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sabato 16 maggio 2015

Evidenze storiche nel mito della fondazione di Roma

Carta del Latio Vetus, il Lazio Antico,
con i primi insediamenti dei Latini.
È comprensibile come gli antichi storici romani o filo-romani, per motivi vari, compresi gli stimoli da parte dei "poteri forti" romani stessi, si sforzassero di nobilitare la stirpe latino-romana facendola derivare da quella greca, che con l'originalità e la profondità delle speculazioni mentali di molti suoi esponenti, aveva aperto la strada al pensiero filosofico e scientifico e a una nuova visione degli ordinamenti sociali e della politica più in generale, per non parlare dell'eccellenza delle sue manifestazioni artistiche, con letteratura, architettura, scultura e teatro per prime; ma per quanto siano comprensibili quegli sforzi, non è detto che quelle ipotesi siano attendibili.

Per avere un'idea di come doveva essere la composizione etnica delle popolazioni stanziate nel centro italico ai tempi della fondazione di Roma, inizio col segnalare quali genti fossero già stanziate nella penisola e quali arrivarono invece a partire dal XV secolo prima dell'era volgare (a.C.), proprio quando le genti indoeuropee che sarebbero poi divenute i Latini, muovevano verso la nostra penisola dal nord-est europeo.

Da wikipedia: i Latini scesero in Italia nel corso del II millennio a.C., provenienti forse dall'Europa centrale danubiana, mentre secondo la storiografia greco-romana sarebbero venuti dall'Asia minore e c'è anche chi teorizza una loro origine autoctona. La ricerca moderna si è trovata in sostanziale accordo con quanto sostenuto già dalla storiografia latina: i Latini condividono con i Veneti una comune origine protostorica, anche se non attraverso quel comune legame con l'Antica Grecia (e con Troia in particolare) postulato dai Romani mediante il mito di Antenore. L'insieme indoeuropeo veneto-latino si era formato come gruppo a sé in un'area dell'Europa centrale, probabilmente ubicato entro i confini dell'odierna Germania e che faceva parte delle popolazioni indoeuropee stanziatesi nell'Europa centro-orientale fin dagli inizi del III millennio a.C. I gruppi di genti che originarono poi i Veneti e i Latini mossero verso sud dal centro-europa probabilmente intorno al XV secolo a.C.; mentre una parte di queste genti proseguì fino all'odierno Lazio (i Latini), il gruppo che avrebbe dato origine ai Veneti si insediò a nord del Golfo di Venezia e lì si attestò definitivamente. Secondo questa ipotesi quindi, gli antichi Veneti o Venetici non avevano avuto legami con popolazioni illiriche ne tantomeno una discendenza da esse, come supposto da alcuni, anche se successivamente al loro stanziamento nel Veneto dovettero giocoforza rapportarsi con le popolazioni vicine, genti illiriche incluse. La migrazione Latina avvenne via terra, seguendo il percorso naturale dato dalla dorsale appenninica da nord a sud, seguendo il versante occidentale della penisola. Secondo l'ipotesi di Mommsen, la migrazione del gruppo Latino avrebbe prodotto stanziamenti che si estendevano dal Lazio fino all'attuale Calabria. (Christian Matthias Theodor Mommsen, 1817 - 1903, è stato uno storico, numismatico, giurista, epigrafista e studioso tedesco, generalmente considerato il più grande classicista del XIX secolo: il suo studio della storia romana è ancora di importanza fondamentale nella ricerca contemporanea). Anche le altre popolazioni italiche di epoca storica, quali Umbri, Volsci, Sanniti, Marsi e Sabini, appartenevano al gruppo di popolazioni indoeuropee stanziatesi in Italia a seguito di migrazioni via terra, lungo la dorsale appenninica, seguendo un percorso da nord a sud, successive a quella dei Latini. In seguito ai successivi arrivi di Greci (gruppi di Achei, esponenti della civiltà micenea, comparvero sul suolo italico fra il 1.450 e il 1200 a.e.v./a.C.) e Sanniti, la presenza delle popolazioni Latine si sarebbe contratta, fino a coincidere con il Lazio Antico. I Latini originarono poi il popolo romano.

L'archeologia rileva che nel periodo dal X al VIII secolo a.C., il territorio a sud del Tevere era caratterizzato dalla cosiddetta facies laziale o cultura laziale, dopo la precedente cultura proto-villanoviana (collegabile con la civiltà di origine indoeuropea dei campi di urne dell'Europa centrale), che interessò l'area tirrenica della Toscana e del Lazio fra il XII e il X secolo a.C., sovrapponendosi alla cultura appenninica (ligure  N.d.R.) che dominava la regione nei secoli precedenti. Alla cultura laziale viene associata la formazione dell'ethnos (gruppo umano) latino, che sul finire del secondo millennio a.C. si era già già costituito in una serie di comunità (menzionate da Plinio il Vecchio) che avevano come centro principale Alba «Longa». Albalonga (nei pressi del Monte Albano e del lago Albano), secondo il mito, fu fondata dal figlio di Enea, Ascanio (o Julo), e fu eretto un santuario federale dedicato a Giove Laziale (Strabone, "Geografia" V, 3, 2). La fondazione di Albalonga, secondo la tradizione che vuol essere storia, così è descritta da Dionigi di Alicarnasso (60 a.e.v./a.C. circa - 7 a.e.v./a.C.): « Nel trentesimo anno dopo fondata Lavinio, Ascanio, figlio di Enea, fondò un'altra città; e dai Laurentini e da altri Latini e da quanti altri desideravano una sede migliore, trasportò gente nella città recentemente costrutta, cui aveva posto nome "Alba", la quale in lingua greca (λευκή) significa "bianco" ma per distinguerla da altra città che aveva lo stesso nome, vi aggiunse una parola, che con la prima forma un insieme, "Alba Longa", cioè, Λευκή μακρά ("bianco lungo" in italiano) » (Dionigi di Alicarnasso, I, 66). Questo resoconto sull'origine del toponimo costituente il nome Alba lascia piuttosto perplessi! Intanto in greco il suffisso "alb" significa "camice" ed inoltre non si capisce quale fosse l'altra "Alba" e dove sorgesse; Dionigi non lo dice, né adduce il motivo per il quale la nuova sia detta "Longa". Alba Fucens, segnalata nella carta del Lazio antico qui sopra come Alba, fu fondata da Roma come colonia di diritto latino solo nel 304/303 a.e.v./a.C. Per quanto molti studiosi pensassero che il toponimo "Alba", assai diffuso nel mondo latino, derivi da una comune radice indoeuropea che significa "altura", ma anche "bianco", e secondo Olstenio (Luca Olstenio, in lingua tedesca Lukas Holste, latinizzato in Lucas Holstenius; 1592 - 1662, umanista, geografo e storico tedesco di religione cattolica) il nome deriverebbe "dal campo all'intorno, sparso e pieno di sassi bianchi", oggi invece, sulla base anche di antiche fonti storiche, si è convinti che il nome abbia una diversa origine, ne latina ne indoeuropea. Tito Livio (59 a.e.v. - 17 e.v.) infatti, scrive: « is Ascanius, ubicumque et quacumque matre genitus - certe natum Aenea constat - abundante Lavini multitudine florentem iam, ut tum res erant, atque opulentam urbem matri seu novercae relinquit, novam ipse aliam sub Albano monte condidit, quae ab situ porrectae in dorso urbis Longa Alba appellata est » (Livio, I, 3), che grosso modo significa: « Questo Ascanio, di dove o di quale madre - certamente figlio di Enea - della città di Lavinium, in cui fioriva una numerosa popolazione, che era stata per lui una madre, divenne matrigna e lui lasciò una città prospera e ricca per fondare una nuova città che si estendeva al di sotto del monte Albano, chiamata Alba Longa ». Qui c'è da osservare che la città si fondava sub monte Albano, e vuol dire che già il toponimo "Alb" apparteneva al nome di questo monte, così come probabilmente anche il lago a valle del monte si chiamava già Albano. Per "Elenco degli storici antichi dell'Occidente" clicca QUI.

Wolfgang Helbig (1839 - 1915) in "Die Italiker in Der Poebene" del 1879 scriveva: «Il nome di Alba s'incontra spesso in Liguria. Un luogo di questo nome trovasi a occidente del Rodano nel territorio degli Elvii. A settentrione di Massalia (Marsiglia) conosciamo una popolazione montana ligure degli "Aλβιείς", Albienses o Albiei, e nel suo territorio sorge Alba Augusta. Seguono in direzione orientale sulle coste italiane Albium Intemelium (Ventimiglia), Albium Ingaunum (Albenga), Alba Decitia. Non lontana dal versante settentrionale degli Appennini trovasi sul Tanaro Alba Pompeia (Alba in Piemonte). Da ciò viene il quesito, se non sia la stessa voce ligure contenuta nel nome di Alba Longa. Al tentativo di spiegare questo nome con l'aggettivo latino "albus" (e cioè bianco, in latino, N.d.R.), contraddice non solo che da qualche attributo non si sia mai formato un nome di luogo, ma anche la considerazione che l'aspetto di Alba Longa debba destare una impressione opposta all'aggettivo latino (bianco). Questo luogo è collocato sopra materiali vulcanici dei monti Albani, e il colore fondamentale della regione è grigio scuro.». Giuseppe Sergi, (1841 - 1936, antropologo siciliano) facendo riferimento alle affermazioni di W. Helbig sulla strana natura del nome "Alba Longa", passa ad osservare i suoi derivati e si sofferma su "Albula", antico e primitivo nome del Tevere, come Livio, Plinio e Virgilio (Albula nomen) scrissero. Si conclude che il nome non può aver a che fare con la colorazione in quanto Virgilio stesso chiama flavus (giallo) il Tevere, perché trasporta sabbia, poi ancora lo chiama "caeruleus", "ceruleo", e anche Orazio lo chiama flavum. Esiste un altro fiume Albula nel Piceno, ricordato da Plinio nell'enumerare abitati e fiumi della quinta regione italica, il Piceno; e nomina anche fra altre città "Numana", a Siculis condita (fondata dai Siculi). Ciò significa che la regione era occupata dai Siculi, i quali diedero i nomi dei fiumi e degli abitati secondo il loro linguaggio. Poi ancora abbiamo Albinia, nell'Argentario, territorio che dall'occupazione ligure passò poi agli Etruschi, un monte Alburnus in Lucania, un fiume Alba in Sicilia, ricordato da Diodoro Siculo; oltre alle varie Alba Pompeia in Piemonte e Alba Decitia, oltre ad Albium o Album o Alba Ingaunum e Alba Intemelium, (Albenga da Albium Ingauna e Ventimiglia da Albium Intemelia) in Liguria; la tribù degli Albiei (Albleis) situata a nord di Marsiglia e Alba nella Provenza; Alba nella Betica in Spagna e Alba, fiume a nord-est della Spagna.

Quale fosse il linguaggio degli antichi Liguri e Siculi non lo sappiamo con precisione, poiché non adottarono la scrittura, ma sicuramente usavano largamente il toponomo "Alb" e presumibilmente la famiglia toponimica paleoligure di Alba si connetteva a idronimi paleoeuropei di "Alb-" e, apofonicamente, al tipo "Olb-" (anche "Orb-" in Liguria). Giovanni Semerano (1911 - 2005, bibliotecario, filologo e linguista, studioso delle antiche lingue), tra gli altri sostenitori dell’origine della radice "alb" da una famiglia linguistica non indoeuropea (nella teoria dell’Autore questo è postulato per definizione, dato che viene rifiutata l’esistenza stessa dell’indoeuropeo), propone una derivazione dall’antichissima voce accadica "alpium" a sua volta dal sumerico "albia" = "sorgente", "massa d'acqua", "cavità d'acqua". Questa forma si sarebbe poi trasferita nel sistema toponimico delle lingue indoeuropee mantenendosi immutata nella radice "alb" ed è ulteriormente analizzabile come ampliamento della radice protoindoeuropea "Hal-" = "nutrire". Simile diffusione ha la base indoeuropea "HwaH-r-" = "acqua". Non sorprende quindi il ricordo di Strabone (prima del 60 a.C. - 21/24 d.C.), che le Alpi prima avevano il nome di Albia, e Albius mons era detta la sommità delle Alpi Giulie: con i loro ghiacci erano effettivamente grandi sorgenti d'acqua. La radice "albh" è la base dell'idronimo paleoeuropeo Albis, il nome del fiume Elba in Germania. Olbia, la più antica colonia di Mileto, sul Mar Nero, ad esempio, ebbe come nome epicorico Olbia (senza varianti), derivato dalla radice "albh" con apofonia vocalica della "a" iniziale nel grado atimbro "o" (il radicale "olbh" è equivalente sul piano lessicale e derivato a livello morfofonologico dalla base "albh") e Olbia si ritrova, come toponimo, anche in Britannia, sulla destra del fiume Bug (in Ucraina), in Provenza, in Sardegna, in Licia e altrove, a latitudini molto differenti. Albiōn, il nome di origine ancestrale della Britannia, denota la grande isola sulla Manica, un luogo sull’acqua e circondato dall’acqua.

Giuseppe Sergi si chiese quindi se Alba Longa non fosse stata fondata da genti sicule o liguri. Effettivamente le antiche genti liguri abitarono gran parte dell’Italia per essere poi, col tempo, private di molti territori dall’avvento di nuovi popoli. Tribù di Liguri erano stanziate in Veneto (come gli antichi Euganei, Camuni, Trunplini, Stoni e gli antichi Leponzi, prima di "celtizzarsi", parlavano una forma di ligure arcaico, come si può rilevare dalle loro più antiche iscrizioni. ), prima dell'arrivo dei Veneti arcaici, che arrivarono nella penisola italica insieme ai Latini, così come popolazioni erano stanziate sugli appennini, dai settentrionali a quelli centrali. Servio M. Onorato Grammatico (IV secolo) estende il territorio delle genti liguri sino alla riva sinistra del Tevere, e anche lui sostenne come l’antico nome del fiume, Albula, così come quello della città di Alba Longa, progenitrice di Romolo e Remo, derivassero dalla lingua ligure, così come la tribù degli Albiei (Albleis) situata a nord di Marsiglia e le città di Alba Augusta, Alba Intemelium, Alba Ingaunum, Alba Decitia, Alba Pompeia, ecc. ecc.

Nel Lazio non c'è stata una tradizione che ricordasse l'antico stanziamento di Liguri, ma di Siculi sì.
Carta del Lazio antico con Albalonga e Lavinium
Riportava Dionigi di Alicarnasso: « La città che dominò in terra e per tutto il mare, e che ora abitano i Romani, secondo quanto viene ricordato, dicesi tenessero gli antichissimi barbari Siculi, stirpe indigena; questi occuparono molte altre regioni d'Italia, e lasciarono sino ai nostri giorni documenti non pochi nè oscuri, e fra questi alcuni nomi detti Siculi, indicanti le loro antiche abitazioni » (Dionigi di Alicarnasso I, 9; II, 1, da una traduzione del Sergi stesso) ed inoltre un quartiere di Tivoli, che ancor oggi conserva il nome di Siciliano, avrebbe ospitato dei Siculi ancora al tempo di Dionigi.

Esaminando i caratteri fisici dei Liguri e dei Siculi, Sergi avrebbe stabilito la loro identità: anche da ricordi archeologici risulta esservi stato un simile comune costume funerario; lo scheletro neolitico di Sgurgola presso Anagni era colorato in rosso come gli scheletri neolitici delle Arene Candide di Finale Ligure, (e dei Balzi Rossi, N.d.R.) grotte liguri. Liguri e Siculi sarebbero stati quindi due rami dello stesso ceppo umano solo che, avendo differenti abitati e avendo avuto diversi condottieri, sarebbero stati erroneamente considerati come due razze diverse. La teoria è quindi che quando si parli di questi antichissimi barbari Siculi, primi abitatori della città che poi fu Roma, si tratti di una popolazione ligure chiamata sicula poiché condotta da Siculo, o Sikelòs. Troviamo effettivamente un riscontro di questa affermazione in Filisto di Siracusa, riportato da Dionigi di Alicarnasso, il quale sostiene come la popolazione che passò dall'Italia in Sicilia, i Siculi, fossero Liguri, così definiti poiché condotti da Siculo. Servio scrive che la città denominata "Laurolavinia", composizione dei nomi delle due città di Laurentum e Lavinium che si fusero, sorse dove già abitava Siculos (Sikelòs). Nel Lazio e in altre regioni d'Italia questa identità di razza dei Siculi con i Liguri è rivelata anche dalla similitudine dei toponimi nei nomi dei luoghi, monti, fiumi, laghi. Dionigi, che già aveva scritto come i Siculi fossero i più antichi abitanti dei luoghi su cui poi sorse Roma e del territorio latino, narra che i primi aggressori del loro abitato, con una lunga guerra, furono i cosiddetti Aborigini, (coloro che lui credeva gli aborigeni italici) che avevano chiamato in loro aiuto i Pelasgi. Questi non riuscirono a sconfiggere totalmente i Liguri-Siculi, i quali però, secondo quanto ci riferisce Ellanico Lebio in Dionigi, infine, stanchi delle aggressioni o non potendo resistere ad esse, avrebbero lasciato il territorio e sarebbero migrati, passando per l'Italia Meridionale, in Sicilia, che da loro avrebbe preso il nome. Non tutti i Liguri-Siculi avrebbero seguito Siculo in Sicilia e sarebbe per questo motivo che si riscontrano tracce liguri-sicule anche altrove.

Possiamo quindi supporre che le popolazioni stanziate nel Lazio e proprio nell'area dove verrà poi fondata Roma, nel XIV secolo a.C., prima dell'arrivo dei Latini, fossero Liguri. I Liguri avevano avuto anche il controllo della Toscana, dell'Umbria (loro erano state Cere, Pisa, Saturnia, Alsio, Faleri, Fescennio) e delle Marche, in cui avevano fondato Numana e Ancona. Questi Liguri erano denominati Siculi, dal nome di un loro capotribù, Siculo o Siculos o Sikelòs, e potrebbe trattarsi dei Šekeleš, uno dei popoli del Mare, che nel nome ricordano appunto il termine greco Sikelioi per identificare i Siculi: questo popolo di pirati/invasori, coalizzato con altri Popoli del Mare, fu sconfitto e ricacciato dall’Egitto nel 1176 a.C. dal Faraone Ramses III ("Storica" del National Geographic, numero 42, agosto 2012, pagg. 45-56).
Carta con le espansioni dei Liguri in Iberia e nell'Italia
centrale e meridionale fino alla Sicilia nel XIII sec. a.C.
Dionigi di Alicarnasso, storico greco del I secolo a.C., nelle sue "Antichità romane" scrive dei Siculi come della prima popolazione che abitò la zona dove poi sorse Roma, e il loro confine territoriale a sud arrivava presso il fiume Salso, in Sicilia, dove rimase fino all'arrivo dei Greci e aggiunge, a proposito degli aborigeni italici, l'opinione di alcuni secondo i quali i Siculi sarebbero stati coloni di stirpe ligure, definendo i Liguri "vicini degli Umbri", riportando che abiterebbero "molte parti dell'Italia e alcune parti della Gallia", ma di cui non si conosce il luogo d'origine. Riferisce inoltre dei versi del "Trittolemo" di Sofocle che enumera i Liguri lungo la costa tirrenica a nord dei Tirreni (il nome per Etruschi usato dai greci) e ancora riprende la notizia di Tucidide, che riferisce come i Sicani, popolazione stanziata alla foce del fiume Sicano (l'attuale Jucar), nella penisola iberica, furono scacciati dai Liguri, cosicché questi si rifugiarono in Sicilia, che da loro prese il nome di Sicania, così come è chiamata anche nell'Odissea. Anche i Sicani sono ricordati nel Lazio (l'antico Latium vetus), in "Solinosia" di Plinio il Vecchio, dove i Sicani sono considerati popoli della lega del Monte Albano. Questi stessi Sicani  sono ricordati nell'Eneide di Virgilio come alleati dei Rutuli, degli Aurunci, dei Sacrani e Aulo Gellio e Macrobio li ricordano con gli Aurunci ed i Pelasgi. Varrone, nel "De lingua latina", considerava i Siculi originari di Roma perché numerose erano le somiglianze tra la lingua loro e quella latina. Servio considerava addirittura i Siculi giunti dalla Sicilia a Roma, e cioè proprio al contrario di tutte le altre testimonianze. Invece Festo fa i Siculi respinti dai Sacrani o Sabini insieme con i Liguri. Infine Solino li considera tra le più antiche popolazioni dell'Italia con gli Aborigeni, gli Aurunci, i Pelasgi e gli Arcadi. Un'altra tradizione sull'origine ligure dei Siculi si ritrova in Stefano di Bisanzio, in cui si cita un passo di Ellanico di Mitilene, e anche in Silio Italico i Siculi sono considerati Liguri. In seguito a queste affermazioni si è rilevata dagli storici moderni la presenza di nomi di città come Erice, Segesta ed Entella in Liguria. Anche secondo Filisto da Siracusa, gli stessi Siculi sarebbero stati Liguri, cacciati dal Lazio dagli Umbri e dai Pelasgi e passati in Sicilia sotto la guida di Siculo, ottant'anni prima della guerra di Troia (quindi intorno al 1.270 a.C.).

A quanto pare quindi, i Liguri occupavano gran parte della penisola italica. L'accettazione di una matrice linguistica Ligure nell'Italia settentrionale non è sorprendente, visto che fin dall'antichità nel settentrione italico erano insediate popolazioni di etnia Ligure.
Da http://menhir-ticino.webs.com/alfabetoliticolugano.htm : "La lingua Lepontica è conosciuta solo attraverso alcune iscrizioni che furono redatte nell'alfabeto di Lugano, e il termine convenzionalmente usato, "Lepontico", è stato esteso ad indicare la lingua e l'alfabeto delle iscrizioni preromane ritrovate in un raggio di circa 50 Km. intorno a Lugano (nello svizzero Canton Ticino e in Lombardia).
Sulla base di questi segni alfabetici, gli studiosi sanno che i Leponzi parlavano un una lingua molto antica, risalente al proto-celtico-italico. La scrittura lepontica poteva essere scritta sia da sinistra a destra, sia da destra a sinistra e le più antiche iscrizioni lepontiche vengono considerate scritte in una lingua non-celtica affine al ligure (Joshua Whatmough in "The Prae-Italic dialects of Italy" del 1937 e Vittore Pisani in "Lingue preromane d'Italia: origini e fortune" del 1978). Recenti studi effettuati sui caratteri definiti come "alfabeto di Lugano", hanno confermato tali opinioni in merito alle origini della lingua scritta lepontica, interpretando alcune parole e frasi con la fonetica del linguaggio dei ligürü (liguri), coloro che si esprimevano in una lingua comune risalente al proto-iberico centrale, e sia la fonetica che la scrittura erano espresse dall'alfabeto tartessico, che ha influenzato il landocchiano (la langue d'oc n.d.r.), il catalano, il provenzale e il proto-celtico dell'Italia settentrionale, espandedosi poi, sempre secondo alcuni studiosi, fino ad influenzare il lepontico, il runico, il retico e il nord-etrusco.".

Oggigiorno gli abitanti di Sanremo, in Liguria, sono genericamente chiamati sanremesi, ma coloro che sono nativi della città da generazioni sono qui definiti sanremaschi, viene quindi usato il caratteristico suffisso ligure -asco, largamente presente in Lombardia, per cui, ad esempio, gli abitanti di Bergamo non sono i bergamesi ma i bergamaschi, così come i comaschi ecc. Naturalmente troviamo lo stesso suffisso in innumerevoli nomi di località (Giubilasco ecc.). Questa è una prova del retaggio ligure insito ancora oggi nel linguaggio lombardo. Pare infatti che in tempi storici tutta l'Europa occidentale e l'Italia fossero percorse da popolazioni Liguri.
Gli Euganei, ad esempio, furono una popolazione italica, ligure e preindoeuropea, che si insediò originariamente nella regione compresa fra il Mare Adriatico e le Alpi Retiche. Successivamente furono scacciati dai popoli Venetici e si ritirarono in un territorio compreso tra il fiume Adige ed il Lago di Como, dove rimasero fino alla prima età imperiale romana. Si trattava probabilmente di un popolo preindoeuropeo di stirpe affine a quella dei Liguri Ingauni, come testimoniato dall'analogia dei nomi. Si dedicavano alla raccolta e alla caccia ed erano nomadi. Scoprirono poi l'agricoltura e l'allevamento diventando sedentari e costruendo villaggi di capanne e palafitte, radunandosi in tribù. Già nei tempi antichi conoscevano l'uso dei metalli. Testimonianze apprezzabili risalgono al neolitico indicando una società piuttosto primitiva: tracce di abitazioni, ma soprattutto manufatti di osso, selce e vasi di terracotta ad uso religioso. Gli insediamenti principali sono stati ritrovati sulle colline vicine a Padova; scendevano in pianura per celebrare riti religiosi, in particolare in prossimità delle sorgenti termali dove adoravano varie divinità, fra cui forse il dio Apono, più tardi entrato a far parte dei culti delle popolazioni Venetiche. Ad essi si deve il termine "Venezia Euganea" usato in passato per definire la regione Veneto. Quando i Veneti raggiunsero il loro territorio fra il XII e l'XI secolo avanti Cristo, provenienti da un'imprecisata regione dell'Europa orientale, in parte spostarono verso Ovest gli Euganei ed in parte li assorbirono fondendosi con loro. Nel II secolo a.C. vennero sottomessi dai Romani e si fusero con i popoli vicini. Catone il Censore, nel libro perduto delle "Origines", annoverava tra le maggiori tribù euganee i Triumplini della Val Trompia ed i Camuni della Val Camonica. Appartengono alla stessa stirpe degli Euganei, secondo Plinio il Vecchio anche gli Stoni in Trentino. Lo storico greco Strabone (58 a.C.-25 d.C. circa) descrive i Reti associandoli ai Vindelici, collocandoli tra Elvezi e Boi sopra "Verona e Como"; precisa inoltre che alla "stirpe retica" appartengono sia i Leponzi che i Camuni (ed in questo caso, quindi, Liguri): « Vi sono poi, di seguito, le parti dei monti rivolte verso oriente e quelle che declinano a sud: le occupano i Reti e i Vindelici, confinanti con gli Elvezi e i Boi: infatti si affacciano sulle loro pianure. Dunque i Reti si estendono sulla parte dell'Italia che sta sopra Verona e Como; e il vino retico, che ha fama di non essere inferiore a quelli rinomati nelle terre italiche, nasce sulle falde dei loro monti. Il loro territorio si estende fino alle terre attraverso le quali scorre il Reno; a questa stirpe appartengono anche i Leponzi e i Camunni. I Vindelici ed i Norici invece occupano la maggior parte dei territori esterni alla regione montuosa, insieme ai Breuni e ai Genauni; essi appartengono però agli Illiri. Tutti questi effettuavano usualmente scorrerie nelle parti confinanti con l'Italia, così come verso gli Elvezi, i Sequani, i Boi e i Germani. Erano considerati più bellicosi dei Vindelici i Licatti, i Clautenati, e i Vennoni; dei Reti i Rucanti e i Cotuanti. » (Strabone, Geografia, IV, 6.8).

Nell'Italia appenninica le popolazioni liguri entrarono in conflitto con i nuovi arrivati: Pelasgi, Etruschi e discendenti da popolazioni Indoeuropee giunte in Italia e definite "Aborigeni" dagli storici antichi. Nelle fonti antiche, Claudio Eliano, storico del II - III secolo dopo Cristo, ancorché poco attendibile, sostiene nelle sue "Storie varie" che il primo abitante dell’Italia fosse un certo Mar, progenitore della tribù dei Liguri Marici (i Marici furono un antico popolo celtoligure della provincia di Pavia e della provincia di Alessandria).
Ipotesi della diffusione genetica
dei Liguri in Italia.
Da http://www.internosedizioni.com/abstract/vinelli_portofino.pdf: "...I Liguri rappresentavano una realtà politica importante prima dell’avvento dei Romani: popolo di ceppo e lingua ben distinta rispetto ai Celti - che occupavano allora la gran parte dell’Europa (si pensi ai Galli ed ai Britanni) - il loro territorio, intorno al IV - II secolo a. C., si estendeva, sulla costa, dalle foci del Rodano (dove i Greci avevano fondato Marsiglia) sino alla Lunigiana, e nell’entroterra in Provenza, in tutto il basso Piemonte, nel Pavese sino al Po ed in parte dell’Emilia (tutto il limite settentrionale fu poi conteso con i Galli). In Toscana i confini dovettero variare nel tempo, in misura che la potenza degli Etruschi cresceva o andava scemando: lo storico greco Polibio (circa 206 a.C. - 124 a.C.) ci tramanda che i Liguri si estendevano sino a Pisa sulla costa e ad Arezzo nell’interno; il geografo Strabone di Amasea (circa 58 a.C. - 25 d.C.), quando ormai tutta l’Italia era dominio di Roma, li limita invece sino ai piedi degli Appennini (L. Gambaro, "La Liguria costiera tra III e I secolo a.C. - Una lettura archeologica della romanizzazione", Mantova 1999, pagg. 13-14; Polibio II, 14-17; Strabone V, 1, 3.3). Da tali fonti si ricava un dato che stupisce: i monti, sia le Alpi che gli Appennini, anziché separare, erano un elemento unificante per i Liguri, anzi l’elemento unificante. Gran parte degli studiosi ritiene che i Liguri siano il popolo storicamente più antico d’Italia e dell’Europa occidentale, anteriore alle invasioni dei popoli indoeuropei come invece furono i Celti: per dirla chiara, i Liguri non sarebbero di razza ariana, ammesso che sia mai esistita una razza ariana. Secondo alcuni autori anticamente abitavano anche la zona dei Pirenei (le tribù liguri dei Sordi o Sardi, dei Bebrici e degli Elesici), ma poi, a seguito di rapporti non sempre necessariamente bellicosi, si fusero coi nuovi venuti dando vita agli Ibero-Liguri; così come nacquero stirpi Celto-Liguri alle foci del Rodano e a nord del Po. Tesi un po’ ardita (ma chi potrebbe smentirla?) vorrebbe che tracce genetiche, linguistiche e culturali dei Liguri permarrebbero in regioni rimaste nei secoli isolate: e così il popolo basco e alcuni abitatori delle chiuse valli alpine sarebbero discendenti di quel fiero popolo (G. Nicolucci, "La stirpe ligure in Italia ne’ tempi antichi e ne’ moderni", in "Atti della Società di Scienze fisiche e matematiche", Società Reale di Napoli, Napoli, 1865, Volume II, pag. 1 e segg.)".

Il greco Pausania ci ricorda che Cicno, mitico re dei Liguri, signoreggiava le terre bagnate dall’Eridano (nome antico del nostro Po, che le commedie della politica italiana hanno invece proclamato fiume celtico per eccellenza). L’embrione del mito di Cicno può farsi risalire al sommo Esiodo, che con Omero fu il padre della poesia greca, anche se tale versione non è a noi pervenuta: certo è che si risale sino alla cultura orale che precede la cultura greca classica e in cui sono celati i misteri dell’antico mondo preellenico. Cicno, figlio di Stenelo (o, talora, Stenele sarebbe il nome della madre), era il re dei Liguri, dotato di una voce melodiosa ed abile nel suonare: “Cicnum Ligurum, qui in Celtica prope Heridanum sunt, regem musicae clarissimum fuisse memorant” (Pausania, Att., 30). Era pure cugino e migliore amico di Fetonte, figlio del dio Sole. Fetonte, come tutti i giovani, aveva supplicato il padre che gli lasciasse usare la macchina.. pardon, il cocchio con il quale ogni mattina faceva sorgere il sole. Un compagno, infatti, aveva deriso il giovane dandogli del figlio di N.N., e lui si era ripromesso di dimostrare a tutti chi era il suo vero padre, guidando il cocchio del Sole. Sappiamo che gli dei greci avevano i difetti degli uomini, così il Sole - come molti padri - alla fine acconsentì, pur conscio di non fare la scelta giusta. Il ragazzo, infatti, perse il controllo della vettura bruciando parte della Terra (ed è per questo, secondo gli antichi, che gli Etiopi sarebbero di pelle “abbronzata” e la Libia deserta). All’epoca la psicologia aveva fatto poca strada e si era severi coi giovani scapestrati: Zeus, per evitare la fine del mondo, punì il ragazzo fulminandolo e facendolo cadere dal cocchio del Sole. Il corpo di Fetonte cadde nell’Eridano (il Po) e vennero a piangerlo sia le sorelle (le Eliadi) sia l’amico Cicno, re di quelle terre. Zeus era iroso ma la sua ira durava poco e, commosso da quella scena, trasformò le prime in pioppi (che ancor oggi numerosi svettano nella pianura padana) e le loro lacrime in ambra; mentre il secondo in cigno (per questo nacque la leggenda che il cigno canta soavemente quando sta per morire, il “canto del cigno” appunto). Secondo un’altra tradizione riportata da Servio il cigno, una volta morto, venne collocato da Apollo fra le stelle, quale esempio di vera e fraterna amicizia. A Cicno nel regno dei Liguri successe il figlio ancora bambino, Cupavone. Questo Cicno (o Cidno), valorosissimo guerriero, sarebbe stato il fondatore di Brescia; ancora all’epoca dei Romani Catullo nominava la rocca bresciana “Cycnea Specula”. Fra gli altri, ricordano Cicno sia Virgilio nel canto X dell’Eneide:                                      Non ego te Ligurum dux fortissime bello
Transierim Cycne.
sia Ovidio nelle Metamorfosi (II, 367), libro che tratta appunto delle trasformazioni da uomo ad animale o pianta o altro ancora:…                                                 Proles Steneleja Cycnus
Nam Ligurum populos et magnas rexerat urbes.
La leggenda di Cicno re dei Liguri si fonde con varie versioni dell’antichità greca: Cicno avrebbe addirittura affrontato Ercole! Ma l’accenno che ci preme fare è ad un Cicno, figlio di Poseidone (dio del mare) e re di Colone (città della Troade) alleato dei Troiani contro i Greci ( Questo Cicno, invulnerabile al ferro ed al fuoco, affrontò i Greci appena sbarcati sulla spiaggia di Troia e ne uccise mille riuscì ad ucciderlo il solito Achille, non battendolo con le armi ma strozzandolo con le stringhe del suo stesso elmo. Dopo aver tagliato la testa all’avversario, il crudele Achille non riuscì però a spogliarlo dell’armatura, poiché il padre Poseidone trasformò Cicno in cigno). Sì, perché molte sono le connessioni, di pace e di guerra, fra i Liguri ed i Troiani. Tarconte e Tirreno, figli di Telefo, re della Misia (o Lidia), nell’odierna Turchia e confinante con la Troade, portarono parte del loro popolo in Italia, per sfuggire una carestia. Da Tarconte deriva il nome di Tarquinia e Tirreni furono chiamati i figli di quel popolo: Tirreni era l’altro nome con cui erano conosciuti gli Etruschi. Tarconte nell’Eneide combatte al fianco di Enea contro Turno; mentre in una versione riportata da Licofrone, i fratelli Tarconte e Tirreno, giunti in Italia presso Agilla (l'odierna Cerveteri) combattono e vincono i Liguri dopo aspra lotta. Ed Antenore, anch’egli in fuga da Troia, giunse in Veneto, abitato da stirpi liguri: e qui fondò Padova e diede inizio all’allevamento dei cavalli, arte nobilissima...

Nell'Eneide la guerra vede da una parte i troiani guidati da Enea e l'esercito italico di Turno: Enea ha per condottieri alleati diversi re Etruschi, uno dei quali, Asila, è anche augure; i soli altri italici che combattono al suo fianco sono il principe arcade Pallante e i due sovrani dei Liguri, Cunaro e Cupavone, il figlio e successore di Cicno, figura già nota nella mitologia greca. I condottieri dell'esercito italico di Turno appartengono a varie popolazioni: tra di loro vi sono re, principi e aristocratici vari. Anche qui vi è un re-augure, Ramnete (non è nota la provenienza): nella rassegna dei condottieri italici figura pure un altro sacerdote, il marso Umbrone, inviato dal re Archippo. Per quanto riguarda i Rutuli, ovvero i sudditi di Turno, si deve notare come essi non siano sottoposti direttamente al loro sovrano, ma militino in vari corpi armati, ognuno dei quali è retto da un condottiero in seconda, tra i quali troviamo Anteo, Luca, Volcente, Atina, Remo: quest'ultimo è accompagnato da uno scudiero e da un auriga, proprio come i capi militari dell'Iliade.
Molti anni dopo Romolo aveva bisogno di più abitanti per popolare la nuova città, e così accolse pastori latini ed etruschi, alcuni anche d'oltre mare, Frigi affluiti sotto la guida del suo avo Enea, oltre ad Arcadi arrivati sotto quella di Evandro. Il territorio principale dei Pelasgi era tradizionalmente ritenuto l'Arcadia... ma i Pelasgi li ritroveremo più avanti.

Ma chi furono gli antichi Liguri, e da dove venivano? Da http://storianet.blogspot.it/2015/01/liguri-storia-e-cultura.html:
Carta con i 7 fiumi importanti nella storia dei Liguri.
Gli antichi Liguri (dal greco "Λιγυες", ovvero Ligues, e in latino "Ligures"), furono un popolo autoctono dell'Europa occidentale e atlantica, già stanziato in Europa almeno 10.000 anni fa e quindi di probabile derivazione dall'Uomo di Cro-Magnon, le cui testimonianze sono state ritrovate anche in Liguria, Costa Azzurra e nel sud della Francia. Le più antiche popolazioni Liguri si erano insediate lungo la costa e nell'entroterra dei mari che ora si estendono dal nord-ovest dell'Italia (e anche in tutta la pianura Padana ), al sud della Francia ed in Spagna, inoltre tra Andalusia, Portogallo, Galizia e Paesi Baschi, da cui sembra si siano diffuse, via mare, nella Bretagna e nella costa atlantica francese, in Irlanda e nel meridione dell'Inghilterra. Il professor Adolf Schulten, considerava ligure l'intera penisola spagnola prima dell'invasione della stirpe iberica (d'origine camita-berbera) dall'Africa nel 6.000 a.C., e pensava che la lingua basca fosse una reliquia ligure. Il popolo basco è stato da lunghi decenni oggetto di numerosi studi, sia dal punto di vista etnico, linguistico e biologico. Con l'intento di chiarire l'antica origine di questa popolazione, a seguito di analisi è stata riscontrata la presenza, in una forte percentuale della popolazione (circa il 30% - 35%), del fattore Rh negativo. Gli studi condotti portano ad ipotizzare che l'origine del popolo basco sia da ricondurre alle antiche popolazioni umane autoctone che abitavano l'Europa durante il paleolitico e che, a seguito dell'ultima glaciazione, si erano insediate nell'attuale area dei Paesi Baschi. Se quindi i Baschi appartenevano ad una famiglia di popolazioni Liguri, o proto-Liguri, si evince che la genesi Ligure è autoctona. A sostegno di quest'ipotesi è anche la mappa degli aplogruppi del cromosoma Y in Europa. L'Aplogruppo R1b (Y-DNA), viene ritenuto essere la più antica linea genetica europea, associata ad un effetto del fondatore, verificatosi nell'Europa centro occidentale. Le popolazioni stanziatesi in Italia dal Mesolitico sono caratterizzate da alte frequenze di R1 (xR1a1), condizione che si ritrova ad oggi nelle popolazioni basche, ritenute le più somiglianti geneticamente ai primi europei. La longevità della civiltà dei Liguri, si suppone sia dovuta al ruolo decisivo che hanno avuto, dall'età del Bronzo in poi, nel reperimento di metalli preziosi (argento e oro), di minerali (come la cassiterite, da cui si ricava lo stagno che, legato al rame, da il bronzo), nella conoscenza delle tecnologie metallurgiche per la produzione di metalli (bronzo, argento) e la commercializzazione stessa, anche via mare, di bronzo, piombo, sale, oro, argento e dell'ambra, proveniente dalle coste baltiche, anche se non possediamo documenti scritti e informazioni specifiche sulle loro navi e sul loro stato sociale. Gli antichi Liguri infatti non usavano gli scritti per perpetuare la loro memoria, attenti com'erano a mantenere segreti i loro monopoli. Quello che ci hanno trasmesso possiamo estrapolarlo dalla loro arte megalitica e dai loro antichi petroglifi. Del loro nome, della loro cultura, del linguaggio e dei costumi ne parlano i primi storici Greci e Latini, oltre alla mitologia che si riferisce a loro, perlopiù dei greci antichi. Questa mancanza di informazioni è indubbiamente motivata da una strenua difesa dei loro traffici e commerci in un'Europa che era meta di continue ondate migratorie da est. Certamente si mischiarono alle popolazioni iberiche prima, ai Greci di Focea e ai Celti poi, tanto che alcune tribù definite Celtiche erano in effetti Liguri, come i Taurini, i Friniati, ecc., così come gli Euganei, i proto-Leponti... Ma rimasero sicuramente Liguri puri fra il Rodano e l'Arno e a nord fino al Po.
Carta con l'estensione dell'antico Lago Ligustinus o Ligur
nell'enclave di Tartesso e della fenicia Gades, l'attuale Cadiz.
Dal "V Simposio Internazionale di Preistoria Peninsulare. Tartessos 25 anni dopo" tenuto a Jerez de la Frontera nel 1995, in cui vennero illustrate le ipotesi contenute nei testi di O. Arteaga , H.D. Schulz e A.M. Roos: "Il problema del Lacus Licustinus. Ricerca geoarcheologica intorno alle paludi del Basso Guadalquivir": "Il Professor Schulten, considera ligure l'intera penisola spagnola prima dell'invasione della stirpe iberica (camita-berbera) dall'Africa, e pensa che la lingua basca sia una reliquia ligure. L'affermazione che la popolazioni primitive della penisola sia ligure, poggia su un brano di Esiodo del VII secolo a.C., chiamante ligues (ligure) tutta l'Europa occidentale. Eratostene la chiama Ligustica. Rufo Avieno, descrivendo l'attuale Andalusia, cita il lacus Ligustinus, e chiama la Galizia e il Portogallo "Oestrimnios", nome identico a quello ligure per Bretagna.
Tra le altre prove di insediamento ligure in Galizia, vi sono le somiglianze di nomi galiziani nella popolazione con riferimenti alla costa ligure della Francia meridionale e del nord-ovest dell'Italia; anche se i nomi di origine ligure compaiono in diverse parti della penisola iberica, in particolare sembrano essere concentrati in Galizia. Inoltre, in Portogallo, la penisola più occidentale (Cáceres) e il fiume Sado hanno nomi tipici delle persone che occupano la Liguria e in particolare le sue coste. Per il Professor Schulten, l'etnia ligure è stato il principale substrato della popolazione nativa e la popolazione dominante nella regione centrale della Andalusia prima della fondazione della città di Tartesso. Per noi, questo giustifica il nome del lago ligure che viene dato nel VI a.C. all'ambiente palustre che esiste nell'enclave stesso territoriale nella capitale e città portuale di Tartesso. Si noti anche l'esistenza di una città vicina chiamata Tartesso Ligustina.
Secondo noi c'era una intesa commerciale tra i popoli Liguri ancestrali, originariamente associata alla diffusione della cultura megalitica. I Liguri, sparsi nel Mediterraneo occidentale e sulle coste atlantiche, su entrambe le vie commerciali marittime dell'Europa occidentale, hanno permesso la circolazione delle merci, minerali e prodotti in metallo. Il nostro proposito è quello di evidenziare il fatto che la popolazione Ligure pre-tartessica ha raggiunto un ruolo di rilievo in questa intesa, grazie alla sua posizione strategica e alla straordinaria ricchezza di metalli nella sua area di influenza. In particolare si è imposto il flusso di metalli pesanti dal nord Atlantico (principalmente stagno e piombo) verso il Mediterraneo occidentale. Quest'intesa commerciale tra i popoli Liguri ancestrali non era dichiarata, ma tenuta segreta per tutelare il monopolio Ligure sui loro prodotti e commerci: sale, oro, argento, bronzo, ambra...
Carta con, in verde, l'enclave di Tartesso, da:
http://es.wikipedia.org/wiki/Tartessos
La civiltà pre-tartessica sarebbe stata costituita dal substrato culturale di diversi popoli (liguri, iberici e coloni orientali arrivati da Creta nel 3.000 a.C.), ma presumibilmente era ligure (come indica il toponimo Lago Ligur, il Lagus Ligustinus per i Romani) il substrato predominante nella zona prima della fondazione della capitale tirrenica Tartesso. Tutto questo avrebbe permesso ai Liguri di gestire i commerci in ambito mediterraneo e atlantico fino al 1.200 a.C., quando i di Tirseni, o Tirreni, da cui derivarono gli Etruschi occuparono la Tartesso Ligustica (nel delta acquitrinoso del Tartesso, il Guadalquivir, navigabile fin dopo l'attuale Cordova, in territori ricchi di metalli fino alla Sierra Morena) e i fenici, dopo aver edificato Gadir, l'attuale Cadiz, dopo 200 anni monopolizzarono il Mar Mediterraneo occidentale, difendendo con spaventosi racconti e dove non bastavano, con la violenza, la conoscenza geografica e l'ubicazione delle materie prime delle terre oltre le colonne d'Ercole.
Carta con la ricostruzione di
come doveva essere il
 Lago Ligur.
Secondo il prof. Schulten infatti, la nascita di Tartesso come capitale del territorio tartessico trae le sue origini dall'arrivo di popolazioni provenienti dall'Asia Minore, culturalmente più avanzata rispetto ai pre-tartessici, e dopo il loro arrivo nella costa andalusa sono diventate la classe dirigente.
Queste popolazioni furono i Tirseni, o Tirreni, o Raseni o Turuscha (forse uno dei Popoli del Mare, sicuramente gli antenati degli Etruschi italici, che chiamavano se stessi "Rasenna"), che arrivarono intorno al 1.200 a.C. dall'Asia Minore e fondarono una loro colonia a Tartesso, su un'isola tra la foce del Guadalquivir e l'oceano.
Alfabeto sillabico tartessico.
Da questa colonia iniziò l'invasione e la sottomissione della zona. Gli invasori fondarono una fiorente oligarchia commerciale e militare la cui capitale fu Tartesso stessa. Nel regno furono stabiliti due principali centri: la foce del Guadalquivir, dove c'era Tartesso, e quella dell'antica Olba, (nei pressi dell'attuale Huelva, sul fiume Tinto, nel nord ovest del territorio di Tartesso, vicino all'attuale frontiera col Portogallo), che doveva fungere da deposito di Tartesso dei minerali di rame nel bacino di Rio Tinto. Quando la realtà di Tartesso produsse un volume di traffico qualitativamente superiore i Liguri, ormai sudditi dei Tirreni, centralizzarono nella bassa Andalusia il commercio di minerali, che divenne il centro di ridistribuzione (soprattutto per lo stagno, ingrediente base dei famosi bronzi tartessici). I liguri di Tartesso devevano essere metalmeccanici qualificati: sia come membri illustri autorizzati a stabilirsi nella metropoli che rendendo i propri servizi ai lavori forzati, come schiavi, nel settore metallurgico e minerario.
Riproduzione della stele di Bensafrim, in Portogallo,
ritenuta scritta in alfabeto tartessico.
La denominazione di un lago e di una città Ligustica non dovette sembrare poi così strano ai Romani che quando giunsero in quei luoghi furonono in grado di identificare i tratti culturali e un linguaggio residuo comune a quello ligure italico, che conoscevano in prima persona. Nel lago ligure erano ancorate le navi e raccolti i beni dalla lega commerciale ligustica: prima come area di  scarico dei minerali e delle merci introdotte dalle basi liguri, poi con lo spazio a disposizione per l'elaborazione metallurgica e lo stesso habitat e insediamento per una vasta popolazione dai costumi tipicamente liguri. Una fonte storica che allude a Tartesso è "Storie", di Erodoto, del V sec. a.C., che indica come  re di Tartesso, Argantonio (che significa uomo d'argento), uomo di grande ricchezza, saggezza e generosità che regnò 100 anni. .
Pettorale in oro del tesoro tartessico
del Carambolo. Da:
http://es.wikipedia.org/wiki/Tartessos
Nel più tardo IV secolo, lo scrittore romano Rufo Festo Avieno, pubblicò la sua "Ora Maritima" (Le coste marittime), dedicata a Sesto Claudio Petronio Probiano, incompleta e lacunosa ma interessante poiché è ricavata dalla fonte più antica su Tartesso. Anche se l'opera è stata scritta intorno al 400 d.C., il poeta utilizza come principale fonte un periplo, cioè una memoria scritta, del viaggio di un marinaio massaliota (di Marsiglia) che aveva percorso la costa atlantica europea dalle coste dell'attuale Cornovaglia, in Inghilterra, fino a Massalia (Marsiglia) nel VI secolo a.C., descrivendo così per primo i confini fisici, visti dall'Atlantico, della Gallia e dell'Iberia, citando appunto il Lago Ligur e la città di Tartesso, che si trovava tra le braccia della foce del fiume Tartesso, che corrisponde all'attuale Guadalquivir, fino ad attraversare le colonne d'Ercole: l'"Euthymenes". Rufo Avieno, forse, utilizzò anche qualche altra fonte fenicia ancora più antica.
Per il post "Antichi Liguri: dai Primordi ai Megaliti", clicca QUI
Per il post "Tartesso: prima i Liguri, poi Fenici e Greci", clicca QUI
Per il post "Il Lago Ligure nella mitica Tartesso", clicca QUI
Per il post "Ercole e altri miti a Tartesso", clicca QUI
Per il post "Tartesso: l'Economia", clicca QUI
Per i post "Antichi Liguri da Tartesso ai Celti" clicca QUI
A quanto pare i Liguri, nei tempi storici, abitavano tutta l'Europa sudoccidentale e mantenevano frequenti contatti di tipo mercantile con l'Europa atlantica, centrale e baltica (per il reperimento dell'ambra).

Intorno al XV secolo a.C. anche popolazioni di Achei giunsero sul suolo italico.
Da http://www.sapere.it/enciclopedia/Magna+Gr%C3%A8cia.html: L'insediamento dei coloni greci nella Magna Grecia (e più in generale sul suolo italico n.d.r.) ebbe luogo in due fasi.
La prima fase, in ordine sparso e a opera di gruppi di Achei, (intesi come popolazioni che costituivano la civiltà Micenea N.d.R.) avvenne in età arcaica, tra i secoli XV e XIV a.C., e il ricordo sopravvisse nei racconti degli avventurosi viaggi verso l'Occidente favoloso (ciclo troiano) e nei santuari di divinità ctonie (divinità generalmente femminili legate ai culti di dèi sotterranei e personificazione di forze sismiche o vulcaniche N.d.R.) che ancora in epoca storica sorgevano al di fuori delle città (e ciò trova conferma nell'archeologia). Quel remoto flusso immigratorio si interruppe verso il sec. XII a. C., forse in conseguenza dell'invasione dorica della Grecia, che sospinse gli Achei verso l'Asia Minore.

Se le tribù Liguri chiamate Siculi furono scacciate dall'Italia centrale e meridionale da un'alleanza fra Pelasgi, Umbri e altre genti definite dagli storici antichi "aborigeni",  vediamo ora le fonti storiche in nostro possesso sui Pelasgi. Con il nome Pelasgi (in greco antico Pelasgói, singolare Pelasgós), i Greci dell'età classica indicavano il complesso delle popolazioni preelleniche della Grecia, che ritenevano autoctone ma, all'epoca, ormai estinte e delle quali, peraltro, riportavano vicende confuse e contrastanti.
Carta della grecia antica con i vari
dialetti parlati.
Sappiamo che le popolazioni pelasgiche che rimasero in Grecia dopo le invasioni di Ioni, Achei, Eoli e Dori, si stanziarono in Arcadia, nel Peloponneso e parlavano un dialetto chiamato arcado-cipriota.
Secondo moderne teorie genetiche, le popolazioni pelasgiche, precedenti delle culture minoiche e elleniche, appartenevano agli aplogruppi del tipo I , arrivati dal Medio Oriente come aplogruppo IJ circa 35.000 anni fa e sviluppati in aplogruppo I circa 25.000 anni fa, E-V13 e T, arrivati dall'area siriana, dopo aver colonizzato l'Anatolia meridionale, in epoca neolitica, 8.500/7.000 anni fa e G2a, giunti dal Caucaso, attraverso l'Anatolia meridionale circa 6.000 anni fa, legati alla pastorizia ed alla lavorazione dei metalli.
Archeologicamente, i Pelasgi potrebbero essere identificati con il popolo dei "Peleset", citato nelle iscrizioni egiziane tra i Popoli del Mare che attaccarono l'Egitto durante il regno del faraone Ramses III, ed aver poi formato il popolo dei Filistei, da cui derivò il nome di Palestina, da Philastinia.
Antica raffigurazione della battaglia
fra Sakkara, Pulasti o Peleset con i
loro caratteristici elmi piumati contro
gli Egizi, dal tempio di Medinet Habu. 
Le iscrizioni in geroglifico del tempio funerario del faraone Ramses III (1193-1155) di Medinet Habu, potrebbero contenere un chiaro riferimento, forse l'unico, archeologicamente documentato, dell'esistenza reale del popolo dei Pelasgi.
L'insediamento dei
Peleset (i Filistei)
nel Canaan.
L’iscrizione descrive un attacco effettuato nell’8º anno di regno del faraone (il 1186 a.C.) da un’alleanza di cinque popoli stretta dopo aver distrutto la città di Ugarit (in Siria): tra costoro compaiono i  Peleset (i Pelasgi), oltre ai Šekeleš (i Siculi), i Tjeker, gli Wešeš e i Denyen, con al seguito donne, bambini e masserizie. I popoli vengono complessivamente denominati "Popoli del mare, del nord e delle isole". Secondo l'iscrizione, gli Egizi respinsero gli invasori a Djahy, una località nella terra di Canaan. L'origine egea dei Peleset (e quella dei Tjeker e dei Denyen) è attestata dall'iconografia dei guerrieri riprodotti, che indossano un elmo piumato, trattenuto alla gola da una fascetta di cuoio e hanno in dotazione spade di tipo acheo. L'elmo piumato, infatti, trova riscontri anche nell'ambito egeo dell'età del bronzo e nel cretese disco di Festo. I Peleset si sarebbero poi stabiliti nel Canaan, dove avrebbero formato il popolo dei Filistei. Già nella "Grande iscrizione di Karnak", Merenptah, tredicesimo figlio di Ramesse II e faraone dal 1212 al 1202 a.C., ricordava la sua vittoria su una prima ondata di invasione dei cosiddetti "Popoli del Mare", nella quale avrebbe ucciso 6.000 nemici e fatto 9.000 prigionieri. L'attacco venne condotto da una coalizione composta da tre tribù Libiche (Libu, Kehek e Mushuash) e dai "popoli del mare", composti da cinque gruppi (Eqweš o Akawaša, Tereš o Turša o Twrs (Twrshna, o Tursha), Lukka, Šardana o Šerden e Šekeleš). Gli invasori il cui nome era Twrs, possono essere identificati con con le genti chiamate dai greci Turs-anòi (in dorico), Tyrs-enòi (in ionico), Tyrrh-enoi (in attico) e dai latini Tus-ci (da Turs-ci) ed E-trus-ci. Nelle lingue antiche la "c" e la "g" erano dure, come in cane e gallo, per cui Tusci si pronuncia "tuschi" ed Etrusci si pronuncia "etruschi".

Seguendo la terminologia degli antichi storici greci, con il termine "pelasgico" ci si riferisce agli abitanti stanziati in Grecia in età pre-micenea, prima delle invasioni di Ioni, Eoli, Achei e Dori dal 2.000 a.C. in poi. Nel periodo classico, una provincia della Tessaglia, nella Grecia settentrionale, era ancora chiamata Pelasgiotide, cioè "terra dei Pelasgi", pur essendo ormai abitata da Greci. Il territorio principale dei Pelasgi era tradizionalmente ritenuto l'Arcadia, mentre la loro patria d'origine era considerata l'Argolide, da dove sarebbero emigrati sia in Tessaglia che a Lesbo, nell'Ellesponto, nella Licia e anche in alcune zone dell'isola di Creta. Dalla Pelasgiotide tessala, i Pelasgi avrebbero esportato in Epiro il culto di Zeus, in particolare a Dodona, ove esisteva il santuario di un oracolo, tradizionalmente considerato il più antico della Grecia.
Carta con Dodona, l'isola di
Lemnos e la Troade.
A sud della Troade, i Pelasgi avrebbero occupato, oltre alla Licia, anche la Caria e l'isola di Lemno, che avrebbero abitato sino alla fine del VI secolo a.C. La "stele di Lemnos", di quello stesso periodo, riporta iscrizioni etrusche che avvalorando la teoria di un'origine pelasgica degli Etruschi. Esaminiamo quindi la stele di Lemnos, con scritta etrusco-arcaica, che secondo alcuni è pelasgico.
In rosso l'isola di Lemnos.
Alcuni studiosi hanno attribuito ai Pelasgi caratteristiche culturali e linguistiche non-indoeuropee, e la scritta pelasgica meglio conservata proviene dalla stele di Lemnos, ed è affine all'etrusco.
Partendo dal nome di una tribù, sia gli storici classici che gli attuali archeologi hanno preso l'abitudine di chiamare Pelasgi tutti gli abitanti delle terre intorno al Mar Egeo ed i loro discendenti prima dell'arrivo delle ondate di invasori che parlavano greco durante il II millennio a.C.
La stele di Lemnos.
La raffigurazione di guerriero con iscrizioni sulla Stele di Lemnos è databile agli ultimi decenni del VI secolo a.C. e le scritte utilizzano una versione dell'alfabeto greco occidentale simile a quello delle iscrizioni etrusche.
 La lingua, secondo le più recenti teorie, è etrusco arcaico con alcuni adattamenti locali. Non è però ancora chiaro se il rinvenimento nell’isola di Lemnos significa che ci sia stata una fase linguistica comune dell’area mediterranea (di cui Etruria e Lemnos sarebbero due testimonianze con la conseguente origine degli Etruschi dall’Asia Minore) o se nell’isola abbia vissuto un gruppo di Etruschi che l’hanno colonizzata. E questi ultimi potrebbero essere quei pirati del mare Tirreno che lo scrittore greco Tucidide ricorda essere stati presenti a Lemnos prima della sua conquista da parte di Atene. Nella stele è rappresentata la testa di un guerriero e riporta delle scritte, con incisioni piuttosto approssimative, che ne descrivono la vita e la probabile provenienza.
Iscrizioni lato A: holaies naphos siasi // marasm av śialchveis avis eviśtho seronaith sivai // aker tavarsio vanalaśial seronai morinail.
Traduzione del lato A: “Di Colaie nipote legittimo // e magistrato eponimo, di 60 anni, nel distretto di Efestia visse // Aker Tavarsie (figlio) della Vanalasi nel territorio di Myrina.
Iscrizioni lato B: holaiesi fokasiale seronaith evistho toverona [ ] rom haralio sivai eptesio arai tis foke sivai avis sialchis maras avis aomai.
Traduzione del lato B: “Sotto Colaie il Focese nel territorio di Efestia ambasciatore [..] visse, a sette anni giunse da Focea, visse anni 60, fu magistrato eponimo”.

Nel V secolo a.C. sembra che popolazioni pelasgiche abitassero ancora alcune città dell'Ellesponto, di cui oggi si è persa memoria. Varie tradizioni conferiscono ai Pelasgi una parte di primo piano nel processo del popolamento dell'Italia. Ad essi era attribuita la realizzazione delle mura poligonali dell'Italia centro-meridionale, nell'antichità definite "pelasgiche", probabilmente per la loro somiglianza ad una muraglia di fortificazione in Atene, detta "muro pelasgico" poiché attribuita a tale popolazione.

Carta con le pelasgiche Spina e Adria.
Intorno al 1.450 a.C. i Pelasgi arrivarono sul suolo italico: "I Pelasgi... un popolo che occupava in antico tutto il bacino dell'egeo e tutta la Grecia continentale compreso il Peloponneso, e occupò in seguito vaste zone dell'Italia... nessuna altra stirpe pregreca viene descritta dagli storici antichi come colonizzatrice di estensioni così vaste, e l'opera di colonizzazione nella penisola italica sembra partisse appunto dalle bocche del Po, con Spina, e di qui si irradiarono per tutta la pianura padana fondandovi le dodici città ricordate da Diodoro Siculo (XIV, 113, 1) che secondo lo storico preesistevano all'occupazione da parte degli Etruschi di almeno sette secoli" (da "La Tirrenia antica", opera in due volumi scritta da Claudio De Palma e pubblicata da Sansoni Editore: volume I, pgg. 214-215). Spina era un'antica città situata nella bassura padana accanto alle sponde dell'Adriatico, la cui esistenza è attestata da varie fonti. Tra queste Dionisio di Alicarnasso ("Antichità romane", I, 18, e 28, 3) secondo il quale schiere di Pelasgi, o per consiglio dell'oracolo di Dodona o per sottrarsi agli Elleni, passarono per mare in Italia, e presso il fiume Spinete (un ramo del Po, nei pressi dell'attuale Comacchio) fondarono un accampamento, che si trasformò nella florida città di Spina, che mandava doni votivi a Delfi; ai Pelasgi successero i barbari (cioè i Celti), poi i Romani. Spina, come riferiscono Strabone e Plinio, aveva un edificio per contenere doni votivi, nel santuario apollineo di Delfo e per questo fu poi considerata come città ellenica, e l'elemento ellenico dovette essere evidente in Spina, specialmente quando nei primi tempi del secolo IV a. C. Dionisio il Grande, signore di Siracusa, fece sentire il suo potere alle foci del Po con un programma di colonizzazione che gli assicurò un controllo totale sulle rotte adriatiche che portavano il grano verso la madrepatria, permettendo così a Siracusa di competere con gli Etruschi in questo commercio. Inoltre risolse un grave problema di politica interna, mandando a popolare le nuove colonie tutti coloro che non sopportavano il suo regime tirannico e dove avrebbero potuto istituire le libertà democratiche da lui soppresse a Siracusa.
Lago di Cotilia.
L'espansione dei Pelasgi, avrebbe interessato poi la foce del Po, dove avrebbero fondato la città di Adria e avrebbero inoltre scavalcato l’Appennino e disceso la penisola italica sino al Lago di Cotilia, nell’antica Sabina.
Ubicazione di Castel Sant'Angelo.
Ai margini settentrionali della verde piana di San Vittorino tra Cittaducale ed Antrodoco, nel comune di Castel Sant‘Angelo, in provincia di Rieti, si trovano i due laghetti di Cotilla e Canetra.
Qui si trova lo stabilimento delle Terme di Cotilia , che porta il nome dell'antica città sabino-romana già nota per le notevoli proprietà terapeutiche delle sue acque sulfuree e cara a Flavio Vespasiano ed a suo figlio Tito.

Da http://www.e-archeos.com/articoli/adria-e-spina-archeologia-e-storia-alle-foci-del-po.html: "...Le fonti scritte che riguardano il nome Adria sono numerosissime. Già all’inizio del V sec.a.C. Ecateo di Mileto, riportato da Stefano di Bisanzio, grammatico del VI secolo, ne fa menzione. Teopompo, storico del IV sec.a.C., vissuto alla corte di Filippo di Macedonia, fa derivare il nome da Adrìa, padre di Ionio illirico e fondatore della città. Per altri il fondatore fu Diomede, eroe acheo di omerica memoria. I romani la chiamarono Atria da non confondersi con Hatria, l’odierna Atri nel Piceno. L’origine etimologica si fa risalire, generalmente, all’alfabeto illirico."...

Secondo alcuni studiosi il linguaggio illirico è derivato dai Pelasgi e non dai Veneti antichi o Venetici, che non erano di ceppo illirico ma indoeuropeo, insieme ai Latini.

In Sabina, i Pelasgi avrebbero stretto un’alleanza con gli Aborigeni, cioè le popolazioni autoctone (dal latino: Ab origines), per scacciare, vittoriosamente, la tribù ligure dei Siculi dal Lazio, in cui avevano probabilmente fondato Albalonga. Così tramanda Dionigi di Alicarnasso a proposito del vaticinio dell'oracolo di Dodona rivolto ai Pelasgi: "Affrettatevi a raggiungere la Saturnia (le terme erano considerate appannaggio di Saturno, come si evince dal nome di Saturnia stessa, località termale della Toscana nei pressi del confine con il Lazio e l'Umbria N.d.R.) terra dei Siculi, Cotila, città degli Aborigeni, là dove ondeggia un'isola; fondetevi con quei popoli, ed inviate a Febo la decima e le teste al Cronide, ed al padre inviate un uomo." I Pelasgi, accolto l'ordine di navigare alla volta dell'Italia e di raggiungere Cotila, nel Lazio vetus, allestirono numerose navi e si diressero come prima tappa verso le coste meridionali dell'Italia, che erano le più prossime. Lo schema narrativo seguito da Dionigi è identico a quello che Varrone aveva prodotto prima di lui, per cui ci si aspetterebbe che i Pelasgi, obbedendo all'oracolo che ingiungeva loro di recarsi a Cotila, andassero a sbarcare sulle coste del mar Tirreno, dove lo stesso Varrone li aveva fatti approdare. "Ma", scrive invece Dionigi, "per il vento di Mezzogiorno, e per la imperizia dei luoghi, andarono a finire in una delle bocche del fiume Po, chiamata Spina. Qui lasciarono le navi, fondarono la città di Spina, si diressero verso l'interno e, superati gli Appennini, vennero a trovarsi sul versante occidentale della penisola italica nella regione dove a quel tempo abitavano gli Umbri" Ai Siculi, dice poi Dionigi, i Pelasgi tolsero Cere, Pisa, Saturnia, Alsio, Faleri, Fescennio ed altre città che in proseguo di tempo furono occupate dagli Etruschi, secondo lui autoctoni, che coabitavano la regione. Dionigi di Alicarnasso afferma che i primi aggressori dei Siculi, quando si trovavano ancora in Italia peninsulare furono i cosiddetti Aborigini, che avevano chiamato in loro aiuto i Pelasgi.

Alcuni studiosi Albanesi sostengono come dai Pelasgi siano derivati Tirreni ed Etruschi oltre a Illiri e Albanesi e che i linguaggi di questi popoli sono quindi affini. Seguono alcune ipotesi di uno di loro, Nermin Vlora Falaski, da http://www.thelosttruth.altervista.org/SitoItalian/CasoPelasgico.html: "I Pelasgi adottano l'alfabeto fonetico fenicio, adattandolo alla loro lingua: si definirà poi alfabeto Etrusco. Diodoro Siculo ci informa che i poeti preomerici si esprimevano in lingua Pelasgica, e dalla stessa fonte, apprendiamo che almeno nel 1.000 a.C. si usava quella stessa scrittura. Inoltre Diodoro riferisce che furono i Pelasgi a portare per primi l’alfabeto in Italia e nel resto dell’Europa. Plinio il Vecchio conferma le informazioni di Diodoro. Virgilio (Eneide, VIII, V. 62-63), scrive: “Si dice che i primi abitatori della nostra Italia furono i Pelasgi”. Dagli autori dell’antichità abbiamo appreso che prima dell’arrivo delle popolazioni indoeuropee che sarebbero divenuti i Greci (Ioni, Achei, Eoli e Dori), il territorio dove si stabilirono si chiamava Pelasgia. Le varie fonti ci informano inoltre, che i Greci impararono dai Pelasgi non solo l’arte della lavorazione dei metalli, della costruzione delle mura, ma appresero, perfezionandolo, il loro modo di scrivere e facendo proprie le loro divinità. Varie popolazioni, ma in particolar modo quella pelasgica, hanno dato al paese il loro nome. Pausania (Arcadia, Libro VIII, 1,4,6) scrive: “Gli Arcadi dicono che Pelago fu il primo a nascere nella terra dell’Arcadia. Dato che Pelago divenne re, il paese si chiamò Pelasgia in suo onore”. Pindaro (Carminia, Fragmenta Selecta, I, 240) scrive: “Portando un bel dono, la Terra fece nascere per primo l’essere umano nell’Arcadia, il Divino Pelasgo, molto prima della luna”. La citazione di Pindaro potrebbe apparire valida solo come ispirazione poetica, forse perfino mitologica, però malgrado ciò, scienziati posteriori hanno dimostrato che la luna è un frammento staccato dal nostro globo. Omero menziona i Pelasgi fra gli alleati dei Troiani, (Illiade, II, 840-843) e narra che Achille pregava lo “ZEUS PELASGICO DI DODONA” (Iliade, XVI, 223). Omero li menziona anche come “POPOLI di CRETA” , (Odissea, XIX, 177). Lo storico Eforo riferisce di un brano di Esiodo che attesta la tradizione di un popolo dei Pelasgi in Arcadia e sviluppa la teoria che fosse un popolo di guerrieri diffusosi da una "patria" che aveva annesso e colonizzato tutte le regioni della Grecia in cui gli autori antichi fanno cenno a loro, da Dodona a Creta alla Triade fino in Italia, dove i loro insediamenti sono ben riconoscibili ancora nel tempo degli Elleni e sono in stretta relazione con i "Tirreni" (da cui derivarono gli Etruschi). La caratteristica struttura della muratura della cittadella di Atene ha fatto sì che tutte le costruzioni in blocchi non squadrati e senza l'uso di malta abbiano avuto il nome, di "muratura pelasgica" esattamente come talvolta sono dette "mura ciclopiche", cioè costruite dai Pelasgi: coloro che insegnarono ai greci i metodi delle costruzioni, il modo di scrivere e la cultura. Nermin Vlora Falaski, nel suo libro "Patrimonio linguistico e genetico", ha decifrato iscrizioni Etrusche e Pelasgiche con l'odierna lingua Albanese. Questo proverebbe che gli Albanesi (discendenti degli Illiri) siano discendenti dei Pelasgi, una delle più antiche stirpi che popolò l’Europa. Ecco alcune traduzioni di Falaski: "Dunque, in Italia esiste la località dei TOSCHI (la Toscana), così come i Toschi abitano nella “Toskeria”, nell’Albania meridionale. (Molti autori sostengono che la parola Tosk, oppure Tok, sia il sinonimo di DHE, tanto che oggi in albanese si usa indifferentemente la parola DHE che quella TOK per dire “terra”). In Toscana si trova un’antichissima città, verosimilmente fondata dai Pelasgi, che si chiama Cortona, (nota: in Albanese: COR= raccolti, TONA= nostri, cioè “i nostri raccolti”). Dalla vasta e fertile pianura della Val di Chiana si accede a una ripida collina, in cima alla quale si trova un bellissimo castello, trasformato in museo archeologico. In mezzo ad un grosso patrimonio epigrafico, vi è anche una iscrizione particolarmente bella e interessante, su un sarcofago con addobbi floreali.
Su questo sarcofago appare la seguente scritta:
Scritta etrusca tradotta con la lingua albanese.
La voce verbale â o âsht (in Italiano è) si usa ancora nel dialetto dell’Albania settentrionale e nel Kossovo, mentre nel sud e nella lingua ufficiale, che è quella dei Toschi, si impiega la voce ësht.
Le varie fonti ci informano che i Greci impararono dai Pelasgi non solo l’arte della lavorazione dei metalli, della costruzione delle mura, ma appresero, perfezionandolo, il loro modo di scrivere e fecero proprie le loro divinità, come per esempio DE-MITRA (Dhe = terra, Mitra = utero, cioè la DEA MADRE TERRA), la greca Demetra, nonché AFER-DITA (Afer = vicino, Dita = Giorno), la greca Afrodite, più tardi chiamata Venus dai Romani, oggi Venere). I Pelasgi furono chiamati anche “Popoli del Mare”, poiché erano abili e liberi navigatori. I geroglifici egizi di Medinet Habu, parlano dei Popoli del Mare, ed elencano fra gli invasori anche i Twrs, nome che è stato confrontato con il greco Turs-anòi (dorico) e Tyrs-enòi (ionico) e Tyrrh-enoi (attico) e con il latino Tus-ci (da Turs-ci) ed E-trus-ci. Tutte queste scoperte avvalorano la tesi sulla derivazione di Illiri, Tirreni ed Etruschi dai Pelasgi, le prime popolazioni indoeuropeee a raggiungere il Mediterraneo e l'Europa. Consideriamo inoltre che anche l'Arcadia rimase un territorio abitato dai discendenti dei Pelasgi."

Queste ipotesi hanno scatenato discussioni anche violente, e riporto anche alcune considerazioni tratte da http://wikipedia.sapere.virgilio.it/wikipedia/wiki/Discussione:Pelasgi: "Un'affinità tra la lingua etrusca/lemnia con la lingua albanese è stata avanzata da Zacharia Mayani, e la stessa somiglianza è stata notata in precedenza da altri studiosi come G. I. Ascoli, 1877, É. Schneider, 1889, J. Thomopoulos, 1912, G. Buonamici, 1919. A mio avviso non bisogna mettere in discredito una teoria riconosciuta da molti eminenti studiosi. La spiegazione potrebbe essere molto semplice. Oggi molti linguisti riconoscono un'affinità dell'albanese più con la Lingua tracica che con le lingue dell'illiria. La regione originaria degli albanesi potrebbe essere dunque la valle del fiume Strimone nel sudovest dell'attuale Bulgaria, dalla quale emigrarono nell'attuale Albania nel XI sec. d.C., a causa delle invasioni dei popoli slavi. Secondo lo storico tedesco G. Schramm gli albanesi potrebbero essere i discendenti della tribù tracia dei Bessi, sopravvissuta con la sua lingua fino almeno al VI sec d.C.. Sappiamo da Erodoto, che la regione Crestonia sulla costa alle foci dello Strimone, a nord del mare Egeo, era abitata ai suoi tempi dai pelasgi e dai tirreni. Quindi è abbastanza logico pensare che nella sua formazione la lingua albanese abbia preso in prestito molte parole da lingue affini all'etrusco."

"Gli etruschi, che sempre si distinsero per vigore, conquistarono vasti territori e fondarono numerose città. Crearono una potente flotta. Rimanendo per lungo tempo i padroni dei mari… Perfezionarono l'arte della guerra… Inventarono la scrittura, studiarono solertemente la teologia. Erano padroni della scienza dell'astronomia. Per questo, ancora oggi, destano stupore…" (Diodoro Siculo. XIV, 113). 
Non vi sarebbe tutto questo stupore se si accettasse l'idea che gli Etruschi siano stata un'emanazione dell'antica stirpe pelasgica.

A seguito degli accordi fra le popolazioni italiche di origine indoeuropea (definiti Aborigeni dagli storici antichi), con gli Umbri in prima fila e i Pelasgi, dopo le campagne vittoriose contro i Liguri (chiamati Siculi), avvenute orientativamente alla fine dell'età del bronzo, gli Italici avrebbero concesso ai Pelasgi il popolamento dell'Etruria, che era stata dei Liguri, dove si sarebbero insediati e da cui sarebbe scaturita la civiltà Etrusca. A proposito dell'origine degli etruschi: oggi il DNA mitocondriale del 2% dei Toscani sarebbe diverso da quello delle altre popolazioni italiane ed europee ed in parte simile a quello delle popolazioni dell'Asia Minore e dell'isola di Lemno: la tradizione virgiliana troverebbe quindi qualche conferma. Alcuni studiosi di linguistica avrebbero da tempo osservato che dai nomi Taru, Tarhui, Tarhun e Tarhunt del supremo "dio della tempesta" venerato presso gli Atti, gli Ittiti e i Troiani, derivano sia quello della città di Tarhunt-assa (capitale dell'impero ittita), in Anatolia, sia quelli di Tarqui-nia (Tarchy-na in lingua etrusca), città madre dell'Etruria, e di Tarconte (in etrusco Tarchy-nus) che è il suo eponimo fondatore. Dal nome del dio Taru o Tarhui deriva anche quello della città di Troia: in lingua ittita il suo nome era Tarui-sa/Tar(h)ui-sa. Secondo alcune fonti, Batiea, sposa del mitico Dàrdano,  legato alla leggenda della fondazione di Troia, si chiamava anche Myrina, ed era la regina dell'isola di Lemnos. Myrina, peraltro è un nome che si ritrova nella famosa Stele di Lemnos, scritta nel VII-VI secolo a.C. in alfabeto greco ma in un idioma simile all'etrusco, la lingua lemnia. Myrina era anche il gentilizio della famiglia proprietaria della tomba dell'Orco a Tarquinia.
Velia Velcha dalla Tomba
dell'Orco.
La tomba dell'Orco, chiamata anche tomba dei Murina, è un ipogeo (camera sepolcrale) etrusco del IV secolo a.C. situata nella necropoli dei Monterozzi a Tarquinia e si ritiene sia appartenuta alla famiglia dei Murina, una diramazione degli Spurinna. Scoperta nel 1868, la tomba mostra influenze ellenistiche nei suoi affreschi murali che includono il ritratto di Velia Velcha, una nobildonna etrusca, ed inoltre una delle poche rappresentazioni conosciute del demone Tuchulcha, demone etrusco dell'oltretomba.
Tuchulcha e Teseo nella Tomba
dell'Orco.
Nella sua raffigurazione della della Tomba dell'Orco presenta una chioma scompigliata dalla quale escono dei serpenti, un becco da rapace (probabilmente da avvoltoio), orecchie d'asino, zampe e grandi ali da uccello. Il corpo ha sembianze umane, il colore dominante della sua raffigurazione è il giallognolo. Nella fondazione si trova la seguente enigmatica frase:
« LARΘIALE HVLΧNIESI MARCESIC CALIAΘESI MVNSLE NACNVAIASI ΘAMCE LE… »

Intorno al 1.270 a.C. una tribù di Liguri, chiamata Siculi, poiché guidata dal loro re Siculo, (o Siculos o Sikelòs) figlio di Italo o Italòs, approdano in Sicilia, che da allora, da lui prende il nome (Sikelia in greco: la Sicilia).
La Sicilia arcaica con gli i territori
in cui erano stanziati i Siculi,
i Sicani e gli Elimi.
Dalle popolazioni Liguri che rimasero sul continente, il cui re (capotribù) era stato Italo, l'Italia prenderà il suo nome. Tucidide scrive che dopo l'arrivo in Trinacria dei Sicani (che da loro aveva preso il nome di Sicania), i Siculi, spinti dagli Opici sul continente, sarebbero giunti in Sicilia numerosi, e avrebbero vinto e respinto i Sicani nella parte meridionale e occidentale dell'isola, impadronendosi della parte migliore della Sicilia per 300 anni prima della colonizzazione greca e dopo la caduta di Ilio (Troia) giunsero gli Elimi. Dionigi di Alicarnasso riferisce anche la testimonianza di Ellanico di Mitilene, il quale non soltanto localizza l'avvenimento del passaggio dei Siculi a tre generazioni (una generazione sono trent'anni) prima della guerra troiana (e precisamente nel 26º anno del sacerdozio di Alcione ad Argo) ma indica anche che due flotte passarono in Sicilia a cinque anni di distanza l'una dall'altra; la prima, lui asserisce, degli Elimi cacciati dagli Enotri, la seconda degli Ausoni respinti dagli Iapigi; loro re sarebbe stato Sikelòs che avrebbe dato il nome all'isola. Allo stesso modo Filisto daterebbe l'immigrazione sicula nell'ottantesimo anno prima della guerra di Troia, (quindi in torno al 1.270 a.C.) ma identificherebbe i Siculi non in Ausoni od Elimi ma in Liguri, il cui capo Sikelòs era figlio di Italos, cacciati dagli Umbri e dai Pelasgi. « I Siculi passarono in Sicilia dall'Italia - dove vivevano - per evitare l'urto con gli Opici. Una tradizione verosimile dice che, aspettato il momento buono, passarono su zattere mentre il vento spirava da terra, ma questa non sarà forse stata proprio l'unica loro maniera di approdo. Esistono ancor oggi in Italia dei Siculi; anzi la regione fu così chiamata, "Italia", da Italo, uno dei Siculi che aveva questo nome. Giunti in Sicilia con numeroso esercito e vinti in battaglia i Sicani, li scacciarono verso la parte meridionale ed occidentale dell'Isola. E da essi il nome di Sicania si mutò in quello di Sicilia. Passato lo stretto, tennero e occuparono la parte migliore del paese, per circa trecento anni fino alla venuta degli Elleni in Sicilia; e ancor oggi occupano la regione centrale e settentrionale dell'isola. » (Tucidide, Storie IV,2 - Traduzione di Sgroi).
« La regione, che ora chiamasi Italia, anticamente tennero gli Enotri; un certo tempo il loro re era Italo, e allora mutarono il loro nome in Itali; succedendo ad Italo Morgete, furono detti Morgeti; dopo venne un Siculo, che divise le genti, che furono quindi Siculi e Morgeti; e Itali furono quelli che erano Enotri » (Antioco di Siracusa, in Dionigi di Alicarnasso 1, 12).
Il mitico viaggio di Enea da Troia al Lazio secondo Virgilio.

Dàrdano è una figura della mitologia greca, etrusca e romana, legato alla leggenda della fondazione di Troia.
Nella mitologia era figlio di Zeus, o del re etrusco Corito (secondo la tradizione virgiliana), e di una pleiade di nome Elettra, figlia di Atlante. Al verso 216 del libro XX dell'Iliade, Omero dice che Dardano fondò Dardania, e che poi i suoi discendenti fondarono Troia. Secondo la tradizione greca, egli veniva dall'isola di Sabagassa; ma secondo la versione etrusca narrata da Virgilio (Eneide, III 94 ss.; 154 ss.; VII 195-242; VIII 596 ss.; IX 9 ss.), egli era giunto a Samotracia proveniente dalla etrusca città di Corito (Tarquinia). Sarà questo il motivo per cui, dopo la rovina di Troia, gli dèi Penati della città imporranno ad Enea di ricondurre in Italia, a Corito-Tarquinia, i superstiti Troiani. Enea sbarcherà con i suoi alla foce del Tevere etrusco (come Virgilio chiama più volte il fiume), sul confine fra l'Etruria e il Lazio vetus, ma lui stesso, di persona, si recherà a Corito-Tarquinia, in Etruria, antica madre di Dardano e della stirpe troiana. Secondo alcune tradizioni, quando Dardano giunse in Asia Minore sposò Batiea, figlia di Teucro, il re del paese; secondo altre fonti sposò Arisbe.

La guerra di Troia (o Ilio) cantata da Omero nell'Iliade, che durerà nove o dieci anni, si combatté presumibilmente nel periodo 1.190 - 1.180 a.C.. La data della fine di questo conflitto è importante poiché è diventata un punto di riferimento per datare gli eventi, come lo fu la data del 776 a.C., anno della prima olimpiade dei Greci.
Carta dell'antica Troade.
Fonti letterarie greche parlano di una distruzione di Troia, ad opera greca, da collocarsi nel XII secolo a.C.. Tucidide parla di Agamennone e della guerra di Troia nel "II libro delle Storie" (par.9), ma la datazione è ricavabile dal passo del libro V della "Guerra del Peloponneso", il cosiddetto "dialogo dei Meli", gli abitanti dell'isola di Milo. Nel dialogo con gli Ateniesi, i Meli sottolineano di essere di tradizione dorica, essendo stati colonizzati dagli Spartani, nel contesto dell'invasione dorica della Grecia, da settecento anni. Siccome l'avvenimento è del 416 a.C. e passano ottant'anni tra la fine della guerra di Troia e la colonizzazione dorica (definita il "ritorno degli Eraclidi"), si può calcolare la data della caduta di Troia, il 1.196 a.C..
Carta dell'antica Grecia con
evidenziata l'isola di Milos.
 Eratostene di Cirene è autore della datazione che, dal III secolo a.C., riscuote maggiore successo, ma non essendoci giunte opere complete di questo autore, la sua datazione viene riportata da Dionisio di Alicarnasso nelle "Antichità romane", in un passo collegato all'arrivo di Enea in Italia e alla fondazione di Lavinio. Dionisio riporta la data esatta, in termini antichi, della caduta di Troia, che corrisponderebbe all'11 giugno 1.184 - 1.182 a.C.. L'ultima conferma sembra venire dalla "Piccola Cosmologia" di Democrito di Abdera, filosofo del V secolo a.C. e contemporaneo di Erodoto. Egli dice di aver composto quest'opera 730 anni dopo la distruzione di Troia; essendo vissuto intorno al 450 a.C., la data in questione risulta essere il 1.180 a.C. Da alcune fonti (fra cui Tucidide) pare che, alla fine della guerra di Troia (quindi intorno al 1.180 a.C.), un gruppo di Troiani, scampati su navi e alla caccia di Achei, sarebbero approdati nelle coste occidentali della Sicilia e stabilita la loro sede ai confini con i Sicani, sarebbero stati tutti compresi sotto il nome di Elimi, e le loro città sarebbero state chiamate Erice e Segesta; inoltre si sarebbero stanziati presso di loro anche un gruppo di greci originari della Focide, reduci anch'essi da Troia.

Complessivamente, si è attribuita ai Pelasgi una vocazione migratoria e, in particolare, marinara: Eusebio, nel "Chronicon", considerava quella dei Pelasgi una "talassocrazia" che potrebbe essere stata la protagonista dell'avvicendamento al governo della Tartesso iberica, appannaggio dei liguri arcaici, che passerà poi sotto il controllo dei Cartaginesi nell'VIII secolo a.C., e gli riconosceva il dominio del Mar Mediterraneo, in un periodo che sarebbe iniziato novantanove anni dopo la caduta di Troia (quindi dal 1080 a.C.) e sarebbe durato altri ottantacinque, quindi fino al 995 a.C. circa (secondo la cronologia di Eratostene di Cirene, tra il 1082 e il 997 a.C.). Non a caso l'alfabeto adottato a Tartesso ha ispirato i 5 alfabeti nord-italici del V secolo, che vennero invece attribuiti a nuove adozioni dell'alfabeto etrusco: se i Pelasgi, considerati i "Tirreni", avevano sottomesso Tartesso intorno al 1200 a.C. e da loro erano derivati gli Etruschi italici, il cerchio si chiude. Per il post "Dal linguaggio ligure al celtico nell'Italia settentrionale antica, i 5 alfabeti usati e il runico germanico", clicca QUI.

Nell'VIII secolo a.C. avviene la seconda fase della colonizzazione greca della penisola italica e della Sicilia. I flussi, in forme regolari e massicce, si verificarono o per effetto dei rapidi incrementi demografici nelle città greche di provenienza, o per contrasti di fazioni scoppiati in esse, o per attivismo piratesco o commerciale, e si sviluppò specialmente in alcune direzioni: i Calcidesi (della città di Calcide, nell'isola Eubea N.d.R.) verso la Campania e lo stretto di Messina (Cuma, Velia, Reggio), i Dori nella Sicilia (Siracusa, Agrigento), gli Achei del Peloponneso (stanziati nell'Acaia N.d.R.) verso la costa calabra (Sibari, Crotone, Metaponto), gli Spartani verso il golfo di Taranto. Gli antichi empori divennero vere e proprie colonie di popolamento grazie a un'agricoltura che si fece prospera nelle piane dell'entroterra, lungo i corsi d'acqua. Le antiche popolazioni locali, varie per stirpe e linguaggio, furono sottomesse o assimilate o ricacciate verso l'interno. Lo sviluppo urbanistico fu rapido con l'affermazione di alcune città dalle piante regolari, che operarono concentrazioni territoriali dandosi costituzioni anche più evolute di quelle della madrepatria (a opera di Caronda a Reggio, di Zaleuco a Locri Epizefiri), arricchendosi di templi fastosi, di cui rimangono oggi resti grandiosi (Posidonia, Selinunte, Segesta, Agrigento), sviluppando produzioni d'arte locale (famose le terrecotte di Locri), creando attive scuole filosofiche (quella eleatica di Parmenide a Velia e il pitagorismo a Crotone), diffondendo l'alfabeto tra gli Italici. Il massimo splendore si ebbe nella Magna Grecia tra i sec. VI e V a. C.: le emissioni monetarie in oro, argento e bronzo del tempo testimoniano il grado di prosperità. Gli apporti degli indigeni diedero poi una particolare fisionomia alle espressioni dell'arte locale. Operate le concentrazioni locali, con fondazione di numerose nuove città, non mancarono tentativi di sopraffazione delle une a danno delle altre, ripetendosi gli aspri particolarismi delle città greche di provenienza: nel 540 a. C., Siris, sulla costa lucana fu distrutta da una coalizione achea e la stessa sorte toccò nel 510 a Sibari rasa al suolo dai Crotoniati. Vi furono però anche seri tentativi di concentrazioni politiche ad ampio raggio, con le guerre contro i Cartaginesi in Sicilia e contro le popolazioni osche in discesa dall'Appennino nell'Italia meridionale, a iniziativa, specialmente nel sec. VI-V a. C., di tiranni locali. Gelone di Siracusa nel 480 sconfisse, assieme a Terone di Agrigento, i Cartaginesi a Imera, ponendo le premesse di una rapida espansione siracusana che provocò più avanti l'intervento di Atene in appoggio a Leontini: la spedizione ateniese si risolse in un disastro (413 a. C.), ma anche Siracusa ne uscì indebolita nella lotta con Cartagine e solo il tiranno Dionisio I riuscì a ripristinare, nella prima metà del sec. IV a. C., la sua egemonia in quasi tutta la Sicilia e nella stessa Calabria con la presa di Reggio e di Crotone. Taranto aveva raggiunto nelle contese locali un alto grado di potenza, ma nella seconda metà del sec. IV a. C. fu costretta a richiedere a più riprese aiuto a Sparta per difendersi dalla pressione delle popolazioni italiche, e successivamente a far intervenire Pirro per tener testa a Roma finendo, nel 272 a. C., con tutta l'Italia meridionale, sotto il dominio romano dopo il rientro di Pirro in Grecia. Nel contrasto che seguì tra Roma e Cartagine durante la I e la II guerra punica, anche la Sicilia cadde sotto il dominio di Roma (Siracusa fu espugnata da Marcello nel 212 a. C.), diventando, con la sua economia agricola a intensa produzione, granaio di Roma. Le vicende connesse con la spedizione di Pirro prima e con le guerre puniche poi provocarono una generale decadenza della Magna Grecia, la quale però continuò ad avere grande influsso sul piano culturale e religioso, specialmente con l'immigrazione a Roma di suoi elementi. Uno schiavo di Taranto fu il primo poeta romano, Livio Andronico, e dall'Italia meridionale erano oriundi gli altri poeti della prima letteratura latina, Nevio, Ennio, Pacuvio. La Magna Grecia, anche se aveva perduto la sua autonomia politica, continuò così nella sua funzione di irradiamento in Occidente della civiltà ellenica. La presenza greca lasciò tracce indelebili nell'Italia meridionale e in Sicilia. I moderni grecismi nei linguaggi locali derivano però dall'età bizantina.

La seconda fase di colonizzazione greca sul suolo italico fu contemporanea alla fondazione di Roma, per cui la derivazione dei Latini dai Greci non è molto attendibile.

Da Andrea Carandini in: https://www.youtube.com/watch?v=mfxvEHr842Q.
Ricostruzione di Septimontium
Lo storico antiquario Marco Terenzio Varrone (116 a.C. - 27 a.C.) tramanda la conoscenza di un grande centro protourbano non centralizzato chiamato Septimontium, poco più piccolo di quella che sarebbe stata Roma almeno un secolo prima della sua fondazione.
Con i suoi 290 ettari, la prima Roma era più estesa di Veio, la maggiore città etrusca, e proprio gli etruschi furono fra i primi fondatori di città, a cui si rivolse Romolo per conoscere i riti e le liturgie augurali delle fondazioni.
Alla fondazione della città sono legate le tre imprese di Romolo:
Schematizzazione delle tre
imprese di Romolo
la prima impresa di Romolo (con Tito Tazio, che co-regnava come re dei Sabini alleati) fu la benedizione del Palatino del 21 aprile (l'augurium) come cuore dell'abitato, con la cittadella del re.
La seconda impresa di Romolo fu l'istituzione del Foro, del Campidoglio e dell'Arce, centro politico-sacrale della città-stato, in territorio neutro, super-partes.
La terza impresa di Romolo fu l'istituzione di tre ordinamenti correlati fra di loro: l'ordinamento del tempo, il calendario; l'ordinamento nello spazio con il confine, le mura con le porte della città (attorno al pomerium); l'ordinamento fra la gente, la ripartizione della popolazione in trenta assemblee, le curie (da couviria, assemblea dei maschi adulti).

Dai Greci deriva sicuramente l'alfabeto etrusco e dall'etrusco quello latino.

Carta con sottolineate le città
Calcide, Cuma (eolica) e Focea
Gente originaria di Calcide, città della greca isola Eubea, (dove si parlava un dialetto ionico n.d.r.), nel 775 a.C. fondò in Italia una colonia che chiamarono Pithecusa, sull'isola di Ischia e fondarono poi, nel 760 a.C., Kyme (Cuma), nome greco che significa "onda", facendo riferimento alla forma della penisola sulla quale è ubicata, nel continente di fronte all'isola di Ischia, insieme a coloni provenienti da Cuma (è dibattuto se si sia trattato di Cuma euboica o di Cuma eolica, ma probabilmente si tratta della prima).
Percorso marittimo dall'isola Eubea
all'isola di Ischia.
Secondo la leggenda, i fondatori di Cuma, sotto la guida di Ippocle di Cuma (probabilmente euboica) e Megastene di Calcide, scelsero di approdare in quel punto della costa perché attratti dal volo di una colomba o secondo altri da un fragore di cembali. Cuma fu la prima colonia greca fondata sul territorio continentale italico (nella seconda fase di colonizzazione n.d.r.) da genti che si definivano "Graikòi" nel loro dialetto, che era il nome distintivo delle genti marittime della costa dell'isola Eubea e della limitrofa costa della Beozia. Nome che i Romani erroneamente recepirono come appellativo di tutte le genti elleniche, trasmettendolo fino a noi come "Graeci": per questo motivo in Occidente l'Ellade è chiamata Grecia.
I fondatori della nuova colonia trovarono un terreno particolarmente fertile ai margini della pianura campana e pur continuando le loro tradizioni marinare e commerciali, rafforzarono il loro potere politico ed economico proprio sullo sfruttamento della terra ed estesero il loro territorio, nonostante le mire dei popoli confinanti.
Cuma fu la colonia che diffuse in Italia la cultura greca, diffondendo l'alfabeto calcidese, che assimilato e fatto proprio dagli Etruschi e dai Latini, divenne l’alfabeto della lingua e della letteratura di Roma e poi di tutta la cultura occidentale.
Dall'alfabeto fenicio agli alfabeti greci, dal greco di Calcide
agli alfabeti etruschi e al latino.
Tante furono le battaglie che i Cumani combatterono per difendere la propria terra dagli attacchi degli Etruschi di Capua, degli Aurunci e dalle popolazioni interne della Campania. Intimamente legato a Cuma è il mito della Sibilla Cumana. Già dal terzo libro dell'Eneide è scritto che Enea, se vorrà finalmente trovare la terra destinata al suo popolo dagli dei, dovrà recarsi ad interrogare l'oracolo di Cuma (Eneide, III, 440-452). Oggi Cuma (Cumae in latino) è un sito archeologico della città metropolitana di Napoli, nel territorio dei comuni di Bacoli e di Pozzuoli, localizzato nell'area vulcanica dei Campi Flegrei e  l'antro della Sibilla costituisce un'attrazione turistica di notevole interesse. Tra il 756 a.C. ed 743 a.C., coloni che provenivano dalla stessa città euboica di Calcide, fondarono le due città di Zancle (Messina) e Rhegion (Reggio), rispettivamente sulla sponda siciliana e quella calabrese dello stretto che separa le due terre.
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