prima raffigurazione allegorica della politica come
il naufragio di una nave, che verrà ripresa da poeti
successivi come Alceo e Quinto Orazio Flacco. In un altro componimento si lamenta
della qualità della vita a Paro, invitando alcuni conoscenti a
lasciarla, e sostiene che a trattenerlo nella vicina Nasso non basti
né il dolce vino, né il suo vitto peschereccio. Andando verso sud,
giunse a Scarpanto e a Creta; verso Nord visitò le isole Eubea,
Lesbo e il Ponto. Come da lui stesso affermato in alcuni
frammenti, si guadagnò da vivere facendo il soldato mercenario.
La tradizione vuole che perse la vita in un combattimento contro
Nasso, ucciso da un certo Calonda.
Personalità - Sulla base dei
pochi frammenti rimasti dell'opera archilochea, la tradizione ha
tracciato un profilo di Archiloco: individualista, litigioso,
trasgressivo e anticonformista. Secondo molti però, tale
interpretazione vizia in senso autobiografico i caratteri satirici
della poesia giambica: in spregio della morale del tempo, Archiloco
afferma di aver gettato lo scudo ed essere fuggito per salvarsi la
vita, ripromettendosi di comprarne uno nuovo: alla negazione dei
topoi dell'ethos eroico, (tipi dell'etica eroica) si
affianca l'affermazione di una visione pragmatica tipica del lavoro
mercenario. Rifiutò anche la kalokagathia, sintesi tradizionale di
bellezza e virtù.
L'amore - Si racconta che amò
una fanciulla di Paro, di nome Neobule ("Oh, se potessi così
toccar la mano di Neobule"), promessagli in sposa dal padre
Licambe, che però poi negò il matrimonio. La tradizione vuole che
nei propri versi avrebbe attaccato tanto pesantemente il padre della
fanciulla da indurre lui e la figlia a impiccarsi. La storicità di
tale episodio è assai dubbia, in quanto si tratta di un topos
letterario assai ricorrente, presente anche in un altro poeta
giambico, Ipponatte. Fu il primo poeta di tutta la
letteratura occidentale a rappresentare l'amore come tormento. Il
violento erotismo della sua poesia, seppur meno oscenamente crudo che
in quella ipponattea, assieme allo spregio dei valori tradizionali,
gli valse aspri rimproveri da parte degli antichi e degli autori
contemporanei. L'amore gli ispira le sensazioni più disparate, dalla
tenerezza, alla bellezza, fino alla sensualità e agli sfoghi irati
per gli amori delusi. « O miserabili cittadini, ascoltate
dunque le mie parole » (Frammento 109 West -
Trad. Bruno Gentili). Delle sue opere restano circa 300
frammenti che furono ordinati dai grammatici alessandrini secondo il
metro utilizzato: Archiloco scrisse elegie, giambi, tetrametri
trocaici, asinarteti, epodi. La quantità di libri scritti è
incerta, ma si ritiene ve ne furono almeno uno di elegie, tre di
giambi, e forse altri. La maggior parte dei frammenti a noi è
pervenuta per via indiretta, ma alcuni, i più estesi e lacunosi, in
forma papiracea. I frammenti superstiti di Archiloco vengono
convenzionalmente raggruppati nel seguente modo:
- frammenti legati all'esperienza
biografica
- componimenti di carattere gnomico e
riflessivo
- versi caratterizzati dallo psògos e
dall'invettiva
- versi di stampo erotico
I destinatari principali della poesia
archilochea erano gli hetàiroi, i membri della sua consorteria
aristocratica, suoi compagni d'armi. Le occasioni concrete di
riunione erano i simposi.
Mito - Una parte di rilievo
della lirica archilochea ebbe
anche carattere obbiettivo e addirittura narrativo.
Archiloco si situa all'origine non solo della lirica, ma soprattutto
della melica, che trattava di mitologia. Cantò le leggende di
Eracle, di Achille, di Euripilo e del pario (dell'isola di Paro)
Coiranos salvato da un delfino. Come linguaggio era inoltre
considerato dagli antichi come il più vicino a Omero.
Favola - Come il mito è
considerato la rappresentazione ideale della vita umana, allo stesso
modo ne è la rappresentazione volgare il mito animale: la favola.
Gli scarsi frammenti ci dicono che le favole della volpe e
dell'aquila o della scimmia erano trattate da Archiloco con grande
ampiezza a tal punto che consentiva discorsi diretti tra animali
protagonisti, invocazioni a Zeus e forse il riferimento esplicito
alla realtà. La figura della volpe compare per la prima volta
proprio con questo poeta.
Metrica - Archiloco è ritenuto
l'inventore del giambo, ma probabilmente tale verso è più antico
dell'autore stesso. Egli fu il primo a utilizzarlo in larga scala e
molti poeti successivi come Saffo, Alceo, Anacreonte e i latini
Catullo e Orazio lo presero come modello. I ritmi giambici e trocaici
erano i più vicini alla lingua viva, a quella parlata nelle
processioni. Ad Archiloco si deve inoltre la creazione della prima
strofa (epodo). L'epodo archilocheo, il distico della poesia
giambica, risulta dall'accoppiamento di un verso semplice o composto,
con uno generalmente più breve.
Lingua e stile - La lingua di
Archiloco è la lingua omerica. Egli però la sottopone a un processo
continuo di transcodificazione, spesso violentemente rappresentativo
(carattere ironico anti-omerico). I pregi stilistici sono esaltati da
Quintiliano: brevità, efficacia espressiva e moltissimo sangue.
Inoltre nelle reliquie compare una geniale ricchezza tropica
(metafore, similitudini).
Lo ψόγος (psògos) -
I versi caratterizzati dallo ψόγος (biasimo) e dall'invettiva
erano composti in metro giambico: per questo motivo con "poesia
giambica" si intende, in senso lato, una poesia di tono satirico
e canzonatorio; poeti giambici o giambografi sono detti gli autori di
versi faceti, ingiuriosi o osceni. Al contrario, i componimenti
elegiaci trattano motivi autobiografici ed evitano ogni oscenità;
tuttavia, nell'accezione moderna di poesia archilochea, si tende ad
assimilare componimenti giambici e componimenti elegiaci: da ciò ne
deriva un'immagine unitaria di Archiloco. Le invettive, in Archiloco,
tendevano innanzitutto a denunciare aspetti deformi della realtà a
lui contemporanea, criticando o deridendo persone e fatti non per
distruggere, ma anzi per costruire e affermare quei principi e quei
valori che erano o avrebbero dovuto essere condivisi da tutti. È
proprio nei frammenti elegiaci che la denuncia si intreccia con la
riflessione e l'esortazione: esempi eclatanti sono il fr. 1 West, in
cui Archiloco ci riferisce la sua doppia vocazione e "investitura";
il fr. 5 West, sullo scudo abbandonato; il fr. 13 West, noto come
"l'elegia del naufragio". Nelle invettive di Archiloco
quelli che apparentemente sembrano attacchi o scherni sono in realtà
schiette e risentite denunce dei molteplici aspetti negativi del
mondo: il poeta, in questo modo, non va inteso come un
individualista, maledetto e irridente personaggio, bensì come un
convinto assertore di valori, come la modestia, la lealtà,
l'amicizia, l'equilibrio, la misura, che erano ampiamente condivisi e
non avevano nulla di eversivo.
La persona loquens - Molto
caratteristico di Archiloco, è l'uso della persona loquens,
un personaggio terzo cui vengono attribuiti fatti personali, ideali o
considerazioni del poeta. Ne abbiamo un esempio nel frammento
riguardante l'uomo, che poi verrà identificato da Aristotele come il
falegname Carone, che afferma di non provare alcun'ambizione o
invidia delle ricchezze di Gige o delle imprese compiute dagli dei,
né aspira ai grandi poteri della tirannide, poiché "queste
cose sono ben lontane dagli occhi miei". Secondo Aristotele
l'uso della persona loquens era usato dai poeti per esprimere
un'opinione o un ideale che era in contrasto con quelli della società
in cui vivevano. Ricordiamo però che il poeta tra VII e VI secolo
a.C. parlava spesso a nome della "comunità" o del gruppo a
cui apparteneva; gli ideali che lui o la "persona loquens"
esprime sono condivisi da altri.
Musica - Archiloco fu un grande
innovatore anche nel campo della musica: a lui secondo la tradizione
si deve l'invenzione della parakataloghè, il recitativo
musicale tipico della poesia giambica dove la voce narrante era cioè
accompagnata da uno strumento a corda o a fiato, senza arrivare al
canto spiegato vero e proprio. A tutt'oggi, però, non è ancora
chiaro in cosa quest'ultimo si differenziasse dal recitativo
dell'epica.
Giudizi su Archiloco - Archiloco
ebbe molta fama; fu infatti modello ispiratore per molti poeti e
artisti: su tutti, Anacreonte, Alceo, Saffo e Orazio; studiato nelle
scuole, imitato, copiato e canzonato dai comici, discusso da filosofi
e sofisti, artista sommo per Platone, fonte per gli storici.
Raccolse lodi presso i greci d'ogni luogo e fu considerato da
Quintiliano come unico e sommo maestro di stile. Nel grande naufragio
delle letterature classiche anche l'opera di Archiloco, tramandata e
studiata attraverso tutta l'antichità greco-latina, è andata
perduta. I frammenti pervenutici li dobbiamo a citazioni di scrittori
e antologisti antichi e a un monumento epigrafo. Claudio Eliano, filosofo e scrittore in
lingua greca, in una delle sue opere, la "Varia Historia",
riporta il seguente discorso di Crizia, uomo politico ateniese di
fede aristocratica della fine del V secolo a.C.: « Se costui
[Archiloco] non avesse diffuso fra gli Elleni una tale fama di sé,
noi non sapremmo che era figlio di una schiava, Enipò, né che per
povertà e per angustie lasciò Paro e si recò a Taso, né che,
giunto qui, si rese nemici tutti, e neanche che parlava male degli
amici non meno che dei nemici”. [Crizia] aggiunge: “Oltre a ciò
non sapremmo nemmeno, se non l'apprendessimo da lui, che fu adultero,
né che fu sensuale e litigioso, né - il che è la più grande
vergogna - che abbandonò lo scudo. Dunque Archiloco non fu buon
testimone di se stesso, lasciando di sé una tale opinione e una tale
fama”. Tali accuse non sono mie, bensì di Crizia ». Anche Pindaro, nella Pitica II, critica
pesantemente il poeta di Paro; lo definisce: « amante del biasimo,
che s'ingrassa con l'odio dalle gravi parole ». Aristotele, nel secondo libro della
Retorica, ricorda: « per quanto maledicente, i concittadini di Paro
lo onorarono ». Anche Eraclito testimonia che le opere
di Archiloco erano recitate in pubblico, non meno di quelle di Omero
ed Esiodo. L'ostilità di Eraclito nei confronti di Omero e Archiloco
(che scrisse: "Omero è degno di esser frustato e cacciato via
dalle gare e con lui Archiloco") è una critica alla cultura
tradizionale che seduce le menti dei molti senza comunicare una
conoscenza iniziatica, in grado di condurre l'uomo al di là
dell'umano. Tuttavia, lo storico latino Velleio Patercolo lo definì
il vero inventore della poesia giambica e il poeta più grande nel
suo genere: infatti gli antichi considerarono unanimemente Archiloco
un grandissimo giambografo, nonostante i vari dibattiti emersi sulla
personalità e l'indole dell'autore. Il filosofo e grecista tedesco
dell'Ottocento, Friedrich Wilhelm Nietzsche, ne "La nascita
della tragedia", scrive: « Su ciò l'antichità stessa ci dà
un chiarimento intuitivo, quando in opere di scultura, gemme,
eccetera pone l'uno accanto all'altro, come progenitori e portatori
di fiaccola della poesia greca, Omero e Archiloco, con il fermo
sentimento che solo questi due siano da considerare nature originali
in modo ugualmente pieno, da cui continua a sgorgare un torrente di
fuoco per tutta quanta la posterità greca. Omero, il vecchio
sognatore sprofondato in sé, il tipo dell'artista apollineo,
ingenuo, guarda ora stupito la testa appassionata di Archiloco, il
battagliero servitore delle Muse, selvaggiamente sospinto
nell'esistenza: e l'estetica moderna ha saputo aggiungere solo,
interpretando, che qui all'artista «oggettivo» è contrapposto il
primo «soggettivo» »
Eschilo. |
Carta dell'Attica, in Grecia, con indicata dal segnalino rosso Elefsina, l'antico demo di Eleusi. |
Per esempio, in una delle tragedie più antiche che ci siano pervenute, "Le supplici", il coro ha ancora una parte preponderante. Nonostante la presenza dei due attori (uno dei quali interpreta in successione due personaggi), l'impianto è ancora quello di un inno sacro, scarno di elementi teatrali. Facendo un confronto con la più tarda "Orestea", notiamo un'evoluzione e un arricchimento degli elementi propri del dramma tragico: dialoghi, contrasti, effetti teatrali. Questo si deve anche alla competizione che il vecchio Eschilo dovette sostenere nelle gare drammatiche: c'era un giovane rivale, Sofocle, che gli contendeva la popolarità, grazie anche a innovazioni come l'introduzione di un terzo attore, trame più complesse, personaggi più umani nei quali il pubblico poteva identificarsi. Tuttavia, anche accettando in parte, e con riluttanza, le nuove innovazioni (tre personaggi compaiono contemporaneamente solo nelle "Coefore", e il terzo parla solo per tre versi), Eschilo rimane sempre fedele ad un estremo rigore, alla religiosità quasi monoteistica (Zeus, nelle opere di Eschilo, è rappresentato talvolta come un tiranno, talvolta come un dio onnipotente, con qualche somiglianza con il biblico Yahweh). In tutte le sue tragedie, lo stile è potente, pieno di immagini suggestive, adatto alla declamazione. Nonostante i personaggi di Eschilo non siano sempre unicamente eroi, quasi tutti hanno caratteristiche superiori all'umano. Se ci sono elementi reali, questi non sono mai rappresentati nella loro quotidianità, ma in una suprema sublimazione. Nella sua produzione tragica, Eschilo riflette la realtà circostante: ne "I Persiani" e ne "I sette contro Tebe" vi si ritrova resoconto delle battaglie di Salamina e anche una difesa della politica marittima di Temistocle, riferimenti dovuti molto alla sua esperienza nelle guerre persiane. Fu anche il solo testimone tra i grandi poeti greci classici dello sviluppo della democrazia ateniese. "Le supplici" contiene il primo riferimento che sia giunto fino ad oggi di una forma di governo definita come «potere del popolo». Nelle Eumenidi, la rappresentazione della creazione dell'areopago, tribunale incaricato di giudicare gli omicidi, sembra un implicito sostegno alla riforma di Efialte, che nel 462 a.C. trasferì i poteri politici dall'areopago al consiglio dei Cinquecento. Inoltre le sue tragedie affrontano temi come il diritto d'asilo o la nascita dello stato dalle lotte di famiglia. Al centro del teatro di Eschilo c'è il problema dell’azione e della colpa, della responsabilità e del castigo. Eschilo si chiede perché l’uomo soffra, da dove provenga agli uomini il dolore. Viene solo dalla loro condizione di mortali, come affermavano i poeti arcaici, o da un errore originario, scontato dall’intera umanità, come è l’errore di Prometeo in Esiodo? Oppure all’interno della condizione umana v’è anche la responsabilità del singolo individuo? Tutta la sua tragedia è una tensione alla ricerca di una risposta che arriverà a dare, rivestendo la sua tragedia di forza etica per la polis ateniese del V sec. A proposito dell’origine della sofferenza, nella mentalità più arcaica e anche contemporanea di Eschilo si definiva hýbris, quell'accecamento mentale che impedisce all'uomo di riconoscere i propri limiti e di commisurare le proprie forze: chi ha ambizioni troppo elevate e osa oltrepassare il confine posto dagli dei pecca di hýbris e incorre in quella che viene chiamata “invidia degli dei” (in greco fthònos theòn): le divinità sono “invidiose” del potere della vita umana e come tali, sono determinate ad abbatterlo, per prepotente capriccio. Da qui, secondo questa teoria, la causa della sofferenza umana. Eschilo però rinuncia a questa teoria e mostra invece come le azioni delle divinità sugli uomini non sono prodotte da semplice invidia, ma sono conseguenze edificanti di una colpa umana, in quanto gli dei sono assoluti garanti di giustizia e di ripristino dell’ordine, e dunque alla hýbris corrisponde sempre il saggio ammaestramento divino, attraverso la punizione. Giustizia (in greco dìke), insomma, è la legge che gli dèi impongono al mondo e che spiega la casualità degli avvenimenti, apparentemente inesplicabile, regolando con bilance esattissime la colpa e la punizione, rivelandosi allora come un immanente ingranaggio che non lascia scampo a chi si è macchiato di una colpa o a chi eredita una colpa commessa per prima dai propri antenati (Eschilo mantiene infatti l’antica idea che la condanna del delitto travalichi la colpa immediata dell’individuo che l’ha commessa, propagandosi sull’intera stirpe: così, anche la vittima incolpevole si lega al male ed è costretta a commettere a sua volta una colpa, di cui comunque si rivela cosciente e perciò consapevole e responsabile, seppure dietro lo schermo della “necessità”). Alla luce della funzione edificante della punizione è chiaro che, attraverso il dolore che ogni uomo è destinato a soffrire, egli matura la propria conoscenza (pàthei màthos). L'uomo si rende conto, scontando la sua pena, dell'esistenza di un ordine perfetto e immutabile che regge il suo mondo. Lo stile di Eschilo è estremamente complesso. È ricco di espressioni retoriche, neoformazioni linguistiche (fra cui anche degli hapax) e arcaismi molto ricercati. Eschilo scrisse probabilmente una novantina di opere, ma ne sono giunte ai giorni nostri solo sette:
- I Persiani
(rappresentata nel 472 a.C.)
- I sette contro
Tebe (rappresentata nel 467 a.C.)
- Le supplici
(rappresentata nel 463 a.C.)
- Prometeo
incatenato (rappresentata tra il 470 e il 460 a.C.)[2]
- Orestea, trilogia
(rappresentata nel 458 a.C.) di cui:
- Agamennone
- Coefore
- Eumenidi
STORICI ANTICHI dell'Occidente in ordine cronologico:
1. Ecateo di Mileto, (in greco antico Ἑκαταῖος
Μιλήσιος; Mileto, 550 -
476 a.C.) è stato un geografo e storico greco antico. Visse
attorno al 500 a.C. e fu tra i primi autori di scritti di storia e
geografia in prosa del mondo greco. I logografi erano uomini che
viaggiavano molto e descrivevano i paesi che visitavano nei loro vari
aspetti: cultura, storia, geografia del luogo in cui vivevano,
tradizioni, usi, costumi, religione.
Carta dell'antica Asia minore con evidenziata Mileto. |
Frammento della "Atlantis" di Ellanico. |
Carta dell'antica Asia minore con evidenziata l'antica Mitilene, nell'isola di Lesbo (Lesbos). |
Erodoto. Da http://commons.wikimedia.org /wiki/File:Herodotus_Massimo_ Inv124478.jpg#mediaviewer/File: Herodotus_Massimo_Inv124478.jpg |
Carta dell'antica Asia minore con evidenziata Alicarnasso. |
La Sicilia nel 218 a.C. da: http://
|
Tucidide. |
Carta dell'Attica, in Grecia, con indicata dal segnalino rosso la posizione dell'antico demo di Alimunte. |
1) lo
scontro tra i due colossi Atene e Sparta dal 431 a.C. al 421 a.C.
(anno della pace stipulata dall'uomo politico e generale ateniese
Nicia);
2) la sventurata spedizione ateniese in Sicilia iniziata nel 415 a.C. e conclusa nel 413 a.C. con la distruzione della flotta di Atene nel porto di Siracusa da parte delle truppe del comandante spartano Gilippo;
3) la prosecuzione del conflitto fino al 411 a.C.
2) la sventurata spedizione ateniese in Sicilia iniziata nel 415 a.C. e conclusa nel 413 a.C. con la distruzione della flotta di Atene nel porto di Siracusa da parte delle truppe del comandante spartano Gilippo;
3) la prosecuzione del conflitto fino al 411 a.C.
Nelle intenzioni di Tucidide la
narrazione sarebbe dovuta proseguire fino 404 a.C., cioè fino alla
fine della guerra del Peloponneso. Nell'indagine condotta da Canfora
si presume che una parte finale del resoconto di Tucidide, quello
relativo agli anni 410 - 404, sia da identificare nel I e II libro
delle "Elleniche" di Senofonte.
Contenuto delle Storie (Guerra del Peloponneso):
- I Libro: si apre con una sezione denominata "Archeologia" che sintetizza la storia della Grecia a partire dai primi abitanti fino all'età di Tucidide. Segue una promessa metodologica utile per comprendere l'opera, in quanto l'autore chiarisce il fine che si è proposto e il metodo di indagine utilizzato. Si passa poi agli antefatti che portarono all'ostilità tra Atene e Sparta.
- I Libro: si apre con una sezione denominata "Archeologia" che sintetizza la storia della Grecia a partire dai primi abitanti fino all'età di Tucidide. Segue una promessa metodologica utile per comprendere l'opera, in quanto l'autore chiarisce il fine che si è proposto e il metodo di indagine utilizzato. Si passa poi agli antefatti che portarono all'ostilità tra Atene e Sparta.
- II Libro: descrive i primi tre anni di
guerra peloponnesiaca (431-429 a.C.). Qui si narra di Pericle e, di
notevole importanza è l'orazione funebre tenuta dal medesimo,per
commemorare i caduti del primo anno di guerra.
- III Libro: copre il periodo dal 428 al
426 a.C., durante il quale gli spartani invasero per la terza volta
l'Attica e rasero al suolo Platea, dopo aver massacrato la
popolazione locale. Importanti sono anche i fatti di Corcira che
spinsero Tucidide a riflettere sul sovvertimento di tutti i valori
umani a causa della guerra.
- IV Libro: protagonista di esso è il
triennio 425-423 a.C., l'Attica viene invasa nuovamente dagli
spartani, la guerra in Sicilia viene momentaneamente conclusa, e gli
Ateniesi ottengono alcuni successi.
- V Libro: esso si spinge fino al 416
a.C. La tregua tra Sparta e Atene durò meno di sette anni, provocata
da violazioni da parte di entrambe. Fatto peculiare di questo libro,
è che esso dà l'impressione di essere stato solamente abbozzato.
- VI-VII Libro: sono dedicati alla
narrazione dell'impresa in Sicilia con una breve introduzione sulla
storia dell'isola.
- VIII Libro: l'ultimo libro narra degli
avvenimenti compresi tra il 413-411 a.C. La narrazione si sofferma
inoltre sul colpo di Stato dei Quattrocento che rovesciò la
democrazia Ateniese e impose l'oligarchia.
Altre opere - Tucidide indicò con
chiarezza i suoi criteri metodologici (Hist. I, 20, 23), in due
principi generali, fili conduttori di tutta l'opera. Una concezione ciclica della storia,
dalla quale deriva la necessità di conoscere il passato per poter
comprendere il presente e, nei limiti dell'umano, prevedere il
futuro; la storia quindi è κτῆμα ἐς αἰεί (Ktêma es
aiei, possesso perenne), ha cioè dei principi universali che sono
validi per ogni epoca. L'intento di comporre un'opera
storiografica assolutamente libera da esigenze estetiche delle
akroaseis, ma basata sul vaglio critico delle fonti, lontana dunque
da quella di Erodoto incentrata ancora sul mito e sul trascendente;
la storiografia tucididea infatti circoscrive il suo campo d'azione
ad eventi recenti, ricorrendo all'αὐτοψία (autopsía
"attestazione personale"), processo che implica
l'inserimento di eventi vissuti in prima persona dall'autore:
caratteristico in questi frangenti è l'uso del verbo greco οἶδα
(óida "so per aver visto)". In piena fedeltà a questi principi, lo
storico si propone di indagare in primo luogo i fatti, τὰ
πραχθέντα (ta prachthenta), descrivendo con questo termine
due categorie:
- Τὰ ἔργα le azioni vere e
proprie innescanti l'evento.
- οἱ λόγοι i discorsi dei
protagonisti che ne costituiscono la premessa o la conseguenza,
attraverso cui Tucidide analizza psicologicamente l'autore, cercando
di scoprire le cause che lo muovevano.
Le azioni, dunque, sono, all'occhio
dello storico, frutto di decisioni umane, preparate, difese o
giustificate attraverso λόγoι. Le azioni sono causate da tre
motivi della physis umana:
- Tὸ δέος la paura, l'istinto di
autoconservazione dell'uomo che lo spinge a compiere azioni terribili
pur di salvare la propria vita.
- Ἡ τιμή il desiderio di onore e
prestigio.
- Ἡ ὠφελία l'utilità.
In nome del primo l'uomo è portato a
difendersi, per i restanti ad attaccare, con un unico risultato; la
guerra. Tucidide si distacca così dal resto della logografia greca,
gettando le basi per la storiografia moderna.
I discorsi - I discorsi sono la
testimonianza che Tucidide, nonostante il carattere scientifico della
sua opera,subì una certa influenza da parte della cultura
orale-aurale tipica dell'epica.Ai discorsi egli attribuisce tale
importanza da ritenere che i lettori dovessero essere informati circa
i criteri su cui si è basato per la loro stesura. Essi vengono espressi in forma diretta
e si mostrano uno strumento necessario per la ricerca del vero,in
quanto il loro scopo è quello di rendere il più probabile
verosimile possibile, quanto fu effettivamente detto in determinate
circostanze. Risultano così lontano dai discorsi di impronta
sofistica. Evitano allo storico di intervenire personalmente nella
narrazione, contribuendo così a conferire un'impressione di distacco
e imparzialità,in quanto sono gli stessi personaggi a spiegare i
motivi ,i retroscena,le cause e le finalità degli avvenimenti. L'esposizione di essi, rappresenta
quindi altro livello di ricerca del vero,tuttavia essi sono
caratterizzati da una costante tensione interna e dalla ricerca del
pathos. In tal senso Tucidide fallisce il suo
obbiettivo di tenersi lontano dagli influssi dell'epica, in quanto
l'argomento delle "Storie" ha una natura epica per il ruolo svolto dai
casi "dolorosi". La tipologia dei discorsi è:
dimostrativa e agonale. I discorsi dimostrativi descrivono eventi o
situazioni che si prestano a considerazioni di tipo ideologico e
politico;i discorsi agonali enunciano tesi per poi confutarle con
argomentazioni opposte. Un esempio di questi discorsi è quello
tenuto da Pericle per commemorare i caduti del primo anno di guerra.
Il dominio della Tyche (sorte, fato, destino o fortuna) all'interno
delle "Storie"- Nonostante l'assoluta centralità dell'uomo nelle "Storie", l'agire umano incontra un ostacolo nell'intervento della
Tyche, intesa come variabile drammaticamente connessa al corso degli
eventi terreni. Perciò la fallibilità umana è uno
degli elementi della natura mortale, "Per natura degli
uomini, sia come privati cittadini sia come organismo politico, sono
indotti a errare e non esiste legge che glie lo possa impedire"
(3,45,3). La Tyche perciò veglia affinché
l'uomo non creda di poter dominare il futuro, anche la storia,
fornisce una casistica di eventi tanto ampi, da creare la certezza
che esistono alcuni punti fermi definibili come leggi, nonostante il
futuro non si possa prevedere. Tucidide non è un autore di facile
lettura: il carattere speculativo della sua opera trova infatti
espressione in una prosa densa e irregolare, con periodi complessi.
Le caratteristiche peculiari del suo stile sono un ampio uso di
variatio e di antitesi. Tucidide inoltre - contrariamente a Erodoto,
che si era preoccupato di esprimersi in modo semplice - indulge
all'andamento narrativo. Altro punto rilevante del suo stile lo
troviamo nella contrapposizione tra il "clinico" distacco
nei confronti della realtà narrata in taluni passi, e invece
un'intima partecipazione emotiva ai fatti descritti in altri. Esempi
significativi di ciò sono la descrizione della peste di Atene, nella
quale lo storico adotta il primo stile, e il tragico episodio della
spedizione ateniese in Sicilia, in cui invece mostra, seppure con la
consueta compostezza, tutto il suo rammarico per la drammatica sorte
dei soldati compatrioti. Il suo stile risultava complesso anche
per gli antichi commentatori, come Dionigi di Alicarnasso, il quale
non condivideva la fama dello storico. Pur risultando eccessivo parlare di una
dipendenza del pensiero di Tucidide da quello dei sofisti, con questi
egli ebbe in comune l'intento paideutico indirizzato alla formazione
dell'uomo politico: infatti a chi governa sono necessari dei piani
d'azione razionali e fondati sulla conoscenza della realtà perciò a
questi risulteranno preziose le indicazioni provenienti dalle
riflessioni circa i principi ricavabili dal racconto di Tucidide. Il più importante principio è la
relatività della nozione di "giusto", affermata dagli
Ateniesi ai Meli che chiedono loro di essere ascoltati sul tema della
giustizia:" sappiamo, noi e voi, che nelle discussioni fra gli
uomini ciò che è giusto funge da metro di giudizio solo se tra le
parti vi è un uguale stato di necessità, altrimenti i più potenti
vanno avanti per quanto possano e i più deboli cedono di
altrettanto." Tale realismo assoluto e cinico sembra
quasi anticipare il pensiero machiavellico ed è scaturito dalla
guerra del Peloponneso, che come racconterà l'autore, si tratta di
una guerra combattuta senza esclusione di colpi. Dato il criterio di imparzialità che
lo scrittore si pone, potrebbe risultare difficile ricostruirne il
pensiero politico, che può, tuttavia, essere compreso da un brano in
particolare: le demagogie di Pericle. Tucidide infatti esprime, anche
se discretamente, un apprezzamento dell'opera dello statista
ateniese: difatti, di quest'ultimo apprezzava le scelte politiche e
l'organizzazione dello stato, facendo così trasparire il proprio
pensiero, moderato e conservatore allo stesso tempo. Una sorta di
conciliazione tra democrazia ed autorità dello stato. Tucidide (II
65) elogia Pericle sostenendo che la sua scelta di non cercare lo
scontro campale con gli Spartani e limitarsi a saccheggiare le coste
nemiche sfruttando la propria superiorità navale costituiva una
saggia decisione che alla lunga avrebbe sfiancato il nemico ed
assicurato la vittoria finale di Atene. Secondo lo storico, tuttavia,
gli Ateniesi non seguirono scrupolosamente le indicazioni di Pericle
e dopo la sua morte si lanciarono in imprese troppo ambiziose, prima
fra tutte la spedizione in Sicilia, la quale si concluse in un
disastro e privò Atene delle sue migliori risorse umane e materiali, accelerandone la sconfitta militare. Si tratta di una secca condanna
della politica seguita dai democratici radicali dopo la morte di
Pericle. Tra i personaggi più invisi a Tucidide vi erano i demagoghi
Cleone ed Iperbolo, fortemente stigmatizzati nell'opera dello
storico. Tucidide si rivela essere un democratico moderato quando
definisce la costituzione dei Cinquemila del 411 a.C. come la
migliore forma di governo mai avuta da Atene. Si trattava di una
giusta commisurazione di democrazia ed oligarchia (metria
xynkrasis), che tuttavia ebbe vita breve, poiché nel 410 a.C.
fu restaurata la democrazia radicale invisa allo storico. Per Tucidide, inoltre, l'uomo politico
deve conoscere le istanze razionali ed emotive che coesistono
nell'essere umano, e deve saperle conciliare anche con l'elemento
della "casualità".
Carta dell'antica Grecia con evidenziata l'isola di Taso (Thassos). |
6. Stesimbroto di Taso (in greco
antico Στησίμβροτος, Stesìmbrotos; nato a Taso e vissuto nella seconda
metà del V secolo a.C.) è stato uno storico, logografo
(scrittore, a pagamento, di orazioni giudiziarie) e rapsodo (cantore
o narratore di poemi epici) greco antico. Fu autore di alcuni
pamphlet (termine francese traducibile con libèrcolo, che connota il
suo aspetto materiale e fisico o libello, che ha una connotazione
ideologica: è un breve saggio o uno scritto polemico di dimensioni
agili) politici su Temistocle, Tucidide e Pericle, dove critica il
loro imperialismo. Plutarco studiò Stesimbroto e dalla sua opera
trasse notizie per le vite di Temistocle, Cimone e Pericle, ma
riconobbe la parzialità della fonte, accogliendo quindi con
riserva alcune delle informazioni fornite dallo storico, come quella
che accusava Pericle d'intrattenersi con prostitute procurategli
dall'amico e confidente Fidia. Un'imparzialità, osservava Plutarco,
dovuta anche al fatto che lo storico scriveva di cose a lui
contemporanee. Stesimbroto è anche citato come fonte da Apollonio
Rodio. Influenzato dal misticismo orfico, Stesimbroto scrisse anche sulle
cerimonie rituali nell'opera "Perí
teletó̱n".
Siracusa antica durante la II guerra punica, con le mura rinforzate da Archimede. Da http://poliremi. altervista.org/greci8.html |
"Storia della Sicilia" (Sikelikà) è l'opera storica di Filisto, in quindici libri, di cui ci restano oggi
soltanto pochi frammenti, che iniziava dal mitico regno di Kokalos e
giungeva fino al 363/2 a.C..
I primi nove libri raccontavano gli
eventi fino alla conquista di Akragas da parte dei Cartaginesi nel
406/5 a.C.; i quattro successivi riguardavano il regno di Dionisio I
fino al 367/6 a.C.; gli ultimi due trattavano del regno di Dionisio
II fino al 363/2 a.C. Dall'opera emerge una posizione
fortemente filotirannica, che traspare anche dai frammenti giunti
fino a noi. Severo il giudizio di Dionigi di
Alicarnasso, che definisce Filisto un imitatore di Tucidide che non
riesce ad eguagliare il suo modello. Più positivi, invece, i giudizi
di Quintiliano e Cicerone, che ne apprezzano lo stile conciso.
10. Eforo di Cuma (Cuma eolica, 400
a.C. circa - 330 a.C. circa) è stato uno storico greco
antico, incluso nell'elenco degli otto storici esemplari (Erodoto,
Tucidide, Senofonte, Teopompo, Eforo di Cuma, Filisto di Siracusa,
Anassimene di Lampsaco, Callistene) del Canone alessandrino, il nome
dato ad un elenco di scrittori greci che i grammatici alessandrini
consideravano come i modelli dei vari generi letterari. Nato a Cuma
eolica, in Asia Minore, Eforo visse ad Atene ed ebbe come maestro di
retorica Isocrate e studiò con Teopompo. Suo figlio Demofilo seguì
le sue orme come studioso ed erudito, aggiungendo ai 29 libri storici
del padre un suo libro sulla guerra sacra del 356 a.C. A parte tali
notizie, è certo che raggiunse una tale notorietà da essere
invitato da Alessandro Magno come storico ufficiale nella sua
spedizione contro i Persiani. Eforo avrebbe rifiutato, probabilmente
per la tarda età, a favore di Callistene di Olinto.
Senofonte. Da http:// commons.wikimedia.org/ wiki/File:Xenophon.jpg#/ media/File:Xenophon.jpg |
8. Senofonte (in greco antico
Ξενοφῶν, Xenophôn; Erchia 430/425 a.C. circa - Corinto, 355 a.C. circa) del demo di Erchia in Attica, figlio di Grillo, è stato uno storico
e mercenario ateniese.
Carta dell'Attica, in Grecia, con indicata dal segnalino rosso, la posizione dell'antico demo di Erchia. |
Senofonte è stato uno scrittore poligrafo (scrittore che si occupa di
argomenti vari, talvolta notevolmente diversi) del quale ci
sono pervenute tutte le opere e anche complete, una circostanza che ha fatto di lui una delle maggiori fonti per la conoscenza dei suoi tempi. In particolare da lui,
oltre che da Platone, provengono molte notizie riguardanti la vita e
i detti di Socrate. È stato soprannominato dalla Suda "l'ape
attica", per la semplicità e la chiarezza della sua prosa. Suo padre Grillo, del demo di Erchia, era un personaggio di cui non si
sa nulla, al di là di certe indirette supposizioni che lo farebbero
rappresentante di una famiglia agiata, appartenente forse all'ordine
dei cavalieri. Ciò appare probabile sia in virtù della
dimestichezza di Senofonte con l'arte equestre, sia dalla militanza
di questi, e dei suoi figli, nella cavalleria ateniese. L'agiatezza
delle origini è comunque provata dalla buona educazione ricevuta,
che lo vide allievo dei sofisti Prodico e Isocrate. In gioventù,
poco più che ventenne, entrò anche in contatto con Socrate, di cui
fu discepolo per almeno tre anni, un'esperienza che si rivelò
determinante per la sua educazione. La sua "Apologia" di
Socrate si discosta per certi versi da quella di Platone e ha
dato luogo a molti dibattiti sulla figura storica di Socrate.
La breve militanza politica ateniese
- Senofonte militò nei cavalieri, che influirono sulle sue scelte
politiche conservatrici e filo-spartane: appoggiò sicuramente il
regime dei Trenta Tiranni (così come, in precedenza, aveva
appoggiato la Boulé dei Quattrocento, della quale probabilmente
anche Tucidide era stato membro). Lo storico Luciano Canfora, su una
stringente ricostruzione filologica delle fonti, ipotizza che
Senofonte fu uno dei due ipparchi al servizio dei Trenta; pensa
inoltre che, quando Trasibulo restaurò la democrazia, Senofonte
abbia seguito gli oligarchi nel loro esilio nel demo di Eleusi,
lasciando poi Atene quando essi furono massacrati, nel 401 a.C.
Questo fatto, secondo lo storico, sarebbe testimoniato dalla mancanza
di notizie riguardanti il periodo tra il 403 e il 401, che non figura
nelle "Elleniche". Nella primavera del 401, infatti,
Senofonte si trova in Asia Minore, prima ad Efeso e poi a Sardi,
invitatovi dal tebano Prosseno, a cui era legato da antichi vincoli
di ospitalità.
L'Anabasi di Ciro - Nel 401
a.C., sempre su invito di Prosseno, partecipò ad una spedizione di
mercenari greci comandati da Clearco di Sparta e ingaggiati, dopo la
fine dalla Guerra del Peloponneso, da Ciro il Giovane, che tentava di
sostituire sul trono di Persia il fratello maggiore, l'imperatore
Artaserse II. Nella battaglia di Cunassa (3 settembre dello stesso
anno) i greci riportarono la vittoria sul loro fronte ma Ciro,
spintosi troppo oltre nel tentativo di uccidere personalmente il
fratello, trovò invece la morte. Clearco, invitato a negoziare con
le forze di Artaserse, fu vittima, insieme agli altri strateghi
greci, di un inganno ordito da Tissaferne, un consigliere di
Artaserse, nel quale furono sopraffatti ed uccisi tutti i comandanti
greci, incluso Prosseno. Il contingente greco, che contava circa
diecimila uomini (i famosi Diecimila), si trovò sbandato e
disorientato, privo di ogni guida, in un territorio ostile, a
migliaia di chilometri dalla patria. I soldati seppero però darsi
dei buoni condottieri, tra i quali lo stesso Senofonte, e con
un'epica marcia verso il nord attraverso l'Armenia, raggiunsero
Trapezunte (Trebisonda), sul Mar Nero (allora Ponto Eusino). Di qui
si imbarcarono per la Tracia, per poi tornare al luogo di
concentramento di Tibron, nei pressi di Pergamo, a nord-ovest di
Sardi (luogo di concentramento all'inizio dell'"Anabasi") e
infine raggiunsero la Grecia. Il racconto di questa impresa è
contenuto nella più nota delle opere di Senofonte, l'"Anabasi".
Al seguito di Agesilao di Sparta
- Le conseguenze politiche della fallita spedizione di Ciro non si
fecero attendere: nel mutato quadro venutosi a determinare, Sparta
decide un intervento contro Farnabazo, in favore della città greche
della Ionia. Della spedizione, guidata da Agesilao, re di Sparta,
farà parte anche Senofonte, che già a Pergamo aveva consegnato i
superstiti dei Diecimila al generale spartano Tibrone, determinandone
quindi l'arruolamento nelle file spartane. Nel 394, Senofonte partecipò
probabilmente alla battaglia di Coronea, schierato con Sparta, al
seguito di Agesilao e contro Atene, la sua stessa città,
coinvolta nell'alleanza con Tebe.
L'esilio - Per questo motivo o
forse per essere stato mercenario di Ciro, ma più probabilmente per
il suo coinvolgimento nel governo dei Trenta tiranni del 404 a.C., fu
esiliato da Atene e privato di tutti i beni cittadini. Nel 390
ottenne dagli Spartani una proprietà a Scillunte, una località
dell'Elide, tra Sparta e Olimpia, dove trascorse un esilio di
vent'anni all'incirca. La fattoria di Scillunte si rivelò un ritiro
sereno e prolifico, sia in senso letterale che letterario: fu in
questo periodo che sposò una donna di nome Filesia, dalla quale ebbe
due figli, Diodoro e Grillo che, sotto la guida di Agesilao,
ricevettero l'agoghè (Άγωγή), l'educazione spartana.
Negli stessi anni, probabilmente prima del 380 a.C., redasse e
pubblicò l'"Anabasi". Nella sua fattoria, lontano dalle
piccole ambizioni politiche, si dedicò interamente alla
coltivazione, al culto degli dei e dell'ospitalità, all'equitazione
e, nei dintorni ricchi di selvaggina, alla caccia. Ma questa
parentesi appagata e agiata cessò bruscamente dopo la sconfitta che
gli Spartani subirono nel 370 nella battaglia di Leuttra ad opera di
Epaminonda: Scillunte fu conquistata dagli Elei e Senofonte fu
costretto a riparare con la famiglia in vari luoghi finché, resosi
conto dell'irrimediabile perdita dei beni, rinunciò ad ogni
perorazione e decise di stabilirsi a Corinto.
Il miglioramento dei rapporti con
Atene - Fu allora che, dopo molti anni di lontananza, giunse una
schiarita nei rapporti con la sua città d'origine, a cui non fu
estraneo il migliorato quadro dei rapporti tra Sparta e Atene: fu
infatti intorno al 368 (o 367) che, su proposta di Eubulo, Senofonte
vide annullarsi il provvedimento di bando e confisca dei beni. A
questo fece seguito il riconoscimento della cittadinanza ateniese per
i suoi figli e l'assegnazione di un risarcimento per i danni subiti a
seguito del provvedimento di esilio; in questi stessi anni è
probabile che facesse temporaneo ritorno in patria.
La morte - Senofonte visse a
Corinto fino alla sua morte, avvenuta attorno al 355 a.C.; altre
fonti, comunque, sostengono che morì ad Atene.
La prosa e la lingua - Riguardo
alla prosa di Senofonte, il giudizio tramandato dal lessico di Suda è
positivo: Senofonte ha infatti goduto, dall'antichità fino ai tempi
moderni, di unanime apprezzamento per la peculiare sobrietà e
chiarezza della prosa, frutto non solo di un istintivo senso della
misura e del bello, ma anche di un'intenzionale e studiata ricerca
della semplicità nella costruzione della frase; queste
caratteristiche hanno fatto di lui un vero e proprio modello di
stile per oratori e prosatori di epoche successive. Quale
naturale conseguenza delle sue vicende e delle sue frequentazioni, la
lingua usata da Senofonte si caratterizza per l'accoglimento di
elementi e costrutti provenienti dai più diversi ambiti dialettali e
letterari del mondo greco: così vi si riconoscono in particolare gli
influssi dalla prosa scritta ionica, anche di carattere tecnico (e
quindi del corrispondente dialetto) ma anche elementi linguistici
estranei alla prosa attica e ionica o addirittura provenienti del
registro linguistico parlato. Tutto questo fa sì che la sua lingua
non può essere ascritta ad una sfera di purezza dialettale attica
(almeno nel senso dei fraintendimenti atticistici) ma, nella nostra
ottica, debba essere considerata un'anticipatrice di fenomeni
linguistici che porteranno alla formazione della koinè, la
lingua comune dell'epoca ellenistica. Questa contaminazione linguistica non
ha impedito il sorgere di un equivoco atticista, che ha voluto
vedere, nella sua lingua, un modello di quella presunta purezza
linguistica attribuita al dialetto attico: un equivoco provvidenziale
al quale, probabilmente, sono dovute la trasmissione e la conoscenza
moderna delle sue opere.
Opere storiografiche - Anabasi,
Ciropedia, Elleniche, Agesilao, Costituzione di Sparta.
Opere su Socrate - Memorabili o
Detti Memorabili di Socrate, Apologia di Socrate, Simposio o Convito,
Economico, Ierone.
Trattati tecnici -
Sull'equitazione, (grazie a quest'opera viene ricordato come il primo
sostenitore delle attività di equitazione nella quale si dia
importanza su un rapporto di affetto fra uomo e cavallo)
Ipparchio, Caccia con i cani, Poroi
La tradizione
antica attribuiva a Senofonte anche una sorta di pamphlet sulla
Costituzione degli Ateniesi, ma la critica moderna è tuttora
indecisa sulla sua attribuzione. Si attribuiscono a Senofonte anche
alcune lettere. A Senofonte è
stato intitolato il cratere Senofonte, sulla superficie della Luna. Senofonte è il protagonista de"
L'armata perduta", romanzo di Valerio Massimo Manfredi,
incentrato sull'"Anabasi".
Teopompo. |
9. Teopompo (in greco antico
Θεόπομπος, Theòpompos; Chio, anno discusso, 404/3 o 378/7
a.C. - 320 a.C.), figlio di Damasistrato, è stato uno storico
greco antico.
Carta dell'antica Asia minore con evidenziata l'isola di Chio (Chios in greco). |
Teopompo nacque a Chio e visse a lungo alla corte di
Filippo II di Macedonia. Secondo Fozio sarebbe stato cacciato da
Chio, insieme al padre, poiché era filospartano e solo grazie ad una
lettera di Alessandro il Grande sarebbe riuscito a riottenere la
cittadinanza. Alla morte di Alessandro, venendo a mancare i vincoli
della sua intercessione, sarebbe dovuto ripartire da Chio e si
sarebbe presentato in Egitto, alla corte dei Tolemei, senza esservi
accettato. Secondo una lunga tradizione, ormai spesso messa in
dubbio, Teopompo, insieme ad Eforo di Cuma, fu scolaro di Isocrate.
Fu certamente un celebre e prolifico retore oltre che uno
storico. Opere - Teopompo vantava per sé
stesso, secondo i frammenti a nostra disposizione, una certa fama e
produttività: 20.000 righe di discorsi epidittici e 150.000 di
Storia. L’"Epitome" di Erodoto, di cui parla la
tradizione, pare in realtà essere un estratto composto con
digressioni presenti nelle sue opere principali. Le sue "Elleniche"
(in XII libri) sono un proseguimento della storia di Tucidide,
dal 411 al 394 a.C., data della Battaglia di Cnido, che segna la fine
dell'egemonia spartana nel mare Egeo. La narrazione di Teopompo è
molto dettagliata e assai più ampia di quella parallela di
Senofonte. Ci sono però rimasti pochissimi frammenti di
quest’opera. Per alcuni le "Elleniche" di Ossirinco o
almeno alcuni dei frammenti papiracei che ce le tramandano, sono
manoscritti di quest'opera di Teopompo. Più ampia è la parte
rimastaci delle "Storie Filippiche" (Φιλιππικά),
opera intrapresa verso la metà del IV secolo, interrompendo le
"Elleniche". Questa è una storia universale al cui centro
si trova la controversa figura di Filippo II di Macedonia, opera che
descrive gli eventi dall'ascesa al potere di Filippo nel 359, fino
alla sua morte nel 336. Era un'opera estremamente vasta (ben LVIII
libri), con una grande quantità di digressioni anche geografici,
culturali, mitologiche e persino storie fantastiche e racconti
favolosi (in questo Teopompo si pone sulla scia di Erodoto),
come diceva anche Cicerone. In queste stesse digressioni, Teopompo
tratta anche delle vicende della Sicilia, della penisola Italica,
della penisola iberica, della Persia oltre a fenomeni straordinari e
misteriosi. Scrisse anche, secondo le testimonianze antiche, un'opera
"Sulle ricchezze saccheggiate a Delfi" e una "Contro
Platone". Anche queste, tuttavia, potrebbero essere state
estratte dalle digressioni nelle "Storie Filippiche".
Molto nota è la digressione sui "Demagoghi ateniesi" del X
libro, che ebbe forse una propria indipendente fortuna e prendeva
spunto dall'opera di Stesimbroto di Taso.
Metodo e stile - Per Teopompo il
lavoro di storico non è secondario rispetto a quello di retore.
Sappiamo della meticolisità messa nella ricerca,
dell'attenzione all'autopsia come metodo di accertamento delle
fonti e di un interesse per l'epigrafia e i documenti come
fonte per la storiografia. D'altro canto, Teopompo era noto per
aver preso parti di opere da altri e per raccontare fatti
cambiando di volta in volta i nomi dei protagonisti. Nelle opere di
Teopompo era riconosciuta una certa abilità nell'introspezione
dei personaggi e delle loro sofferenze. Un aspetto moralistico pervade l’intera suo opera: numerosi politici sono accusati di depravazione morale, in
particolare i demagoghi ateniesi; si rivelano così le tendenze
aristocratico-conservatrici di Teopompo, abbinate a sentimenti
filospartani. Più avanti egli vide concretizzarsi il suo ideale
politico in una monarchia patriarcale, il cui rappresentante ideale
era Filippo. Teopompo ebbe vastissima fortuna
nell’antichità e divenne uno degli storici greci più letti;
nonostante ciò, ad un certo punto, le sue opere andarono quasi
completamente perdute. In età moderna si dà invece un giudizio meno
positivo, dovuto soprattutto al suo interesse per il meraviglioso,
alla forma retorica e alle esagerazione moralistiche.
Carta dell'antica Asia minore con evidenziata l'antica Cuma eolica. |
Opere - Eforo si dedicò, oltre
che alla storia "universale", ad altri generi, a metà tra
erudizione e retorica. Nell'"Epichó̱rios lógos", un
"discorso locale", Eforo doveva celebrare, in linea con le
tendenze isocratee, la sua patria, visto che uno dei due frammenti
rimasti riguarda la teoria secondo la quale Omero sarebbe stato di
Cuma. Il "Perí léxeo̱s", "A proposito della parola"
era un trattato sullo stile che doveva porsi in modo abbastanza
diverso dalle tendenze di Isocrate, che non stimolava tali
discussioni teoriche, mentre nei due libri di "E̔v̱ri̱máto̱n
ó̱n ékastos e͂v̱re" il cui titolo è citato in tal modo dal
Suda o Suida, (la Suda o Suida è un lessico e un'enciclopedia storica del X secolo scritta in greco bizantino, riguardante l'antico mondo mediterraneo) mentre di solito è citato, in altri autori, come "Perí
e̔v̱ri̱máto̱n", "Reperti informazioni", Eforo si
occupava del tema topico del protos heuretes,
il primo inventore. L'opera più importante di Eforo,
comunque, furono le "Storie", redatte in 30 libri
(anche se l'ultimo fu completato dal figlio Demofilo), sul lungo
periodo che andava dal ritorno degli Eraclidi nel Peloponneso (nel
1104 a.C.) fino alla terza guerra sacra (356 a.C.), ovvero l'inizio
del regno di Filippo II il macedone. Dall'opera, che era anche
geografica e etnografica, furono esclusi tutti gli avvenimenti
considerati mitici dall'autore, compresa la Guerra di Troia;
oltre alla descrizione degli avvenimenti della Grecia, Eforo narrava
anche gli eventi relativi ad altri popoli allora conosciuti.
All'inizio di ogni libro, l'autore inserì un proemio moraleggiante.
Della sua "Storia" si sono conservati brevi ma numerosi
frammenti ed i riassunti che Diodoro Siculo inserì nella propria
"Bibliotheca Storica". Particolare attenzione riveste,
proprio sulla scorta di quanto ci è rimasto di Eforo in Diodoro, un
artificio della tecnica narrativa, che può essere osservata per la
prima volta in Eforo, ossia la duplicazione. Eforo, infatti,
riempie gli spazi vuoti ed estende la narrazione duplicandone un
particolare: così, ad esempio, il dibattito prima della battaglia di
Micale era una povera imitazione del più famoso dibattito prima
della battaglia di Salamina. La Battaglia di Micale fu una delle due
principali battaglie che posero fine all’invasione persiana della
Grecia durante le guerre persiane. La battaglia ebbe luogo
all’incirca il 27 agosto 479 a.C. sui pendii del monte Micale, nel
territorio della Ionia, di fronte all'isola di Samo. Questa battaglia
portò alla distruzione della maggior parte delle forze persiane
nella Ionia, così come della loro flotta nel Mediterraneo.
11. Anassimène di Lampsaco (in
greco antico Anaximénes; Lampsaco 380 a.C. circa - 320 a.C. circa), figlio di Aristocle, è stato uno
storico e retore greco antico, incluso nell'elenco degli otto storici
esemplari del Canone alessandrino, nome dato a un elenco di
scrittori greci che i grammatici alessandrini consideravano come i
modelli dei vari generi letterari. Discepolo di Zoilo e Diogene il
Cinico, Anassimène fu
un contemporaneo di Alessandro Magno, che egli dice aver
istruito e che accompagnò nelle campagne in Asia. I suoi
concittadini gli dedicarono, perciò, una statua ad Olimpia per
averli salvati da Alessandro, adirato poiché si erano alleati con i
Persiani. Anassimene ha scritto tre opere storiche:
Grecia antica con sottolineata in rosso, al centro, Lampsaco. |
- una storia di Filippo II di
Macedonia, costituita da almeno otto libri;
- una storia di Alessandro Magno;
- una storia della Grecia, che
Pausania il Periegeta chiama L'influenza dell'antico e che comunque è
normalmente conosciuta come "Prima Storia" e che comprendeva, in dodici
libri, la storia della Grecia dalle più antiche età mitologiche
fino alla battaglia di Mantinea (362 a.C.) e alla morte di
Epaminonda. La battaglia di Mantinea fu combattuta nell'estate del
362 a.C. dagli Spartani e dagli Ateniesi, insieme a contingenti
peloponnesiaci dell'Acaia e di Mantinea, contro l'esercito tebano di
Epaminonda affiancato da contingenti provenienti dall'Arcadia, dalla
Messenia e delle città di Sicione e Argo. Le storie di Anassimene,
delle quali rimangono pochissimi frammenti, furono censurate da
Plutarco per i numerosi discorsi retorici e prolissi in esse
contenuti. Anche la scarsità dei frammenti che possediamo è indice
del poco apprezzamento che gli antichi avevano della sua
opera, più retorica che storica. Ci sono stati dei
critici, come il Casaubon, che ritenevano che il retore e lo storico
Anassimene fossero due persone distinte, ma la loro comune identità
è stata provata con argomenti soddisfacenti. Anassimene fu anche un
retore esperto e scrisse il Trikáranos, un'opera in cui muoveva
accuse alle grandi città della Grecia come Sparta, Atene e
Tebe e che pubblicò sotto il nome di Teopompo, suo nemico
personale, del quale riuscì a imitare tanto bene lo stile da far
credere a tutti che lo scritto fosse opera sua, procurandogli grande
ostilità in tutta la Grecia. Anassimene raggiunse, in effetti, una
certa reputazione come insegnante di retorica e come oratore, sia
nelle assemblee popolari sia nei tribunali e scrisse anche discorsi
per altri, come quello che Eutia pronunciò contro Frine. Ciò che
rende comunque importante Anassimene nel panorama della letteratura
greca è l'esser stato l'unico retore prima di Aristotele di
cui resti un trattato scientifico sull'arte retorica, ossia la "Retorica ad Alessandro" (Ῥητορικὴ πρὸς Ἀλέξανδρον),
normalmente pubblicato fra le opere spurie di Aristotele. L'opinione
che fosse, appunto, un'opera di Anassimene fu per la prima volta
espressa dal Victorius nella sua prefazione alla Retorica
aristotelica ed è stata confermata da Leonhard Spengel. Questa "Retorica" fu preceduta nel II secolo a.C. da un'apocrifa lettera di
dedica di Aristotele ad Alessandro che fu probabilmente concepita
come introduzione allo studio della "Retorica di Aristotele".
Considerando la struttura dell'opera, risulta evidente che l'autore
non era un filosofo, si tratta infatti solo di una serie di suggerimenti
pratici su come questo o quel soggetto dovessero essere trattati nelle
varie circostanze. Mentre l'oratoria è stata suddivisa dal filosofo Aristotele in tre generi di «discorsi retorici», il giudiziario, il
deliberativo e l'epidittico, che comprendono sei specie di eloquenza: l’esortazione, la dissuasione, la lode, il biasimo, l’accusa e la
difesa, nell'opera di Anassimene è specificata solamente l'«exetastica»,
o esame accurato.
Ubicazione dell'antica Ólynthos (Olinto), nella penisola Calcidica. |
12. Callistene (in greco antico Kallisthénēs; Olinto, l'antica Ólynthos, 370 a.C. - 327 a.C.) è stato uno storico greco antico, nipote
di quel Prosseno di Atarneo che era stato il tutore di Aristotele
dopo la morte dei suoi genitori e ne aveva sposato la sorella, Arimneste. Nel 336 a.C., Callistene
seguì Alessandro Magno nella sua spedizione contro l'Impero
persiano, come storico e segretario del sovrano macedone,
posizione raggiunta grazie anche all'influenza di Aristotele stesso.
Le fonti attribuiscono a Callistene numerose opere, di cui, tuttavia,
non restano che frammenti. Con lo zio Prosseno di Atarneo scrisse i "Pitionici", una lista dei vincitori nei Giochi Pitici di Delfi,
per poi comporre un "Encomio di Ermia", un elogio del re della città
asiatica di Atarneo. Anche Aristotele, che aveva sposato una parente
di Ermia, alla morte del re compose un encomio in versi. Tipicamente
peripatetici erano la "Descrizione della terra" e gli "Apoftegmi", una
raccolta di massime celebri di tipo retorico, forse ispirata alla "Retorica aristotelica". Come storico, Callistene deve aver esordito
con le "Elleniche", una storia in 10 libri che andava dal 387
a.C. al 357 a.C. terminando all'inizio del regno di Filippo II.
In quest'opera Callistene si occupava anche di mitologia, geografia
ed etnografia. Inoltre, a complemento dell'opera precedente, "Sulla
guerra sacra", una monografia. Il capolavoro di Callistene sono state
tuttavia, le incompiute "Gesta di Alessandro", un'opera
propagandistica voluta da Alessandro, che giungeva fino alla
battaglia di Arbela (331 a.C.). L'opera fece dello storico di
Olinto uno dei più importanti storici di Alessandro Magno.
Callistene pubblicava l'opera man mano che la componeva,
immediatamente dopo le vittorie di Alessandro, che narrava con stile
vivo e con toni apologetico-propagandistici,
presentando il giovane macedone come il condottiero scelto dalla Lega
panellenica per abbattere la ùbris ("tracotanza",
"eccesso", "superbia", “orgoglio” o
"prevaricazione", un antefatto che vale come causa a monte
che condurrà alla catastrofe della tragedia) persiana e vendicare
l'invasione che due secoli prima il Grande Re Serse aveva compiuto ai
danni della Grecia. L'opera, di fatto, si situa all'inizio della
leggenda sul sovrano, venendo a creare nel tempo il corpus
letterario-mitologico conosciuto come romanzo di Alessandro (le
versioni più antiche in greco vengono attribuite convenzionalmente
ad un anonimo Pseudo-Callistene) che ebbe molta fortuna in epoca
medioevale nella traduzione latina del X secolo di Leone Arciprete e
nella successiva versione in francese realizzata nel XII secolo,
attribuita ad Alexandre de Bernay.
Rifiutatosi di prostrarsi davanti al
sovrano (come prevedeva l'usanza persiana della proskýnesis
adottata dal re macedone), nel 327 a.C. Callistene divenne l'ispiratore
morale dell'opposizione macedone alla politica
cosmopolita di Alessandro. Inoltre, quando venne sventata
la Congiura dei paggi, che mirava a eliminare Alessandro,
emerse che ne era coinvolto proprio Callistene.
Accusato da alcuni dei congiurati, Callistene sarebbe morto, secondo
la versione ufficiale, in carcere per ftiriasi (o pediculosi, una
parassitosi che può colpire le parti della cute, soprattutto il capo
o il pube o, più in generale, il corpo) mentre altre versioni non
filomacedoni ritengono di sapere che fu torturato ed impiccato nello
stesso 327 a.C.. Questa morte per coerenza ispirò l'amico
filosofo Teofrasto, successore di Aristotele alla guida della scuola
peripatetica, a scriverne un trattato, "Callistene", o "Sul
dolore", andato perduto.
13. Timeo di Tauromenio (Tauromenium
o Taormina, 350 a.C. circa - Siracusa, 260 a.C. circa), noto anche
come Timeo di Taormina, è stato uno storico greco, autore anche di una
“Vita di Pitagora” andata perduta, citata comunque nella Nota 2 di https://it.wikibooks.org/wiki/La_religione_greca/Le_religioni
_dei_misteri/Pitagora_e_il_Pitagorismo: Le "Vita di Pitagora" riferibili rispettivamente a Diogene Laerzio, Porfirio e Giamblico sono tutte del III secolo d.C. anche se attingevano a fonti del IV secolo a.C., oggi perdute, come due libri di Aristotele dedicati ai pitagorici e alle opere dei suoi allievi, Dicearco e Aristosseno, sempre dedicate al pitagorismo, oltre alle opere del platonico Eraclide Pontico e di Timeo di Tauromenio. Di Timeo di Tauromenio non ci sono pervenute opere, ma deve averne prodotte diverse, poiché è stato citato in:
Taormina con il monte Tauro, di pjt56, Opera propria, CC BY-SA 3.0, da: https://commons.wikimedia.org/w/ index.php?curid=21935636 |
_dei_misteri/Pitagora_e_il_Pitagorismo: Le "Vita di Pitagora" riferibili rispettivamente a Diogene Laerzio, Porfirio e Giamblico sono tutte del III secolo d.C. anche se attingevano a fonti del IV secolo a.C., oggi perdute, come due libri di Aristotele dedicati ai pitagorici e alle opere dei suoi allievi, Dicearco e Aristosseno, sempre dedicate al pitagorismo, oltre alle opere del platonico Eraclide Pontico e di Timeo di Tauromenio. Di Timeo di Tauromenio non ci sono pervenute opere, ma deve averne prodotte diverse, poiché è stato citato in:
Strabone - Geografia Volume 2/Libro
IV/Capitolo I pg. 393
Strabone - Geografia Volume 3/Libro
V/Capitolo IX pg. 86
Strabone - Geografia Volume 3/Libro
VI/Capitolo III pgg. 128-129
Antonio Brandimarte - Piceno Annonario,
ossia Gallia Senonia illustrata (1825), Capitolo VII.
Giuseppe Micali - Storia degli antichi
popoli italiani (1836), Capitoli III, VII, X, XIV, XVII, XIX, XX e
XXIV.
Pietro Tessieri, Giuseppe Marchi,
Girolamo Apolloni - L'aes grave del Museo Kircheriano (1839), Utilità che ritraggonsi dal peso e
dalle impronte dell'aes grave, pg.10
Giacomo Leopardi - Pensieri di varia
filosofia e di bella letteratura (XIX secolo), pagina 4432
Storia della letteratura italiana
(Tiraboschi, 1822-1826)/Tomo I/Parte II/Capo II
Luigi Schiaparelli - Le stirpi
ibero-liguri nell'Occidente e nell'Italia antica (Torino, 1880), §
IV
Eratostene di Cirene. Da http://commons.wikimedia. org/wiki/File:Portrait_of_ Eratosthenes.png#/media/File: Portrait_of_Eratosthenes.png |
14. Eratostene di Cirene (in greco
antico Έρατοσθένης, Eratosthénēs; Cirene, 275 a.C. circa
- Alessandria d'Egitto, 195 a.C. circa) è stato un poeta,
storico, matematico, astronomo
e geografo greco antico. Fu uno degli intellettuali più
versatili della sua epoca. Terzo bibliotecario della Biblioteca di
Alessandria e precettore di Tolomeo IV Filopatore, è oggi ricordato
soprattutto per aver misurato per primo, con ottima approssimazione,
le dimensioni della Terra. È anche conosciuto come Eratostene beta,
ovvero Eratostene secondo, nomignolo assegnatogli, non senza malizia,
già dagli antichi, per sottolineare come egli si applicasse in
moltissime discipline diverse, senza però primeggiare in nessuna,
risultando così sempre alle spalle di qualcun altro. Eratostene ha scritto una storia
della filosofia e saggi filosofici, probabilmente di contenuto
etico, ma della sua produzione in questo settore non sappiamo nulla
di preciso. Uno spiraglio sulle sue concezioni è dato da un
frammento riportato da Strabone (Geografia, I), nel quale Eratostene
afferma che non bisognerebbe dividere gli uomini tra barbari e Greci,
ma secondo le loro qualità, in quanto non solo vi sono Greci
pessimi, ma anche “barbari” di alta civiltà. Si occupò di
storia della letteratura, scrivendo trattati sulla commedia
antica, e di critica letteraria. Coniò per se stesso il termine
“filologo”, nel senso di amante della cultura; dando
inizio, anche terminologicamente, alla filologia alessandrina.
Carta dei terrori del Mar Mediterraneo ai tempi della Repubblica di Roma, con evidenziata Cirene, nell'attuale Libia. |
Storia e cronologia - Tra i suoi
lavori di storia, alcuni trattavano l’antica storia egiziana,
ma il suo contributo principale in questo campo consistette nel primo
tentativo di fissare su base scientifica una precisa cronologia
per la storia greca. A questo scopo, nella sua opera cronologica,
introdusse l’uso, poi seguito dagli autori successivi, di
datare gli eventi storici e letterari in base alle Olimpiadi
nelle quali si erano verificati (questo sistema era utile per
l’abbondanza di riferimenti in letteratura ai giochi olimpici e il
loro carattere panellenico). La sua compilazione di un elenco di
vincitori nelle gare olimpiche era chiaramente funzionale alle sue
ricerche cronologiche. Il metodo di datazione riferito alle Olimpiadi
poteva però essere applicato soltanto agli eventi successivi al 776
a.C., anno della prima Olimpiade (che fu vinta da Corebo di Elide):
per il periodo precedente al 776, lo stesso Eratostene pensò di
servirsi delle liste dei re spartani, a noi pervenute nella "Cronaca"
di Eusebio di Cesarea. Grazie alle liste, Eratostene fornì una
cronologia relativa della Guerra di Troia (che egli data ad 80 anni
prima del ritorno in Grecia degli Eraclidi, dunque intorno al 1180
ca) e del floruit (fioritura) di Omero, che Eratostene collocò
100 anni dopo Troia, dunque intorno al 1080.
Mitologia e poesia - L’interesse
di Eratostene per l’antica mitologia è testimoniato da uno dei
suoi scritti più noti, i "Catasterismi", un saggio
in cui sono descritte 42 costellazioni con i miti che le
riguardano. I "Catasterismi" sono stati a lungo
attribuiti ad un anonimo della tarda antichità, ma nel 1956, lo
studioso Jean Martin accertò l'attribuzione ad Eratostene dell'opera
originale, della quale il testo giunto a noi è una versione
abbreviata. L'opera fu per la prima volta pubblicata in una lingua
europea nel 1998, quando fu tradotta in francese con il titolo "Le
Ciel, Mythes et histoire des constellations".
Astronomia - Tra i risultati
nell'ambito dell'astronomia ottenuti da Eratostene, conosciamo la
misura dell'inclinazione dell'eclittica, effettuata con un
errore di 7', e la compilazione di un catalogo di 675 stelle,
andato perduto. Intorno al 255 a.C. avrebbe inventato la sfera
armillare, strumento che consente la rappresentazione della sfera
celeste e la descrizione del moto delle stelle intorno alla Terra.
Sulle sue misure delle distanze tra Terra e Luna e tra Terra e Sole
abbiamo solo una notizia confusa, trasmessa da Eusebio di Cesarea.
Matematica - Tra i risultati
matematici di Eratostene, quello più noto è il crivello di
Eratostene, un metodo per individuare i numeri primi.
Un'altra sua invenzione è quella del mesolabio, riportata in
dettaglio da Eutocio di Ascalona. Si tratta di uno strumento
meccanico con il quale si possono calcolare due medi proporzionali da
inserire tra due segmenti assegnati o, equivalentemente, estrarre una
radice cubica. Pappo di Alessandria riferisce che Eratostene scrisse
un'opera matematica intitolata Sulle medie.
Geografia fisica - Sui
contributi di Eratostene nel campo della geografia fisica, siamo
informati soprattutto da Strabone, che scrive come Eratostene si
fosse occupato, in particolare, delle maree, studiando il ciclo
lunare e individuandolo come causa delle correnti negli stretti.
Studiando i fossili marini presenti in località lontane dal mare,
aveva dedotto il lentissimo movimento della linea di costa: un'idea
spesso attribuita a Leonardo da Vinci.
Curiosità - Il nome
"Eratostene" è stato attribuito ad un imponente rilievo
sottomarino localizzato tra l'isola di Cipro e l'Egitto.
Mappa del mondo di Eratostene, da https://commons.wikimedia.org/wiki/ File:Mappa_di_Eratostene.jpg#/me dia/File:Mappa_di_Eratostene.jpg |
Geografia e cartografia - Fu
Eratostene ad introdurre il termine geografia (Γεωγραφία),
con il significato di descrizione della Terra. Può essere
considerato il fondatore della geografia matematica, avendo
usato sistematicamente il sistema di coordinate sferiche costituito
da latitudine e longitudine, inventato da Dicearco da Messina.
Compilò una mappa dell’Egitto, che descriveva il percorso del Nilo
dal delta fino a Khartum, ed una mappa dell'intero mondo conosciuto,
dalle isole britanniche (per le quali usò il resoconto di Pitea)
fino a Ceylon e dal Mar Caspio fino all'Etiopia. Nella sua Geografia
in tre libri, Eratostene rifletteva anche sulla geografia omerica,
che egli riteneva del tutto immaginaria.
Misura del meridiano di Eratostene.
|
La misura del meridiano terrestre è certamente il risultato più
famoso di Eratostene, che stimò per esso una lunghezza di
252.000 stadi, con un errore, assumendo uno stadio compreso tra i 155
e i 160 metri, tra il -2,4% e il +0,8% rispetto al valore corretto.
Il procedimento seguito era descritto in un'opera (perduta) in due
libri "Sulla misura della Terra"; ad essere pervenuto è un
breve resoconto divulgativo e semplificativo fatto da Cleomede. Cleomede prende in considerazione due
città, Alessandria e Siene, l'odierna Assuan, distanti tra di loro
5.000 stadi egizi. Facendo l'ipotesi semplificativa che siano sullo
stesso meridiano (in realtà sono separate da 3° di longitudine) e
che Siene sia esattamente sul Tropico del Cancro, in modo che a
mezzogiorno del solstizio d’estate si possa supporre che a Siene il
sole sia allo zenit, con i raggi del sole perfettamente verticali; in
questo modo l'angolo di incidenza dei raggi solari misurato ad
Alessandria corrisponde all’angolo con il vertice al centro della
Terra contenuto tra le semirette che lo congiungono alle due città.
Il suo valore era di 1/50 di angolo giro, di conseguenza la misura
dell'intero meridiano terrestre era di 250.000 (50 x 5.000) stadi
egizi (1 stadio egizio = 157.5 metri), quindi 39.375 km (contro i
40.075 reali) con l'errore dell'1.5% circa. In realtà il metodo di
Eratostene era più complesso, come testimoniato dallo stesso
Cleomede, il cui scopo dichiarato era quello di esporre una versione
semplificata rispetto a quella contenuta nell'opera di Eratostene. Il
metodo, come ricostruito da Lucio Russo, si basava su una campagna di
misurazioni avvenuta per mezzo dei mensores regii, funzionari
regi incaricati di effettuare misure capillari del territorio
egiziano per fini fiscali. Anche il fatto che la misura trovata
corrisponda a 252.000 stadi potrebbe essere significativa: si tratta
infatti di un numero divisibile per tutti i numeri naturali da 1 a
10; secondo una interpretazione, Eratostene avrebbe alterato i dati
per ottenere questo risultato "utile". Secondo l'interpretazione di Russo,
invece, basata su una affermazione di Plinio che parla dello stadio
"secondo il rapporto di Eratostene", Eratostene avrebbe
introdotto un nuovo stadio come sottomultiplo del meridiano.
Marco Porcio Catone il Censore |
15. Marco Porcio Catone detto "il Censore" (in latino Marcus Porcius Cato, nelle epigrafi M·PORCIVS·M·F·CATO; Tusculum,
234 a.C. circa - 149 a.C.) è stato un politico, generale,
storiografo e scrittore romano, soprannominato "il
Censore" (Censor), Sapiens, Priscus o maior per
distinguerlo da Marco Porcio Catone Uticense, il suo pronipote.
Tusculum, città dove nacque, era stata una città pre-romana, romana
e medievale del Lazio, posta sui Colli Albani nell'area dei Castelli
Romani. Plutarco, autore delle "Vite parallele",
dà questo ritratto di Catone: «[...]Quanto al suo aspetto, aveva
capelli rossastri e occhi azzurri, come ci rivela l'autore di questo
poco benevolo epigramma: "Rosso, mordace, occhiazzurro,
Persefone neanche morto accoglie Porcio in Ade". Fisicamente era ben piantato; il suo
corpo s'adattava a qualunque uso, era tanto robusto quanto sano,
poiché fin da giovane si applicò al lavoro manuale - saggio metodo
di vita - e partecipò a campagne militari ». Nacque nel 234 a. C. a Tusculum, da
un'antica famiglia plebea che si era fatta notare per qualche
servizio militare, ma non nobilitata per aver rifiutato le più
importanti cariche civili. Fu allevato, secondo la tradizione dei
suoi antenati latini, perché divenisse agricoltore, attività alla
quale egli si dedicò costantemente quando non fu impegnato nel
servizio militare. Ma, avendo attirato l'attenzione di Lucio Valerio
Flacco, fu condotto a Roma, e divenne successivamente questore (nel
204 a.C.), edile (199 a.C.), pretore (198 a.C.) e console nel 195
a.C. percorrendo tutte le tappe del "cursus honorum"
assieme al suo vecchio protettore; nel 184 a.C. divenne infine
censore. Marco Porcio Catone è considerato il
fondatore della Gens Porcia. Ebbe due mogli. La prima fu Licinia, una
aristocratica della Gens Licinia, da cui ebbe come figlio Marco
Porcio Catone Liciniano. La seconda moglie fu Salonia, figlia di un
suo liberto, sposata in tarda età dopo la morte di Licinia, da cui
ebbe Marco Porcio Catone Saloniano, nato quando Porcio Catone aveva
80 anni. Di lui si è citata una considerazione amara: « I ladri di beni privati
passano la vita in carcere e in catene, quelli di beni pubblici
nelle ricchezze e negli onori » (Marco Porcio Catone, citato in Aulo
Gellio, Notti attiche, XI, 18, 18). Durante i suoi primi anni di carriera
politica si oppose all'abrogazione della lex Oppia, emanata durante
la seconda guerra punica e finalizzata a contenere il lusso e le
spese esagerate da parte delle donne. Nel 204 a.C. prestò servizio
in Africa come questore con Scipione l'Africano ma lo abbandonò dopo
un litigio a causa di presunti sperperi. Egli comandò invece in
Sardegna, dove per la prima volta mostrò la sua rigidissima moralità
pubblica, e in Spagna, che egli assoggettò spietatamente,
guadagnando di conseguenza la fama di trionfatore (nel 194 a.C.). Nel 191 a.C. ricoprì il ruolo di
tribuno militare nell'esercito di Manio Acilio Glabrione nella guerra
contro Antioco III il Grande di Siria, giocò un ruolo importante
nella battaglia delle Termopili e attaccando alle spalle Antioco
permise la vittoria dei romani, che segnò la fine dell'invasione
seleucide della Grecia. Porcio Catone è tra le principali
personalità della letteratura latina arcaica: egli fu oratore,
storiografo e trattatista. Fu autore di una vasta raccolta di
manuali tecnico-pratici, con i quali intendeva difendere i valori
tradizionali del mos maiorum contro le tendenze ellenizzanti
dell'aristocrazia legata al circolo degli Scipioni, indirizzata al
figlio Marco, i "Libri ad Marcum filium" o "Praecepta ad Marcum filium",
di cui si conserva per intero soltanto il "Liber de agri cultura", in
cui esamina, soprattutto, l'azienda schiavile che tanto spazio si
conquisterà poi in età imperiale. Affrontò inoltre la tematica dei
valori tradizionali romani anche in un "Carmen
de moribus" di cui sono ad oggi pervenuti pochissimi frammenti. Fin dalla giovinezza si dedicò,
inoltre, all'attività oratoria: pronunciò in tutta la sua
vita oltre centocinquanta orazioni, ma sono attualmente conservati
frammenti di varia estensione riconducibili a circa ottanta orazioni
diverse. Si distinguono tra esse orationes deliberativae,
ovvero discorsi pronunciati in senato a favore o contro una proposta
di legge, e orationes iudiciales, discorsi giudiziari di
accusa o difesa. Fu inoltre autore, nella vecchiaia,
della prima opera storiografica in lingua latina, le "Origines",
il cui argomento era la storia romana dalla leggendaria fondazione
fino al II secolo a.C.. Dell'opera, pur significativa dal punto di
vista ideologico, si conservano scarsi frammenti. Catone individua
nel culmine del percorso educativo la formazione di un vir bonus,
dicendi peritus (uomo di valore, esperto nel dire), espressione
che sarà il cardine del successivo modello educativo romano. L'opera letteraria di Porcio Catone, in
particolare quella storica e oratoria, fu elogiata da Cicerone, che
definì il censore primo grande oratore romano, e il più degno
d'essere letto. Nella prima età imperiale, nonostante l'ideologia di
Porcio Catone coincidesse in buona parte con la politica
restauratrice del mos maiorum promossa da Augusto, l'opera di
Porcio Catone fu oggetto di sempre minore interesse. Con l'affermarsi
delle tendenze arcaizzanti nel II secolo d.C., invece, essa fu
oggetto di grandi attenzioni, seppure a carattere esclusivamente
linguistico ed erudito: Gellio e Cornelio Frontone ne tramandarono
molti frammenti, e l'imperatore Adriano dichiarò di preferire Porcio
Catone anche allo stesso Cicerone. A partire dal IV secolo d.C.
l'opera di Porcio Catone iniziò a disperdersi, e se ne perse la
conoscenza diretta. Grande diffusione ebbero, invece, le raccolte di
proverbi in esametri erroneamente attribuite a Porcio Catone e
denominate "Disticha Catonis" e "Monosticha Catonis", ma composte
probabilmente nel III secolo d.C..
Polibio, dalla stele di Kleitor. |
Antica Grecia con cerchiata in rosso Megalopolis. |
A B Γ Δ Ε
Z H Θ I K
Λ M N Ξ O
Π Ρ Σ T Υ
Φ Χ Ψ Ω
La comunicazione si svolge secondo le
seguenti fasi:
1. La comunicazione viene stabilita: il trasmittente alza due torce, segnalando che sta per iniziare la
trasmissione; il destinatario risponde alzando due torce, segnalando
che è pronto a ricevere,
2. La comunicazione viene inoltrata:
viene trasmessa una lettera alla volta; il trasmittente alza un numero
di torce a sinistra, corrispondente al numero di riga e un numero di
torce a destra, corrispondente al numero di colonna, individuando così
una lettera precisa,
3. La comunicazione termina: il
trasmittente alza due torce segnalando la fine della trasmissione.
È da notare che questo metodo si
prestava ottimamente alla trasmissione di messaggi crittografati; era
sufficiente che trasmettitore e ricevitore concordassero uno stesso
schema comune (diverso da quello banale alfabetico indicato sopra)
con una disposizione particolare delle lettere in riga e colonne.
Ad esempio, se si vuole trasmettere la
parola “Cretesi”, in greco KΡHTEΣ (cretès), si trasmetteranno
le lettere nel modo seguente:
K 2 torce a sinistra, 5 torce a destra
Ρ 4 torce a sinistra, 2 torce a destra
H 2 torce a sinistra, 2 torce a destra
T 4 torce a sinistra, 4 torce a destra
E 1 torcia a sinistra, 5 torce a destra
Σ 4 torce a sinistra, 3 torce a destra
Il metodo di trasmissione richiede che
il testo sia sintetico: non si sceglierà di comunicare la frase
“circa mille soldati cretesi sono passati ai nemici”, si
preferirà dire “mille Cretesi disertano”.
Marco Terenzio Varrone.
|
Carta con l'ubicazione di Rieti. |
- opere di erudizione, filologia e storia,
- opere giuridiche e burocratiche,
- epitomi di grandi opere,
- opere di filosofia e agricoltura,
- poesia, orazioni, satire, varie prose.
Di questa grande produzione è
pervenuta (quasi integra) solo un'opera: il "De re rustica"; del "De
lingua Latina" sono pervenuti solo 6 libri su 25.
Il canone varroniano - Composto da due opere, le "Quaestiones Plautinae" e il "De comoediis Plautinis", ripartisce il corpus plautino, che includeva 130 fabulae, di queste 21 vengono definite autentiche, 19 di origine incerta dette pseudo-varroniane, e le restanti false.
Il canone varroniano - Composto da due opere, le "Quaestiones Plautinae" e il "De comoediis Plautinis", ripartisce il corpus plautino, che includeva 130 fabulae, di queste 21 vengono definite autentiche, 19 di origine incerta dette pseudo-varroniane, e le restanti false.
I Logistorici - Dal greco “discorsi
di storia”. È un'opera in 76 libri, composto in forma di dialogo
in prosa, di argomento letterario e antiquario, in cui ogni libro
prendeva il nome di un personaggio storico e un tema di cui il
personaggio costituiva un modello. Es.: "Marius, de fortuna", "Cato, de
liberis educandis".
Le Saturae Menippeae - Prendono come
modello Menippo di Gadara, esponente della filosofia cinica (da cui
il nome), sono state scritte tra l'80 a.C. e il 46 a.C., si compongo
di 150 libri, in prosa e in versi, di cui però ci rimangono circa
600 frammenti e novanta titoli, di argomento soprattutto filosofico, ma anche di critica dei costumi, morale, con rimpianti sui tempi
antichi in contrasto con la corruzione del presente.
Ciascuna satira recava un titolo,
desunto da proverbi (Cave canem con allusione alla mordacità dei
filosofi cinici) o dalla mitologia (Eumenides contro la tesi
stoico-cinica per cui gli uomini sono folli, Trikàranos, il mostro a
tre teste, con un maligno riferimento al primo triumvirato).
Raffigurazione di Diodoro Siculo |
Carta con l'ubicazione di Agira, in Sicilia. |
Sallustio Crispo. |
19. Gaio Sallustio Crispo, o più
semplicemente Sallustio (in latino: Gaius Sallustius Crispus, nelle
epigrafi: C·SALLVSTIVS; Amiternum, 1º ottobre 86 a.C. - Roma, 13
maggio 34 a.C.) è stato uno storico e politico romano, senatore della repubblica romana.
Carta con la posizione di L'Aquila, nei cui pressi sorgeva Amiternum. |
Gioventù in politica -
Poche sono le notizie certe riguardo alla vita di Sallustio;
godono di una certa attendibilità la sua data di nascita, le calende
di ottobre (il 1º ottobre) dell'anno 86 a.C., ed il suo luogo di
nascita, Amiternum, un centro sabino del Samnium occidentale. La sua
famiglia, probabilmente plebea, ma di condizione agiata e legata alla
nobilitas locale, si trasferì poco dopo a Roma, dove ebbe
modo, come era prassi per i giovani figli della nobilitas
municipale, di dedicarsi alla carriera politica. « Ma io, fin da giovane, come molti
fui spinto alla politica per passione e lì ebbi molte esperienze
negative. » (Sallustio, "De Catilinae coniuratione" cap.
3,3; trad. di L. Piazzi, "La congiura di Catilina"). Si adattò tuttavia ai costumi corrotti
dell'Urbe, che in seguito criticò aspramente nelle sue monografie,
con risentimento e rimpianto per i valori antichi (le pristinae
virtutes) del popolo romano. In lui non mancavano una rigorosa
tempra morale e delle serie inclinazioni verso la filosofia; in
particolare fu attratto dal neopitagorismo, filosofia allora
particolarmente in voga presso i ceti elevati della società romana,
e venne in contatto con la scuola neopitagorica di Nigidio Figulo.
Homo novus: il cursus honorum
- Nel 54 Sallustio diede inizio al suo cursus honorum con la
carica di questore; la sua carriera politica si rivelò però
anomala, in quanto saltò alcune delle tappe principali del cursus
honorum. È possibile ipotizzare che, essendo un homo novus,
abbia trovato naturale schierarsi col partito dei
populares, il cui leader era allora Gaio Giulio Cesare,
nipote per parte di madre ed erede politico di Gaio Mario.
Potrebbe anche aver avuto un rapporto particolare con Marco Licinio
Crasso, di cui era forse cliente (cliens): infatti, pur non
esprimendo mai un giudizio positivo nei suoi confronti, nel "De
Catilinae coniuratione" (capp. 17,7; 48,9) traspare il fatto che
da lui ricevette delle importanti confidenze. Nel 52 ricoprì la
carica di tribuno della plebe. Durante il suo tribunato si trovò ad
affrontare la grave crisi scoppiata in seguito all'omicidio del
tribuno Publio Clodio Pulcro, un popularis candidato console
per quell'anno. L'assassinio si inquadra nella lunga serie di lotte,
spesso con l'uso di bande armate, che coinvolgevano ottimati e
popolari, e in uno di questi scontri, più precisamente sulla via
Appia, Tito Annio Milone, organizzatore delle bande dei possidenti,
uccise Clodio. In un simile clima politico, reso ulteriormente
incandescente anche dalle rivendicazioni di Cesare, allora impegnato
a reprimere la rivolta di Vercingetorige durante la conquista della
Gallia, sulla leadership della factio dei populares,
Sallustio si schierò con decisione contro Milone ed i suoi
sostenitori, tra cui Cicerone. Al processo per omicidio, l'avvocato
arpinate difese Milone ma, non riuscendo a pronunciare la sua
orazione (in seguito profondamente emendata e pubblicata come Pro
Milone) per il tumulto della folla e per il timore che gli incutevano
i compagni di Clodio nel foro, Milone venne condannato all'esilio.
Nel 51 Sallustio divenne senatore, rimanendo sempre un fedele
sostenitore di Cesare nella lotta contro Pompeo. Nonostante
l'amicizia di Cesare, nel 50 fu espulso dal senato probri causa, "per indegnità morale", pare per una vendetta politica messa in atto da parte dell'oligarchia
senatoria, in particolare da Appio Claudio Pulcro e Lucio Calpurnio
Pisone, censori in carica quell'anno di dichiarata fede pompeiana.
Capo del partito cesariano e
propretore in Africa - Subito dopo l'espulsione dal senato,
Sallustio raggiunse Cesare in Gallia, mentre si accingeva a
completarne la conquista, e fu al suo fianco nella guerra civile del
49, durante la quale Sallustio divenne uno dei capi del partito
cesariano; lo stesso anno fu riammesso in senato per intercessione di
Cesare, mentre due anni dopo gli fu assegnata la pretura. Durante il
conflitto svolse alcuni importanti incarichi militari, in particolare
una fortunata spedizione nel 46 a.C., durante le operazioni in
Africa, contro l'isola di Cercina (l'attuale Chergui nell'arcipelago
delle isole Kerkennah), presidiata dai pompeiani, allo scopo di
derubarli delle riserve di frumento. Nello stesso anno prese parte alla
decisiva battaglia che ebbe luogo a Tapso; in tale occasione
probabilmente diede buona prova di sé, dato che, dopo la sconfitta
dei pompeiani, gli fu riconferita la pretura e fu nominato
governatore (con il titolo di propraetor) della neonata
provincia nordafricana dell'Africa Nova, originatasi dal disfacimento
del regno di Numidia. Nei diciotto mesi del suo mandato poté,
secondo il malcostume del tempo, arricchirsi a dismisura,
impadronendosi delle ricchezze dell'ultimo re numida, Giuba I, ed
incassando tangenti sugli appalti pubblici. Il suo malgoverno gli
valse, al rientro a Roma, l'accusa de repetundis.
L'abbandono della politica e gli
ultimi anni - Tornato
a Roma nel 44 a.C., con i soldi accumulati durante il suo
proconsolato acquistò una proprietà a Tivoli, precedentemente
appartenuta a Cesare, e si fece costruire nell'Urbe una sontuosa
dimora fra il Pincio e il Quirinale nota col nome di Horti
Sallustiani ("Giardini sallustiani"), dal nome dei
grandiosi giardini (hortus significa infatti giardino) che
circondavano il suo palazzo. Accusato nuovamente di concussione,
riuscì con estrema difficoltà ad evitare la condanna, ma la sua
carriera politica, irrimediabilmente compromessa a seguito di questo
episodio, poteva dirsi definitivamente conclusa. Fu forse lo stesso
Cesare a suggerirgli, o addirittura imporgli, il ritiro a vita
privata per evitargli un'ulteriore condanna ed una nuova e degradante
espulsione dal Senato. In seguito sposò Terenzia, ex moglie di
Cicerone, dal quale aveva divorziato nel 46 a.C. Con la morte di Cesare, avvenuta alle
idi di marzo (il 15 marzo) del 44 a.C., ebbe termine definitivamente
la carriera politica di Sallustio. Egli si dedicò allora all'otium
privato ed alla composizione delle sue opere storiche: le due
monografie "De Catilinae coniuratione" e "Bellum
Iugurthinum" oltre alle "Historiae", rimaste però
incompiute a causa della morte dello storiografo, avvenuta intorno al
35-34 a.C. (molto probabilmente il 13 maggio del 34), all'età di 52
anni. In realtà, nel proemio del "De
Catilinae coniuratione", Sallustio vuole far credere di aver
sempre ritenuto la sua carriera politica come una tormentata fase
transitoria prima di giungere al sospirato approdo alla storiografia. « [...] Tornai invece a quel progetto
e a quella passione da cui una cattiva ambizione mi aveva distolto e
decisi di narrare le imprese del popolo romano per episodi,
come mi parevano degne di memoria; tanto più che avevo ormai l'animo
libero da speranze, timori, faziosità. » (Sallustio, "De Catilinae
coniuratione" cap. 4,2; trad. di L. Piazzi, "La congiura di
Catilina"). Sta di fatto che in politica, ruoli di
primo piano, eccetto il governatorato dell'Africa Nova, non ne ebbe
mai; non sarebbe azzardato addirittura affermare che politicamente
abbia fallito, non essendo riuscito ad affermarsi come altri suoi
contemporanei. Tuttavia, la grande fama che lo ha reso noto sino ai
giorni nostri, gli è stata data dalle sue opere storiografiche.
Opere -
Sallustio è autore di importanti opere storiche, tramandate
per tradizione diretta dai codici medioevali: le due monografie, il
"De Catilinae coniuratione" ed il "Bellum
Iugurthinum", composte e pubblicate negli anni fra il 43 e il 40
a.C., e le "Historiae", di cui restano numerosi frammenti,
iniziate intorno al 39 a.C. e rimaste incompiute, che forse dovevano
fungere da allaccio tra le due monografie. Sono state attribuite allo
scrittore di Amiternum anche diverse opere considerate oggi spurie:
due "Epistulae ad Caesarem senem de re publica" e
l'"invectiva in Ciceronem", probabilmente esercizi
scolastici di età posteriore. Prima dell'esperienza monografica di
Sallustio, nella storiografia romana, salvo rari casi, la tipologia
di opere principalmente redatte erano i regesti, nei quali gli
eventi erano narrati secondo una scansione per annum, ovvero
anno per anno. Sallustio è dunque colui che introduce a Roma il
genere monografico, che consiste nel raccontare solo un
determinato fatto (come dirà lui nel "De Catilinae
coniuratione", cap. 4,2, vedi la citazione sopra , carptim
= per episodi, monograficamente), arricchendolo di un'accurata
indagine introspettiva atta ad esaminare il contesto e le cause più
viscerali che hanno contribuito al suo scatenarsi. Sallustio crea una storiografia di
carattere politico e una storiografia di carattere filosofico.
L'obiettivo di quest'ultima è storico, ma il risultato finisce per
essere una filosofia della storia: il continuo scontro fra il
bene e il male.
De Catilinae coniuratione - «
La gloria delle ricchezze e della bellezza è effimera e fragile, la
virtù è un bene splendido ed eterno. » (Sallustio, "De
Catilinae coniuratione" cap. 1, 4; trad. di L. Piazzi, "La
congiura di Catilina")
Cesare Maccari - Cicerone denuncia Catilina in senato (1880). |
Il "De Catilinae coniuratione"
è la prima vera e propria monografia storica mai composta in tutto
il mondo latino. L'opera, come si comprende dal titolo, tratta la
congiura di Lucio Sergio Catilina e il moto che ne seguì nel 63-62
a.C. Alla trattazione della cospirazione, Sallustio fa precedere
un'analisi della condotta cesariana del 66-63, dimostrata (anche se
non lo fu realmente) del tutto esente da colpe nel tentativo
insurrezionale e vista come unica valida alternativa al corrotto
"regime dei partiti" («mos partium atque factionum»)
di cui auspica la fine, con conseguente riflesso sulle sue scelte
politiche.
Dopo un proemio moraleggiante e
filosofico (cap. 1), basato sull'affermazione che l'uomo è composto
di anima e di corpo e che le facoltà spirituali devono prevalere su
quelle materiali (le facoltà spirituali principali sono
l'attività politica,
militare, oratoria e
storiografica), tutta la prima parte restante dell'opera è
effettivamente un'analisi e una forte introspezione della figura di
Catilina e dell'inquietante fenomeno rivoluzionario, alla luce di
categorie storiche, morali e psicologiche. Ne risulta perciò un
quadro largamente dipinto a tinte fosche, ma estremamente vivace, di
una società estremamente corrotta, su cui campeggia come figura
dominante Catilina, definito un monstrum (una stranezza) in
quanto assomma nella sua complessa e contorta personalità
caratteristiche diverse, persino opposte e contrastanti tra loro: è
intelligente, coraggioso e malvagio; una figura sinistra, ma
estremamente affascinante, al cui carisma sembra non riuscire a
sottrarsi neanche lo stesso Sallustio. Accanto a Catilina si trovano
poi altri personaggi "studiati" con simile interesse: i
congiurati, tra cui campeggia Sempronia, Cicerone (per quanto
ridimensionato) e soprattutto Cesare e Catone il Giovane, messi a
confronto nei capitoli 53,5 e 54 e visti ambedue come estremamente
positivi, persino "complementari" per la salute della
res publica di Roma, in quanto avevano una simile visione del mos
maiorum: uno con la sua liberalitas, munificentia e
misericordia; l'altro con la sua integritas, severitas,
innocentia. Come già si può desumere da quanto
detto, il metodo e il fine adottati nell'analisi sono moralistici:
Sallustio ritiene che l'antica grandezza della repubblica fosse
garantita dall'integritas e dalla virtus
dei cittadini, e vede nel successo, nella ricchezza e nel lusso
(ambitio, avaritia atque luxus) le cause della
decadenza e la possibilità di tentativi di "impadronirsi dello
stato" (rei publicae capiundae) come quello di Catilina.
Bellum Iugurthinum - Il "Bellum
Iugurthinum" è la seconda monografia storica composta da
Sallustio e narra, in 114 capitoli, la guerra combattuta dai romani
(nel 111-105 a.C.) contro Giugurta, re di Numidia. Il pretesto
bellico serviva però a mascherare un'altra guerra: quella
interna, del popolo che combatteva la prepotenza della nobiltà
senatoria, detentrice del monopolio delle imprese militari a
vantaggio dei suoi appaltatori, avidi di nuovi guadagni provinciali.
Non si trattò in questo caso di una guerra voluta dall'avaritia
(per usare un termine sallustiano) della nobilitas. Infatti il
Senato non aveva realmente alcun interesse in Africa e non avrebbe
tratto grandi giovamenti a combattere sul fronte africano, lasciando
invece scoperto il fronte settentrionale, minacciato da Cimbri e
Teutoni, che proprio in quegli anni ne progettavano l'invasione. I
ceti più interessati alla campagna africana erano in realtà i
cavalieri, sostenitori di una politica di sfruttamento delle risorse
disponibili nel bacino del Mediterraneo, i ricchi mercanti italici,
la plebe romana ed italica che intravedeva la possibilità, con la
conquista, di una distribuzione delle terre africane. In un quadro
del genere è comprensibile come, dopo anni di guerriglia
inconcludente, il conflitto sia stato portato a termine da un
rappresentante delle forze interessate alla conquista, l'homo
novus Gaio Mario, e non da generali aristocratici, che Sallustio
inevitabilmente (ed ovviamente) accusa di corruzione, incapacità e
superbia.
Anche in quest'opera è presente un
forte taglio moralistico ed essenzialmente politico. Sallustio,
capace da una parte di forti sintesi storiche, che tralasciano
elementi essenziali all'analisi storica (come le descrizioni
geografiche ed etnografiche, assenti del tutto o trattate poco
esaustivamente), dall'altra rivela un grande vigore polemico nel
denunciare l'incompetenza della nobilitas nella conduzione
della guerra, e la sua corruzione generale: Egli valorizza le ragioni
espansionistiche della classe mercantile, auspicando la nascita di
una nuova aristocrazia, fondata sulla virtus. Sallustio
apprezza quindi i valori che gli antenati hanno cercato di tramandare
e di seguire; ma la corruzione ha ormai dilaniato l'intera res
publica.
Historiae - Dopo le due
monografie, Sallustio si cimentò in un'opera annalistica di più
ampia portata, le "Historiae". Esse dovevano narrare,
secondo una scansione per annum, la storia dal 78 a.C., anno
della morte di Silla (a questo punto terminano le "Historiae"
scritte dallo storiografo Lucio Cornelio Sisenna, giunte incompiute,
di cui Sallustio intendeva porsi come continuatore), fino al 67 a.C.
(anno della vittoriosa campagna di Pompeo contro i pirati). Si tratta
dunque del periodo che già nella prima monografia ("De
Catilinae coniuratione", cap. 11) era stato definito cruciale
nel processo di progressiva corruzione e degenerazione dello stato
repubblicano. Dell'opera, che Sallustio lasciò
incompiuta, restano solo dei frammenti, comunque significativi: ciò
consente, almeno in parte, di ricostruirne la struttura complessiva.
È certo che era strutturata in cinque libri (volumina) e che
dopo il prologo iniziale seguiva un'ampia retrospezione sul mezzo
secolo precedente di storia. Al centro del libro I campeggiava la
figura di Silla; nel II dominavano le guerre di Pompeo in Spagna e in
Macedonia, nel III la guerra mitridatica, la fine della guerra contro
Sertorio e la rivolta di Spartaco; il libro IV abbracciava i fatti
del periodo 72-70 a.C., con la conclusione della guerra servile; il V
racconta l'esito della guerra di Lucullo e la guerra di Pompeo contro
i pirati. L'ampiezza dell'approfondimento
storico-politico e la pregevolezza letteraria che contrassegna i
frammenti sopravvissuti rendono la perdita delle "Historiae"
una delle più gravi, assieme a quella degli "Ab Urbe condita
libri" di Tito Livio, della letteratura latina. Alcuni frammenti
superstiti sono di proporzioni piuttosto estese e riguardano quattro
discorsi e due lettere, tramandati dall'uso scolastico delle scuole
di retorica; fra i discorsi spicca quello di Lepido contro il sistema
di governo dei sillani. Tra le lettere ha notevole rilievo l'epistola
che Sallustio immagina scritta da Mitridate, re del Ponto, al re dei
Parti, Arsace XII, e che dà voce alla protesta dei provinciali
contro il dispotismo romano. Il quadro generale è improntato ad un
marcato pessimismo; sulla scena si avvicendano solo avventurieri e
corrotti, in un clima di grave decadenza. Infatti, dopo la morte di
Cesare, non erano più pensabili per Sallustio attese o progetti di
riscatto. La sua ammirazione va a quei ribelli che,
come Sertorio, postosi a capo di un regno indipendente nella penisola
iberica, contestano apertamente le istituzioni repubblicane,
mettendosi però in luce grazie al proprio valore, non a manovre
demagogiche. Pompeo invece viene caratterizzato in modo polemico:
Sallustio, fedele alla sua politica pro Caesare, non manca di
atteggiarlo come un attivista, che scatena le più basse passioni del
popolo per meri fini politici.
Pensiero - La figura di
Sallustio è fortemente rappresentativa della complessità e delle
tensioni della societas romana che, proprio durante la vita
dell'autore, era protagonista di una gravissima crisi che portò al
collasso della res publica ed all'avvento del principatus
con Ottaviano Augusto. In un tale intrigo di vicende, in cui era
incredibilmente brutale la lotta per il potere ed appariva evidente
un quasi incolmabile vuoto di ideali, non era sicuramente agevole
assumere una posizione ideologica definitiva. A riprova di ciò, è
possibile scorgere in Sallustio un'enorme contraddizione tra il suo
comportamento politico e le dichiarazioni di principio. Il suo fu
un comportamento da arrivista ed opportunista senza scrupoli, e
per ciò ricevette le adeguate condanne; al contrario le sue
concezioni ideologiche sono improntate ad un irreprensibile
moralismo, con una forte nostalgia per le virtù antiche ed una
altrettanto forte condanna del malcostume generale delle classi al
governo di Roma.
Storico per il bene dello stato
- Escludendo i due "Commentarii" di Cesare, Sallustio è
il primo grande storico di Roma. Egli diede una svolta a quel
processo di evoluzione della storiografia, intesa come un'opera
nobilmente letteraria, come una rilettura degli eventi in chiave
politica e come forma di intervento nella vita dello stato, secondo
la tradizione annalistica degli storici di classe senatoria dei
secoli precedenti. La finalità essenzialmente politica della
riflessione storica sallustiana emerge in primo piano negli ampi
proemi delle due monografie; in essi l'autore si sforza di
giustificare l'approdo alla storiografia come un indiretto
prolungamento ed una forma sostitutiva di impegno politico.
Sallustio sente il bisogno di chiarire al pubblico romano,
tradizionalmente convinto che fare la storia sia più importante che
scriverla, come la storiografia sia un modo diverso, ma non per
questo inutile, di lavorare per il bene della civitas. In tal
stesso senso è necessario interpretare la scelta del genere
monografico, che costituiva per il pubblico romano (e senza veri
precedenti neppure nella storiografia greca) una novità rispetto
alla tradizionale impostazione annalistica. Giustificabile anche per
ragioni puramente letterarie (all'epoca dei poetae novi,
dominata dal nuovo gusto alessandrino, infatti era viva la
richiesta di opere brevi e più elaborate), questa scelta si
spiega soprattutto per la sua funzione chiarificatrice e didattica
nei confronti dei lettori, poiché favorisce il focalizzare
l'attenzione su un singolo e specifico problema storico, prestandosi
a mirate riflessioni sulla storia di Roma, specie sul piano sociale
ed istituzionale. L'indagine storica si trasforma così in
un'illustrazione della crisi della res publica oligarchica e
nella ricerca delle radici profonde di tale crisi; pur limitando
l'attenzione su due argomenti ritenuti «minori» dal punto di vista
storico, come la congiura di Catilina e lo scandalo della guerra
giugurtina, Sallustio approfondisce in maniera analitica le dinamiche
alla base di quel processo drammaticamente in atto, che stava
producendo lo sfaldamento, morale prima ancora che istituzionale,
delle basi dello stato repubblicano, che sfoceranno nel crollo della
repubblica e nell'avvento dell'impero.
Messaggero del crollo della res
publica - Se dunque la crisi della res publica è il
problema che le due monografie individuano con estrema sistematicità
di riflessione, l'autore evita però accuratamente di isolare tale
tematica, scegliendo invece, per maggiore efficacia di analisi, di
collocarla sullo sfondo di una visione più organica della storia
romana. Tale visione d'insieme emerge in alcuni momenti salienti
delle due opere; per il resto Sallustio procede per quadri
emblematici ed approfonditi. Nel "De Catilinae coniuratione"
l'autore si sofferma a rappresentare i mali nascosti di una società
divenuta ricca e potente dopo le vittorie su nemici esterni
(soprattutto i Cartaginesi), ma che poi aveva abbandonato i valori
alla base di questi successi: giustizia, disinteresse, rettitudine,
severità di vita, altruismo, e cioè i valori alla base del mos
maiorum tradizionale. Pagine decisive in questo senso si leggono
nell' «archaeologia» (cap. 6-13): dopo aver abbandonato
questi ideali, la città si era divisa in factiones. È il tema dell'altra digressione, di
grande tensione etico-politica, posta poco oltre la metà dell'opera,
nei capitoli 36,5-39, che ripercorre le cause che spinsero la plebe a
dar credito alla rivoluzione di Catilina. La nobilitas
corrotta, invece di costituire, come in passato, la guida sicura
dello stato, poteva ormai piegarsi a forme di vera criminalità
politica: Catilina è l'incarnazione del pericolo eversivo che
minacciava ormai apertamente la res publica. Nel "Bellum Iugurthinum",
Sallustio si concentra su un'epoca precedente, in un momento di
ritorno alle origini del male che, si presuppone, potrà essere vinto
qualora se ne estirpino le radici. Nella digressione ai capitoli
41-42, l'autore denuncia lo stato di corruzione in cui versava
l'aristocrazia romana del tempo della guerra giugurtina: qui, a
suo giudizio, va rintracciata l'origine della fiacca condotta di
guerra, e, più in generale, dei mali della res publica. Accanto alla prima vittoriosa
resistenza dei populares, si delinea nell'opera quella
radicalizzazione dello scontro politico nelle due opposte fazioni che
avrebbe condotto alle successive fasi della crisi istituzionale,
dalla guerra civile tra Mario e Silla (di cui il "Bellum
Iugurthinum" costituisce di fatto il preambolo) alla coniuratio
capeggiata da Catilina, fino al conflitto generalizzato tra Cesare e
Pompeo. Infine, nelle "Historiae", lo scrittore ha
abbozzato il quadro «mondializzato» di una crisi che pare
irreversibile. Il processo di disgregazione della res publica
si allarga alle dimensioni del bacino del Mediterraneo ed insieme si
carica, nei frammenti a noi giunti, di un amaro, "cosmico",
pessimismo.
Accuse contro la nobilitas
- Da questo organico quadro storico-politico, che nell'arco delle tre
opere sembra via via precisarsi ed approfondirsi, emerge che le cause
principali del male dello stato risiedono nell'ambitio (la sete di
potere) e nell'avaritia (la brama di denaro) dell'aristocrazia
senatoria. Sallustio punta il dito impietosamente contro i demagoghi,
che aizzavano il popolo con false promesse, e contro i nobili, che si
facevano velo della dignità senatoria per consolidare ed estendere
ricchezze e domini. Specialmente dopo la dittatura sillana, la
nobilitas senatoria, perduto ogni freno ed ormai pronta ad
ogni compromesso e ad ogni avventura politica, trova una grande
polveriera nel panorama sociale ed umano largamente variegato di
Roma, punto d'incontro di diseredati, nullatenenti, contadini
impoveriti, ex possidenti indebitati, liberti senza patroni. Fuori da
Roma, i provinciales (le popolazioni provinciali) non
tolleravano più le angherie dei governanti, mentre gli schiavi
costituivano una riserva a basso prezzo per le rivolte. Questa «diagnosi», spassionata e per
certi versi crudele, è ben intonata a quell'andamento «drammatico»
che è una caratteristica fondamentale della storiografia
sallustiana. Peraltro l'autore evita di scendere fino in fondo nella
sua analisi, non volendo svelare l'insostenibile disparità per cui,
nel tramonto della res publica, i ricchi erano sempre più
ricchi e potenti, ed
i poveri sempre più poveri e privi di speranze. Tuttavia egli
rimane fondamentalmente un moderato; non desidera il sovvertimento
delle basi sociali dello stato e punta piuttosto ad individuare le
cause morali all'origine della malattia di Roma. La sua
analisi giunge dunque a toccare alcuni aspetti socio-economici della
crisi ed è anche questa una rilevante novità della monografia
sallustiana.
Rimedi contro la corruzione del
Senato - Quanto ai rimedi, Sallustio auspica la fine del «mos
partium et factionum» ("regime delle fazioni", "Bellum
Iugurthinum", cap. 41,1) e l'avvento di un potere super
partes, nelle mani di Cesare, che dia corpo ad un programma di
riordinamento dello stato e di rinsaldamento delle sue strutture
sociali. Oltre a ristabilire la concordia tra i ceti possidenti (un
celebre invito alla concordia viene rivolto da Micipsa al propri
figli: «nam concordia paruae res crescunt, discordia maximae
dilabuntur», «la concordia fa prosperare anche i piccoli stati,
la discordia fa crollare anche i più grandi», "Bellum
Iugurthinum", cap. 10,6), bisogna ampliare la base senatoria,
"arruolando nuove leve" dall'élite municipale. Erano
questi i punti salienti del programma intrapreso da Cesare nella
breve durata della sua dittatura ed è ben noto che Sallustio, oltre
ad essere fiero oppositore della classe senatoria, era un aperto
sostenitore della politica cesariana. Il piano riformista di Cesare
si basava sull'alleanza di classe tra gli equites (che
detenevano in esclusiva il monopolio commerciale) e l'allora
potentissimo esercito. Si trattava di un disegno antinobiliare
ed antisenatoriale, un disegno che Cesare aveva tentato di rendere
più accettabile, a differenza delle soluzioni più radicali della
politica dei Gracchi, evitando di intaccare i privilegi dei ceti
possidenti della penisola, a cui lo stesso Sallustio apparteneva.
Verso i due celebri fratelli tribuni della plebe, Sallustio mostra
un'aperta diffidenza: a suo avviso non la rivoluzione sociale, la
distribuzione delle terre ai nullatenenti o la cancellazione dei
debiti potevano costituire il rimedio alla crisi, bensì
l'ampliamento della classe dirigente e, soprattutto, la sua
profonda rigenerazione morale.
Stile - « Per chi sa il Latino,
sarà senza alcun dubbio assai meglio di leggere questo divino autore
nel testo. Per chi non lo sa, e desidera pur di conoscerne non
solamente i fatti narrati, ma anche alcun poco l'indole, la brevità,
l'eleganza, il meno peggio sarà di cercarsi quel traduttore che dal
testo si verrà meno a scostare, senza pure aver faccia di servilità.
Ogni traduttore, che ne ha durata la pena, crederà d'esser quello,
benché non lo dica. Io, non più modesto d'un altro, ma forse
alquanto più sincero, non nasconderò al lettore questa mia segreta
speranza, di essere pur quello. » (Vittorio Alfieri, "Della congiura
di Catilina", traduzione del "Bellum Catilinae":
Prefazione; Firenze, 1798). Sallustio è considerato il rinnovatore
della storiografia latina. Il suo stile è fondato sull'inconcinnitas
e trae origine da due illustri modelli: lo storico greco Tucidide, e
in particolare il suo capolavoro "La guerra del Peloponneso"
e il noto predecessore Marco Porcio Catone, detto il Censore.
Modelli - Sallustio attinge
dallo storico greco Tucidide, la capacità di ampliare la portata di
un fatto per inserirlo in un più vasto contesto di cause: è quello
che fa in particolare nell'«archeologia», nel sesto capitolo del
"De Catilinae coniuratione", dove imita coscientemente la
vasta ricognizione tucididea della storia arcaica greca, presente nel
primo capitolo dell'opera incentrata sulla "Guerra del
Peloponneso", oppure nei discorsi dei protagonisti, vere e
proprie pause d'interpretazione dei fatti, oltre che pezzi di grande
foggia retorica.
Da Catone invece prende la concezione
moralistica della storia come edificazione morale collettiva, e
quindi come celebrazione nostalgica e severa di un passato glorioso
da opporre agli elementi disgregativi che funestano la civitas
contemporanea. Non a caso nell'«archaeologia» la ricerca
delle cause più profonde, di stampo tucidideo, si unisce con i toni
solenni della denuncia della crisi del mos maiorum, derivati
da Catone.
Inconcinnitas e
particolarità stilistiche - Al contrario di Cicerone che si
esprimeva con uno stile ampio, articolato, ricco di subordinazione,
Sallustio preferisce un discorso irregolare, pieno di asimmetrie,
antitesi e variazioni di costrutto; tale stile prende nome di
inconcinnitas (disarmonia). La padronanza di una
tecnica simile crea un effetto di gravitas, producendo
un'immagine essenziale di quello che si descrive. « Amputatae sententiae et verba
ante exspectatum cadentia et obscura brevitas » cioè « Pensieri troncati e brusche
interruzioni e una concisione che tocca l'oscurità » (Seneca, "Epistolae ad Lucilium" 114,17). Da Tucidide, Sallustio prende
l'essenzialità espressiva, le sentenze brusche ed ellittiche,
l'irregolarità e variabilità (variatio) del testo, un
periodare parattattico, pieno di frasi nominali, omissione dei legami
sintattici, ellissi dei verbi ausiliari (con un uso ritmato e
continuo dell'infinito narrativo e del chiasmo): sono evitate le
strutture bilanciate e le clausole ritmiche del discorso oratorio. Da
Catone prende l'eloquio solenne, moralmente atteggiato, una lingua a
volte severa ed aulica, a volte popolare, ruvida nelle forme, austera
e dalla pàtina arcaica, come nel lontano modello epico che anticipa
la storiografia nella narrazione delle gesta collettive. Il periodare
essenziale è arricchito dagli arcaismi, che esaltano le frequenti
allitterazioni e asindeti.
Abbondano in particolare:
- gli arcaismi grafici: es. novos (per
novus, nuovo), pessumus (per pessimus, pessimo), lubido (per libido,
piacere), advorsus (per adversus, contro), vostra (per vestra,
vostra);
- gli arcaismi morfologici: -ēre alla
terza persona plurale del perfetto indicativo (al posto di -erunt);
-
-is all'accusativo plurale dei sostantivi con tema in -i (es. omnis
per omnes, tutti);
- -i al genitivo e -u al dativo
singolare dei sostantivi della IV declinazione (es. senati per
senatus, del senato; luxu per luxui al lusso);
- il dativo del pronome relativo quis
(per quibus, ai quali);
- il congiuntivo forem (per essem, che
io fossi);
- altre forme non assimilate, come
conruptus (per corruptus, corrotto);
- gli arcaismi lessicali: la desinenza
più solenne -udo per -tas (es claritudo per claritas, fama);
- la desinenza -mentum per -men
(cognomentum per cognomen, cognome);
- i poeticismi (mortalis per homo,
uomo, essere umano; algor per frigus, freddo);
- le inversioni dei costrutti classici:
es. militiae et domi (per domi militiaeque, in pace e in guerra);
- le variationes: es. pars... alii (per
il più frequente alii... alii, alcuni... altri).
Si tratta dunque di uno stile
arcaizzante ma nello stesso tempo innovatore, capace di
introdurre un lessico e una sintassi in contrasto con gli standard
del linguaggio letterario dell'epoca. Sallustio evita di riproporre
gli effetti drammatici dello stile tragico tradizionale, preferendo
suscitare emozioni partendo da una descrizione realistica dell'evento
(più volte definita "sobrietà tragica") e puntando ad una
grande drammatizzazione dell'avvenimento, ricca di pathos.
Eredità sallustiana - Già
dall'antichità fu riconosciuta a Sallustio una certa fama che col
tempo non è andata scemando. Nel periodo immediatamente successivo
alla morte di Sallustio, circola contro di lui una "Invectiva in
Sallustium", erroneamente attribuita a Cicerone e considerata
l'accesa replica all'"Invectiva in Ciceronem", anch'essa di
dubbia origine; ma pare si tratti in entrambi i casi di un falso
preparato in una scuola di retorica. In seguito, il commediografo
Leneo si avventa contro di lui scagliandogli una satura, con la quale
lo accusa di aver saccheggiato e defraudato Cicerone. Apprezzato da Marziale e Quintiliano,
ma criticato piuttosto aspramente da Tito Livio e Asinio Pollione per
l'eccessivo arcaismo, Tacito lo prende a modello del suo "moralismo
tragico" per comporre il "De vita et moribus Iulii
Agricolae" (Vita e costumi di Giulio Agricola), nel quale
accende un'aspra polemica contro l'avida politica imperialistica di
Roma, prendendo spunto dall'analoga denuncia nel "Bellum
Iugurthinum". Fu celebrato ed ampiamente imitato nell'età degli
Antonini (Antonino Pio, Marco Aurelio e Commodo). Zenobio,
paremiografo greco, traduce nella sua lingua tutti gli scritti
sallustiani. Fu apprezzato sia da pagani che da
cristiani e fu ripreso sia nel Medioevo per i contenuti morali sia in
età umanistica per il pessimismo moralistico e la sentenziosità; lo
apprezzò molto anche Brunetto Latini, precettore di Dante Alighieri.
Durante l'epoca umanistica viene preso come modello per la prosa
assieme a Tacito, in particolar modo da Leonardo Bruni ed Angelo
Poliziano. Proprio il Poliziano scrisse nel 1478 un commentarium
(Pactianae coniurationis commentarium), di stile ed
argomentazione sallustiana, riguardante la congiura dei Pazzi. Tuttavia a partire dalla seconda metà
del Cinquecento a lui verrà preferito Tacito, sia come approccio
linguistico che come stile. Nel Settecento Vittorio Alfieri curerà
due traduzioni in italiano delle monografie sallustiane. Il filosofo
tedesco Friedrich W. Nietzsche riconoscerà - nel «Crepuscolo degli
Idoli» - a Sallustio, il merito di averlo destato nel gusto per lo
stile, «dell'epigramma come stile». Tutt'oggi Sallustio è oggetto
di studi presso i licei e le università, in quanto è uno dei più
importanti storici di tutto il mondo latino.
Strabone. |
Carta della Turchia con l'ubicazione di Amasya, che anticamente si chiamava Amasea. |
- libri I e II: introduzione all'opera,
in cui Strabone vuole dimostrare che Eratostene ha avuto torto a
invalidare l'opera di Omero dal punto di vista geografico.
- libri dal III al X: descrivono
l'Europa, e più in particolare la Grecia antica (libri VIII-X).
- libri dall'XI al XVI: descrivono l'Asia
Minore.
- libro XVII: descrive l'Africa (Egitto e
Libia).
Strabone pensava che la fortuna della
Grecia fosse dovuta in parte alla sua posizione sul mare, e stabiliva
una interessante correlazione tra il progredire della civiltà di un
popolo ed il suo contatto con il mare.
Allo stesso tempo, insisteva sul fatto
che la geografia non poteva spiegare, da sola, la grandezza di un
popolo, sostenendo che la civiltà greca si fondava sull'interesse
dei cittadini per le arti e per la politica. Se la sua opera, che è il trattato
geografico più ampio dell'antichità, riprende talvolta testi di
diversi secoli più antichi del suo, tuttavia la sua conoscenza del
diritto romano applicato nelle varie città ne fa una fonte
essenziale per la conoscenza dell'inizio della romanizzazione in
Gallia e nella Penisola iberica, che mostra, soprattutto nei libri
III e IV, come a seguito dell'acculturazione graduale delle
popolazioni, si stesse sviluppando in queste regioni una nuova,
specifica cultura. A differenza della geografia tolemaica,
improntata su uno studio ed una analisi più rigidamente matematiche,
la "Geografia" di Strabone presenta un impianto più
storico-antropologico risultando il più importante autore di questo
filone. In età imperiale l'opera di Strabone
resta abbastanza nell'ombra, nonostante le intenzioni divulgative
dell'autore. È solo a partire dal VI secolo che
Strabone diventa l'archetipo del geografo. Gli storici classici come Wilamowitz, hanno riconosciuto l'interesse della sua opera e il suo talento
letterario, grazie al quale egli riusciva a descrivere un luogo dove
non era stato, meglio di Pausania, che c'era stato davvero. L’autore però si era
cimentato in gioventù con una fatica ben più ardua: l’elaborazione
di una "Storia universale". Dei 47 libri originari, ci rimangono oggi
solamente 19 frammenti, la maggior parte dei quali conservati nelle "Antichità Giudaiche di Flavio Giuseppe". Intento di Strabone era
quello di ricollegarsi al punto nel quale si interrompeva la
narrazione di Polibio (146 a.C.) e condurre il racconto almeno fino
alla data epocale del 27 a.C., l’anno in cui ha inizio il
Principato augusteo.
Dionigi d'Alicarnasso. |
Carta dell'antica Asia minore con evidenziata l'antica Alicarnasso. |
I primi tre libri di Appiano di
Alessandria e la Vita di Camillo di Plutarco incorporano molto del
lavoro di Dionigi. Dionigi vuole far conoscere in modo dettagliato ai
Greci la storia di Roma, città che ha conquistato il mondo e che da
più di un secolo controlla la Grecia, poiché gli storici greci, pur
interessandosi della storia romana, non l'hanno mai trattata in
maniera particolareggiata. Pone l'accento sul fatto che i Romani
discendano dai Greci: 17 secoli prima della guerra di Troia, il
popolo da cui derivano, gli Aborigeni, sarebbero emigrati
dall'Arcadia e si sarebbero stabiliti in Italia. Seguirono a questa
prima ondata migratoria altre migrazioni di popoli greci, i Pelasgi e
gli Arcadi. Sottolineare la comune origine di Greci
e Romani ha un significato ben preciso: vuole appianare le diversità
tra i due popoli e auspicare una partecipazione diretta delle classi
dirigenti greche al governo di Roma. Secondo lui, la storia è un
insegnamento filosofico che procede per esempi, concetto preso dalla
visione dei retori Greci. Tuttavia, Dionigi ha consultato
accuratamente le migliori autorità: la sua opera e quella di Livio
sono gli unici resoconti ancora esistenti che siano coerenti e
dettagliati. Dionigi è stato anche autore di
diversi trattati di retorica, con i quali dimostra di aver studiato
approfonditamente i migliori modelli attici:
- "Sulla disposizione delle parole", dove tratta la combinazione delle parole secondo i
diversi stili dell'oratoria.
- "Sulla mimesi" , sui migliori modelli ed il modo
in cui possono essere imitati - un'opera frammentaria.
- "Sugli oratori attici", un trattato sui dieci oratori secondo il canone di
Cecilio di Calatte: ci è giunto per intero il primo libro,
contenente le parti che riguardano Lisia, Isocrate ed Iseo; del
secondo libro ci è giunta una breve parte che riguarda Demostene:
- "Sul mirabile stile di Demostene", con l'analisi stilistica.
- "Sul mirabile stile di Demostene", con l'analisi stilistica.
- "Sul carattere di Tucidide"; un breve saggio sull'opera di Tucidide
con una disamina dettagliata ma nel complesso ingiusta.
- "Su Dinarco", un altro degli oratori del canone.
- "Arte retorica"), un insieme di saggi sulla
teoria della retorica: probabilmente l'opera è posteriore.
- "Lettere retoriche": una lettera scritta
a Pompeo Gemino e due ad Ammeo.
Tito Livio. Da http://commons.wikimedia. org/wiki/File:Titus_Livius.png# mediaviewer/File:Titus_Livius.png |
Carta con l'ubicazione di Padova, che anticamente si chiamava Patavium. |
Iniziata nel 27 a.C., la raccolta “Ab
Urbe condita” si
componeva di 142 libri che narravano la storia di Roma dalle origini
(nel 753 a.C.) fino alla morte di Druso (9 a.C.), in forma
annalistica; è molto probabile che l'opera si dovesse concludere con
altri 8 libri (per un totale di 150) che proseguissero fino alla
morte di Augusto, avvenuta nel 14 d.C. I libri furono successivamente divisi
in decadi (gruppi di 10 libri) che avrebbero dovuto coincidere con
determinati periodi storici. Dell'intera opera ci è pervenuta solo
una piccola parte, per un totale di 35 libri, cioè quelli dall'I al
X e dal XXI al XLV (la prima, la terza, la quarta decade e cinque
libri della quinta). Gli altri sono conosciuti solo tramite frammenti
e riassunti ("Periochae"). I libri che si sono conservati
descrivono in particolare la storia dei primi secoli di Roma dalla
fondazione fino al 293 a.C., fine delle guerre sannitiche, la seconda
guerra punica, la conquista della Gallia cisalpina, della Grecia,
della Macedonia e di una parte dell'Asia Minore. L'ultimo avvenimento
importante che si trova è relativo al trionfo di Lucio Emilio Paolo
a Pidna.
Già il titolo dell'opera dà l'idea
della grandezza dei propositi dello storico. Livio utilizzò il
metodo storiografico che alterna la cronologia storica alla
narrazione, spesso interrompendo il racconto per annunciare
l'elezione di un nuovo console, dato che questo era il sistema
utilizzato dai Romani per tener conto degli anni. Nell'opera, Livio
denuncia inoltre la decadenza dei costumi ed esalta al contrario i
valori che hanno fatto la Roma eterna.
Lo stesso Livio affermò inoltre che la
mancanza di dati e fonti certe precedenti al sacco di Roma da parte
dei Galli, nel 390 a.C., aveva reso il suo compito assai difficile. A
rendere più arduo il compito dello storiografo fu il fatto che non
poteva accedere, come privato cittadino, agli archivi e dovette
accontentarsi di fonti secondarie (documenti e materiali già
elaborati da altri storici). Allo stesso modo, molti storici moderni
ritengono che, per la mancanza di fonti puntuali e precise, Livio
abbia presentato per le stesse vicende sia una versione mitica sia
una versione "storica", senza privilegiare nessuna delle
due versioni, ma lasciando alla discrezione del lettore la decisione
su quale sia la più verosimile. Nella prefazione è l'autore a
spiegare che «quanto agli eventi relativi alla fondazione di Roma o
anteriori, non cerco né di confermarli né di smentirli: il loro
fascino è dovuto più all'immaginazione dei poeti che alla serietà
dell'informazione» (ne è un esempio la presenza nell'opera del mito
dell'ascensione al cielo di Romolo e di un racconto secondo il quale
lo stesso Romolo sarebbe stato ucciso). Il suo talento non va
tuttavia ricercato nell'attendibilità scientifica e storica del
lavoro, quanto nel suo valore letterario: il metodo con cui impiega le
fonti è criticabile poiché non risale ai documenti originali,
qualora ve ne siano, ma utilizza quasi esclusivamente fonti
letterarie.
Livio scrisse larga parte della sua
opera durante l'impero di Augusto; nonostante ciò, la sua opera è
stata spesso identificata come legata ai valori repubblicani e al
desiderio di una restaurazione della repubblica. In ogni modo, non vi
sono certezze riguardo alle convinzioni politiche dell'autore, dal
momento che i libri sulla fine della repubblica e sull'ascesa di
Augusto sono andati perduti. Certamente Livio fu critico nei
confronti di alcuni dei valori incarnati dal nuovo regime, ma è
probabile che il suo punto di vista fosse più complesso di una mera
contrapposizione repubblica/impero. D'altro canto, Augusto non fu
affatto disturbato dagli scritti di Livio, e anzi lo incaricò
dell'educazione di suo nipote, il futuro imperatore Claudio.
Nella “Ab Urbe condita” (libro IX,
capp. 17–19) si trova la prima ucronia conosciuta, quando Livio
immagina le sorti del mondo se Alessandro il Grande fosse partito per
la conquista dell'occidente anziché dell'oriente. Lo storico si dice
convinto che, in tal caso, Alessandro sarebbe stato sconfitto dalla
maggiore organizzazione dell'esercito e dello Stato romano.
Stile
- Livio fu sempre accusato di patavinitas ("padovanità");
ancora oggi non si è riusciti a capire quale sia il significato
preciso del termine: la maggior parte dei critici rileva in ciò una
critica nei confronti dello stile "provinciale" dello
storico (ma di suddetta provincialità non si rilevano tracce negli
scritti a noi pervenuti) mentre altri, come il Syme, ritengono che il
termine riguardi più la sfera morale e ideologica. Questa critica è
stata mossa inizialmente da Asinio Pollione, politico e letterato
romano. Quintiliano definì il suo stile come una lactea ubertas
(letteralmente "abbondanza di latte"), per indicare che la
prosa di Livio è scorrevole e allo stesso tempo dolce e piacevole
per il lettore. Lo stile di Livio è caratterizzato da architetture
ben studiate e da un periodare fluente.
A Livio interessa comporre un'opera
dilettevole sulla storia di Roma, non facendolo
scientificamente (come faceva Tucidide in Grecia), ma
raccogliendo semplicemente le notizie dando così piacevolezza
all'opera. Ciò lo allontana dallo stile secco e chiuso tipico di
Polibio e fa sì che la sua narrazione venga caratterizzata da
sfumature definibili "drammatiche", senza eccessi. La
storia per lui è "Magistra Vitae" dal punto di vista
morale, vivendo infatti in un periodo difficile per la società
romana riteneva che il modello da seguire per tornare la grande
potenza di un tempo sarebbe stato quello degli antichi romani, per
primo quello di Romolo. Livio era un grande nostalgico del passato
soprattutto riguardo alla morale e ai valori che avevano reso grande
Roma, che in quel periodo erano in grande declino.
Livio attribuisce ai vari personaggi
che pone sotto analisi dei caratteri quasi assoluti, facendoli
diventare dei paradigmi di passioni (tipi). Un altro elemento tipico
della drammatizzazione è quello di mettere in bocca ai personaggi
dei discorsi, sia in forma diretta che indiretta, informazioni utili
ai fini della narrazione, soprattutto per quanto riguarda la parte
"dilettevole" del suo intento. I discorsi sono infatti
costruiti in maniera fantasiosa, e di fatto non sono da prendere come
verità storiche oggettive ma come esigenze di stampo narrativo e
psicologico. Spesso lo storico padovano rileva come una situazione
stia precipitando, quando all'ultimo istante si ha un ribaltamento di
fronte inatteso, il tipico procedimento teatrale greco del "deus
ex machina".
Dal punto di vista prettamente
stilistico Livio procede sulle orme di Erodoto (più fiabesco) e
segue il modello di Isocrate, con la sua eloquenza piacevolmente
narrativa.
Fama di Tito Livio tra i posteri
- L'opera di Livio fu un esempio di stile e di rigore storiografico
durante l'epoca dell'Impero, venendo copiata nelle biblioteche
imperiali. Successivamente, nel Medioevo, il testo fu copiato anche
nelle abbazie cristiane. Livio ebbe famosi ammiratori, tra cui Dante
Alighieri, che nel XXVIII canto dell'Inferno della Divina Commedia
cita un episodio cruento della Battaglia di Canne, preso da Livio, ed
elogia lo storico: «come Livio scrive, che non erra» (XXVIII, 12).
Anche Niccolò Machiavelli lo stimava e scrisse i famosi “Discorsi
sopra la prima Deca di Tito Livio”.
Praeneste, nel Latium Vetus. |
La Gallia Narbonese segnata come Provincia Romana, con indicata Narbo, l'attuale Narbona. |
Plinio il Vecchio. Da http://commons.wikimedia. org/wiki/File:Plinyelder.jpg# mediaviewer/File:Plinyelder.jpg |
Carta con l'ubicazione di Como. |
Interessante è inoltre la sua osservazione sulle fondamentali differenze fra Greci e Romani: "I Romani posero ogni cura in tre cose soprattutto, che furono dai Greci neglette, cioè nell'aprire le strade, nel costruire acquedotti e nel disporre nel sottosuolo le cloache".
Plinio il
Vecchio nacque sotto il consolato di Gaio Asinio Pollione e di Gaio
Antistio Vetere fra il 23 e 24 d.C. Discusso è il luogo della sua
nascita: Verona per alcuni, Como (Novocomum) per altri. A sostegno
della tesi veronese ci sono dei manoscritti in cui è possibile
leggere Plinius Veronensis e il fatto che Plinio stesso, nella sua
prefazione, citi Gaio Valerio Catullo come proprio conterraneus (e
Catullo era di Verona). Ad avvalorare l'idea di Como come luogo di
nascita, si osserva invece che Eusebio di Cesarea, nella sua cronaca,
unisce il nome di Plinio con l'epiteto di Novocomensis. Eusebio e gli
autori successivi hanno però a lungo confuso Plinio, l'autore della
Naturalis Historia, e Plinio il giovane, suo nipote, l'autore delle
lettere e del Panegirico di Traiano. L'argomentazione più
considerevole a favore di Como sono le iscrizioni presenti in questa
città, nelle quali il nome di Plinio ritorna spesso. Plinio il Vecchio riveste cariche quali
Ufficiale di cavalleria (eques) in Germania, grazie a sua madre,
compagna di Gaio Cecilio di Novum Comum, senatore e procuratore in
Gallia e Spagna. Prima del 35, suo padre lo portò a Roma, dove affidò
la sua istruzione ad uno dei suoi amici, il poeta e generale Publio
Pomponio Secondo. Plinio vi acquisì il gusto di apprendere. Due
secoli dopo la morte dei Gracchi, il giovane ammirò alcuni dei loro
manoscritti conservati nella biblioteca del suo tutore, e dedicò loro
più tardi una biografia. Plinio cita i grammatici e retori
Quinto Remmio Palemone ed Arellio Fusco nella sua Naturalis historia
e fu certamente loro seguace. A Roma studiò botanica: l'arte
topiaria di Antonio Castore e vede le vecchie piante di loto che un
tempo erano appartenute a Marco Licinio Crasso. Poté anche contemplare la vasta
struttura costruita da Nerone della Domus Aurea ed assistette
probabilmente al trionfo di Claudio sui Britanni nel 44. Sotto
l'influenza di Lucio Anneo Seneca, diventa uno studente appassionato
di filosofia e di retorica ed inizia ad esercitare la professione di
avvocato. Plinio ricoprì cariche civili sotto Vespasiano e Tito.
Comandante della flotta tirrenica di stanza a Miseno (Praefectus
classis Misenis), morì durante l'eruzione del Vesuvio, che distrusse
Pompei, Ercolano e Stabia. Plinio il Giovane, suo nipote, ce lo
rappresenta come un uomo dedito allo studio ed alla lettura, intento
ad osservare i fenomeni naturali ed a prendere continuamente appunti,
dedicando poco tempo al sonno ed alle distrazioni. Il racconto della sua morte, contenuto
in una lettera del nipote, Plinio il Giovane, ha contribuito
all'immagine di Plinio come protomartire della scienza sperimentale
(definizione di Italo Calvino), anche se, sempre secondo il resoconto
del nipote, si espose al pericolo anche per recare soccorso ad alcuni
cittadini in fuga dall'eruzione. Il presunto teschio di Plinio il
Vecchio è conservato nella sala Flajani del Museo storico nazionale
dell'arte sanitaria a Roma.
Carriera militare - Prestò servizio in
Germania nel 47 agli ordini di Gneo Domizio Corbulone, partecipando
alla sottomissione dei Cauci ed alla costruzione del canale tra il
Reno e la Mosa. Da giovane comandante di un corpo di cavalleria
(praefectus alae), redasse nel corso degli stazionamenti invernali
all'estero una prova sull'arte del lancio del giavellotto a cavallo
(de iaculatione equestri). In Gallia ed in Spagna annotò il
significato di un certo numero di parole celtiche. Notò le località
associate alle campagne militari di Germanico; sui luoghi delle
vittorie di Druso, sognò che il vincitore lo pregava di trasmettere
alla posterità le sue imprese (Plin. Ep., III, 5,4). Accompagnò
probabilmente Pomponio, amico di suo padre, in spedizione contro i
Catti nel 50.
Ricerche - Sotto Nerone, vive
soprattutto a Roma. Cita la carta d'Armenia e gli accessi del mar
Caspio che fu ceduto a Roma dal personale di Corbulo in 59 (VI, 40).
Assiste anche alla costruzione della Domus Aurea di Nerone dopo il
grande incendio del 64 (XXXVI, 111). Nel frattempo, completa i venti
libri della sua Storia delle guerre germaniche, solo lavoro di
riferimento citato nei primi sei libri degli annali di Tacito (I,
69). Questo lavoro è probabilmente una delle principali fonti di
informazioni sul germanico. All'inizio del V secolo, Simmaco ebbe una
piccola speranza di trovarne una copia (Epp., XIV, 8). Plinio dedica
molto tempo ad argomenti relativamente più sicuri, come la
grammatica e la retorica.
Al servizio di Roma - Sotto il regno
del suo amico Vespasiano, torna al servizio di Roma come procuratore
nella Gallia Narbonense e nella Spagna romana . Visita anche Gallia
Belgica . Durante il suo soggiorno in Spagna, si dedica
all'agricoltura e alle miniere del paese, oltre a visitare l'Africa.
Al suo ritorno in Italia, accetta un incarico di Vespasiano, che lo
consulta alle albe prima di partecipare alle sue occupazioni
ufficiali. Alla fine del suo mandato, dedica la maggior parte del suo
tempo ai suoi studi (Plin. Ep., III, 5,9). Completa una storia del suo tempo in 31
libri, che tratta del regno di Nerone fino a quello di Vespasiano
(N.H., Praef. 20). Quest'opera è citata da Tacito, ed influenza Gaio
Svetonio Tranquillo e Plutarco. Porta a termine il suo grande lavoro:
la "Naturalis historia", un'opera di carattere enciclopedico, nella
quale Plinio raccoglie una grande parte dello scibile della sua
epoca, lavoro progettato sotto la direzione di Nerone. Le
informazioni che raccoglie riempiono non meno di 160 volumi nell'anno
73, quando Larcio Licino, il legato pretore di Spagna Tarraconense, prova invano a comperarli con una somma notevole. Dedica una sua
opera a Tito Flavio nel 77. In occasione dell'eruzione del Vesuvio
del 79 che seppellì Pompei ed Ercolano, si trovava a Miseno come
praefectus classis Misenis. Volendo osservare il fenomeno il più
vicino possibile, e volendo aiutare alcuni suoi amici in difficoltà
sulle spiagge della baia di Napoli, parte con le sue galee, che
attraversano la baia fino a Stabiae (oggi Castellammare di Stabia)
dove muore, probabilmente soffocato dalle esalazioni vulcaniche, a 56
anni. L'eruzione è stata descritta dal suo nipote Plinio il giovane, il cui nome è stato preso in considerazione nella vecchia
vulcanologia: eruzione pliniana. Il resoconto delle sue ultime ore è
riferito in una lettera interessante che Plinio il giovane indirizza,
27 anni dopo l'accaduto, a Tacito. Invia anche, ad un altro
corrispondente, una relazione sugli scritti ed il modo di vita di suo
zio: « Iniziava a lavorare ben prima dell'alba… Non leggeva nulla
senza fare riassunti; diceva anche che non esisteva nessun libro
tanto inutile, cioè da non contenere qualche valore. Al paese, solo
l'ora del bagno lo asteneva da studiare. In viaggio, era privo
d'altri obblighi, si dedicava soltanto allo studio. In breve,
considerava perso il tempo che non era dedicato allo studio. »
(Plinio il giovane). Era occupato su i suoi manoscritti per
venti ore su ventiquattro, non risparmiandosi neppure nel tempo più
caldo. Talora lo si trovava impegnato all'una del mattino a leggere e
scrivere a lume di candela. Dopo aver fatto visita a corte tornava a
lavorare sino a mezzogiorno quando interrompeva per una breve pausa
per un pranzo molto leggero al cui termine si riposava prendendo il
sole mentre un segretario gli faceva ad alta voce l'ultima lettura
della giornata. Dopo un bagno freddo, seguito da un breve riposo e da
una merenda ricominciava a lavorare, quasi che fosse all'inizio del
giorno, sino all'ora della cena. Il solo frutto del suo instancabile
lavoro che persiste al giorno d'oggi è la sua "Naturalis Historia", che
fu utilizzata come riferimento durante numerosi secoli da
innumerevoli allievi. L'elenco delle opere di Plinio ci è
fornito dal suo stesso nipote:
- "De iaculatione equestri", libro
sull'arte di tirare stando a cavallo, frutto della sua esperienza di
ufficiale di cavalleria.
- "De vita Pomponii Secundi", due libri
sulla vita di Pomponio Secondo, poeta tragico a cui era legato da
amicizia.
- "Bella Germaniae", venti libri sulle
guerre di Germania, che servirono a Tacito per i suoi "Annales".
- "Studiosus", tre libri sulla formazione
dell'oratore tramite lo studio dell'eloquenza.
- "Dubius sermo", otto libri sui problemi
di lingua e grammatica che presentavano oscillazioni ed incertezze
nell'uso, tenute in gran conto dai grammatici posteriori.
- Infine "Aufidii Bassi", trentuno libri di storia che riprendevano la narrazione dove aveva concluso Aufidio Basso, ovvero dalla morte dell'imperatore Claudio.
- Infine "Aufidii Bassi", trentuno libri di storia che riprendevano la narrazione dove aveva concluso Aufidio Basso, ovvero dalla morte dell'imperatore Claudio.
"Naturalis historia", trentasette libri
che formavano un'opera enciclopedica di larghissimo respiro, l'unica
rimastaci per intero. La "Naturalis historia" fu pubblicata
nell'anno 77; già nel titolo l'opera si presenta come ricerca di
carattere enciclopedico sui fenomeni naturali: il termine historia
conserva il suo significato greco di indagine, e va notato che la
formula ha dato la denominazione alle scienze biologiche, cioè alla
storia naturale nel senso moderno della locuzione. Il primo libro fu completato dal nipote
Plinio il Giovane dopo la morte dello zio, contiene la dedica a Tito,
il sommario dei libri successivi ed un elenco delle fonti per ciascun
libro. Partendo dal lavoro di Lucrezio, l'autore vuole far conoscere
all'uomo i vari aspetti della natura, perché possa elevarsi dalla
sua condizione animale. L'informazione tratta svariati temi:
- La descrizione dell'universo (II libro)
- La geografia ed etnografia del Bacino
del Mar Mediterraneo (III-VI libro)
- L'antropologia (VII libro)
- La zoologia (VIII-XI libro)
- La botanica e l'agricoltura (XII-XIX
libro)
- La medicina e le piante medicinali
(XX-XXVII libro)
- La medicina ed i medicamenti ricavati
dagli animali (XXVII-XXXII libro)
- La mineralogia (XXXIII-XXXVII libro)
L'ultima parte, trattando della
lavorazione dei metalli e delle pietre, contiene anche una
lunghissima digressione sulla storia dell'arte dell'antichità, in
particolare riguardo alla statuaria, alla pittura e all'architettura
(ma non mancano notizie relative ai mosaici e ad opere di altro
tipo). In sostanza si tratta di un'opera che
risente della fretta di chi legge e registra tutto quanto va
apprendendo; dello sforzo di mettere ordine nell'immensa materia.
Sebbene non si possa chiedere all'autore originalità ed esattezza
scientifica, si deve riconoscere l'altissimo valore antiquario e
documentario dell'opera, e l'enciclopedismo pratico dell'autore,
spesso soffermatosi in credenze superstiziose e gusto del fantastico.
Non mancano, inoltre informazioni errate o dati "gonfiati",
ad esempio nella descrizione del teatro di Pompeo e di quelli di
Curione e Scauro.
Filosofia - Come molti letterati e
persone di cultura della prima età imperiale, Plinio segue lo
stoicismo. È anche influenzato dall'epicureismo, dall'accademismo e
dalla reviviscente scuola pitagorica. Ma la sua visione della natura
e degli dèi resta principalmente stoica. Secondo lui, c'è la
debolezza dell'umanità che chiude la divinità sotto forme umane
falsate dai difetti e dai vizi. La divinità è reale: è il cuore
del mondo eterno, che dispensa la sua beneficenza sulla Terra, sul
sole e le stelle. L'esistenza della divina provvidenza è
dubbia, ma la credenza nella sua esistenza ed alla punizione dei
reati è salubre; la virtù apparteneva alle divinità, cioè a
quelli che somigliavano ad un dio facendo il bene per l'umanità. È
opera maligna informarsi sul futuro e forzare la natura ricorrendo
alle arti della magia, ma l'importanza dei prodigi e dei presagi non
è trascurata. La visione che Plinio ha della vita è oscura: vede la
razza umana immersa nella rovina e nella miseria. Contro il lusso e la corruzione morale,
si consegna a declamazioni così frequenti (come quelle di Seneca)
che finiscono per stancare il lettore. La sua retorica fiorisce
praticamente contro invenzioni utili (come l'arte della navigazione)
in l'attesa del buon senso e del gusto. Con lo spirito d'orgoglio
nazionale romano, forma l'ammirazione delle virtù che hanno condotto
la repubblica alla sua dimensione. Egli non dimentica i fatti storici
sfavorevoli a Roma e, anche se onora i membri eminenti delle case
romane distinte, è libero dalla parzialità eccessiva di Tito Livio
per l'aristocrazia. Le classi agricole ed i vecchi signori della
classe equestre (Cincinnato, Curio Dentato, Serrano e Catone il
Vecchio) sono per lui i pilastri dello Stato romano e si deplora
amaramente del declino dell'agricoltura in Italia. Inoltre,
preferisce seguire gli autori pre-augustiani; tuttavia vede il potere
imperiale come indispensabile al governo dello Stato e saluta il
salutaris exortus di Vespasiano.
Letteratura e scienze - Alla fine dei
suoi lunghi lavori letterari, il solo Romano ad avere scelto come
tema la totalità del mondo della natura, implora la benedizione
della madre universale su tutto il suo lavoro. In letteratura,
attribuisce il più alto posto ad Omero ed a Cicerone (XVII, 37 sqq.)
quindi in secondo luogo Virgilio. È stato influenzato dalle ricerche
del re Giuba II di Numidia che chiamava ”mio maestro”. Dedica un
interesse profondo alla natura ed alle scienze naturali. Nonostante
la poca stima che uno porta per questo genere di studio, egli si
sforza sempre di essere al servizio dei suoi concittadini (XXII, 15).
La portata della sua opera è vasta e completa, un'enciclopedia di
tutte le conoscenze. A questo scopo, studia tutto ciò che fa
autorità in ciascuno di quest'argomenti e non si astiene a citare
estratti. I suoi indices auctorum sono, in
alcuni casi, le autorità che lui stesso ha consultato (benché ciò
non sia esauriente) e a volte questi nomi rappresentano gli autori
principali sull'argomento, che sono conosciuti soltanto di seconda
mano. Riconosce sinceramente i suoi obblighi a tutti i suoi
predecessori in una frase che merita d'essere proverbiale (Pref. 21,
plenum ingenni pudoris fateri per quos profeceris). Ma c'è la sua
curiosità scientifica per i fenomeni dell'eruzione del Vesuvio che
porta la sua instancabile vita di studio alla fine prematura. Ogni
testimonianza dei suoi difetti d'omissione è disarmata dal candore
della sua confessione nella sua prefazione: nec dubitamus multa esse
quae ed i nostri praeterierint; homines enim sumus ed occupati
officiis. Il suo stile denuncia un'influenza di Seneca. Mira meno alla chiarezza che
all'epigramma. È pieno d'antitesi, di questioni, d'esclamazioni, di
tropi, di metafore, e d'altri manierismi dell'età del denaro della
letteratura latina (primi due secoli). La forma ritmica ed artistica
della frase è sacrificata da una passione per l'enfasi che delizia
con il riporto dell'argomentazione verso la fine. La struttura della
frase è molto spesso irregolare. Si nota anche un utilizzo eccessivo
dell'ablativo assoluto, spesso messo in apposizione per esprimere
l'opinione dell'autore su un enunciato che precede immediatamente. Ad
esempio: XXXV, 80, dixit... uno se praestare, quod manum de tabula
sciret tollere, memorabili praecepto nocere saepe nimiam diligentiam. Le sue fonti sono i trattati persi
sulla scultura in bronzo e sulla pittura dello scultore Senocrate
d'Atene (III secolo a.C.). All'entrata principale della cattedrale di
Como è possibile vedere statue di Plinio il Vecchio e suo nipote
Plinio il giovane in posizione seduta, e indossanti abiti degli
eruditi del XVI secolo. Gli aneddoti di Plinio il Vecchio per quanto
riguarda gli artisti greci hanno ispirato Giorgio Vasari sui temi
degli affreschi che decorano ancora oggi le pareti della sua vecchia
casa ad Arezzo.
Gastronomia - Plinio è una miniera
inesauribile di informazioni sui prodotti alimentari e sui costumi
Romani. Dopo Columella, Plinio è, tra tutti gli autori latini,
quello al quale dobbiamo maggiori informazioni sulle varie specie di
viti e di vini conosciuti. Il libro XIV della "Naturalis Historia" è
dedicata a questo tema; conta 22 capitoli che trattano dell'argomento
nei suoi minimi dettagli, dalle varie specie di viti, la natura del
suolo, il ruolo che gioca il clima, il vino in generale, i vari vini
d'Italia e d'oltremare conosciuti dai tempi più arretrati,
all'enumerazione dei più famosi consumatori della Grecia e di Roma.
Fornisce anche informazioni preziose sulle piante odorose, gli alberi
da frutto, il grano, l'agricoltura, il giardinaggio, le piante
medicinali, le carni, pesci, selvaggina, l'apicoltura, la panetteria
e le verdure.
Ornitologia - Il libro X è dedicato
agli uccelli e si apre con informazioni sullo struzzo. Plinio lo
considera come il punto di passaggio dagli uccelli ai mammiferi.
Inserisce numerose specie e si sofferma particolarmente sulle aquile
e altri rapaci come gli sparvieri.
La fisiologia - Plinio il Vecchio fu
uno studioso interdisciplinare e si occupò anche di fisiologia e di
ricerche sui problemi di natura sessuale; infatti consigliò "l'uso
di pene di lurch intriso di olio o di quello di iena trattato con il
miele", per rafforzare la sessualità.
Storia dell'opera - Verso la metà del
III secolo, un riassunto delle parti geografiche delle opere di
Plinio è realizzata da Solino ed all'inizio del IV secolo, i
passaggi medici sono riuniti nella "Medicina Plinii". All'inizio
dell'VIII secolo, Beda il Venerabile possiede un manoscritto di tutte
le opere. Nel IX secolo, Alcuino invia a Carlo Magno una copia dei
primi libri (Epp. 103, Jaffé) e Dicuilo riunisce estratti delle
pagine di Plinio per la sua "Mensura orbis terrae" (C, 825). I lavori
di Plinio acquisiscono grande stima nel Medioevo. Il numero di
manoscritti restanti è di circa 200, ma il più interessante e tra i
più vecchi è quello di Bamberga, contenente soltanto i libri dal
XXXII al XXXVII. Roberto di Cricklade, superiore del St Frideswide a
Oxford, indirizza al re Enrico II un "Defloratio", contenente nove
volumi di selezioni prese da uno dei manoscritti di questa. Fra i
manoscritti più vecchi, il "Codex Vesontinus", precedentemente
conservato a Besançon (del XI secolo), è oggi sparso in tre città: a
Roma, a Parigi, e l'ultimo a Leida (dove esiste anche una
trascrizione del manoscritto totale).
Curiosità - Plinio nei suoi trattati
sulle Scienze Naturali, studia anche pietre dure di altissimo valore:
i diamanti. Posseduto o disegnato sulla propria pelle, il diamante
viene descritto come un talismano contro i veleni e le malattie ed
inoltre avrebbe il potere di tenere alla larga i brutti sogni e gli
spiriti maligni.
La tomba di Virgilio al chiaro di luna,
con Silio Italico, dipinto di Joseph
Wright of Derby da: https://it.wiki
|
Flavio Giuseppe. |
Carta con Giudea, Samaria e Galilea al tempo di Flavio Giuseppe. |
L'anno successivo, quando Vespasiano fu
acclamato imperatore dalle truppe di Giudea, Siria, Egitto, Mesia e
Pannonia, ora che la fortuna era dalla sua parte e ne assecondava
tutti i suoi desideri, rifletté sul giusto destino di essere stato
fatto signore del mondo. Fra i molti presagi ricevuti da ogni parte a
predirgli l'impero, si ricordò delle parole di Giuseppe, che aveva
avuto il coraggio di chiamarlo imperatore quando Nerone era ancora in
vita. Sapendo che Giuseppe era ancora in prigione, convocò Muciano
assieme ad altri generali e amici e, dopo aver ricordato loro la sua
perizia militare nell'assedio di Iotapata, accennò alle predizioni
di Giuseppe, che al momento aveva sottovalutato, ma che nei fatti
risultarono verificate, cosicché sembrò che fossero di origine
divina. « Mi sembra vergognoso che chi mi ha
predetto l'impero [...] sia ancora in prigionia con le catene. » (Giuseppe Flavio, La guerra giudaica,
IV, 10.7.626). Detto ciò, fece condurre Giuseppe al
suo cospetto e diede ordine di togliergli i ceppi. Tito, che stava
assistendo alla scena a fianco del padre, gli suggerì: « Padre è giusto che Giuseppe venga
liberato, oltre che dei ceppi anche della vergogna. Se noi non
slegheremo le sue catene, ma al contrario le spezzeremo, dimostreremo
che egli non è mai stato incatenato. Così accade a chi è stato
incatenato ingiustamente. » (Giuseppe Flavio, La guerra giudaica,
IV, 10.7.628). Vespasiano accolse la richiesta del
figlio e la catena venne spezzata a colpi di scure. Così Giuseppe,
ricevuta la libertà, poté godere del credito di profeta e si legò
alla famiglia del princeps, cambiando il suo nome in Flavio Giuseppe. Flavio Giuseppe venne usato dai romani
a fini propagandistici, per convincere i ribelli ad arrendersi.
Trascorse il resto della sua vita a Roma, scrivendo opere che avevano
un carattere filo-romano, ma che spiegavano ai lettori anche la
storia e le credenze degli ebrei. I suoi scritti sono estremamente
importanti dal punto di vista storico, poiché sono la principale
fonte di informazioni che abbiamo sulla Giudea del I secolo. Morì
intorno all'anno 100. Mentre gran parte degli ebrei
contemporanei considerarono Flavio Giuseppe come un traditore e
apostata, taluni ritengono che egli, in un periodo nel quale le forze
esterne minacciavano la totale distruzione del monoteismo ebraico,
abbia perseguito con lucidità il fine della sua conservazione, al
prezzo di compromessi con il mondo vincente alessandrino-romano.
Opere - In "Antichità giudaiche"
Flavio Giuseppe racconta la storia del popolo ebraico, dalle origini
fino all'epoca immediatamente precedente la guerra giudaica del
66-70. Quest'opera contiene preziose notizie relative ai movimenti
religiosi del giudaismo del I secolo, come gli Esseni, i Farisei, gli
Zeloti, eccetera.
Nel Libro XX (da 197 e seguenti)
contiene lil racconto della dinastia di Anano e del martirio di
Giacomo, fratello di Gesù soprannominato il Cristo (Libro XX, 200). Essa contiene anche il cosiddetto
Testimonium flavianum, ovvero un breve passo che menziona la
predicazione e la morte di Gesù, confermando sostanzialmente il
resoconto dei Vangeli. Benché questo passo sia considerato da alcuni
storici, tra i quali E. Schürer e H. Chadwick, in tutto o in parte,
una falsificazione inserita in epoca cristiana, esso fu conservato
nell'originale greco da parte della Chiesa cristiana; mentre uno
studio, del 1971, di Shlomo Pinès dell'Università Ebraica di
Gerusalemme su un codice arabo del X secolo (studio ripreso dal
giornalista Antonio Socci) sembra confermare che si tratti di un
riferimento al Gesù Cristo dei Vangeli. Le crocefissioni erano supplizi
pubblici aventi lo scopo di dissuadere chiunque intendesse emulare le
gesta dei condannati, disposti dalle autorità che rappresentavano
l’Imperatore, pertanto le incriminazioni, come informative scritte,
dovevano essere registrate negli Atti del Sinedrio, essendo
avvenimenti che riguardavano direttamente gli Ebrei, la loro
religione ed i loro sacerdoti, ma, nelle opere di Giuseppe Flavio,
non viene citato il Sinedrio nel I secolo, sino al “martirio” di
Giacomo il Minore nel 62 d.C. Giuseppe Flavio scadenzava gli annali
giudaici con i nominativi dei Sommi Sacerdoti del Tempio (in carica
uno per anno), così come lo storico Cornelio Tacito scadenzava gli
annali di Roma con i nominativi dei Consoli. In "Antichità
Giudaiche" vengono puntualmente riportate tutte le nomine e
sostituzioni dei Sommi Sacerdoti del Tempio, ad eccezione del periodo
compreso fra il 19e il 36 d.C.: riportano tuttavia, nel libro XVIII,
che Anna e Caifa furono in carica dal 6 al 15 e dal 18 al 36 d.C.,
molto più a lungo di un anno, così come è scritto in alcuni Vangeli. Nelle opere di Giuseppe Flavio non
viene citato il Sinedrio del I secolo, sino al martirio di Giacomo il
Minore, nel 62 d.C.
Guerra giudaica - Nella "Guerra giudaica" Flavio Giuseppe racconta lo svolgersi della rivolta contro i Romani
scoppiata nel 66 e repressa nel 70 (ma alcuni focolai di resistenza
durarono ancora per i due-tre anni successivi) dalle legioni
comandate da Vespasiano e da suo figlio Tito. Flavio Giuseppe sostenne che la rivolta
era opera di una piccola banda di zeloti e non, come generalmente si
riteneva, una insurrezione popolare. Tuttavia, a causa della presunta
volontà di attirarsi i favori dei Romani scrivendo testi ad essi
favorevoli, oggi gli Ebrei non riconoscono validità storica ai suoi
scritti (che tendevano anche a celare le sue responsabilità
nell'insuccesso militare). Emerge dai suoi scritti anche una evidente
ammirazione per l'Impero romano, il nemico che aveva sconfitto il suo
popolo: « Un popolo [quello dei Romani] che
valuta le situazioni prima di passare all'azione e che, dopo aver
deciso, dispone di un esercito tanto efficiente: non meraviglia se i
confini del suo impero sono individuati, ad Oriente dall'Eufrate,
dall'oceano ad occidente, a settentrione dal Danubio e dal Reno?
Senza compiere esagerazioni, potremmo dire che le loro conquiste sono
inferiori ai conquistatori. » (Giuseppe Flavio, Guerra giudaica,
III, 5.7.107.). Descrisse anche gli ultimi giorni della
fortezza ebraica di Masada, dove la maggior parte di coloro che la
stavano difendendo si suicidò.
Opere minori - Nei due libri "Contro
Apione", un grammatico alessandrino che aveva scritto contro gli
ebrei, riprese i motivi tradizionali dell'apologetica giudaica
sull'antichità e sulla superiorità degli ebrei rispetto ai greci. Giuseppe scrisse anche
un'"Autobiografia", nella quale difendeva la sua reputazione nei
confronti dei correligionari ebrei, che lo consideravano un
traditore. Coerente con le "Antichità Giudaiche": «
Quando Erode ebbe il regno dai Romani fu abbandonata la prassi di
nominare sommi sacerdoti della linea degli Asmonei e, con la sola
eccezione di Aristobulo, vennero nominate persone insignificanti che
erano semplicemente di discendenza sacerdotale » (Antichità Giudaiche, Libro XX, 247)
in cui mostra la sua opinione per le famiglie sacerdotali diverse da
quella Asmonea-Maccabea. Nell'Autobiografia afferma la discendenza
sia da parte di madre che di padre, enfatizzando che questa risale
alla prima delle 24 famiglie sacerdotali (Ioarib). « Da noi l’eccellenza della stirpe
trova conferma nell’appartenenza all’ordine sacerdotale. La mia
famiglia non solo discende da sacerdoti, ma addirittura dalla prima
delle ventiquattro classi che già di per sé è un segno di
distinzione, e, all’interno di questa, dalla più illustre delle
tribù. Inoltre, da parte di madre, sono imparentato con la famiglia
reale, giacché i discendenti di Asmoneo (i Maccabei), dei quali lei
è nipote, detennero per lungo tempo il sommo sacerdozio e il regno
del nostro popolo. Questa è la mia genealogia, e la esporrò. Nostro
bisavolo fu Simone il Balbuziente, visse al tempo di colui che per
primo tra i sommi sacerdoti ebbe nome Ircano (134 a.C.). Simone il
Balbuziente ebbe nove figli, dei quali uno, Mattia, chiamato figlio
d'Efeo, prese in moglie una figlia del Sommo Sacerdote Gionata, il
primo fra gli Asmonei a rivestire il sommo sacerdozio e fratello del
Sommo Sacerdote Simone. Durante il primo anno del regno di Ircano, a
Mattia, figlio d'Efeo, nacque un figlio: Mattia detto il Gobbo. Da
costui, nel nono anno del regno di Alessandra, nacque Giuseppe, e da
Giuseppe nacque Mattia, nel decimo anno del regno di Archelao (6
d.C., anno del censimento di Quirinio), infine, da Mattia nacqui io,
il primo anno del regno di Gaio Cesare (37 d.C.) » (Bios 1,1-5). Il brano non fornisce informazioni per
ricostruire la discendenza da parte di madre, dagli Asmonei. I due
libri dei Maccabei ricostruiscono la genealogia dei sommi sacerdoti
del periodo asmonìta, ma non fanno menzione di mogli ed eventuali
figlie (con il consueto patronimico "bar" = "figlio
di"). Ciò accade sia per Gionata Maccabeo, che per i fratelli
Giuda e Simone. Perciò, non vi sono elementi per verificare nel
testo biblico se una figlia del sommo sacerdote Gionata fosse stata
sposata a un antenato di Flavio Giuseppe.
Controversie sulla figura di Giuseppe -
Alcuni studiosi alternativi hanno avanzato l'ipotesi che il
personaggio di Giuseppe di Arimatea, pur collocato in uno scenario
storico diverso, sia basato in parte su Flavio Giuseppe. Basano
l'ipotesi sul fatto che Giuseppe di Arimatea nel vangelo apocrifo di
Barnaba è chiamato "Giuseppe di Barimatea", che sarebbe
una storpiatura di Joseph bar Matthias, il nome aramaico di Giuseppe
Flavio, oltre che sulla contestata identificazione - ritenuta da essi
errata - di Arimatea con Ramla. Questa ipotesi è basata anche sulla
somiglianza tra alcuni brani dei Vangeli e un passo
dell'Autobiografia di Giuseppe Flavio, che allude a un uomo
crocifisso "sopravvissuto": « C'era un uomo, di nome Giuseppe, che
era membro del Consiglio, uomo giusto e buono, il quale non aveva
acconsentito alla deliberazione e all'operato degli altri. Egli era
di Arimatea, città della Giudea, e aspettava il regno di Dio. Si
presentò a Pilato e chiese il corpo di Gesù. E, trattolo giù dalla
croce, lo avvolse in un lenzuolo e lo mise in una tomba scavata nella
roccia, dove nessuno era ancora stato deposto. » (Vangelo di Luca,
23,50-53). « In seguito, inviato dal Cesare Tito,
con Cereale e mille cavalieri, a un villaggio chiamato Tekoa, per
verificare se il luogo era adatto ad accogliere un campo trincerato,
poiché ripartendone vidi molti prigionieri crocifissi e ne riconobbi
tre che erano stati miei amici, ne ebbi il cuore straziato e mi recai
piangendo a dirlo a Tito. Egli ordinò immediatamente che fossero
tirati giù e che ricevessero le cure più attente. Due, nonostante
le cure, morirono, ma il terzo sopravvisse. »
Per "Il Sangraal o sangue reale, Maria Maddalena moglie di Gesù e loro figlia, Sara la Nera" clicca QUI
Per "Gesù Cristo nel suo contesto storico" clicca QUI
Per "L'apporto di Esseni, Zeloti (o Sicari) e Gnostici alla nascita del Cristianesimo" clicca QUI
Per "Il fiume sotterraneo che collega Beniaminiti, Arcadi, Spartani e i sovrani Merovingi" clicca QUI
Per "Salomone e il suo tempio, massoneria e demoni" clicca QUI
Per "Da Canaan, Israele, Giudea fino alle guerre giudaico-romane, poi Palestina" clicca QUI
Plutarco nacque attorno al 46
d.C. a Cheronea in Beozia, si suppone da una famiglia ricca. Il
padre, secondo alcuni, è identificabile con uno degli interlocutori
del "De sollertia animalium", un trattato nelle "Moralia"
di Plutarco stesso, un certo Autobulo, secondo altri con un tale
Nicarco; tuttavia il filologo Wilamowitz, e con lui la maggior parte
degli studiosi, ritengono che ogni ipotesi sia completamente
indimostrabile. Si suppone comunque che non avesse un buon rapporto
con il figlio, il quale però più volte ne cita i consigli, e che
non fosse molto colto. Plutarco ricordava con stima invece il
fratello, un certo Lampria, e il bisnonno Nicarco. Nel 60 d.C. si stabilì ad Atene dove
conobbe e frequentò il filosofo platonico Ammonio, di cui divenne il
più brillante discepolo. Studiò retorica, matematica e la filosofia
platonica. Nel 66 d.C. conobbe Nerone, verso il
quale fu sostanzialmente benevolo, probabilmente poiché l'imperatore
aveva esentato la Grecia dai tributi. Nello stesso periodo, si pensa
abbia acquisito la cittadinanza ateniese e che sia entrato a far
parte della tribù Leontide. Visitò poi Sparta, Tespie, Tanagra,
Patrie e Delfi. Tornato ad Atene, fu nominato arconte
eponimo, sovrintendente all'edilizia e ambasciatore presso Acaia.
Istituì inoltre nella sua casa una specie di Accademia impostata sul
modello ateniese. Plutarco visitò poi l'Asia, tenne
conferenze a Sardi e ad Efeso, fece frequenti viaggi in Italia e
soggiornò anche a Roma, presso la corte imperiale. Eduard von
Hartmann ritiene che visse a Roma tra il 72 e il 92. Certo è che non
imparò mai bene il latino e che conobbe l'imperatore Vespasiano,
come racconta nel "De solertia animalium". Tenne a Roma molte lezioni ed ebbe il
sostegno delle autorità in quanto divenne presto un convinto
sostenitore della politica estera romana. Durante questo soggiorno,
gli venne concessa la cittadinanza romana e assunse quindi il nomen
di Mestrio, in onore del suo amico Mestrio Floro. Successivamente,
ebbe da Traiano la dignità consolare. A Roma conobbe il filosofo e
retore Favorino di Arles. Terminata l'esperienza romana, tornò a
Cheronea, dove fu arconte eponimo, sovrintendente all'edilizia
pubblica e telearco. Intorno al 90 d.C. fu eletto sacerdote
nel santuario di Apollo a Delfi e nel 117 d.C. l'imperatore Adriano
gli conferì la carica di procuratore. Eusebio racconta che morì forse nel
119, ma molti oggi indicano date che vanno oltre il 120-125. Nel 70 sposò Timossena, una donna di
Cheronea colta e di buona famiglia, il cui nome è stato ricavato da
una nota occasionale di Plutarco stesso nella quale sostenne di aver
chiamato la figlia come la madre. Da lei ebbe cinque figli, che
sostenne di aver allevato personalmente: Soclaro e Cherone (che
morirono in tenera età), Autobulo, Plutarco e Timossena, l'unica
femmina (anche lei morta giovanissima, a due anni: si legga la
lettera che Plutarco indirizzò alla moglie, per consolarla della
perdita, contenuta nei "Moralia"). Si dice che Timossena fosse una donna
forte e di grande virtù, molto legata al marito (lo affiancò, per
esempio, nelle pratiche liturgiche che il suo ruolo di sacerdote del
tempio di Delfi gli imponeva). Pare che abbia scritto un breve
trattato sull'amore per il lusso, indirizzandolo all'amica Aristilla. A differenza del suo contemporaneo Svetonio, che propone un'esposizione dei fatti più documentaria che appassionata e appare distaccato, astenendosi da giudizi personali, Plutarco partecipa emotivamente al racconto che scrive.
Plutarco |
28. Plutarco (in greco antico Πλούταρχος, Plùtarchos; Cheronea, 46 /48 - Delfi, 125/127) è stato un biografo,
scrittore e filosofo greco antico, vissuto sotto l'Impero Romano, di
cui ebbe anche la cittadinanza e dove ricoprì incarichi
amministrativi. Studiò ad Atene e fu fortemente influenzato dalla
filosofia di Platone. La sua opera più famosa sono le "Vite
parallele", biografie dei più famosi personaggi
dell'antichità. Durante l'ultima parte della sua vita fu
sacerdote al Santuario di Delfi. La maggior parte delle notizie sulla
vita di Plutarco, meno qualche informazione tratta dal lessico Suda,
deriva da riferimenti autobiografici presenti nelle sue opere (la Suda o Suida è un lessico e
un'enciclopedia storica del X secolo scritta in greco
bizantino riguardante l'antico mondo mediterraneo).
Carta dell'antica Grecia con evidenziata Cheronea. |
Contro la superstizione -
Nel trattato "Sulla superstizione", Plutarco scrive
che essa produce un timore distruttivo perché consiste nel credere
che Dio esista, ma che sia ostile e dannoso. La superstizione è una
malattia piena di errori e di suggestioni, per evitare la quale non
bisogna però fare come coloro che, correndo alla cieca, rischiano di
cadere in un precipizio. È così infatti che alcuni, per emanciparsi
dalla superstizione, si volgono ad un ateismo rigido e ostinato,
varcando d'un balzo la vera religiosità, che sta nel mezzo.
Contro il mangiar carne -
Plutarco scrisse numerose pagine contro l'uso del mangiar carne e
contro le crudeltà sugli animali. Nel dialogo "Sull'intelligenza
degli animali" afferma che essi, essendo esseri animati, sono
dotati di sensibilità e di intelligenza come gli umani. Nel trattato "Del mangiar carne" critica aspramente e con un linguaggio crudo quella
che considera l'efferatezza di chi imbastisce banchetti con animali
morti e fatti a pezzi (a quest'opera è ispirata la canzone
Sarcofagia di Franco Battiato, contenuta nell'album Ferro Battuto).
Opere - Plutarco di Cheronea fu
uno degli scrittori più prolifici di tutta la Grecia antica. Le sue
opere vengono, per convenzione secolare, divise in due grandi
blocchi:
- "Vite Parallele" (Βίοι
Παράλληλοι)
- "Moralia" (Ἠθικά)
Vite Parallele - Le Vite
parallele sono dedicate a Quinto Sosio Senecione, amico e confidente
di Plutarco, al quale lo scrittore dedica anche altre opere e
trattati. Costituite da 23 coppie (una è andata perduta), alla
biografia di un personaggio greco viene accostata, generalmente,
quella di un romano, ad esempio Alessandro Magno e Giulio Cesare. Plutarco in Vite Parallele,
precisa di non voler essere uno storico ma un biografo e che non
cerca di stilare un elenco di episodi a cui un personaggio storico ha
partecipato ma è interessato invece a svelare comportamenti che
rivelino la forma mentis del soggetto stesso.
Quasi tutte le biografie si chiudono con delle syncrìseis, o confronti, che tendono a trovare similitudini o divergenze. Alle coppie suddette si devono aggiungere 4 Vite singole, tramandateci dai manoscritti congiuntamente alle altre. Epaminonda e Scipione l'Africano è la coppia andata perduta; le 22 coppie pervenuteci sono: Teseo e Romolo, Licurgo e Numa, Temistocle e Camillo, Solone e Publicola, Pericle e Fabio Massimo, Alcibiade e Marco Coriolano, Focione e Catone l'Uticense, Agide e Cleomene - Tiberio e Gaio Gracco, Timoleonte e Paolo Emilio, Eumene e Sertorio, Aristide e Catone Censore, Pelopida e Marcello, Lisandro e Silla, Pirro e Mario, Filopemene e Tito Flaminino, Nicia e Crasso, Cimone e Lucullo, Dione e Bruto, Agesilao e Pompeo, Alessandro e Cesare, Demostene e Cicerone, Demetrio e Antonio.
Quasi tutte le biografie si chiudono con delle syncrìseis, o confronti, che tendono a trovare similitudini o divergenze. Alle coppie suddette si devono aggiungere 4 Vite singole, tramandateci dai manoscritti congiuntamente alle altre. Epaminonda e Scipione l'Africano è la coppia andata perduta; le 22 coppie pervenuteci sono: Teseo e Romolo, Licurgo e Numa, Temistocle e Camillo, Solone e Publicola, Pericle e Fabio Massimo, Alcibiade e Marco Coriolano, Focione e Catone l'Uticense, Agide e Cleomene - Tiberio e Gaio Gracco, Timoleonte e Paolo Emilio, Eumene e Sertorio, Aristide e Catone Censore, Pelopida e Marcello, Lisandro e Silla, Pirro e Mario, Filopemene e Tito Flaminino, Nicia e Crasso, Cimone e Lucullo, Dione e Bruto, Agesilao e Pompeo, Alessandro e Cesare, Demostene e Cicerone, Demetrio e Antonio.
Vite singole: Arato e Artaserse, Galba,
Otone.
Vite singole perdute: Vita di Augusto,
Tiberio, Scipione Africano, Claudio, Vita di Nerone, Gaio Cesare,
Vita di Eracle, Vita di Esiodo, Vita di Pindaro, Vita di Cratete,
Daifanto, Aristomene, Arato.
Moralia - Gruppo più numeroso
ed eterogeneo, si tratta di una serie di trattati, di diversa
impostazione letteraria, in cui l'autore spazia dalla filosofia
alla storia, dalla religione alle scienze naturali, dall'arte
alla critica letteraria. L'ordinamento
complessivo delle opere fu fatto dal monaco Massimo Planude verso il
1302 e visto che i primi quindici scritti trattano di argomenti
etico-filosofici, diede alla raccolta il nome "Moralia", "Opere morali", i cui titoli vengono generalmente indicati in latino:
De animae procreatione in Timaeo -
Sulla procreazione dell'anima nel Timeo
De genio Socratis - Sul demone di
Socrate
De virtute morali - Sulla virtù morale
De facie quae in orbe lunae apparet -
Sul volto della luna
An seni res publica gerenda sit - Se un
anziano possa fare politica
De Stoicorum repugnantiis - Sulle
contraddizioni degli Stoici
De communibus notitiis adversus Stoicos
- I principi comuni contro gli Stoici
Stoicos absurdiora poëtis dicere - Gli
stoici dicono cose più assurde dei poeti
Adversus Colotem - Contro Colote
Non posse suaviter vivi secundum
Epicurum - Non si può vivere felici secondo Epicuro
De virtute morali - Sulla virtù morale
Quomodo quis suos in virtute sentiat
profectus - In che modo qualcuno avverta i suoi progressi nella virtù
De defectu oraculorum - Sul tramonto
degli oracoli
Quomodo adulator ab amico internoscatur
- Come distinguere l'adulatore dall'amico
De primo frigido - Sul freddo primario
De sera numinis vindicta - Sui ritardi
della punizione divina
De garrulitate - Sulla loquacità
De tuenda sanitate praecepta - Precetti
igienici
De tranquillitate animi - Sulla
serenità dell'anima
De vitioso pudore - Sulla vergogna
De curiositate - Sulla curiosità
De fraterno amore - Sull'amore fraterno
De exilio - Sull'esilio
De recta ratione audiendi - L'arte di
ascoltare
Quomodo adolescens poetas audire debeat
- Come il fanciullo debba ascoltare i poeti
Praecepta gerendae rei publicae -
Precetti politici
Amatorius - Amatorio
Regum et imperatorum apophthegmata -
Detti di re e imperatori
Septem sapientium convivium - Simposio
dei sette sapienti
Consolatio ad uxorem - Consolazione
alla moglie
Coniugalia praecepta - Precetti
coniugali
De Pythiae oraculis - Sugli oracoli
della Pizia
De E apud Delphos - Sulla E a Delfi
De Iside et Osiride - Su Iside e
Osiride
De comparatione Aristophanis et
Menandri - Comparazione tra Aristofane e Menandro
De Herodoti malignitate - Sulla
malignità di Erodoto
Mulierum virtutes - Le virtù delle
donne
Bruta animalia ratione uti - Gli
animali usano la ragione
Parallela minora - Paralleli minori
De capienda ex inimicis utilitate -
Come ricavare vantaggio dai nemici
Platonicae quaestiones - Questioni
platoniche
Aetia Romana - Cause Romane
De sollertia animalium -
Sull'intelligenza degli animali
De superstitione - Sulla superstizione
Aetia Graeca - Cause Greche
Apophthegmata Laconica - Apoftegmi
spartani
De fortuna Romanorum - Sulla fortuna
dei Romani
De Alexandri Magni fortuna (I) - Sulla
fortuna di Alessandro Magno
An virtus doceri possit - Se la virtù
si possa insegnare
De Alexandri Magni fortuna (II) - Sulla
fortuna di Alessandro Magno
De gloria Atheniensium - Sulla gloria
degli Ateniesi
Aquane an ignis sit utilior - Se sia
più utile l'acqua o il fuoco
Animine an corporis affectiones sint
peiores - Se siano prioritarie le passioni dell'anima o del corpo
De cupiditate divitiarum - Sull'amore
delle ricchezze
De vitando aere alieno - Sul rigettare
la pratica dell'usura
Aetia physica - Cause fisiche
Amatoriae narrationes - Narrazioni
amorose
Opere note solo per tradizione
indiretta - Se sia utile la previsione degli avvenimenti futuri,
Commento alle Opere e i Giorni di Esiodo, Sopra il piacere, Sopra la
forza, Sulla ricchezza, Anche la donna può ricevere un'educazione,
Sull'amore, Sulla tranquillità, Sulla bellezza, Sulla mantica,
Tappeti, Sulla natura e gli impulsi, Epistola sull'amicizia,
Sull'inganno.
Tradizione delle opere di Plutarco
- Le opere di Plutarco hanno influenzato famosi scrittori e autori
teatrali, come Shakespeare, che nel suo "Giulio Cesare"
riproduce fedelmente il testo plutarcheo dell'addio di Bruto agli
amici, o nell'Alfieri che dalle opere del filosofo trasse le numerose
notizie storiche per rivivere le vite di grandi personaggi ed eventi
dell'antichità. Per Jean-Jeaques Rousseau, le opere di Plutarco
erano le letture preferite. Plutarco fu per Michel de Montaigne
un'inesauribile fonte di ispirazione per i suoi famosi "Essais",
nei quali vengono citate testualmente e commentate molto
frequentemente le testimonianze riportate dal filosofo greco.
Inserite in questo celebre quadro di indagine filosofica della
condizione umana, compiuto dallo scrittore francese nel XVI secolo,
le citazioni del Plutarco risaltano ancor più per quel carattere
veridico, enciclopedico e velatamente scettico verso la conoscenza
dello scibile che la tradizione gli ha sempre riservato.
Publio Cornelio Tacito, da:
|
29. Publio (o Gaio) Cornelio Tacito
(in latino Publius o Gaius Cornelius Tacitus; Gallia Narbonese, 56 - 120) è stato uno
storico, oratore e senatore romano. È uno degli storici più
importanti dell'antichità. Le sue opere maggiori, gli "Annales"
e le "Historiae", illustrano la storia dell'Impero romano
del I secolo, dalla morte dell'imperatore Augusto, avvenuta nel 14,
fino alla guerra giudaica dell'imperatore Tito (anno 70). Le poche
informazioni sulla vita e sull'ambiente in cui visse Tacito sono
offerte, principalmente, dagli indizi sparsi nel corpus delle sue
opere, dalle lettere del suo amico e ammiratore Plinio il Giovane, da
un'iscrizione trovata a Mylasa, in Caria (nell'attuale Turchia) e da
altre deduzioni di storici; comunque molti particolari della sua vita
restano sconosciuti.
Il prenome - Anche il suo stesso
prenome è tuttora incerto: in alcune lettere di Sidonio Apollinare
ed in alcuni vecchi scritti di poca rilevanza letteraria lo storico è
nominato con Gaius, ma nel manoscritto principale della
tradizione, con Publius. Questi finora sono riconosciuti come
i due praenomina più avvalorati. L'insufficienza di informazioni ci
impedisce, allo stesso modo, di individuare inequivocabilmente l'anno
e il luogo di nascita dello scrittore. Si suppone che Tacito sia nato
tra il 56 e il 58 d.C. nella Gallia Narbonense. Il luogo d'origine è
deducibile anche dalla simpatia occasionale per i barbari che fecero
resistenza contro la lex romana (come nell'episodio degli
Annales II, 9), nonostante la possibile origine spagnola del Fabius
Iustus al quale Tacito dedica il "Dialogus" suggerisca un
legame con la Spagna e la sua amicizia con Plinio indichi l'Italia
del Nord come terra natale. Allo stesso modo, una testimonianza
contraria all'ipotesi della Gallia Narbonense come luogo di nascita è
una tradizione tarda che, rifacendosi ad un passo dell'"Historia
Augusta" relativo alla vita dell'imperatore romano Marco Claudio
Tacito (275 - 276), attribuisce i natali dello storico alla città di
Terni.
Ascendenza familiare - Si
ritiene rintracciabile una discendenza nobile, da un ramo sconosciuto
della gens romana patrizia Cornelia, ma non v'è alcun documento
storico che attesti l'esistenza di un Cornelius chiamato Tacito.
Tacito stesso dichiarò che molti senatori e cavalieri discendevano
da liberti, ma l'ipotesi che egli discendesse da un liberto non ha
trovato nessun supporto. Suo padre si ritiene possa essere il
Cornelio Tacito procuratore della Gallia Belgica e della Germania. Un
figlio di questo Cornelio Tacito è citato, tuttavia, da Plinio il
vecchio come esempio di sviluppo e di invecchiamento anormalmente
veloci, che gli provocò una morte prematura. Ciò impedirebbe di
identificare questi col nostro Tacito, bensì con un possibile, ma
non altrimenti attestato, fratello.
La posizione sociale - Il forte legame d'amicizia tra Plinio il giovane e Tacito ha fatto supporre
agli storici un'uguale estrazione sociale dei due: ceto equestre,
ricchezza significativa e provenienza provinciale. L'ipotesi,
largamente accettata, per la quale lo scrittore latino sarebbe nato
da una famiglia di rango equestre o senatorio può essere
comprovata anche dal disprezzo per gli arrampicatori sociali su
cui insiste Tacito. Si suppone inoltre che la posizione sociale di
rilievo di Tacito sia stata ottenuta grazie alla benevolenza degli
imperatori Flavii, poiché con la conclusione dell'età
repubblicana, l'impostazione gentilizia della società s'era ormai
dissolta e, con questa, anche i privilegi riservati alle gentes
più influenti in Roma.
Vita pubblica, matrimonio e carriera
letteraria - Da giovane studiò retorica a Roma, come
preparazione alla carriera nella magistratura e nella politica e,
come Plinio, potrebbe aver studiato sotto Quintiliano. Nel 77 o nel
78 sposò Giulia Agricola, figlia tredicenne del generale Gneo Giulio
Agricola, il quale era al comando di una legione operante in Bitinia,
a cui Tacito partecipò sotto l'incarico di tribuno militare,
incarico concessogli da Vespasiano attorno il 77; nulla si sa della
loro unione o della loro vita domestica, a parte il fatto che Tacito
amava cacciare. Vespasiano diede grande impulso
all'inizio della sua carriera, come racconta nelle "Historiae"
(1, 1), ma fu sotto Tito che entrò realmente nella vita politica con
la carica di quaestor, nell'anno 81 o 82. Proseguì
costantemente nel suo cursus honorum, divenendo praetor
nell'88 e facendo parte dei quindecemviri sacris faciundis, un
collegio sacerdotale che custodiva i "Libri Sibillini" e i
"Giochi Secolari". Si distinse come avvocato e oratore,
a dispetto del fatto che il cognomen Tacitus abbia, in latino, il
significato di "taciturno"; ricoprì funzioni
pubbliche nelle province, all'incirca dall'89 al 93, forse a capo di
una legione o forse in ambito civile, come si può intuire dal fatto
che non fu presente alla morte del suocero, Agricola. Sopravvisse con le sue proprietà al
regno del terrore di Domiziano (93-96), ma l'esperienza lasciò in
lui cupa amarezza, forse per la vergogna della propria complicità, che contribuì allo sviluppo di quell'odio verso la tirannia così
evidente nelle sue opere. I paragrafi 44 - 45 dell'"Agricola"
sono paradigmatici: « [Agricola] scampò a quest'ultimo periodo in
cui Domiziano, non più a intervalli o attimi di respiro, ma di
continuo e come d'un sol colpo annientò lo stato. [...] Subito dopo
le nostre stesse mani mandarono in carcere Elvidio; ci ha fatto
arrossire di vergogna la vista di Maurico e di Rustico, ci ha bagnato
con il suo innocente sangue Senecione. Nerone almeno distolse lo
sguardo dai suoi delitti: li ordinò, ma non rimase a godersi lo
spettacolo. Sotto Domiziano, invece, la parte peggiore delle nostre
miserie era vedere ed essere visti... » (Publio Cornelio Tacito, "De
vita et moribus Iulii Agricolae" (Agricola), XLIV - XLV)
Divenne consul suffectus nel 97, durante il principato di Nerva, diventando il primo della sua
famiglia a ricoprire tale carica. Durante tale periodo raggiunse i
vertici della sua fama di oratore nel pronunciare il discorso funebre
per il famoso soldato Virginio Rufo. Durante l'anno seguente scrisse
e pubblicò sia l'"Agricola" sia la "Germania",
primi esempi dell'attività letteraria che lo occuperà fino alla sua
morte. In seguito sparì dalla scena pubblica, a cui tornò durante
il regno di Traiano. Nel 100, con il suo amico Plinio il giovane,
perseguì Mario Prisco (governatore dell'Africa) per corruzione.
Prisco fu riconosciuto colpevole e fu esiliato; Plinio scrisse alcuni
giorni dopo che Tacito aveva parlato "con tutta la maestosità
che caratterizza il suo usuale stile oratorio". Seguì una lunga assenza dalla politica
e dalla magistratura. Nel frattempo scrisse le sue due opere più
importanti: le "Historiae" e, quindi, gli "Annales".
Ricoprì la più alta carica di governatorato, quello della provincia
romana dell'Asia in Anatolia occidentale, nel 112 o nel 113, come
provato dall'iscrizione trovata a Milasa. Un passaggio negli annali indica il 116
come il terminus post quem della sua morte, che può essere
posto più tardi nel 125 e non sono pochi gli storici che pongono la
data della morte durante il regno di Adriano. Non si sa se abbia avuto figli.
Opere letterarie - Cinque sono
le opere attribuite a Tacito che sono sopravvissute, almeno in una
parte sostanziale di esse. Le date sono approssimative e le ultime
due (le sue opere "maggiori"), hanno comunque richiesto
alcuni anni per essere completate:
- Nel 98: "De vita et moribus Iulii
Agricolae" ("La vita e i costumi di Giulio Agricola")
e "De origine et situ Germanorum" ("L'origine e la
posizione dei Germanici")
- Nel 102: "Dialogus de oratoribus"
("Dialogo sull'oratoria")
- Nel 105: "Historiae" ("Le
storie")
- Nel 115: "Annales" o "Ab
excessu divi Augusti" ("Annali")
Le due opere principali,
originariamente pubblicate separatamente, sono state indicate come
parti integranti di una singola opera in trenta libri (le "Historiae"
composte entro il 110 e gli "Annales" composti
successivamente, nonostante raccontino un tratto della storia
cronologicamente più antica delle Historiae). Esse offrono una
narrazione della storia di Roma dalla morte di Augusto (14 d.C.) alla
morte di Domiziano. Benché alcune parti siano andate perdute,
essa è una delle maggiori opere storiche dell'antichità. Nel terzo capitolo dell'Agricola (una
delle opere minori pubblicate precedentemente), Tacito aveva
dichiarato il suo desiderio di comporre una "memoria della
precedente servitù" (ossia il regno di Domiziano) e una
"testimonianza dei beni presenti" (il regno di Nerva e di
Traiano); nelle Historiae il progetto è però differente:
nell'introduzione, Tacito rimanda la sua opera su Nerva e Traiano e
decide di occuparsi prima del periodo compreso tra le guerre civili
del 68-69 d.C. e il regno dei Flavii. Del testo originale sono rimasti
conservati soltanto i primi quattro libri, insieme a ventisei
capitoli del quinto libro, concernenti gli anni 69 (inizio del regno
di Galba) e la prima parte del 70 (rivolta giudaica). Secondo le
ricostruzioni, il lavoro avrebbe dovuto proseguire fino alla morte di
Domiziano, avvenuta il 18 settembre 96. Il quinto libro contiene,
come preludio alla narrazione della repressione della rivolta ebrea
durante il principato di Tito, un excursus etnografico sugli ebrei,
importante testimonianza dell'atteggiamento dei Romani verso quel
popolo. Tacito coglie nell'anno 69 un nodo
fondamentale nella storia dell'impero: quello della successione alla
dinastia giulio-claudia, con il seguito di guerre civili e intrighi
politici, il succedersi rapido dei tre imperatori Servio Sulpicio
Galba, Otone, Vitellio e, infine, l'insediamento della dinastia
flavia con Vespasiano. Galba prende atto, nel suo celebre discorso
per la scelta del successore, dell'impossibilità di fare ritorno
alla repubblica, afferma la necessità del principato e presenta il
principio dell'adozione come scelta del migliore: argomenti che
dovevano essere tornati d'attualità nel 97, quando Nerva, con
l'adozione di Traiano, aveva trovato un rimedio alla sua debolezza
scongiurando una nuova guerra civile. Nella designazione di Pisone come
successore di Galba, così come quella di Traiano successore di
Nerva, solo apparentemente la scelta del principe dipendeva dal
senato: il potere supremo era di fatto succube della volontà degli
eserciti, di fronte al quale il rispetto del mos maiorum
professato da Galba risultava incapace di controllare gli
avvenimenti. Tacito prova simpatia per questo vecchio senatore capax
imperii nisi imperasset ("capace di governare, se non avesse
governato", I 49) travolto da milizie strapotenti e da una plebe
che assisteva alla guerra civile come a uno spettacolo, di fronte a
un contesto di violenza generalizzata che fa dettare allo storico
cupi quadri di ingiustizia e ritratti di personaggi
introspettivamente indagati nei loro momenti meno generosi.
L'attenzione allo scandaglio psicologico trova riscontro nello stile
franto e sallustianamente disarticolato, ma capace di profonda
suggestione artistica.
Gli "Annales" -
Gli "Annales" furono l'ultima opera storiografica di
Tacito, e per sua esplicita ammissione gli "Annales"
seguono cronologicamente la composizione delle "Historiae"
e risalgono con verosomiglianza agli anni seguenti il suo
proconsolato d'Asia (nel 112-113). L'opera copre il periodo che va
dalla morte di Augusto (il funerale dell'imperatore è il brano di
apertura degli "Annales" e chiarisce subito il ruolo
dell'autore nell'opera) avvenuta nel 14, fino a quella
dell'imperatore Nerone, nel 68. L'opera era composta di almeno sedici
libri, ed è possibile diciotto, ma ci sono pervenuti soltanto i
primi quattro, l'inizio del quinto e il sesto privo dei capitoli
iniziali (questo primo nucleo comprende gli avvenimenti dalla morte
di Augusto a quella di Tiberio nel 37 d.C.), oltre ai libri XI-XVI
con alcune lacune nella prima parte dell'XI e nella seconda parte del
sedicesimo libro (regni di Claudio e Nerone), che avrebbe dovuto
terminare con l'intero resoconto degli eventi dell'anno 66, mentre si
interrompe al suicidio di Trasea Peto. Si presume che i libri dal
settimo al dodicesimo parlassero dei regni di Caligola e Claudio. I
restanti libri dovrebbero trattare del regno di Nerone, forse fino
alla sua morte nel giugno del 68. Non è noto se Tacito abbia
completato l'opera o se si sia dedicato alle opere che aveva
pianificato di fare: le biografie di Nerva e Traiano. Non esistono
prove che il lavoro su Augusto e sui primi anni dell'Impero (con cui
Tacito intendeva concludere il suo lavoro da storiografo) sia stato
effettivamente espletato. In confronto alle "Historiae",
che riferiscono i movimenti di eserciti e masse, gli "Annales"
si focalizzano sui meccanismi dell'Impero e sulla sua corruzione: i
protagonisti sono dunque i singoli imperatori, opposti al senato,
erede della libertas repubblicana, ormai solo mero nome senza
peso politico. Interessante notare come le figure dei principi siano
indagate con introspezione psicologica: Tiberio è descritto come un
esempio di falsità e dissimulazione nel presentare il proprio potere
come rassicurante continuazione della legalità repubblicana; Claudio
invece appare come un inetto privo di volontà, monovrato dai liberti
e dalle donne di corte, mentre Nerone è il tiranno privo di
scrupoli, la cui follia sanguinaria non risparmia né la madre
Agrippina né il suo antico consigliere Seneca. Nonostante ciò, Tacito rimane
convinto della necessità storica del principato, ma coglie
l'ambiguità sulla quale è stato fondato da Augusto, che
svuotando le magistrature repubblicane da ogni potere ha lasciato
terreno fertile per la corruzione, l'intrigo e la decadenza morale;
complice di una politica di degrado, dove l'avidità di potere regna
sovrana, è anche il senato, diviso fra succube servilismo e sterili
atteggiamenti di opposizione. Concordemente all'incupirsi della
visione storica di Tacito, lo stile degli "Annales"
accentua le disarmonie, riflettendo l'ambiguità degli avvenimenti e
un moralismo sempre più pessimistico in un periodo nervoso e
spezzato.
Opere minori - Tacito inoltre
scrisse tre opere secondarie su vari soggetti: l'"Agricola", una
biografia del suocero Gneo Giulio Agricola; la "Germania", una
monografia sulle terre e le tribù di barbari della Germania; il "Dialogus", un dialogo sull'arte dell'oratoria.
De Origine et situ Germanorum - La "Germania" (De origine et situ Germanorum) è un'opera etnografica su
diversi aspetti delle tribù germaniche residenti al di là
dell'Impero Romano. La "Germania" si inserisce perfettamente
all'interno della tradizione etnografica che va da Erodoto a Cesare.
Ciò non toglie che quest'opera si riveli anche come una creazione
originale nell'ambito dei generi tradizionali delle letterature
classiche, comprendendo anche parti storiche ma soprattutto
"ideologiche", quasi "da pamphlet": intenzione
neanche troppo nascosta dell'autore, infatti, è descrivere i puri e
incorrotti costumi dei Germani per criticare indirettamente i
corrotti e degenerati costumi romani. Non solo: anche per istituire
una sorta di parallelo tra quello che erano i Germani allora (un
popolo rude e semplice e per ciò stesso valoroso in guerra) con
quello che i Romani erano stati e ora non erano più, sempre a causa
della loro decadenza morale. Tacito sostiene che i veri barbari
siano i romani poiché i barbari rispetto ai romani avevano un forte
senso religioso e amavano la libertà, quest'ultima era quasi negata
in questo periodo. Questo porta Tacito a "profetizzare" un
futuro scontro tra i Germani e Roma in cui i popoli del Nord Europa
potrebbero anche risultare vincitori ("urgentibus imperii
fatis"). L'opera inizia con una descrizione delle terre, delle
leggi e dei costumi dei germani (capitoli 1-27); continua quindi con
le descrizioni delle singole tribù, iniziando da quelle più vicine
ai territori romani e terminando con quelle ai più estremi confini
sul mar Baltico, con una descrizione dei primitivi e selvaggi Fenni e
di sconosciute tribù al di là di essi.
De vita et moribus Iulii Agricolae -
L'"Agricola" (scritto circa nel 98) è una monografia
dedicata alla vita di Gneo Giulio Agricola, suocero di Tacito, uomo
politico ed eminente generale romano, noto per aver conquistato la
Britannia. Corpo dell'opera è dunque costituito dalle imprese di
Agricola in Britannia (capp.18-38), incorniciato da due parti
simmetriche, rispettivamente il racconto della gioventù (capp. 4-9)
e degli ultimi anni del protagonista (capp.39-46). È la prima opera
scritta da Tacito, con la quale l'autore rompe il suo silenzio in
seguito alla morte di Domiziano (che aveva mantenuto una politica di
repressione del dissenso intellettuale); la biografia di Agricola
anticipa dunque molti dei temi tipici della successiva produzione
tacitiana: la questione della legittimità del principato (che
Traiano vede come istituzione portatrice di pace) e della sua
corruzione (dovuta al degrado delle virtù nell'epoca contemporanea),
del silenzio fino ad allora tenuto da parte dell'autore, il problema
dei confini dell'impero, le trattazioni etnografiche (anticipando
alcuni dei caratteri della Germania, l'opera esamina anche la
geografia e l'etnografia dell'antica Britannia), le digressioni di
carattere storico (in cui già Tacito ricorre alla storiografia
drammatica). L'identificazione del genere letterario
di appartenenza dell'"Agricola" è forse il suo aspetto più
dibattuto negli studi, dai quali emergono una varietà di posizioni
che varrebbero da sé a dimostrare la natura composita dell'opera.
Saggio storico ed etnografico, biografia elogiativa, encomio,
laudatio funebris e consolatio scritta in ritardo (a causa
dell'assenza di Tacito da Roma nel 93, all'epoca della morte del
suocero), pamphlet politico, laudatio composta per lettura pubblica:
queste sono alcune delle chiavi di lettura che sono state proposte. Sembrerebbe che l'"Agricola" sia in realtà un incrocio di
vari generi: si può dire che l'intento base della laudatio funebris
prenda spessore nella dimensione della biografia, allargandosi a
comprendere spezzoni di storia contemporanea. Per Tacito storico
dunque, l'Agricola costituisce un passaggio fondamentale della sua
formazione. Infatti, quando fu composta l'Agricola,
erano troppi gli interessi in campo perché l'opera potesse avere una
chiave di lettura unitaria. Si ricordi infatti che era appena finito
il quindicennio di silenzio coatto di Domiziano (81-96 d.C.), e
Tacito avvertiva l'esigenza di lasciare una memoria storica che,
benché si incardinasse sulla figura del suocero, lo coinvolgesse da
vicino: molte delle esperienze vissute dal suocero durante la
tirannide venivano infatti ritrovate da Tacito nelle sue stesse
esperienze, permettondogli di riflettere nei suoi comportamenti.
L'esempio di Agricola non riguarda quindi un astratto modello di
virtù, ma coinvolge il modo di vivere e comportarsi in momenti di
tirannide, definendo un esempio per le generazioni future. Degni di nota sono l'introduzione
(nella quale l'autore lancia una dura invettiva contro l'abbandono
delle virtù nella Roma imperiale) e il celebre passo del discorso
pronunciato da Calgaco (capo dei Caledoni), mentre incita i suoi
soldati prima della battaglia del monte Graupio (cap. XXX). Seguendo
i canoni della storiografia drammatica antica, Tacito costruisce un
discorso in cui mette in bocca a Calgaco una dura accusa verso
l'avidità e l'imperialismo romano: « Predatori del mondo intero, i
Romani, dopo aver devastato tutto, non avendo più terre da
saccheggiare, vanno a frugare anche il mare; avidi se il nemico è
ricco, smaniosi di dominio se è povero, tali da non essere saziati
né dall'Oriente né dall'Occidente, gli unici che bramano con pari
veemenza ricchezza e miseria. Distruggere, trucidare, rubare, questo,
con falso nome, chiamano impero e là dove hanno fatto il deserto, lo
hanno chiamato pace. » (Publio Cornelio Tacito, "La vita di
Agricola", BUR, Milano, trad.: B. Ceva). Tanto famoso è questo brano da rendere
proverbiale la locuzione: Ubi solitudinem faciunt, pacem
appellant (dove fanno il deserto e lo chiamano pace). In realtà
però Tacito non era a priori contro l'espansione dei confini
dell'impero (anzi, negli "Annales" rimprovera a Tiberio la
politica di non espansione); piuttosto era critico verso
l'atteggiamento di sfruttamento delle popolazioni conquistate. Calcago fu il capo del popolo
dei Caledoni che, nell'83 o nell'84, si scontrarono al Monte Graupio,
nella Scozia settentrionale, con le truppe romane del governatore
della Britannia, Gneo Giulio Agricola. L'unica fonte storica che ci
parla di lui è l'"Agricola" di Tacito, che lo descrive
come "il più distinto per valore e nobiltà tra i diversi capi"
e al quale mette in bocca un celebre discorso, ricco di pathos, del
quale è rimasto proverbiale l'explicit (ubi solitudinem faciunt,
pacem appellant): « Ogni volta che penso alle cause
della guerra e alla situazione in cui ci troviamo, nutro la grande
speranza che questo giorno e la vostra unione siano per tutta la
Britannia l'inizio della libertà. Perché per voi tutti che siete
qui e che non sapete cosa significhi la servitù, non esiste altra
terra oltre questa e neppure il mare è sicuro, da quando su di noi
incombe la flotta romana. Per questa ragione, nel combattere, scelta
gloriosa dei forti, troverà sicurezza anche il codardo. I nostri
compagni che si sono battuti prima di adesso con diversa fortuna
contro i romani avevano in noi l'ultima speranza di aiuto, perché
noi, i più rinomati di tutta la Britannia - perciò vi abitiamo
proprio nel cuore, senza neanche vedere le coste dove risiede chi ha
accettato la servitù - avevamo persino gli occhi non contaminati
dalla schiavitù. Noi, che siamo al limite estremo del mondo e della
libertà, siamo stati fino a oggi protetti dall'isolamento e
dall'oscurità del nome. Ora, tuttavia, si aprono i confini ultimi
della Britannia e l'ignoto è un fascino. Ma dopo di noi non ci sono
più altre tribù, ma soltanto scogli e onde e un flagello ancora
peggiore, i romani, contro la cui prepotenza non servono come difesa
neppure la sottomissione e l'umiltà. Razziatori del mondo, adesso
che la loro sete di universale saccheggio ha reso esausta la terra,
vanno a cercare anche in mare: avidi se il nemico è ricco, arroganti
se povero, gente che né l'oriente né l'occidente possono saziare.
Loro bramano possedere con uguale smania ricchezze e miseria. Rubano,
massacrano, rapinano e, con falso nome, lo chiamano impero. Fanno il
deserto, e lo chiamano pace. » (Tacito, "Agricola", 30). Calcago non viene menzionato durante o
dopo la battaglia del Graupio, e neppure tra gli ostaggi che Agricola
si fa consegnare dopo la vittoria e non sappiamo quindi se fu ucciso
nello scontro o se scampò alla morte. Comunque sia, egli scompare
dalla scena della storia, altrettanto rapidamente di come vi era
comparso.
Dialogus de oratoribus - La data
di composizione del "Dialogus" è incerta, ma fu
probabilmente scritto dopo l'"Agricola" e la "Germania" (dopo il 100
d.C.), ma alcuni ne datano la composizione tra il 75 e l'80 e la
pubblicazione dopo la morte di Domiziano. Molte caratteristiche lo
distinguono dagli altri scritti di Tacito, tanto che l'autenticità
fu a lungo messa in discussione, nonostante esso, nella tradizione
manoscritta, compaia sempre con l'Agricola e la Germania. Lo stile (oltre alla scelta del genere
letterario) entra nella tradizione del dialogo ciceroniano, modello
di riferimento per le opere che, come questa, trattavano di retorica;
esso si presenta elaborato ma non prolisso, secondo il canone che
esortava l'insegnamento di Quintiliano; esso manca delle incongruenze
che sono tipiche delle maggiori opere storiche di Tacito. Potrebbe
risalire alla giovinezza di Tacito; la dedica a Fabiu Iustus potrebbe
così indicare soltanto la data di pubblicazione dell'opera e non
della sua stesura. Lo scritto riferisce una discussione, che si
immagina sia avvenuta nel 75 o 77, e a cui dice di aver assistito,
fra quattro oratori dell'epoca, Curiazio Materno, Marco Apro,
Vipstano Messalla e Giulio Secondo. All'inizio Marco Apro
rimprovera a Curiazio Materno di accantonare l'eloquenza per
dedicarsi alla poesia drammatica: se ne ricava una discussione in cui
Materno sostiene il primato della poesia e Apro dell'eloquenza; segue
un dibattito sulla decadenza dell'oratoria, che viene attribuito da
Messalla all'educazione moderna e da Curiazio Materno alla fine della
repubblica e di quella anarchia che offriva libero campo ai
conflitti, non solo verbali. Tacito non esprime un parere diretto ma
sembra identificarsi perlopiù con le opinioni espresse da Curiazio
Materno, che indica nel regime liberticida e assolutista dell'età
flaviana la causa principale della decadenza oratoria (pur non
identificandosi completamente in esse: il riconoscimento della
necessità del principato non esclude espressioni amaramente
rassegnate e la sfiducia nel recupero della grande eloquenza
repubblicana) contrariamente a quanto sosteneva Plinio il giovane, il
quale individua la causa della decadenza dell'arte oratoria nella
cattiva istruzione della scuola, a quanto sosteneva Quintiliano, che
attribuiva a tale causa il degrado della società o a quanto
sosteneva Petronio all'interno del Satyricon.
Le fonti - Complessivamente,
Tacito fu uno storico scrupoloso, attento e preciso, ove il
pragmatismo e l'obiettività erano per lui elementi di ricerca
storica non meno che per gli storici moderni. Questi criteri
coesistono però con altre tendenze (moralismo, punto di vista
senatorio, storia intesa come spazio drammatico e pessimismo), che a
volte si interpongono, facendo velo alla 'storicità formale',
creando cioè l'impressione che lo storico si dimentichi per un
istante della ricostruzione oggettiva degli eventi e insegua effetti
diversi: retorici, narrativi o politici. Merito di Musti è, nel suo studio sul
pensiero romano, l'aver distinto la storicità formale (di chi scrive
storie continuate, formate sugli avvenimenti) dalla storicità reale,
misurabile su due fattori inscindibili: 'la ricerca di notizie
attendibili e/o documentate, e la loro proiezione su un piano più
generale, che sia di valido fondamento per una ricostruzione e
valutazione complessiva di una situazione o di un personaggio;
insomma, il particolare sicuro e attendibile, da un lato, e il quadro
generale, reso verosimile dalla giusta disposizione e ponderazione
dei singoli dati, dall'altro'. In questo ambito si possono
recuperare gli elementi di tipo psicologico, narrativo o di altro
genere, nella storiografia, nella loro funzionalità e inquadrandoli
nella delineazione di un complesso, che nell'Agricola è unitario e
consapevole, non di meno che nelle Historiae e negli Annales. Infatti, sebbene paradossalmente fosse
uno storico "politicamente impegnato" e, talvolta,
tendenzioso, ciò non esclude l'attendibilità generale né
l'incidenza sulle biografie personali elimina l'attenzione, per
quanto sommaria, agli eventi militari, amministrativi e soprattutto
alla situazione etico-politica. Le piccole inesattezze che si
riscontrano negli "Annales" potrebbero derivare dal fatto
che Tacito morì prima di terminare la sua opera e di farne una
rilettura completa. In qualità di senatore, aveva facile accesso ai
documenti ufficiali degli "Acta Diurna populi Romani" (atti
di governo e notizie su quanto avveniva nell'Urbe) e degli "Acta
senatus" (i verbali delle sedute del senato) tra cui le raccolte
dei discorsi di alcuni imperatori, come Tiberio e Claudio. Utilizzò anche una grande varietà di
fonti storiche e letterarie di diversa provenienza, come opere di
autori del I secolo, come Aufidio Basso e Servilio Noniano, per
l'epoca di Tiberio, Cluvio Rufo, Fabio Rustico e Plinio il vecchio,
autore dei "Bella Germaniae" ("Le guerre in
Germania"), per l'età neroniana. Inoltre, accanto a questi,
fece sovente uso di epistolari, memoriali (negli "Annales"
sono citati quelli di Agrippina e probabilmente Domizio Corbulone) e
libelli come gli exitus illustrium virorum: una serie di
scritti riguardo a coloro che si erano opposti all'imperatore e da
essi stessi redatti, in altri termini raccontavano il sacrificio dei
martiri per la libertà, soprattutto di coloro che si erano suicidati
seguendo la morale stoica. A riguardo, tuttavia, occorre sottolineare
quanto Tacito si sia servito di tale materiale per dare un tono
drammatico alla sua storia, senza appoggiare la teoria del suicidio,
a suo dire gesto ostentato e politicamente inutile. In conclusione, se in passato si
riteneva che Tacito usasse una sola fonte, almeno per ciascuna
sezione delle opere maggiori, attualmente, è predominante la teoria
per cui lo storico si sia servito di una molteplicità di fonti,
talune anche di opposta tendenza e manipolate con una certa libertà.
Stile letterario - Tacito fu
estremamente attento e competente nell'esposizione, nel lessico e
nell'uso di diversi registri linguistici che riflettono i suoi
modelli. Infatti, dalla storiografia greca aveva
tratto la capacità di sviscerare eventi complessi in un'esposizione
chiara e lineare e l'attenzione ai caratteri, ai soggetti del "dramma
storico", di cui fu capace di analizzare, con pochi tratti, le
emozioni e la mentalità, in modo da fornire al lettore un quadro
completo delle loro personalità, spesso contrastate e
contraddittorie.
Dalla storiografia romana, invece, in
particolar modo da Gaio Sallustio Crispo, si riprende la forma
annalistica: una cornice per racchiudere le interpretazioni politiche
degli eventi e il dramma delle azioni umane.
Tuttavia, ciò che maggiormente
impressiona il lettore è l'uso magistrale della parola cui riesce a
conferire forza, ritmo e colore: lo stile è elevato, solenne,
poetico, tipico della tradizione romana e, come il pensiero, rifugge
dalla morbidezza artificiosa. Il periodo è secco, conciso, dettato
da una forte "inconcinnitas" o asimmetria che rompe ogni
facile equilibrio delle frasi in modo tale da enfatizzare, talvolta
assai rudemente, determinate parole o determinati concetti creando un
impatto formidabile[50]. Sono esempio di tale stile i primi libri
degli Annales, incentrati sulla figura sfumata, ambigua, di Tiberio
ma in ogni caso l'inconcinnitas permea tutte le opere dello storico. L'opera di Tacito, se certamente non
forniva per l'epoca una fonte semplice della storia imperiale,
tuttavia, riscosse una forte simpatia presso l'aristocrazia per il
pensiero politico dello storico, fu letta e copiata fino a quando,
nel IV secolo, Ammiano Marcellino proseguì il lavoro, riprendendone
lo stile. Ancor oggi gli studiosi considerano gli scritti di Tacito
come una fonte autorevole, anche se spesso critica, per ricostruire
la storia del Principato mentre continuano ad essere apprezzate come
capolavori stilistici.
Approccio alla storia -
Il metodo storiografico di Tacito deriva esplicitamente dagli
esempi della tradizione storiografica precedente (in particolare
Sallustio). Celebre è l'affermazione dello stesso
Tacito sul proprio metodo storiografico: « Consilium mihi [...] tradere, [...]
sine ira et studio, quorum causas procul habeo. »
« Il mio proposito è riferire [...],
senza ostilità e parzialità, dalle cui cause sono lontano. » (Publio Cornelio Tacito, "Annales",
I, 1). Sebbene questo sia quanto di più
possibile vicino a un punto di vista neutrale nell'antichità, si è
discusso molto accademicamente sulla pretesa "neutralità"
di Tacito (o "parzialità" per altri, cosa che renderebbe
la citazione precedente nulla più che una figura retorica). In incerto iudicium est, fatone res
mortalium et necessitate immutabili an forte volvantur. Questa la
frase da cui si rivela tutta l'incertezza dell'analisi storiografica
tacitiana: egli non si appoggia ad un generale disegno filosofico, ma
analizza e indaga in modo autonomo il comportamento umano, sine ira
et studio, in una prospettiva squisitamente politica. Nonostante nei
suoi racconti accadano segni e prodigi (non mancano inoltre accenni
alla religione romana), Tacito tende ad escludere, quasi in
senso epicureo, come regola per gli avvenimenti, l'intervento
divino. Degli accadimenti umani sono responsabili solo gli
uomini, vittime talvolta dei loro stessi crimini, verso i quali
spicca la serenità degli dei. Difatti attraverso i suoi scritti,
Tacito sembra primariamente interessarsi alla distribuzione del
potere tra il Senato Romano e gli imperatori. Tutti i suoi scritti
sono pieni di aneddoti di corruzione e di tirannia fra le classi di
governo a Roma, dal momento che esse avevano fallito nel riassesto
del nuovo regime imperiale. Gettarono via le loro tanto amate
tradizioni culturali di libertà di parola e di rispetto reciproco
quando iniziarono a cedere a loro stessi pur di far piacere
all'imperatore, spesso inetto (e quasi mai benevolo). Un altro
importante tema ricorrente è l'importanza, per un imperatore, di
avere simpatie nell'esercito per salire al comando (e rimanerci). Si
noti comunque come la posizione di Tacito non sia ben definita in
questo problema: il suo scetticismo coinvolge non solo il
soprannaturale ma anche la natura degli uomini, nonostante riconosca
nella storia un certo margine di casualità che rende ancora più
cupa la visione degli eventi. Sotto questa base Tacito rivolge
l'occhio alle vicende storiche vicine, trascorse la maggior parte
della sua carriera politica sotto l'imperatore Domiziano, cioè sotto
l'Impero, con l'occhio del senatore, per il quale la fine della
repubblica fu un iniqua cessione della libertà in cambio di una
misera pace. La sua amara ed ironica riflessione politica può essere
spiegata dalla sua esperienza della tirannia, della corruzione e
della decadenza tipica del suo periodo (81-96). Tacito mise in
guardia dai pericoli derivanti da un potere poco comprensibile ai
più, da un amore per il potere non temprato da principi e dalla
generale apatia e corruzione del popolo, problemi sorti a causa
della ricchezza dell'impero che ha permesso la nascita di questi
aspetti negativi. L'esperienza della tirannia di Domiziano può
inoltre essere vista come la causa di un ritratto della gens
Giulio-Claudia, a volte presentata in maniera amara ed ironica.
Tuttavia Tacito è convinto della necessità dell'impero e non sembra
avere rimpianti per l'ultima repubblica, dove la vita dei cittadini
era messa a repentaglio per le sue turbolenze. D'altronde Tacito sembra convinto,
risentendo forse dell'Anonimo Del Sublime, che non sia possibile
l'esistenza di una forma politica o sociale che sia capace di
resistere di fronte alla corruzione dei costumi: mentre presso i
Germani plusque ibi boni mores valent quam alibi bonae leges, a Roma
non sembrava bastare la felicitas temporum inaugurata da Nerva e
Traiano, per il recupero dei boni mores, difatti: 'per la natura
della debolezza umana, i rimedi sono più lenti dei mali e, come i
nostri corpi crescono lentamente ma si estinguono di colpo, così si
potrebbero più facilmente soffocare che richiamare in vita le
attività dell'ingegno: infatti si insinua proprio il piacere
dell'inerzia stessa, e l'inattività, dapprima odiosa, alla fine è
amata'. Fu forse proprio questo pessimismo radicale a impedire a
Tacito di narrare il principato di Traiano come epoca felice, come si
era proposto di compiere nel terzo capitolo dell'"Agricola". Nonostante
questo l'immagine di Tiberio presentata nei primi sei libri degli
Annali non è ne tragica ne positiva: molti studiosi ritengono che
l'immagine di Tiberio descritta nei primi libri sia prevalentemente
positiva, mentre nei libri seguenti, a causa della descrizione degli
intrighi di Seiano, diventa prevalentemente negativa. Nonostante
questo, l'arrivo dell'imperatore Tiberio presentato nei primi
capitoli del primo libro è una storia di crimini, dominata
dall'ipocrisia sia del nuovo imperatore che stava salendo al potere,
sia di chi gli stava attorno; e nei libri seguenti si può trovare
una qualche forma di rispetto nei confronti della saggezza ed
intelligenza del vecchio imperatore, che ha preferito allontanarsi da
Roma per rendere saldo il suo ruolo. In generale dunque, Tacito non
si fa problemi nel dare, nei confronti di una stessa persona, a volte
un giudizio di rispetto e altre volte un giudizio di disprezzo,
spiegando spesso in maniera aperta quali sono le qualità che lui
giudica lodevoli e quali quelle che giudica spregevoli. Una
caratteristica di Tacito è quindi il non schierarsi in maniera
definitiva a favore o contro le persone che descrive, permettendo ai
posteri la possibilità di interpretare le sue opere come una difesa
del sistema imperiale o come un suo rifiuto. Una migliore descrizione
dell'opera di Tacito "sine ira et studio" è difficilmente
spiegabile.
Fortuna - «Auguror nec me
fallit augurium, historias tuas immortales futuras.» traducibile con « Prevedo, e possano le mie previsioni
non tradirmi, che le tue storie saranno immortali. » (Plinio il Giovane, epistola 33). Tacito non fu particolarmente letto
nella tarda antichità e ancor meno nel medioevo. Delle sue opere, meno di un terzo è conosciuto e sopravvissuto: dipendiamo da un
unico manoscritto per i libri I - VI degli "Annales" e da un
altro per i libri XI - XVI, oltre che per i cinque libri delle "Historiae", anche perché l'antipatia mostrata nei confronti di ebrei e cristiani
dell'epoca, lo rendevano assai impopolare presso i dotti medievali,
quasi sempre ecclesiastici. Nel Rinascimento, tuttavia, le sue
sorti si capovolsero e la sua presentazione drammatica della prima
età imperiale ben presto gli fece guadagnare il rispetto dei
letterati dell'epoca, fino a quando l'undicesima edizione
dell'Encyclopædia Britannica lo ricordò come il più grande storico
romano, non solo per lo stile ma anche per l'insegnamento morale e la
narrativa drammatica. Tuttavia, oltre che come storico,
Tacito divenne importante anche come teorico politico, tanto che
Giuseppe Toffanin individuò due correnti di pensiero: i tacitisti
rossi, che lo considerano come simbolo degli ideali repubblicani, i
tacitisti neri, invece, che lo considerano l'ideologo della realpolitik. Infine non bisogna tralasciare il fatto
che le opere di Tacito costituiscono ancor oggi la fonte più
affidabile per gli studi sull'età del Principato, anche se talvolta
la precisione è messa in discussione. Gli "Annales" si
basano in parte, infatti, su fonti secondarie e non mancano alcuni
errori come la confusione tra le figlie di Marco Antonio e di Ottavia
Minore, entrambe di nome Antonia. Le "Historiae", invece,
trascritte come fonte primaria, sono generalmente considerate come
più accurate e precise.
Svetonio. Da http://commons.wikimedia. org/wiki/File:Nuremberg_ chronicles_f_111r_1.png# mediaviewer/File:Nuremberg_ chronicles_f_111r_1.png |
Svetonio nacque attorno al 70 in un
luogo imprecisato del Latium vetus, forse a Ostia, dove ebbe la
carica religiosa locale di pontefice di Vulcano (solitamente
conferita a vita). Non si conosce tuttavia con precisione
l'anno di nascita. Alcuni, facendo riferimento ad una lettera inviata
da Plinio il Giovane a Svetonio nel 101, collocano la data al 77,
anno in cui avrebbe potuto ricevere un tribunato militare, se avesse
intrapreso la carriera militare. Altri anticipano la data al 69,
altri ancora, esaminando altre lettere indirizzate all'autore del "De
vita Caesarum", la collocano al 71 o al 75.
Altrettanto incerta è l'origine
sociale di Svetonio: non si può stabilire con preciso se la sua
famiglia appartenesse al ceto equestre o fosse plebea. Si sa comunque
che il padre, Svetonio Leto, era tribuno angusticlavio della XII
legione, che servì Otone nella battaglia di Bedriaco contro
Vitellio. Ciò nonostante, Svetonio studiò non
solo grammatica e letteratura, ma anche retorica e giurisprudenza,
divenendo avvocato e facendo fortuna, tanto che divenne amico e
corrispondente di Plinio il Giovane, che lo considerava un suo
protetto e che diede impulso alla sua carriera. Prima di
morire, nel 113, Plinio il giovane lo affidò alla protezione di Setticio
Claro, che divenuto prefetto del pretorio dell'imperatore Adriano,
ottenne per lui la carica di segretario dell'imperatore (procurator a
studiis e ab epistulis, ovvero sovrintendente degli archivi e
curatore della corrispondenza imperiale), ed in tale qualità aveva
accesso ai documenti più importanti degli archivi imperiali. Ricoprì dunque cariche importanti
sotto l'imperatore Adriano, e forse già sotto Traiano, entrando a
far parte del personale a più stretto contatto con l'imperatore. Della sua vita non si hanno molti altri
dati certi. L'ultimo è il suo allontanamento da parte
dell'imperatore Adriano nel 122, assieme al prefetto del pretorio
Setticio Claro, con la motivazione ufficiale di aver trattato con
eccessiva vicinanza l'imperatrice Sabina, probabilmente nel
contesto di una epurazione dei quadri dirigenti voluta forse
dall'imperatrice stessa per conferire gli incarichi ai suoi
protetti. Anche la data di morte non è del tutto
sicura, ed è posta da alcuni attorno al 126, da altri una quindicina
di anni dopo, attorno al 140 o addirittura al 161, anno della morte
dell'imperatore Antonino Pio. Fu certamente un grande erudito e grazie alla sua opera preziosa e paziente, ci sono giunte le vite dei
dodici Cesari, altrimenti irrimediabilmente perdute ai nostri giorni.
Nel periodo di contatto con l'Imperatore Traiano infatti, ebbe occasione di consultare la foltissima libreria regia e si fece
sentire in lui il bisogno di mettere per iscritto in un unico grande
libro ("De vita Caesarum") la vita dei dodici principes che si
susseguirono dopo Gaio Giulio Cesare (ma vi sono anche dei capitoli
dedicati a Cesare). Fu però suo grande difetto quello di farsi
influenzare, riguardo alle vite di alcuni Cesari, come Caligola e
Nerone, dal suo rango e dalla presenza di fonti storiche del tempo di
per sé corrotte e parziali.
"De viris illustribus" (I
personaggi famosi), che trova un suo chiaro precedente in
Cornelio Nepote, analizza le figure di personalità illustri
suddividendole in cinque categorie: poeti (De poetis), grammatici e
retori (De Grammaticis et rhetoribus), oratori (De oratoribus),
storici (De historicis) e filosofi (De philosophis). Questa raccolta,
come altri suoi lavori, non fu però organizzata cronologicamente.
Dell'opera si conserva pressoché
intatta soltanto la sezione riservata ai grammatici e ai retori (21
grammatici e 5 retori), anche se mancante della parte finale. Dopo un indice che riporta gli
scrittori che saranno trattati, Svetonio offre dei brevi ritratti
(alcuni brevissimi) di coloro che hanno contribuito allo sviluppo
dello studio della grammatica a Roma. Di ogni autore non sono forniti
specifici dati biografici, ma in genere l'attenzione è posta sulle
novità che ciascun grammatico ha apportato. Delle altre sezioni del "De viris
illustribus", rimangono soltanto alcune vite, sulla cui reale
attribuzione a Svetonio, peraltro, non c'è accordo fra gli studiosi.
Si ricordano la "Vita Terentii" (che costituisce la premessa al
commento di Elio Donato alle commedie terenziane), la vita di Orazio
e quella di Lucano; deriva dal "De poetis" anche la vita di Virgilio,
premessa al commento delle opere del poeta, sempre da Elio Donato.
De vita Caesarum - Le "Vite dei dodici
Cesari", in otto libri, ci sono giunte
pressoché complete, manca solo una breve parte iniziale.
Comprendono, in ordine cronologico, i ritratti di dodici imperatori
romani, tra cui lo stesso Cesare, a cui seguono Augusto, Tiberio,
Caligola, Claudio, Nerone, Galba, Otone, Vitellio, Vespasiano, Tito,
Domiziano. A parte una genealogia introduttiva e un breve riassunto della vita e della morte del personaggio,
queste biografie non seguono un modello cronologico, bensì uno
schema non rigido, modificabile a seconda delle esigenze dell'autore.
Questo schema era composto da moduli biografici di tipo alessandrino,
vale a dire: si partiva dalla nascita e dalle origini familiari, per
poi passare all'educazione, alla giovinezza, alla carriera politica
prima dell'assunzione al potere; qui iniziava la seconda parte
(organizzata per species, ovvero per categorie) della narrazione: i
principali atti di governo, un ritratto fisico e morale, la
descrizione della morte e del funerale, infine il testamento. Tutto
ciò a discapito dell'organicità del racconto, con un interesse (spesso dispersivo) verso il particolare o l'aneddoto. La differenza
con il contemporaneo Plutarco è che, mentre quest'ultimo partecipava
più emotivamente al racconto, Svetonio dimostra un'attenzione più
documentaria che appassionata; appare più distaccato,
astenendosi da un giudizio personale. Emerge anche una
caratterizzazione negativa degli imperatori del I secolo, forse
incoraggiato dallo stesso Adriano, al fine di contrapporre il suo
buon governo a quello dei suoi predecessori, caratterizzato spesso da
eccessi (vedi su tutti Caligola, Nerone e Domiziano). Svetonio sembra
concentrarsi soprattutto attorno alla figura del princeps, quasi
incurante del mondo imperiale che lo circonda. La forma, che appare
in alcuni casi sciatta, risulta semplice, lineare, con una struttura
schematica, anche frammentaria, che non fornisce un discorso
articolato da un punto di vista stilistico. In alcuni casi, Svetonio
riesce invece ad "ottenere notevoli effetti drammatici ed a
mostrare una caratterizzazione psicologica coerente".
Come membro della corte imperiale (del
consilium principis) e procurator a studiis e a bibliothecis
(sovrintendete degli archivi e delle biblioteche imperiali), Svetonio
aveva a disposizione documenti di prima mano (decreti, senatus
consulta, verbali del Senato), tutte utili fonti per il suo lavoro e
materiale utile agli storici moderni per la ricostruzione del
periodo. Tuttavia si servì anche di fonti non ufficiali, quali
scritti propagandistici e diffamatori e anche testimonianze orali, al
fine di alimentare quel gusto per l'aneddoto e il curioso cui egli
dedica ampio spazio e che alcuni gli ascrivono come difetto ed altri
come pregio.
Opere perdute - Sotto il nome di
Svetonio sono pervenuti anche alcuni titoli e frammenti di argomento
storico-antiquario (sul gioco della dama), grammaticale (opere
filologiche e lessicografiche) e scientifiche (sulla natura e gli
animali), tra i quali una "Ludrica Historia" (riguardante gli
spettacoli a Roma) e due opere enciclopediche ("Prata" e "Roma").
L'insieme dei frammenti, in parte latini e in parte greci, è
tuttavia troppo esiguo per consentire un'analisi di tali opere e
verificarne la paternità.
Roma antica: gara di Poesia. |
Un'edizione del 1593 della "Periegesi della Grecia" |
Sextus Pompeius Festus: De verborum
significatu in edizione
settecentesca.
Di Yuri Che: https://books.google.c
|
Ubicazione dell'isola di Chio. |
Ubicazione di Naucratis, in Egitto, da: https://en.wikipedia.org/wiki/Nau cratis#/media/File:Nile_Delta_ -_Naucratis.png |
Testa in terracotta rinvenuta a Naucratis, da: https://en.wiki pedia.org/wiki/Naucratis#/me dia/File:Terracotta_head_ Naucratis.png |
Carta con Nicea, in Bitinia. |
- Fragmenta Valesiana, come erano
dispersi tra vari scrittori, scoliasti, grammatici e lessicografi,
ecc. e che sono stati raccolti da Henri de Valois.
- Fragmenta Peiresciana, contenente
grandi estratti, trovati nella sezione intitolata "Delle virtù
e dei vizi," nella grande raccolta o biblioteca portatile
compilata per ordine di Costantino VII Porfirogenito. Il manoscritto
è appartenuto a Nicolas-Claude Fabri de Peiresc, uno studioso del
XVII secolo.
- Frammenti dei primi del 34 libri,
conservati nella seconda sezione dello stesso lavoro di Costantino,
intitolati "Delle ambasciate." Questi sono conosciuti con
il nome di Fragmenta Ursiniana, perché il manoscritto che le
contiene fu trovato in Sicilia da Fulvio Orsini.
- Excerpta Vaticana, raccolti da Angelo Mai, che contengono frammenti dei libri dall'uno al trentacinque e dal sessantuno all'ottanta. A questi sono aggiunti i frammenti di un continuatore sconosciuto di Dione, che arriva fino al periodo di Costantino I. Altri frammenti di Dione, che appartengono principalmente ai primi trentacinque libri, sono stati trovati da Mai in due MSS Vaticani e contengono l'antologia di Planude. Gli annali di Giovanni Zonara contengono inoltre numerosi estratti da Cassio Dione. Cassio Dione ha preso Tucidide a suo modello, ma l'imitatore non è paragonabile con l'originale nella disposizione e nella distribuzione dei materiali o nella solidità della visione e nel ragionamento accurato. Il suo stile è generalmente chiaro, almeno dove non sembra che ci sia corruzione del testo, tuttavia pieno di latinismi. La sua diligenza è fuor di dubbio e grazie alle sue opportunità è ben informato delle circostanze dell'impero durante il periodo in cui è un contemporaneo.
- Excerpta Vaticana, raccolti da Angelo Mai, che contengono frammenti dei libri dall'uno al trentacinque e dal sessantuno all'ottanta. A questi sono aggiunti i frammenti di un continuatore sconosciuto di Dione, che arriva fino al periodo di Costantino I. Altri frammenti di Dione, che appartengono principalmente ai primi trentacinque libri, sono stati trovati da Mai in due MSS Vaticani e contengono l'antologia di Planude. Gli annali di Giovanni Zonara contengono inoltre numerosi estratti da Cassio Dione. Cassio Dione ha preso Tucidide a suo modello, ma l'imitatore non è paragonabile con l'originale nella disposizione e nella distribuzione dei materiali o nella solidità della visione e nel ragionamento accurato. Il suo stile è generalmente chiaro, almeno dove non sembra che ci sia corruzione del testo, tuttavia pieno di latinismi. La sua diligenza è fuor di dubbio e grazie alle sue opportunità è ben informato delle circostanze dell'impero durante il periodo in cui è un contemporaneo.
Statua colossale marmorea di "Pirro", della dinastia macedone, raffigurato come Marte, fine del I secolo d.C. Alta 3,6 m ritrovata presso il Foro di Nerva, a Roma, Musei Capitolini di Roma. |
Johannes Camers - Solin
[us], [Gaius] Juli[us]:
Polyhistor (Collectanea
rerum memorabilium)
cum enarrationibus,
Vienna 1520, da: https:/
|
Eusebio di Cesarea, da: https:
|
39. Eusebio di Cesarea (Cesarea in
Palestina, 265 - Cesarea in Palestina, probabilmente 340) è stato
uno storico e scrittore greco antico, vescovo e padre della
Chiesa. Fu consigliere e biografo dell'imperatore romano
Costantino I. Allievo di Panfilo alla scuola fondata da Origene a Cesarea, in collaborazione del quale redasse i primi cinque libri dell'Apologia ad Origene (Eusebio scriverà poi un sesto libro dopo la morte del maestro in seguito alla persecuzione), sfuggì alla persecuzione anticristiana di Diocleziano e nel 313 fu eletto vescovo di Cesarea. Abbracciò una concezione della
Trinità, diffusa in Siria, secondo cui il Figlio era subordinato al
Padre. Il suo approccio lo portò a simpatizzare con Ario,
predicatore alessandrino di formazione antiochena che, nella sua
dottrina, aveva accentuato la posizione subordinata del Figlio, sino
a considerarlo non coeterno rispetto al Padre. Quando nel 318 Ario fu scomunicato dal
patriarca Alessandro, Eusebio lo accolse presso di sé. La sua
condotta fu condannata dal concilio di Antiochia nel 325. Tuttavia
nello stesso anno Eusebio partecipò al Concilio di Nicea,
convocato proprio per risolvere la controversia ariana, svolgendo un
ruolo da protagonista. Al concilio l'imperatore Costantino sollecitò
i convenuti a raggiungere un accordo su una concezione comune
della natura di Cristo. Eusebio fu incaricato della stesura
materiale di tale concezione. Nella formulazione del concilio,
Cristo fu definito come “Dio da Dio, Luce da Luce, Vita da Vita”.
A tale definizione furono aggiunte successivamente le attribuzioni
“Dio vero da Dio vero” e “generato, non creato, della stessa
sostanza del Padre”. Quest'ultima proposizione conteneva il
concetto di homooùsuios (consustanziale). Il termine, non attestato nelle Sacre
Scritture, presentava qualche difficoltà e non fu bene accolto dai
fautori dell'arianesimo presenti al concilio. Le pressioni
dell'imperatore sull'assemblea, tuttavia, portarono i vescovi, tra
cui Eusebio, a firmare i decreti. Nonostante ciò, negli anni
successivi Eusebio riprese ad operare a favore di Ario e dei suoi
sostenitori; nel 335 fu fautore della condanna del massimo
oppositore di Ario, Atanasio di Alessandria. Successivamente fu
invitato alla corte dell'imperatore romano Costantino I, di cui
divenne consigliere e biografo. Eusebio fu il vescovo più erudito
della sua epoca: oratore, esegeta, apologista, teologo e storico,
tipografo e bibliofilo. Va ricordata anche la sua attività di
reperimento e collezione di fonti letterarie ed archivistiche. Della sua vastissima produzione
letteraria si ricordano la "Cronaca" (Chronicon),
che venne considerata un archetipo per tutte le opere cronologiche
seguenti, e la "Storia ecclesiastica", che tratta
dei primi secoli dello sviluppo del Cristianesimo, dalla costituzione
della Chiesa sino alla vittoria di Costantino su Licinio del 324.
Nella stesura della "Cronaca" utilizzò, per quanto
riguarda la storia dell'Egitto, le opere di Manetone ora perdute. Eusebio mise a punto un sistema di
dieci tavole-canoni, note come "Tavole canoniche" o "Tavole
di concordanza", ove si raffrontano i passi uguali dei quattro
vangeli: una tabella con l'episodio (es. il battesimo) indica il
riferimento alla sezione interessata di ogni vangelo, con centinaia
di sezioni indicate (oltre mille in area siriaca); in un foglio del
Tetravangelo di Rossano è stata rinvenuta una lettera di Eusebio a
Carpiano sull'uso delle tavole. Tra le sue opere vi è anche una
biografia di Costantino, la "Vita Constantini".
Origene. |
I limiti - I limiti di Eusebio
come fonte derivano dal fatto che fu il primo teologo cristiano al
servizio della corte dell'imperatore romano Costantino I. Nonostante
la grande influenza dei suoi lavori sugli altri, Eusebio non può
essere considerato un grande storico. Il suo trattato
sull'eresia, ad esempio, è inadeguato: Eusebio conosce molto poco
della chiesa occidentale. I suoi lavori storici sono
principalmente apologetici, ma, seguendo un costume piuttosto
diffuso, fu spesso incline ad alterare la realtà ("tradendo"
l'apologetica propriamente detta e passando così all'apologia).
Nella sua Storia ecclesiastica (Volume 8, capitolo 2) afferma ad
esempio: « Vi introdurremo a questa storia solo
quegli eventi che potranno essere utili in primo luogo per voi in
secondo luogo per i posteri ». Nella sua "Praeparatio
evangelica" (XII, 31), Eusebio tratta in una sezione dell'uso
delle menzogne (pseudos) come una "medicina" che
sarebbe stato "legale ed appropriato" da utilizzare.
Tenendo a mente tutto ciò, risulta difficile accertare le
conclusioni e la veridicità di Eusebio, confrontandolo con i suoi
predecessori e contemporanei. I testi degli scrittori precedenti di
cronache, soprattutto Papia, che lui denigrava, ed Egesippo, sul
quale invece si basava, non ci sono giunti e sopravvivono
principalmente sotto forma di citazioni del loro lavoro scelte da
Eusebio stesso, che può benissimo avere selezionato le parti adatte
per supportare le sue tesi. Di Egesippo cita tra l'altro una versione
in lingua latina del "Bellum Iudaicum", (in realtà l'opera
è attribuibile ad un certo Ambrogio milanese) dove la figura di Gesù
ha una rilevanza molto maggiore di quella della versione originale di
Flavio Giuseppe: non si sa se l'interpolazione è stata aggiunta da
Eusebio stesso oppure sia stata da lui trovata e accolta
acriticamente. Per molti, i suoi testi sono basati su tradizioni
provenienti da cronache tardive di Egesippo in libri che sono stati
perduti, citati a sua volta da Eusebio nella sua storia ecclesiastica
(Hist. Heccl. 3,11,1) che in questi ambiti non è attendibile: "Nelle
narrazioni di Egesippo si notano frequenti incongruenze: è un
racconto leggendario con qualche nucleo di verità storica"
(Storia ecclesiastica e i martiri della Palestina, Eusebio di Cesarea
; testo greco con trad. e note di Giuseppe Del Ton. - Roma etc. :
Desclee & C.i, 1964. con imprimatur cattolico - XXXVIII, pagina
135). Pensiamo al fatto che, secondo Egesippo, citato da Eusebio in
Hist. Heccl. 2,23,6, a Giacomo, fratello di Gesù, era permesso
entrare nel santuario del tempio in cui, secondo la legge di Mosè,
poteva entrare solo il sommo sacerdote e una volta l'anno. Questo è
storicamente impossibile. Questi e altri aspetti hanno suscitato
controversie. Per esempio, Jacob Burckhardt ha liquidato Eusebio come
"Il primo storico interamente disonesto dell'antichità". Burckhardt non è il solo a esprimere
questo parere. Tuttavia, il professor Michael J. Hollerichis ritiene
questa critica eccessiva. In un articolo in "Church History"
(Vol. 59, 1990), egli afferma che a partire da Burckhardt, "Eusebio
è stato un bersaglio invitante per gli studiosi dell'età
costantiniana, che di volta in volta lo hanno caratterizzato come un
propagandista politico, un fido uomo di corte, il furbo e preparato
consigliere dell'imperatore Costantino I, il grande pubblicista del
primo imperatore cristiano, il primo di una lunga serie di
politici ecclesiastici, l'araldo del bizantinismo, un teologo
politico, un metafisico politico e un cesaropapista. È ovvio che,
per lo più, queste non sono descrizioni neutrali. Gran parte degli
studiosi tradizionali, talvolta con sdegno a stento trattenuto, ha
considerato Eusebio una persona che metteva a rischio la sua
ortodossia e forse anche la sua persona per lo zelo nei confronti
dell'ambiente costantiniano. Egli conclude che "è stata spesso
esagerata l'importanza dei temi politici e dei motivi politici nella
vita e negli scritti di Eusebio e non gli si è resa giustizia come
uomo di chiesa e studioso". Molti hanno condiviso la valutazione di
Burckhardt, ma altri, pur non esaltandone i meriti, hanno
riconosciuto il valore indiscutibile dell'opera di Eusebio.
Dato lo stile di Eusebio, che cercava
sempre lo scontro con i suoi avversari, non devono meravigliare le
accuse nei suoi confronti: il vescovo Eustazio di Antiochia lo
accusò ad esempio di manipolare in maniera criptoariana il
credo di Nicea del 325.
40. La "Storia
Augusta" (in latino: "Historia Augusta") è una raccolta di
biografie di imperatori e usurpatori romani comprendente l'arco di
tempo che va da Adriano (che regnò dal 117 al 138) a Numeriano, che
regnò dal 283 al 284, quando venne ucciso da Arrio Apro, suo suocero e
prefetto del pretorio.
Moneta con effige di Numeriano. |
Volto di Adriano. |
Sia pur con alcune lacune, fra le quali quella relativa agli anni 244-253, essa è
l'unica fonte letteraria continua per questo periodo, il cui
contenuto coincide a volte con quello di epigrafi e di altro
materiale documentario pervenutoci e quindi, pur con tutti i suoi
limiti, è di interesse considerevole.
Autori o
autore, destinatari ed epoca di composizione della "Historia Augusta".
Pur sembrando che la "Historia Augusta" sia un insieme di vite redatta
da sei scrittori differenti - rispondenti ai nomi di "Aelius
Spartianus", "Iulius Capitolinus", "Vulcacius
Gallicanus", "Aelius Lampridius", "Trebellius
Pollio" e "Flavius Vopiscus" - indirizzata a cesari e
imperatori dell'età dioclezianeo-costantiniana, come si evince dalle
dediche, una serie di incongruenze, anacronismi,
falsificazione di dati, termini tecnico-amministrativi e nomi di
personaggi riconducibili e in auge in epoche più tarde, dà adito a
una serie di perplessità e forti dubbi non soltanto sulla paternità
dell'opera stessa, ma anche sull'attendibilità del suo contenuto,
sui destinatari dell'opera e conseguentemente sulla data di
composizione. A smontare le certezze su cui si reggeva il
tradizionale impianto basato sulla convinzione che la H.A. fosse
opera di sei autori vissuti nel sopraddetto periodo fu uno studio del
1889 di Hermann Dessau nel quale, per la prima volta, fu avanzata
l'ipotesi che i nomi dei sei Scriptores fossero tutti fittizi e che
il lavoro fosse stato composto da un singolo autore, all'epoca di
Teodosio I. Una posizione intermedia veniva assunta da Mommsen, che
faceva risalire le varie incongruenze, presenti nella H.A., all'opera
di interpolatori che avrebbero modificato, nel V secolo, il contenuto
della prima redazione dell'opera, risalente, a suo modo di vedere, al
330. Il XX secolo fu caratterizzato dalle prese di posizioni pro o
contro le opposte tesi, e mentre per l'arco di tempo della
composizione dell'opera le congetture oscillano tra il 392 il 423
(per quest'ultima datazione propende Johannes Straub, per il 420
Santo Mazzarino), per quanto riguarda l'autore o gli autori, si è
sempre più diffusa fra gli studiosi la convinzione che a comporla
fosse stato soltanto un biografo. Rimette tutto in discussione
Arnaldo Momigliano con un invito alla comunità scientifica a
riconsiderare l'insieme della problematica venutasi sempre più a
stratificarsi attorno a ipotesi che, per quanto suggestive,
privilegiano più spesso soluzioni di fantasia discostandosi dai dati
reali dei singoli problemi. Per ciò che riguarda il problema della
paternità dell'opera e l'epoca di composizione, studi recenti
mostrano, uniformità di stile in buona parte dell'opera, orientando
la quasi totalità degli eruditi contemporanei verso l'accettazione
della teoria che a comporre l'opera sia stato un singolo autore,
tardo e di identità sconosciuta, anche se l'analisi stilistica
del lavoro, effettuata con l'ausilio del computer ha dato
risultati incerti: alcuni elementi di stile, infatti, sono
abbastanza uniformi in tutta l'opera, rendendo legittima l'ipotesi di
un unico biografo, mentre altri variano in una direzione che ne
suggerisce la molteplicità. In merito alla individuazione degli
obbiettivi della Historia c'è da dire che le opinioni, fino al XX
secolo, sono, nella loro non univocità, settoriali: per alcuni si
tratta di un lavoro di pura evasione o di satira, concepito al solo
scopo di intrattenere, per altri, invece, esso è un attacco di
parte pagana contro il Cristianesimo che induce l'autore a celare
la sua identità per motivi di sicurezza personale. Una lettura più
attenta ha indirizzato però gli studiosi su una tematica decisiva,
in quanto presente e costantemente portata avanti in ogni biografia.
Modelli a cui è
ispirata - Che nell'opera si riscontrino queste caratteristiche
messe assieme è cosa abbastanza evidente, tanto più che essa, nel
complesso, si presenta come cronaca della vita, soprattutto privata,
degli imperatori, aderendo, ma in modo esagerato, dichiaratamente, al
modello svetoniano, a cui si era già ispirato Mario Massimo,
discostandosene, però, quest'ultimo alquanto, per aver messo in
netta preminenza, rispetto al dato storico a cui invece si atteneva
Svetonio, il lato privato e domestico, il pettegolezzo di corte, fine
a sé stesso, sino alla calunnia: in merito vedasi il trattamento,
per aver tolto ai senatori il comando delle legioni affidandolo al
ceto equestre, riservato a Gallieno, buon imperatore secondo altre
fonti. Pertanto l'autore (o gli autori) della Historia Augusta pur
prendendo le mosse da Svetonio, nello sviluppo delle argomentazioni
fa riferimento, si basa e segue Mario Massimo, citato come fonte ben
18 volte e della cui opera non ci rimane altro. Di fondamentale
importanza è la testimonianza dello storico Ammiano Marcellino, fra
altre, il quale sostiene che l'opera di Mario Massimo dilettasse
parecchio i suoi lettori: altro che Sallustio, Livio e Tacito,
storici accurati e severi, all'epoca in cui fu scritta la Historia
Augusta, e ancor prima, a tenere banco, tra gli aristocratici era
proprio l'opera storica, o per meglio dire, romanzesca di Mario
Massimo, unitamente alle satire di Giovenale, autore quest'ultimo
quasi dimenticato, prima di questo periodo, e ritornato di gran moda
in seguito, probabilmente, ai commenti che ne fece il grammatico
Servio.
Il vero filo
conduttore - Dall'incertezza generale, che tuttavia caratterizza
l'intera opera, emerge un unico dato sicuro: essa è, senz'ombra di
dubbio, espressione dell'opposizione senatoria all'istituto
imperiale del quale si dà una rappresentazione ora banalizzata,
con l'indugiare su particolari a volte esageratamente falsi e in ogni
caso tendenziosi, che riguardano la vita privata dei singoli
imperatori, ora un resoconto a fosche tinte con descrizioni aventi
per oggetto la crudelitas, l'ebrietas e tutta la sequela delle umane
aberrazioni: e ogni qual volta qualche notizia era estremamente
esagerata fino all'inverosimile, se ne attribuiva la paternità a un
certo Cordus, storico, si fa per dire, non altrimenti noto,
sicuramente ad hoc inventato. La controprova che il filo conduttore
dell'opera sia da ricercare nell'avversione all'istituto imperiale
sta nel fatto che pochi imperatori, come Settimio Severo e Marco
Aurelio Probo sono oggetto di lodi, lodi che danno agli autori (o
all'autore) occasione di parlare di un ritorno dei vecchi tempi,
sotto forma di laudatio temporis acti (rimpianto del tempo passato),
di quella res publica romana dei tempi d'oro, quando a decidere delle
sorti dello stato era la prestigiosa classe senatoria e non il
capriccio o l'estrosità, come spesso è dato leggere in quest'opera,
degli odiati imperatori: sotto i sopra detti imperatori, lodati per
il loro comportamento deferente nei confronti del senato, persino i
rigidi appartenenti alla gens Catoniana, dice l'autore della "Historia
Augusta", sarebbero stati lieti di vivere. E, a ben considerare,
l'atteggiamento ostile della classe senatoria nei confronti
dell'istituto imperiale trovava una sua motivazione precisa, dovuta
al fatto che in epoca repubblicana il ruolo di guida dello stato era
esclusivamente nelle mani dell'aristocrazia senatoriale, e con esso
tutta una serie di interessi che vedeva cointeressati alcuni clan di
una ristretta oligarchia nella spartizione di incarichi, altamente
remunerativi, sia in patria che soprattutto in territorio
provinciale; i sudditi, paragonati a pecore da tosare a zero, erano
spesso sottoposti a gravami e soprusi di ogni genere tali da generare
malcontenti e da alimentare movimenti di ribellione: nella migliore
delle ipotesi i provinciali avevano la possibilità di denunciare i
governatori di province corrotti che, appartenendo alla classe
aristocratica, venivano sistematicamente assolti da tribunali le cui
giurie, se si eccettua qualche decennio, erano rigorosamente di
estrazione aristocratica. Ma questo era solo uno degli aspetti:
l'oligarchia senatoria dei tempi d'oro della repubblica
aveva un potere illimitato e distribuiva cariche onori e
incarichi avendo il delicato compito di condurre la direzione della
politica sia interna che estera.
La svolta
augustea, il declino e il risentimento dell'ordine senatorio - Con
l'avvento dell'impero vennero meno al senato quasi tutte queste
prerogative, pur se formalmente continuava a svolgere il proprio
ruolo. Ma da Augusto in poi, il suo prestigio e soprattutto il suo
potere decisionale subì un improvviso drastico ridimensionamento.
Una serie di provvedimenti presi da Augusto in materia di
governatorato delle province che gli garantivano il controllo degli
eserciti, rese inoffensivo il consesso senatorio, ridotto a mite e
mero strumento di approvazione della volontà del sovrano in ogni
campo della vita pubblica. Stretto nella dura morsa tra l'imperatore
da una parte e l'esercito, a questi fedelissimo, dall'altra, il
senato perdette progressivamente il suo ruolo e dovette accontentarsi
di svolgere compiti subordinati al volere e spesso al capriccio di
imperatori non sempre illuminati. Costretta a subire, la classe
senatoria trovò modo di sfogare tutto il suo risentimento in opere
pseudo storiche quale quella di Mario Massimo che, prendendo le mosse
da Svetonio, ma solo per ciò che riguardava l'aspetto della vita
privata degli imperatori, ridicolizzava e colpevolizzava gli
imperatori per i mali dai quali era affetto l'Impero,
nell'approssimarsi del proprio declino. E a Mario Massimo, come già
detto, molto deve la Historia Augusta soprattutto per ciò che di
infamante, di ridicolo, di falso e anche di tragicamente vero nei
confronti di taluni imperatori si potesse dire. E' indubbia la
presenza, nella "Historia Augusta", di parecchie ed evidenti
contraddizioni interne.
Eutropio. |
41. Flavio Eutropio (in latino Eutropius; Italia, floruit, fiorì e cioè aveva 40 anni, nel 363-387; Bordeaux ... - dopo il 387) è stato un politico, storico,
scrittore e un maestro di retorica romano. Era probabilmente di
origine italica (così è citato nella Suda). Fu nipote e scolaro del
retore Acacio di Cesarea. Secondo la Suda (la Suda o Suida è un lessico e un'enciclopedia storica del X secolo, scritta in greco bizantino, riguardante l'antico mondo mediterraneo) avrebbe scritto parecchio,
ma ci rimane solo un "Breviarium ab urbe condita" dedicato
a Valente, una specie di compendio della storia romana diviso in
ordine cronologico e contenente notizia dei principali fatti d'arme e
delle principali istituzioni civili e politiche, non escluso un breve
accenno agli avvenimenti più importanti, relativi agl'imperatori.
L'opera consta di 10 libri e va da Romolo fino all'imperatore
Gioviano, morto nel 364. La narrazione eutropiana procede agile e svelta, a piccoli
ma incisivi periodi, e il racconto è limitato alla parte puramente
indispensabile. Ricoprì, in due riprese, importanti
cariche pubbliche sotto vari imperatori e professava il Paganesimo. Lo
troviamo in Antiochia dal 355 al 362, prese parte alla campagna
sasanide dell'imperatore Giuliano nel 363 e successivamente ricoprì
incarichi di estrema importanza a Costantinopoli, al servizio
dell'imperatore Valente (dal 364 al 378), di cui fu segretario e
storico (magister memoriae,
epistolografo) e su richiesta del quale scrisse il "Breviarium
ab Urbe condita" ("Breviario dalla fondazione di
Roma"). Nel 371/372 fu proconsole (governatore) della provincia
d'Asia; restaurò alcune costruzioni di Magnesia sul Menandro, e fu
accusato di tradimento dal suo successore Festo, ma poi assolto.
Sotto Teodosio I fu prefetto del pretorio dell'Illirico nel 380-381,
e nel 387 fu console posterior. Un altro storico, Giorgio
Codino, nel suo "De originibus Constantinopolitanis "("Sulle
origini di Costantinopoli"), afferma che Eutropio fu segretario
di Costantino I, ma non è chiaro se si tratta della stessa persona.
Morì dopo il 387.
Il Breviarium - Il "Breviarium
ab urbe condita", in dieci libri, è un compendio della storia
romana, dalla fondazione della città fino alla morte di Gioviano,
avvenuta nel 364. L'attenzione dell'autore è concentrata
più agli avvenimenti di politica estera, alle campagne e alle guerre
di conquista, che alla politica interna. Gli ultimi quattro libri,
dedicati alle vicende imperiali, offrono, però, interessanti
ritratti dei sovrani. Le fonti utilizzate da Eutropio sono varie: da
Tito Livio e Svetonio, fino a cronache a noi non pervenute e ai
ricordi personali dell'autore. Lo stile, generalmente imparziale, è
semplice e chiaro, rendendo l'opera accessibile a tutti e
contribuendo al suo enorme successo. Essa, infatti, non soltanto fu
usata come testo di iniziazione al latino nelle scuole (come ancora
oggi accade), ma suscitò tanto interesse che fu ampliata a più
riprese (fino all'età di Giustiniano da Paolo Diacono e,
successivamente, fino al tempo di Leone l'Armeno da Landolfo Sagace
nella "Historia Miscella") e ne vennero eseguite traduzioni
anche in greco (quella di Capitone Licio è perduta, mentre rimane
pressoché completa quella di Peanio).
Carta dell'enclave di Tartesso, descritta nell'"Ora Maritima". |
- un'epistola di 31 esametri a Flaviano
Mirmico, nella quale invita l'amico a inviargli delle melegrane,
nella speranza che tali frutti lo guariscano dal suo mal di stomaco.
- varii poemetti minori ("de cantu
sirenum" di 18 versi, "ad amicos de agro" di 9 versi, "de se ad deam
Nortiam" di 12 versi)
- la "Descriptio Orbis Terrae"
("Descrizione del mondo"), nota anche con il titolo di
"Periegesis seu Descriptio orbis terrarum": una traduzione
lunga 1393 esametri dell'opera di Dionigi il Periegeta.
- l'opera "Ora Maritima"
(Le coste marittime), dedicata a Sesto Claudio Petronio Probiano, incompleta e lacunosa ma interessante poiché tramanda la fonte più antica su Tartesso. Anche se è stato composta intorno al 400 d.C., nella sua opera il poeta utilizza come principale fonte un periplo, cioè una memoria scritta, del viaggio di un marinaio massaliota (di Marsiglia), che aveva percorso la costa atlantica europea dalle coste britanniche fino ad attraversare le colonne d'Ercole: l'"Euthymenes", scritto nel VI secolo a.C. e forse qualche altra fonte fenicia ancora più antica. Il documento cita la città di Tartesso che si trova tra le braccia della foce di un fiume che corrisponde all'attuale Guadalquivir. La lettura prosegue affermando che Tartesso ha governato su una vasta regione che si estende dalle regioni orientali, menzionando in particolare la città di Herma e la foce di un fiume, che potrebbe essere il Segura o il Vinalopó fino alla foce del Guadiana, nella metà meridionale del Portogallo. Avieno nomina anche diversi popoli stanziati a Tartesso, come i Cilbicenos, Etmaneos e Ileates, oltre che gli abitanti del regno di Selbyssena. Tuttavia, altri autori ci danno un'immagine minore dell'impero tartessico. Ecateo di Mileto, alla fine del VI secolo a.C., nel suo "Periegesís", separa le città dei domini di Tartesso da quelle che i Mastienos avrebbero occupato in gran parte dell'Andalusia orientale, menzionando come città dei Mastienos: Mainobora nei pressi dell'attuale fiume Velez, Sixo, l'attuale Almuñecar, o Sualis (Fuengirola). Ciò ridurrebbe l'ambito tartessico al sud-ovest della penisola. Ecateo menziona anche le città Tartessiche di Elibirge (si può pensare ad Andujar) o Ibila, probabilmente, entrambe situate nella valle del Guadalquivir. Erodoto di Heraclea nomina i tartessici congiunti ad altre popolazioni come Cineti, Gleti, Elbisini, Mastieni e Celciani, tutti situati sulle sponde dello stretto di Gibilterra, le antiche colonne d'Ercole.
- gli "Aratea" è lo scritto più ampio (1878 esametri), una traduzione dei "Fenomeni" di Arato di Soli (in greco antico: Áratos ho Soleús; Soli in Cilicia, 315 a.C. circa - 240 a.C. circa, un poeta greco antico del primo ellenismo), considerata da alcuni l'opera più importante di Avieno. Essa ha un valore intrinseco, dal momento che è l'unica traduzione latina dell'opera di Arato pervenutaci completa. Anche Cicerone ne aveva improntata una, ma a noi ne sono giunti soltanto 480 versi. La traduzione di Avieno non è letterale: oltre ad una generale prolissità, infatti, l'autore apporta all'originale personali aggiunte, che paiono mostrare il suo desiderio di rivaleggiare nella composizione poetica con Germanico, il primo traduttore di Arato.
45. Filostorgio
(in latino: Philostorgius; Borissus, in Cappadocia, 368 - 439) fu un seguace
dell'Arianesimo che compilò una Storia ecclesiastica, pervenuta
nella Epitome di Fozio. Suo padre era un eunomiano che convertì
l'intera famiglia. A vent'anni, durante il regno di Arcadio, si era
recato a Costantinopoli per completare i suoi studi e, facendo molti
viaggi, a Dakora, in Cappadocia, incontrò Eunomio, una conoscenza
che lo influenzò enormemente. Filostorgio fu probabilmente lo
scrittore più erudito della sua epoca,
come dimostrano le tante e disparate digressioni nella sua opera. Tra il 425 e il 433 compilò la "Storia
ecclesiastica" in dodici libri, dall'inizio dello scisma ariano al
425. L'opera è pervenuta nel riassunto (Epitome) di Fozio, patriarca
di Costantinopoli dall'853, che accusò Filostorgio di essere ariano. Fozio
tramanda diversi passi di Filostorgio, di cui lodava lo stile, pur
ritenendolo di bassa reputazione; l'opera ebbe una grossa
influenza anche sulla "Passio Artemii" che ne rielabora alcuni brani.
Dall'opera appare che Filostorgio fosse in possesso di parecchi
dettagli, in particolare di curiosità geografiche dei paesi più
remoti, dell'Asia e dell'Africa. Incluse molti portenti, mostri,
prodigi ed altre meraviglie; Fozio lo accusa di assurdità quando
attribuisce miracoli a quelli che il patriarca ritiene eretici.
46. Paolo Orosio (in latino: Paulus Orosius; Braga in Portogallo, 375 circa -
420 circa) è stato un presbitero, storico e apologeta romano.
Discepolo e collaboratore di Agostino d'Ippona, su invito di questi
redasse gli "Historiarum adversos paganos libri VII"
("Sette libri delle storie contro i pagani") che dovevano
servire da complemento storiografico a "La città di Dio"
(De civitate Dei) del suo maestro. Nato probabilmente a Bracara, ora
Braga, in Portogallo, fra il 380 e il 390, il suo nomen Paulus
è stato conosciuto soltanto dall'VIII secolo e alcuni studiosi
contestano tale aggiunta. Essendosi presto consacrato al servizio di
Dio, ordinato prete andò in Africa nel 413 o nel 414. Il motivo per
cui lasciò il suo paese natale è sconosciuto, lui affermava di aver
lasciato la sua terra natia "sine voluntate, sine necessitate,
sine consensu" (Commonitorium, I). Si recò da Agostino a
Ippona, per chiedergli dei chiarimenti su alcuni punti della dottrina
cristiana relativi all'anima e alla sua origine, punti che venivano
messi in discussione dai Priscilliani.
Pelagio stava allora tentando di diffondere in Palestina
le sue dottrine eretiche, e Orosio aiutò Girolamo e altri nella
lotta contro questa eresia. Pelagio, nome ellenizzato e latinizzato
di Morgan (ossia Marino) (Britannia, 360 - Palestina, 420), grande e corpulento, con ampie spalle,
fronte prominente, collo taurino e andatura da tartaruga, almeno
secondo le descrizioni di Girolamo e di Marius Mercator, visse a Roma
verso il 384, dove strinse amicizia con l'avvocato Celestio, con il
quale si rifugiò, in seguito al sacco di Roma del 410
da parte dei Visigoti, dapprima a Ippona, nel Nordafrica, conoscendo
forse Agostino e poi a Cartagine. Qui con Celestio elaborò la
dottrina detta appunto Pelagianesimo. Era un uomo di grande
talento, oratore, scrittore ed esegeta molto apprezzato che rimase
"dottore laico e indipendente". Suo scopo era quello di
reagire contro una religione superficiale, quella dei pagani
convertiti in massa al Cristianesimo. Pelagio era soprattutto un
moralista severo e intransigente: predicava, infatti il distacco
dalle ricchezze, la povertà e la castità. Combatté con forza
qualunque rilassamento, insistendo sull'esistenza dell'inferno e del
paradiso. Il monaco britannico Pelagio, con l'avvocato Celestio, il suo più eminente discepolo,
predicavano come il peccato originale fosse attribuibile ai soli
progenitori, non ai discendenti e tale peccato non macchiò la natura
umana, che ne subì però le conseguenze. Quindi la volontà
dell'essere umano è da sola in grado di scegliere ed attuare il
bene, senza necessità della grazia divina. Il peccato di Adamo fu
quello di portare un «cattivo esempio» alla sua progenie, ma le sue
azioni non avrebbero avuto altra conseguenza sulla discendenza umana,
oltre ai castighi elencati nella Genesi. Negavano dunque che
occorrsse una ''redenzione'' al genere umano, così com'è sostenuto
dalla religione ebraica. Le teorie pelagiane furono combattute in
Africa dal vescovo Agostino d'Ippona e poi definitivamente condannate
come eretiche nel Concilio di Efeso del 431. Nel 415 Giovanni, vescovo di
Gerusalemme, che era favorevole agli insegnamenti di Origene e
influenzato da Pelagio, radunò i preti in un concilio che si tenne a
Gerusalemme. In questo concilio Orosio attaccò duramente gli
insegnamenti di Pelagio, il quale però, ritenendo impossibile che
l'uomo potesse diventare perfetto ed evitare di cadere in peccato
senza l'aiuto di Dio, evitò che Giovanni lo condannasse, anzi,
Giovanni decise che i suoi avversari avrebbero dovuto sostenere le
loro tesi di fronte a Papa Innocenzo. In seguito alla sua opposizione
a Pelagio, Orosio venne così in contrasto con il vescovo Giovanni,
che lo accusava di aver sostenuto che non è possibile per l'uomo
evitare il peccato nemmeno con la grazia di Dio. In risposta a questa
accusa, Orosio scrisse il suo "Liber apologeticus contra
Pelagium de Arbitrii libertate", in cui fa un resoconto
dettagliato del Concilio di Diospolis del 415 e tratta in modo libero
e corretto le due principali questioni “contra Pelagium”: la
possibilità del libero arbitrio dell'uomo e la perfezione cristiana
nel fare la volontà di Dio in terra. Nella primavera del 416 Orosio
lasciò la Palestina per ritornare da Agostino in Africa e da lì a
casa. Portò una lettera di Girolamo (Epist. cxxxiv) a Agostino, come
pure le scritture dei due vescovi della Gallia, Hero e Lazaro, che in
Palestina stavano combattendo contro il Pelagianesimo (cfr. Agostino,
Epist. clxxv). Inoltre portò da Gerusalemme le reliquie da poco
scoperte del protomartire Stefano e una lettera in latino del
presbitero Luciano, che le aveva scoperte. Dopo un breve soggiorno
presso Agostino a Ippona, Orosio cominciò il suo viaggio verso casa
ma, raggiunta Minorca, e venuto a sapere delle guerre e delle
devastazioni dei Vandali in Spagna, ritornò in Africa. Le reliquie
di santo Stefano che aveva lasciato a Minorca, divennero oggetto di
una venerazione che si diffuse in Gallia e in Spagna. Sulla
conversione di ebrei attraverso queste reliquie, cfr. Severo, "De
virtutibus ad conversionem Judaeorum in Minoricensi Insula factis",
(Patrologia Latina, XLI, 821-32). Orosio ritornò in Africa e, spinto
da Agostino, scrisse la prima storia universale cristiana: gli
"Historiarum adversus paganos libri septem", pensati
come un complemento a “La città di Dio” (De civitate Dei) del
maestro, in particolare al terzo libro, nel quale Agostino dimostra
che l'Impero romano soffriva di varie calamità tanto prima quanto
dopo l'affermarsi del Cristianesimo come religione ufficiale, contro
la tesi pagana secondo la quale l'aver abbandonato gli dei romani
era stata la causa delle calamità. Agostino voleva che ciò fosse
dimostrato in un'opera sé stante analizzando per intero la storia di
tutte le popolazioni dell'antichità, con l'idea fondamentale che Dio
determina i destini delle nazioni. In base alla sua teoria, due
imperi principalmente avevano governato il mondo: Babilonia a
est e Roma a ovest. Roma aveva ricevuto l'eredità di
Babilonia tramite gli imperi Macedone e poi Cartaginese.
Così sostiene che ci furono quattro grandi imperi nella storia:
un'idea ampiamente accettata nel Medioevo. Il primo libro descrive
brevemente il mondo e ne traccia la storia dal Diluvio alla
fondazione di Roma; il secondo fornisce la storia di Roma fino al
sacco della città a opera dei Galli, della Persia fino a Ciro II e
della Grecia fino alla battaglia di Cunassa; il terzo si occupa
principalmente dell'impero macedone sotto Alessandro Magno ed i suoi
successori, così come la storia romana contemporanea; il quarto
porta la storia di Roma fino alla distruzione di Cartagine; gli
ultimi tre libri trattano solo la storia romana, dalla distruzione di
Cartagine fino ai giorni dell'autore. Il lavoro, ultimato nel 418,
mostra i segni di una certa fretta. Oltre alle Sacre Scritture e alla
Cronica di Eusebio di Cesarea rivista da Girolamo, utilizzò come
fonti Livio, Eutropio, Cesare, Svetonio, Floro e Giustino.
Conformemente allo scopo apologetico, sono descritte tutte le
calamità sofferte dalle varie popolazioni. Sebbene superficiale e
frammentario, il lavoro è apprezzabile perché
contiene informazioni contemporanee sul periodo dopo il
378. Dopo il 418, anno di ultimazione della sua opera, di Orosio
non si hanno più notizie. Ampiamente utilizzata durante il Medioevo
come compendio, l'opera di Orosio è stata tramandata da quasi 200
manoscritti.
- gli "Aratea" è lo scritto più ampio (1878 esametri), una traduzione dei "Fenomeni" di Arato di Soli (in greco antico: Áratos ho Soleús; Soli in Cilicia, 315 a.C. circa - 240 a.C. circa, un poeta greco antico del primo ellenismo), considerata da alcuni l'opera più importante di Avieno. Essa ha un valore intrinseco, dal momento che è l'unica traduzione latina dell'opera di Arato pervenutaci completa. Anche Cicerone ne aveva improntata una, ma a noi ne sono giunti soltanto 480 versi. La traduzione di Avieno non è letterale: oltre ad una generale prolissità, infatti, l'autore apporta all'originale personali aggiunte, che paiono mostrare il suo desiderio di rivaleggiare nella composizione poetica con Germanico, il primo traduttore di Arato.
43. Ammiano Marcellino (in
latino: Ammianus Marcellinus; Antiochia di Siria, 330/332 circa -
Roma, dopo il 397/400) è stato uno storico romano
di età tardo-imperiale.
Carta delle sedi di papati e patriarcati cristiani, fra cui Antiochia. |
Sebbene nato in Siria nel seno di una
famiglia ellenofona, scrisse la sua opera interamente in latino. È
il maggiore degli storici romani del IV secolo
la cui opera sia stata preservata, seppure in parte. I suoi "Rerum
gestarum libri XXXI", o semplicemente "Res gestae", descrivono gli anni
che vanno dal 96 al 378, continuando l'opera del grande storico
Cornelio Tacito. « Queste vicende, da ex militare e da greco, ho
esposto secondo la misura delle mie forze, a partire dal principiato
dell'imperatore Nerva, fino alla morte di Valente; mai - credo -
scientemente ho osato corrompere con silenzi o menzogne la mia opera,
che fa professione di verità. Il resto lo scriva chi di me è più
bravo, nel fiore dell'età e della cultura. » (Ammiano Marcellino,
Rerum gestarum libri, XXXI, 16, 9). Non si conosce né la sua data di
nascita né quella di morte con precisione. Il suo luogo di nascita
fu quasi certamente la città di Antiochia, in Siria, anche se alcuni
storici, fra cui Charles W. Fornara, hanno recentemente avanzato dei
dubbi a tale proposito. Tali dubbi si fondano sulla supposizione che
le sue origini siano menzionate solo in una lettera inviatagli nel
392 dal suo concittadino Libanio che, secondo gli storici citati, non
era probabilmente diretta ad Ammiano Marcellino bensì ad altro
destinatario non ben identificato (anch'egli di nome Marcellino e
originario di Antiochia). La missiva in questione, che si è sempre
ritenuto indirizzata ad Ammiano, non è tuttavia l'unica prova del
suo luogo di origine, come hanno messo in evidenza John Matthews e
Guy Sabbah nel rispondere alle critiche cui si è fatto accenno.
Carriera
militare - «Militare e greco», si autodefinì Ammiano nelle sue
Storie, ma allo stesso tempo si sentì sempre e profondamente romano,
convinto come pochi altri della missione civilizzatrice di Roma e del
suo impero. Scrive di lui uno storico francese: «...Si forgiò
un'anima tutta romana, costituendosi, in qualche modo, difensore di
una civiltà che appariva tanto più preziosa quanto più si trovava
minacciata...». La sua iscrizione fra l'élite dei protectores
domestici mostra che era nobile di nascita. Entrò nell'esercito in
giovane età, sotto l'imperatore Costanzo II, e venne distaccato alle
dirette dipendenze di Ursicino, governatore di Nisibis nella
Mesopotamia romana e magister militum. Fu inviato in Italia
con Ursicino quando questi fu richiamato da Costanzo e lo accompagnò
nella spedizione contro Claudio Silvano, che era stato spinto, per
una ingiusta accusa dei suoi nemici, a proclamarsi imperatore in
Gallia. Con Ursicino si recò per due volte nell'Oriente romano ed a
malapena riuscì a fuggire, salvando la vita da Amida (la moderna
Diyarbakir in Turchia) allorché fu espugnata dal re persiano Sapore
II. Quando Ursicino perse, a seguito della caduta della città, il
proprio incarico ed il favore di Costanzo, sembra che Ammiano ne
abbia condiviso la caduta abbandonando l'esercito. Con l'ascesa al
potere di Giuliano, che egli stesso aveva precedentemente conosciuto
in Gallia nelle campagne contro gli Alamanni e che era succeduto a
Costanzo come imperatore, riacquistò tuttavia i propri gradi e
posizione. Prese parte al seguito di Giuliano, per il quale espresse
profonda ammirazione, alla tentata conquista della Persia sasanide e,
dopo la morte dell'imperatore, fu coinvolto nella ritirata di
Gioviano fino ad Antiochia.
Gli anni
romani - Lasciato definitivamente il servizio attivo nell'esercito
risedette in questa e in altre città dell'Oriente romano (fra cui,
per un breve periodo, anche ad Atene), fino a quando, attorno al 380,
si trasferì a Roma. Quivi trascorse il resto della sua esistenza,
occupandosi della redazione del proprio capolavoro (Res Gestae) e
della diffusione dei suoi contenuti mediante letture pubbliche, il
cui successo provocò l'ammirazione di Libanio che, nella già citata
epistola del 392, inviata da Antiochia, ebbe parole di elogio per lo
storico. Non si conosce con certezza né il luogo né l'anno della
morte di Ammiano. Secondo alcune fonti Ammiano sarebbe stato ancora
in vita nel 397, anno in cui, verosimilmente, terminò di scrivere le
Res Gestae, secondo altre, non sarebbe probabilmente deceduto prima
del 400.
Opera
letteraria - I libri della sua storia giunti fino a noi riguardano
gli anni 353 - 378 e costituiscono la fonte più affidabile ed
importante del periodo in essa esaminato. Tale opera, nota sia con il
titolo latino di "Res Gestae" (da non confondere tuttavia con le "Res
Gestae Divi Augusti") sia con quello di "Storie", fu scritta dopo il
trasferimento dello storico a Roma agli inizi degli anni ottanta del
IV secolo e divulgata tramite letture pubbliche nel decennio successivo. In essa venivano prese in esame
le vicende dell'impero romano dall'ascesa di Nerva (nel 96) alla morte di
Valente nella Battaglia di Adrianopoli (nel 378). Tale "Storia", nelle
intenzioni dell'autore, doveva costituire la continuazione del lavoro
portato a termine circa tre secoli prima da Tacito. Le "Rerum Gestarum Libri XXXI" si articolavano originalmente, come appare evidente dal
titolo, in trentuno libri, ma i primi tredici sono andati perduti. I
rimanenti diciotto libri riguardano il periodo compreso dal 353 al
378. Nell'insieme è stata ed è tuttora considerata un'opera di
eccezionale valore storico e documentario e un resoconto libero,
completo ed imparziale degli eventi, scritti da un protagonista
dotato di onestà intellettuale, preparazione militare, giudizio
indipendente e ampie letture. Gli studi recenti hanno anche messo in
luce la forza retorica della sua narrazione. Le "Storie" di
Ammiano, dato il periodo preso in esame, possono essere anche viste
come un lungo prologo alla narrazione della guerra contro i Goti,
culminata, nel 378, con la disastrosa sconfitta militare di
Adrianopoli subita dall'imperatore Valente, rimasto ucciso nel corso
della battaglia, che causò una profonda impressione nell'autore e in
tutto il mondo romano. Pochi decenni più tardi, dopo un'effimera
ripresa prodottasi durante il regno di Teodosio I (379-395) e l'età
di Stilicone (395-408), in Occidente sarebbe iniziato un processo di
smembramento irreversibile che avrebbe portato alla piena
indipendenza i vari stati indipendenti romano-germanici che si erano
andati costituendo al suo interno e che saranno all'origine
dell'Europa moderna, mentre in Oriente si sarebbe col tempo
sviluppato un impero romano-greco o bizantino. Ammiano ci descrive
una romanità ancora vigorosa e unitaria in cui egli stesso
continuava a riporre le proprie speranze ma in cui si intravvedevano
già i segni del futuro disfacimento: l'eccessiva pressione fiscale,
la decadenza economica e finanziaria delle classi medie e,
soprattutto, il declino progressivo dello spirito militare e
patriotico di un esercito costituito in gran parte da barbari.
Ammiano, profondo interprete dei suoi tempi, concentra la sua opera
intorno alla figura dell'imperatore e degli alti dignitari intorno a
lui: i funzionari, i generali, l'aristocrazia. Il popolo rimane sullo
sfondo ed è guardato con disprezzo. L'autorità dei potenti è
celebrata con venerazione quando si astiene dall'avversare i
privilegi dell'aristocrazia. Si rispecchia qui una società avviata
verso la scomparsa delle classi medie e con un popolo ridotto a
servitù della gleba (struttura che sarà caratteristica dell'Alto
Medioevo). La società rappresentata ha costumi barbarico-feudali,
dove dominano ferocia, violenza, malafede, tradimenti, agguati,
torture, delazione, sospetti, adulazioni e mormorazioni dei potenti
cortigiani, denunce degli agentes in rebus ("agenti in
missione", il servizio di spionaggio). In Ammiano gli uomini
sono soggetti ad impulsi irrazionali e mutevoli e tutti gli eventi
del mondo sono sotto il dominio dell'irrazionale, del magico, del
demoniaco, della magia, dell'astrologia. Egli accoglie altresì nella
sua opera dottrine che vanno dal fatalismo al neoplatonismo.
Critica
moderna - Lo storico del XVIII secolo, Edward Gibbon, ha così
giudicato Ammiano: « una guida esatta e degna di fede, che ha
composto la storia del suo tempo senza indulgere nei pregiudizi e
nelle passioni che affliggono solitamente la mente di un
contemporaneo » (Edward Gibbon, The History of the Decline and Fall
of the Roman Empire). Benché Ammiano fosse un pagano, nella sua
opera scrive del Cristianesimo senza alcuna animosità.
Particolarmente importante è la testimonianza che ci fornisce della
persecuzione dei cattolici da parte dell'imperatore Costanzo,
cristiano ma di confessione ariana, sia per i fatti narrati
sia per il ruolo di assoluto rilievo ricoperto dal vescovo di Roma
(all'epoca della persecuzione, papa Liberio). Il Papa veniva fin da
allora percepito dallo storico e dai suoi contemporanei come la
massima autorità ecclesiastica, sia nell'Occidente che nell'Oriente
romano. Lo stile di Ammiano, molto elaborato, spesso ricercato, e non
sempre di agevole interpretazione, presenta tuttavia, come si è già
accennato, un notevole vigore retorico e una grande espressività.
Dobbiamo a tale proposito ricordare che la sua opera era stata
progettata per una pubblica lettura e che questa richiedeva spesso
l'uso dei necessari abbellimenti retorici, anche a scapito, talvolta,
della linearità narrativa. Alcune costruzioni e locuzioni utilizzate
da Ammiano tradiscono inoltre lingua e formazione elleniche. Ammiano,
benché militare di carriera, è riuscito ad analizzare con notevole
spirito critico i problemi sociali ed economici che travagliavano il
mondo romano del tempo. Il suo approccio verso le popolazioni
non-Romane dell'impero è stato generalmente contraddistinto da
una maggiore tolleranza e flessibilità di quello di altri
storici che lo avevano preceduto. Di grande interesse risultano le
sue digressioni sui vari paesi visitati, sia come militare che come
privato cittadino, dopo aver lasciato, all'età di circa
quarant'anni, il servizio attivo nell'esercito.
44. Servio Mario Onorato, noto
anche come Deuteroservio o Servio Danielino (in latino:
Servius Marius Honoratus; fl. floruit, aveva 40 anni, alla fine del IV secolo; ... – ...), è
stato un grammatico e commentatore romano. È noto
anche come Deuteroservio o Servio
Danielino, da Pierre Daniel che lo pubblicò nel 1600. Compare
come uno degli interlocutori nell'opera "Saturnalia" di Macrobio.
Alcune allusioni presenti negli scritti e in una lettera di Quinto
Aurelio Simmaco indirizzata a Servio, confermano che era pagano.
Le sue opere sono state: "Commentarii in Vergilii Aeneidos libros", "Commentarii in Vergilii Bucolica" e "Commentarii in Vergilii Georgica".
Del commento alle opere di Virgilio esistono due tradizioni
manoscritte. Il primo è un commento relativamente breve e conciso,
attribuito a Servio Mario Onorato, ed è chiamato
"Servius Minor". A una seconda classe di manoscritti, del X
e XI secolo d.C., appartiene un altro commento, molto più esteso,
infatti le aggiunte sono abbondanti e in contrasto con lo stile di
Servio; l'autore è ignoto ma sicuramente cristiano. Questo secondo è
chiamato "Servio Auctus" o "Servius Danielinus"
da Pierre Daniel, che lo pubblicò nel 1600. Esiste una terza classe
di manoscritti, composti in Italia, derivati dai primi due, a
significare la diffusione di questi commenti. Per quanto riguarda il
"Servius Minor" è in effetti l'unica edizione completa
esistente di un autore classico scritto prima del
crollo dell'Impero in Occidente. È una vasta critica al testo
virgiliano, con critiche anche ai commentatori prima di lui (in un
certo qual modo ci fornisce il modo di pensare dei secoli
precedenti); non usa un linguaggio particolarmente elevato, ma è
colorito e fantasioso qualora si tratti di etimologie. Oltre
all'aspetto grammaticale, i commentari di Servio contengono
abbondante materiale storico, mitologico, religioso e
filosofico, la maggior parte del quale probabilmente è derivata da
fonti di scrittori anteriori, con cui la poesia di Virgilio viene
interpretata nei suoi molteplici aspetti, fra cui: Commentarius in artem Donati - Raccolta
di note grammaticali di Elio Donato; De centum metris ad Albinum - Un
trattato di diverse figure metriche, dedicato a Cecina Decio Albino;
De finalibus ad Aquilinum - Un trattato di metrica sui finali; De
metris Horatii ad Fortunatianum - Un trattato di metrica di Orazio;
Vita Vergilii.
Prisciano e la grammatica,
formella del Campanile di
Giotto, opera di Luca della
Robbia, 1437-1439, Firenze,
|
Carta dell'antica Asia minore con indicata la Cappadocia- |
Paolo Orosio, miniatura
del codice di Saint-Epvre
dell'XI sec., da https://it.wi
|
Pelagio, da https://commo ns.wikimedia.org/w/index. php?curid=3340151 |
La Tracia, provincia Romana, da: htt ps://upload.wikimedia.org/wikipedia/ commons/b/b1/Roman_provinces_ of_Illyricum%2C_Macedonia%2C_ Dacia%2C_Moesia%2C_Pannonia _and_Thracia.jpg |
L'impero di Attila nel 450, da: https://it.wikipedia.org /wiki/Battaglia_dei_Campi_Catalaunici#/med ia/File:450_roman-hunnic-empire_1764x1116.jpg |
Tra le figure occidentali, Prisco critica
il potente magister militum Ricimero. Sia alcune scelte
stilistiche, che l'uso di episodi di Erodoto, mostrano l'influenza
dello scrittore greco su Prisco; altra fonte riconosciuta, per lo
meno di alcuni modelli narrativi, è Tucidide. Non sono state
riconosciute altre fonti, né Prisco ne cita ulteriori, del resto
mostra di aver viaggiato molto e di aver consultato testimoni
oculari, oltre che di aver avuto la possibilità di consultare
documenti ufficiali. L'opera di Prisco, che non è citata da
Fozio, ebbe una notevole influenza sugli storici successivi.
Giordane, storico del VI secolo deve alcuni brani della sua De
origine actibusque Getarum ("Origine e gesta dei Goti")
a Prisco; considerando che rielabora materiale della perduta storia
dei Goti di Cassiodoro, è possibile che anche quest'ultimo
avesse utilizzato l'opera di Prisco. Sempre nel VI operarono Procopio
di Cesarea, che utilizzò Prisco come fonte per le sue Guerre, ed
Eustazio di Epifania, la cui cronaca, perduta, potrebbe aver
influenzato Evagrio Scolastico, autore della Storia
ecclesiastica, e Giovanni di Antiochia, di cui sono giunti
alcuni frammenti: tutti mostrano infatti influenze dei brani di
Prisco.
Cassiodoro, da: https://com mons.wikimedia.org/wiki/File :Nuremberg_chronicles_f_14 3v_3.jpg#mediaviewer/File: Nuremberg_chronicles_ f_143v_3.jpg |
Carta con l'ubicazione di Squillace Lido, nei cui pressi sorgeva l'antica Scolacium. |
Il pensiero politico - L'obiettivo
principale del progetto politico-culturale di Cassiodoro
fu quello di accreditare il regno teodericiano come una
restaurazione del Principato, ossia quella forma di governo che
aveva garantito la collaborazione, formalmente quasi paritaria, tra
l'imperatore e la classe senatoria. Questa autorappresentazione del
governo goto serviva in primo luogo come legittimazione del regno nei
confronti dell'Impero costantinopolitano. Sostanzialmente, essendosi
conformato il regime ostrogoto al modello imperiale, il primato
dell'imperatore orientale era fondato esclusivamente su un piano
carismatico (pulcherrimum decus). Al tempo stesso, tale
«imitazione» da parte di Teoderico poneva l'Amalo (gli Amali erano
una delle dinastie nobili dei Goti, considerati come i più valorosi
tra i guerrieri e i sovrani gotici. Stando ad una loro leggenda, gli
Amali discenderebbero da un antico eroe le cui gesta gli valsero il
titolo di Amala, ossia "potente"), in una posizione di
superiorità nei confronti degli altri regni barbarici attraverso: « ...un principio
politico-carismatico, basato su una gerarchia di due livelli
(l'impero e il regno di Teoderico, gli altri regni), con un vertice
binario e leggermente asimmetrico. Tra tutti gli altri dominantes,
Teoderico era il solo che, per volontà divina, aveva saputo dare al
suo regno gli stessi fondamenti etici e legali dell’imperium: il
suo regno era una replica perfetta del modello imitato e a sua volta
un modello. » (Andrea Giardina). La prospettiva di Cassiodoro, infatti,
non è più l'impero universale, bensì quella "nazionale"
dell'Italia romano-ostrogota, autonoma nei confronti di
Costantinopoli ed egemone rispetto agli altri regni occidentali,
sebbene siano state avanzate riserve circa la reale ambizione di
Teoderico di assumere l'eredità del decaduto Impero romano
d'Occidente. Il monastero di Vivario nacque con uno
scopo differente dal celebre Ora et labora: l'obiettivo
principale del nucleo monastico fu infatti la copiatura, la
conservazione, scrittura e studio dei volumi contenenti testi dei
classici e della patristica occidentale. La caratteristica di Vivarium era
quindi la sua forma di scriptorium, con le annesse
problematiche di rifornimento materiali, studio delle tecniche di
scrittura e fatiche economiche; i codici e manoscritti prodotti nel
monastero raggiunsero una certa popolarità e furono molto richiesti.
Le forme entro cui si espresse invece l'organizzazione monastica dal
punto di vista religioso sono ben poco chiare, né aiuta l'assenza di
riferimenti alla vicina esperienza di Benedetto da Norcia; forse
Cassiodoro non ne conobbe neppure l'esistenza, o potrebbe averne
parlato in opere non giunteci. Alcuni storici avanzano l'ipotesi che
la Regula magistri, su cui si basa la Regola benedettina, sia
addirittura opera dello stesso Cassiodoro; questo presunto rapporto
tra i due è però generalmente rigettato dagli studiosi, anche alla
luce di alcune citazioni provenienti dalle Institutiones che
chiariscono le norme monastiche adottate da Vivarium: « Voi tutti che vivete rinchiusi entro
le mura del monastero osservate, pertanto, sia le regole dei Padri
sia gli ordini del vostro superiore e portate a compimento volentieri
i comandi che vi vengono dati per la vostra salvezza... Prima di
tutto accogliete i pellegrini, fate l'elemosina, vestite gli ignudi,
spezzate il pane agli affamati, poiché si può dire veramente
consolato colui che consola i miseri. » (Cassiodoro, "Institutiones"). Questa citazione mostra come Vivarium
seguisse quindi le più comuni regole monastiche contemporanee,
mentre altri passaggi delle Institutiones ci suggeriscono un ruolo
laico per Cassiodoro, forse esterno alla vita monastica e puramente
patronale. Il vero centro vitale di Vivarium era, particolare che
segna la differenza con ogni altro centro monastico, la biblioteca;
Cassiodoro distingue inoltre i libri del monastero da quelli
personali, differenza poi scomparsa in un periodo successivo. « Era la biblioteca, infatti, come
centro di cultura di tutto il monastero, la novità del suo
programma, una biblioteca nata ed accresciuta secondo le intenzioni
del fondatore che dei suoi libri conosceva non solo la sistemazione,
perché l'aveva curata personalmente, ma anche i testi, perché li
aveva studiati, annotati, arricchiti di segni critici, riuniti
insieme secondo la materia in essi trattata e persino abbelliti
esteriormente. » (Mauro Donnini nella prefazione alle
Institutiones). Il monastero prendeva nome da una serie
di vivai di pesci fatti preparare dallo stesso Cassiodoro; la loro
presenza rappresentava un forte valore simbolico, legato al concetto
di Cristo come Ichthys. Non lontano dal centro si trovava una zona
per anacoreti, riservata a monaci con pregresse esperienze di vita
cenobitica. Vivarium sorgeva, secondo gli studi ad oggi compiuti,
nella contrada San Martino di Copanello, nei pressi del fiume Alessi;
in quella zona fu ritrovato un sarcofago datato VI secolo, associato
a graffiti devozionali e subito considerato la sepoltura originale di
Cassiodoro, ipotesi che non convince fino in fondo gli studiosi. Per
ciò che riguarda la ripartizione del lavoro, i monaci inadatti a
seguire la biblioteca con annessi oneri intellettuali erano destinati
alla coltivazioni di orti e campi, mentre i letterati si occupavano
dello studio delle Sacre Scritture e delle sette arti liberali;
quest'ultimi erano divisi in notarii, rilegatori e traduttori. Le
opere di carità erano espressamente raccomandate dal fondatore, e
legati a queste fiorivano gli studi di medicina. Importanti furono
gli studi sulle opere sacre: Cassiodoro fece preparare tre edizioni
differenti della Bibbia e si occupò di copiature e riscritture di
molti altri testi della cristianità, considerando tutto ciò una
vera e propria opera di predicazione. Non mancano però nella
biblioteca di Vivarium i testi profani: tra gli altri furono salvati
grazie all'opera di Cassiodoro le Antiquitates di Flavio Giuseppe e
l'Historia tripartita.
Opere - Le opere di Cassiodoro del
periodo di Teodorico, quelle da noi conosciute, sono tre: le
"Laudes", la "Chronica" e l'"Historia
Gothorum". Tra la produzione di Cassiodoro occupano un posto
speciale le "Variae", raccolta di documenti ufficiali
scritti tra il 537 ed il 540, i quali ci offrono quindi informazioni
su differenti periodi della vita dell'autore e sulla storia dei Goti; a queste si può aggiungere il "De Anima", opera per la
prima volta lontana da interessi politici e invece basata su temi
della spiritualità. Il terreno religioso è battuto anche
dalla successiva "Expositio Psalmorum", commento ai salmi
di particolare importanza poiché unico esempio pervenutoci dal mondo
tardo antico. Al periodo di Vivarium appartengono tra le opere a noi
giunte, le "Institutiones", le "Complexiones in
epistolas Beati Pauli" e le "Complexiones in epistolas
catholicas", le "Complexiones actuum apostolorum et in
Apocalypsi" e il "De ortographia".
Chronica - Uno scritto di chiari intenti politici è la "Chronica", una sorta di storia universale scritta nel 519 su richiesta per celebrare il consolato di Eutarico Cillica (diviso con l'Imperatore Giustino), genero di Teodorico e designato al trono. Il sovrano d'Italia non aveva eredi maschi mentre Eutarico, sposandone la figlia Amalasunta, era riuscito a donargli un nipote, Atalarico. Alla luce di questa nuova dinastia, la scelta di offrire il ruolo di console a Eutarico rappresentava quindi un importante evento politico: si trattava della celebrata unione tra i Romani ed i Goti, progetto che poi fallirà tragicamente. L'opera, che come comprensibile dal titolo ha chiari fini storici, propone una successione dei grandi poteri politici succedutisi nella storia, passando da Adamo sino ad approdare al 519 con Eutarico. È basata su numerose fonti che Cassiodoro spesso cita quali Eusebio, Gerolamo, Livio, Aufidio Basso, Vittorio Aquitano e Prospero d'Aquitania; per la trattazione successiva al 496 invece l'autore è autonomo. L'elemento dell'opera che maggiormente colpisce è il suo carattere spiccatamente filo-gotico: Cassiodoro arriva a manipolare alcuni eventi storici o a farne addirittura scomparire altri, al fine di non far apparire i Goti sotto un'oscura luce.
Chronica - Uno scritto di chiari intenti politici è la "Chronica", una sorta di storia universale scritta nel 519 su richiesta per celebrare il consolato di Eutarico Cillica (diviso con l'Imperatore Giustino), genero di Teodorico e designato al trono. Il sovrano d'Italia non aveva eredi maschi mentre Eutarico, sposandone la figlia Amalasunta, era riuscito a donargli un nipote, Atalarico. Alla luce di questa nuova dinastia, la scelta di offrire il ruolo di console a Eutarico rappresentava quindi un importante evento politico: si trattava della celebrata unione tra i Romani ed i Goti, progetto che poi fallirà tragicamente. L'opera, che come comprensibile dal titolo ha chiari fini storici, propone una successione dei grandi poteri politici succedutisi nella storia, passando da Adamo sino ad approdare al 519 con Eutarico. È basata su numerose fonti che Cassiodoro spesso cita quali Eusebio, Gerolamo, Livio, Aufidio Basso, Vittorio Aquitano e Prospero d'Aquitania; per la trattazione successiva al 496 invece l'autore è autonomo. L'elemento dell'opera che maggiormente colpisce è il suo carattere spiccatamente filo-gotico: Cassiodoro arriva a manipolare alcuni eventi storici o a farne addirittura scomparire altri, al fine di non far apparire i Goti sotto un'oscura luce.
Historia Gothorum - Una delle sue opere
più importanti fu il "De origine actibusque Getarum" (più noto come "Historia Gothorum") in 12 libri, nel quale la sua ideologia filo-gotica
era tracciata e sviluppata in maniera più organica. Si considera
l'opera contemporanea o poco successiva alla "Chronica", anche se più
studiosi tendono a ritenerla più recente, forse composta tra il 526
e il 533. Certamente la stesura fu caldeggiata da Teoderico, per
essere infine pubblicata sotto Atalarico; nonostante ciò essa ci è
pervenuta solo nella versione ridotta dello storico Giordane, i "Getica". Prima storia nazionale di un popolo
barbarico, la "Historia Gothorum" era tesa a glorificare la
dinastia degli Amali, la stirpe regnante, attraverso una
ricostruzione della storia dei Goti dalle origini ai tempi presenti.
Il tentativo più ardito dell'opera fu - come emerge dal titolo
stesso - l'identificazione dei Goti con i Geti, popolazione già nota
a Erodoto e maggiormente conosciuta dal mondo romano. Il racconto
narra eventi storici sino all'anno 551 e come scopo ha inoltre quello
di celebrare l'unione tra Goti e Romani, qui comprovata dal
matrimonio tra il romano Germano Giustino e l'amala Matasunta. Il
fine ultimo dell'opera lo svela, per bocca di Atalarico, Cassiodoro
stesso: « Questi [Cassiodoro] ha sottratto i re dei Goti al lungo
oblio in cui li aveva nascosti l'antichità. Questi ha ridato agli
Amali la gloria della loro stirpe, dimostrando chiaramente che noi
siamo stirpe regale da diciassette generazioni. L'origine dei Goti
egli ha reso storia romana, quasi raccogliendo in una corona fiori
prima sparsi qua e là nel campo dei libri. » (Cassiodoro, "Variae".)
49. Procopio di Cesarea (in
greco antico Prokópios ho-Kaisaréus; Cesarea marittima, 490 circa -
Costantinopoli, 560 circa) è stato uno storico
Romano-orientale (o bizantino).
Carta con Caesarea marittima. |
Cesarea marittima era la città
portuale fondata da Erode il Grande, tra il 25 e il 13 a.C., sulla
costa mediterranea del regno di Giudea durante il protettorato
romano, chiamata Cesarea in onore di Cesare Ottaviano Augusto, come
molte altre città dell'era romana, tra cui Cesarea di Filippo sulle
alture del Golan e Cesarea Mazaca in Cappadocia; la città era un
emporio commerciale dall'epoca dei Fenici. Storico,
militare e politico, l'ottica e la tecnica storiografica
di Procopio risultano di matrice fondamentalmente pagana,
utilizzando i modelli greci
e latini (Erodoto,
Tucidide, Livio, Tacito) che la storiografia cristiana-europea
riscoprirà solo nel Quattro e Cinquecento con gli umanisti. Le
sue opere, scritte in
greco, raccontano il periodo
dell'imperatore bizantino Giustiniano I, le sue guerre contro i
Vandali, i Persiani e gli Ostrogoti d'Italia (Guerra gotica), la
cronaca della vita politica alla corte di Costantinopoli e le
descrizioni delle opere edilizie effettuate da Giustiniano.
In
gioventù Procopio studiò
retorica, filosofia e diritto a Gaza e successivamente si trasferì a
Costantinopoli sotto il regno di Anastasio, esercitando la
professione di avvocato. Nel 527, quando il generale Belisario
divenne comandante delle truppe di Dara contro i Persiani, Procopio
venne nominato suo consigliere. In quanto consigliere e
segretario del celebre generale, prese parte alla guerra iberica
(526-532) contro i Sasanidi e alla guerra vandalica (533-534)
contro i Vandali.
Nel 534, in seguito alla conquista
dell'Africa, Procopio non seguì Belisario a Costantinopoli ma restò
in Africa alle dipendenze del magister militum e prefetto del
pretorio Salomone. Quando scoppiò una rivolta dell'esercito
africano, Salomone e Procopio furono costretti a fuggire in Sicilia,
da dove chiesero aiuto a Belisario, che aveva poco prima preso
l'isola ai Goti. Belisario, pur infliggendo una sconfitta ai ribelli,
non aveva ottenuto una vittoria definitiva su di loro e ben presto fu
costretto a ritornare in Sicilia. Procopio lo seguì divenendo di
nuovo suo segretario, e partecipando alle campagne condotte
contro i Goti (535-540). Ritornato a Costantinopoli con
Belisario nel 540, fu testimone oculare dell'epidemia di peste
che flagellò la capitale nel 542.
Nel 551 scrisse una "Storia delle
guerre" in sette libri che narra delle guerre di cui è stato per
molti fatti testimone diretto; un ottavo libro dell'opera, un
aggiornamento, uscì nel 553. L'opera di Procopio si rifà a
Tucidide, contiene vari aneddoti, presagi e digressioni sui luoghi in
cui si combattevano le guerre. Ebbe successo e sarà continuata da
Agazia Scolastico (che narrerà gli anni dal 552 al 559) e da
Menandro Protettore (dal 559 al 582). Nel libro I Procopio narra
anche la rivolta di Nika e la caduta in disgrazia di Giovanni
di Cappadocia, nonostante i primi due libri (La Guerra Persiana)
riguardassero le guerre romane contro la Persia Sasanide dal 502 al
551e le guerre precedenti a partire dal 395. I Libri III e IV narrano
invece le guerre vandaliche combattute in Africa contro i Vandali e i
Mauri. I primi capitoli del Libro III narrano le guerre precedenti al
regno di Giustiniano, quindi la conquista vandalica dell'Africa ad
opera di Genserico, il regno dei suoi successori e i tentativi dei
due imperi d'Occidente e d'Oriente di riconquistare l'Africa. Si
passa poi a narrare la conquista bizantina dell'Africa ad opera di
Belisario e le guerre dei Bizantini contro i Mauri, le popolazioni
del deserto. I Libri V, VI e VII riguardano invece la guerra gotica,
la guerra di Giustiniano condotta contro gli Ostrogoti che occupavano
l'Italia e la Dalmazia. I primi capitoli narrano brevemente sullo
stato dell'Italia prima della guerra gotica mentre si passa poi a
narrare la guerra gotica di Giustiniano. Importante è la descrizione
molto dettagliata di Procopio, testimone oculare, dell'assedio
di Roma ad opera dei Goti nel 537-538. Il libro VII
narra gli avvenimenti della guerra gotica dal 540 al 551. Nel libro
VIII, scritto solo nel 553, i primi capitoli sono dedicati alla
guerra lazica (combattuta tra l'Impero romano d'Oriente e i Sasanidi
per il controllo della regione della Lazica, corrispondente
all'odierna Georgia) dal 551 al 553 mentre quelli conclusivi parlano
della vittoriosa campagna di Narsete contro i Goti, grazie alla quale
l'Italia sarà annessa all'Impero. È stato osservato che i libri che
trattano gli eventi fino al 540 non contengono molte critiche
al governo di Giustiniano mentre invece quelli che trattano
eventi successivi contengono molte critiche celate al suo
governo (per esempio le iniquità di Bessa, Giovanni Tzibo e
Alessandro Forficula). Presumibilmente, secondo JB Bury, i libri che
parlano delle guerre prima del 540 furono scritti man mano che
Procopio viveva, in qualità di segretario di Belisario, quegli
avvenimenti, quando lo scrittore aveva ancora un giudizio abbastanza
positivo sul governo di Giustiniano; successivamente Procopio avrebbe
cambiato idea, forse in seguito a una mancata promozione o alle
sconfitte subite contro Cosroe e Totila, vedendo in Giustiniano la
causa di tutti i mali dell'Impero; questo si sarebbe riflettuto nelle
parti dell'opera che Procopio doveva ancora scrivere.
Su richiesta dell'Imperatore, Procopio
scrisse anche "Sugli Edifici", uno scritto encomiastico relativo
alle opere edilizie sorte per iniziativa di Giustiniano. Il libro I
descrive gli edifici fatti costruire da Giustiniano e Teodora nella
capitale, come la Chiesa di S. Sofia, le altre chiese, il palazzo, le
cisterne, il convento dove vennero recluse le prostitute costrette da
Giustiniano e Teodora a far penitenza per i loro passati peccati
ecc.. Il libro II descrive le fortificazioni fatte edificare o
rinforzare da Giustiniano in Oriente, come ad esempio la fortezza di
Dara. Il libro III descrive le fortificazioni fatte edificare o
rinforzare in Armenia. Il libro IV descrive le fortificazioni fatte
edificare o rinforzare in Europa. Il libro V descrive le
fortificazioni fatte edificare o rinforzare in Cilicia e in
Palestina. Il libro VI descrive le fortificazioni fatte edificare o
rinforzare in Africa. L'anno della composizione non è certo:
alcuni datano l'opera al 554, altri al 560. Una cosa degna di nota è
che Procopio sembra cambiare di nuovo idea su Giustiniano: se nelle
opere passate infatti lo criticava aspramente, giungendo persino al
libello, in questa opera lo loda come imperatore giusto e
caritatevole, sempre disposto a soddisfare le esigenze dei sudditi.
L'opera potrebbe essere stata commissionata da Giustiniano, con il
risultato che Procopio sarebbe stato "costretto" a parlar
bene di lui, oppure la sua opinione su quel principe potrebbe essere
effettivamente cambiata in seguito a una promozione o a un favore.
Frontespizio della
Storia segreta (1623),
da: QUI.
|
Procopio è stato autore inoltre di una "Storia
segreta" (in greco "Anékdota" e in latino "Arcana Historia"), un libello astioso contro Giustiniano e
Teodora venuto alla luce molti secoli dopo la morte dell'autore. È
un libello contro Giustiniano, Teodora, Belisario e Antonina. Nella
prefazione l'autore sostiene di averlo scritto per riferire di alcuni
fatti su cui dovette tacere nelle opere precedenti per paura di
essere assassinato da sicari di Giustiniano e Teodora e
per tramandare alle generazioni future le crudeltà
commesse dai suddetti. Era inteso per non essere pubblicato e
infatti si venne a conoscenza dell'esistenza di questa opera solo
alcuni secoli dopo la sua redazione. L'anno della scrittura dovrebbe
essere il 550. L'attendibilità dell'opera è stata messa in dubbio da
molti studiosi e Voltaire considerava l'opera una satira dettata
dall'odio che Procopio provava per l'Imperatore. Il
racconto, in vari episodi, pare deformato ed esagerato dall'astio che lo
scrittore provava per Giustiniano quantunque serbi un fondo di
verità, infatti in molti punti la narrazione è confermata da altre fonti primarie. In varie parti dell'opera Procopio
promette che avrebbe parlato successivamente delle iniquità di
Giustiniano contro la Chiesa romana ma dato che non se ne trova traccia nell'opera, forse aveva intenzione di scrivere una
storia ecclesiastica che per un motivo o per l'altro non poté
scrivere.
Interno di Santa Sofia a Costantinopoli (oggi Istanbul) |
Un libro di Giordane stampato recentemente. |
Opere - Scrisse
verso il 552 il "De origine actibusque Getarum", un
riassunto della perduta "Storia dei Goti" di Cassiodoro in dodici
libri, noto anche come "Getica", la cui prima edizione
critica fu pubblicata da Theodor Mommsen nei "Monumenta
Germaniae Historica". La maggiore differenza tra l'opera di
Giordane e quella di Cassiodoro sta nel fatto che il secondo scrisse
per glorificare Teodorico e la sua stirpe, mentre il primo, mostrando
la tradizione e la forza dei Goti, per accrescere la fama delle gesta
di Giustiniano I (527-565), loro vincitore. Altra opera di
Giordane è il "De summa temporum vel origine actibusque gentis
Romanorum", più noto come "Romana" (anch'essi editi
dal Mommsen), una storia universale, dalle origini (Adamo) al tempo presente
(547), con particolare attenzione al popolo romano. Come esplicitato
dall'autore, l'opera vuole essere, nella tradizione di Agostino, una storia dei dolori umani, al fine di spingere alla conversione. Molti storici
romeni e americani hanno sollevato diversi dubbi sull'attribuzione da
parte di Giordane delle notizie contenute nella sua opera sui Goti.
Secondo questi studiosi lo storico goto avrebbe attribuito ai Goti
notizie invece riferite ai Geti. Numerosi dati storici relativi ai
Geti, oltreché ai Daci, sarebbero stati erroneamente attribuiti ai
Goti.
I regni dei Franchi nel 561, con Neustria, Austrasia e Burgundia. Da: http://www.lionspalermodeivespri.it/ wordpress/wp-content/uploads/ 2017/10/Droysens-20c.jpg |
Il testo riporta in successione cinque
cronache:
1) il "Liber
generationis" di
Ippolito di Roma;
2) il "Cronaca"
di San Jérôme;
3) il "Cronache"
di Idazio e di Isidoro di Siviglia;
4) un compendio dei primi libri (sei
su dieci) della "Historia
Francorum" di
Gregorio di Tours in latino volgare, (che inizia il resoconto
con la Creazione e termina con i fatti del 584, anno dell'assassinio
di Childerico I avvenuto nel mese di settembre); a margine di questi
compaiono alcune altre informazioni come un elenco dei re e dei papi
e alcune leggende galliche precedenti a Gregorio di Tours;
5) la parte specifica della raccolta
che registra i fatti, anno per anno, a partire dal 584.
La prima parte si interrompe bruscamente dopo gli avvenimenti del 641
(quarto anno del regno di Clodoveo II), poi, successivi ai fatti del
642, quelli riportati dagli scritti di anonimo su istruzioni
del conte Childebrando, fratellastro di Carlo Martello, e di suo
figlio Nibelungo: "Liber historiae francorum". Le
cronache riguardano gli avvenimenti che si succedettero sotto
la dinastia Merovingia ed esprimono il punto di vista della
Neustria. Sono annotati i fatti fino al
736, poi fino al 751, e infine gli avvenimenti sotto il
governo di Pipino il Breve, figlio di Carlo Martello e padre di Carlo
Magno. Pipino aveva ereditato dal padre la carica di maggiordomo di
palazzo di Austrasia in cui, di fatto, esercitava il potere e divenne
re solo nel 751, dopo aver deposto Childerico III l'idiota, (714 -
755), con l'approvazione di papa Zaccaria. Le cronache cessano
nell'anno della morte di Pipino il Breve, nel 768.
Paolo diacono: da: http://commons. wikimedia.org/wiki/File:Paulus_ Diaconusjpg#mediaviewer/File: Paulus_Diaconus.jpg |
Carta con l'ubicazione di Cividale nel Friuli. |
Le sue opere - La sua prima opera fu un
"Carmen"
sulle sette età del mondo (A principio saeculorum) scritto per il
matrimonio di Adelperga, figlia del re Desiderio, sposata da Arechi
II nel 763, di cui Paolo Diacono era precettore. Lo stile che usò fu
quello dei tetrametri trocaici ritmici. Unendo le lettere iniziali
delle dodici terzine si ha "Adelperga
pia". Ad uso della sua allieva scrisse, verso
il 770, l'"Historia
Romana", in 16 libri,
rielaborando il "Breviarium
ab Urbe condita" di
Eutropio con integrazioni da San Girolamo, Paolo Orosio, Giordane e dall'"Origo gentis
Romanae", una breve compilazione letteraria di
carattere storiografico narrante le origini più remote, a cavallo
tra storia e mitologia, del popolo romano, partendo da Saturno e
finendo con Romolo. Paolo Diacono conclude la sua storia al tempo di Giustiniano, morto nel 565, ovvero al tempo dell'invasione
longobarda in Italia. Rielaborato a sua volta da Landolfo Sagace,
divenne un apprezzato manuale scolastico in uso nelle scuole
medievali. La "Historia
Langobardorum" in sei
libri, è un'opera scritta nello stile del latino monacale ma nei contenuti è passionalmente longobarda, dove giustifica ogni
azione ed ogni forma di conquista come prestabilite dal fato.
La strutturò come ideale continuazione della sua "Historia
Romana" dai tempi di
Giustiniano, imperatore dal 527, che si ferma a
Liutprando, morto nel 744. cristallizzata al massimo splendore della cultura langobarda ed omettendone la
decadenza. È un libro molto importante anche per lo studio della
storia degli sloveni poiché risulta la fonte storiografica più
antica che documenti l'arrivo delle popolazioni slave nella pianura
friulana attorno al 670. Per ottenere la liberazione del
fratello, scrisse in onore di Carlo Magno un'epistola metrica: "Ad
regem". Ottenne ciò
che chiedeva, ma come condizione dovette entrare a corte ad Aquisgrana, dove fu
fra i protagonisti della "rinascita Carolingia" con
Alcuino, monaco inglese. Sempre in Francia visitò molti monasteri,
compose le "Gesta
episcoporum Mettensium"
per il vescovo Angilramno di Metz nell'abbazia di San Martino, un
codice con lettere di Gregorio Magno per Adalardo di Corbie, oltre a
molte altre opere minori. Al ritorno a Montecassino scrisse la "Vita
beati Gregorii papae". Su richiesta di Carlo Magno raccolse le
prediche più celebri del suo tempo, 244 testi, un libro liturgico,
"Homiliarium",
diviso in due stagioni: l'estate e l'inverno. La sua opera arrivò
con poche modifiche fino al Concilio Vaticano II. Involontariamente fu stimolò di uno
dei progressi più importanti nella storia della musica, infatti
nell'XI secolo, Guido d'Arezzo ricavò le note musicali dalla prima
strofa di un suo inno dedicato a San Giovanni Battista, ricavandole
dal mezzo verso:
UT queant laxis
REsonare fibris
MIra gestorum
FAmuli tuorum,
SOLve polluti
LAbii reatum, Sancte Iohannes.
Le sei note dell'esacordo: ut, re, mi,
fa, sol, la.
54. La Suda o Suida è un lessico e un'enciclopedia storica del X secolo scritta in greco bizantino riguardante l'antico mondo mediterraneo. Contiene 30.000 voci, tratte da molte fonti antiche oggi andate perdute, ordinate alfabeticamente e attinenti a molte discipline: geografia, storia, letteratura, filosofia, scienze, grammatica, usi e costumi. La denominazione Suda potrebbe derivare dal greco suda, che significa "fortezza". Secondo numerosi studiosi, tuttavia, la forma Suda sarebbe una corruzione di Suidas, ovvero il nome dell'autore dell'enciclopedia, che peraltro ricorre nella prefazione. Sebbene l'opera sia stata molto interpolata e il valore delle voci sia molto vario, contiene molte informazioni sulla storia e la vita antiche che sarebbero andate altrimenti perse. Il documento contiene la prima menzione dei romeni (valacchi) a nord del Danubio, sotto l'etnonimo de "i Daci". Non si sa molto della compilazione di quest'opera, a parte il fatto che deve essere stata terminata prima di Eustazio di Tessalonica (XII secolo), che l'ha adoperata frequentemente. Sembra che la compilazione sia da far risalire alla parte finale del X secolo: sotto la voce "Adamo", l'autore dell'enciclopedia dà una breve cronologia del mondo, che termina con la morte dell'imperatore Giovanni I Zimisce (morto nel 976), mentre sotto la voce "Costantinopoli" appaiono i suoi successori Basilio II e Costantino VIII (asceso nel 1025). I passaggi che si riferiscono a Michele Psello (XI secolo) sembrano interpolazioni posteriori. Fonte importantissima per la conoscenza dell'antica storia letteraria greca, conserva preziose notizie su opere andate perdute o conservate parzialmente. Tra le sue fonti sono poeti antichi (Omero, Sofocle, Aristofane ecc.), ed eruditi (Esichio di Mileto, Arpocrazione, Costantino Porfirogenito ecc.), attinti attraverso commenti e antologie. La parte che tratta della storia della letteratura classica è spesso l'unica fonte a nostra disposizione sugli autori e le opere del tempo. Con i Deipnosophistai, la compilazione di Dionigi di Alicarnasso, le opere di Plutarco e Diogene, il Marmor Parium e la Biblioteca di Fozio costituisce la spina dorsale degli studi sull'universo dei classici greci.
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Per "1992: Il meccanismo politico-economico che ha causato la formazione di questa UE con la conseguente
perdita della sovranità italiana" clicca QUI
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Edizione moderna della Suda. |
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