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domenica 15 marzo 2015

Elenco degli storici antichi dell'Occidente

Rappresentazione della Storia
La maggior parte delle comunità ed entità sociali di questo pianeta, da quelle religiose a quelle politiche fino agli scout, sono dominate o dirette da individui, gruppi o corporazioni che, anche in contesti democratici, esercitano un controllo su di esse al fine di divenirne i signori e padroni. Il controllo sulle masse è molto ramificato ed è esercitato sulla maggior parte dei componenti delle varie entità sociali. Il potere dei "centri di controllo" è ottenuto e mantenuto attraverso un primato in ambito religioso e/o politico.

- Nell'ambito religioso viene proposta (a volte imposta) nella collettività, una visione di valori d'ambito trascendentale convincente, che coinvolga la sfera psicologico-morale, avvalorata da memorie perlopiù scritte (testi sacri) che assicurino vantaggi individuali, da premi post-mortem a benessere interiore fino a quelli di tipo economico (per sacerdoti ed apparati clericali). L'assoggettamento, che può anche contemplare la coercizione sia psicologica che fisica, è spesso associato alla minaccia di una "maledizione" o "punizione spirituale" per chi non appartiene alla comunità. Storicamente, alcune organizzazioni religiose hanno organizzato piccoli gruppi etnici disparati in popoli conquistatori, come ad esempio gli ebrei, gli islamici, i cristiani ecc.

- Mentre nell'antichità il potere politico era associato a quello religioso tramite l'assunto della divinità del monarca, póleis greche e repubblica di Roma a parte, dal secolo scorso possiamo distinguere i nostri sistemi sociali fra dittature (controllo dei mass-media, improntati all'esaltazione eroica, spesso con culto della personalità) e gestioni assembleari come monarchie e repubbliche parlamentari e presidenziali (patriottico-nazionaliste) espresse dai maggiori consensi, tramite elezioni. Per cui si può dire che mentre le religioni hanno assemblato dei Popoli, i partiti politici hanno determinato degli Stati.
In entrambi i casi le parti in gioco avvalorano la propria posizione politica sulla lettura del passato, sviscerando la criticità di determinate situazioni avvenute e proponendo quindi nuove via d'uscita: è determinante quindi la veridicità delle memorie su cui basano le loro argomentazioni e l'opinione che propongono nella lettura degli episodi del passato. Per quanto al momento assistiamo ad una globalizzazione del potere finanziario che non ha frontiere e che subordina, emana e controlla il potere politico, quello che si evince è l'importanza delle fonti storiche nell'analisi delle varie memorie che ci vengono proposte.

Un controllo della comunicazione che si preoccupi di fornire una determinata versione della memoria storica con la conseguente promozione di valori, pincìpi e conseguenti costumi e morali (attraverso i mass-media) rimane dunque una costante dei "centri di potere" e mentre i compiti della rappresentazione del sentimento comune "di stato" e popolare sono affidati ad artisti, poeti e letterati, agli storici è affidato il compito di registrare e tramandare la descrizione dei fatti, gli episodi che caratterizzano un determinato arco di tempo. Può capitare (e capita spesso) che esprimano il loro punto di vista, che giustifichino o il proprio "partito" o, quasi sempre, chi il potere lo esercita e gli permetta di rendere pubbliche le proprie opere. Comunque sia, stilando una memoria scritta del loro presente divengono, in tempi successivi, le fonti storiche.
La Storia, comunque, non è una scienza vera e propria. Per quanto si affermi che inizi dai primi documenti scritti, non è possibile dimostrarla in laboratorio e i moventi e le ipotesi che può suggerire possono essere interpretazioni personali e di parte. Una fonte storica può inoltre esporre i fatti accaduti esaltando certi aspetti e/o nasconderne altri. Non a caso si dice che la storia è scritta sempre da chi vince e chi perde non ha voce in capitolo. Gli storici possono diventare strumenti nel controllo della comunicazione e l'affidabilità delle loro narrazioni è proporzionale alla loro integrità, intelligenza e formazione culturale.

Personalmente penso che la Storia sia come un esteso tessuto che può mostrarci un disegno che, per essere compreso, vada analizzato filo per filo, nella trama e nell'ordito, per coglierne l'immagine complessiva.

Friedrich Wilhelm Nietzsche
Nelle "Considerazioni inattuali", Friedrich Nietzsche (1844-1900) scrive a proposito della storia: "non esistono fatti, ma solo interpretazioni", vale a dire opinioni sui fatti: ogni fatto che ci viene tramandato o semplicemente raccontato non è mai il fatto in sé, ma è sempre l'interpretazione di quel fatto da parte del narratore, sempre accettando che tale fatto sia realmente accaduto. La cultura moderna appare a Nietzsche come in preda ad una "ipertrofia" del sapere storico, una sopravvalutazione causante una malattia storica. Alla descrizione e alla cura di questa nociva malattia, Nietzsche tenta di provvedere con la seconda delle "Considerazioni inattuali", intitolata "Sull'utilità e sul danno della storia per la vita", in cui sostiene che i fatti in sé sono stupidi e ne occorre quindi l'interpretazione. Sono le teorie ad essere intelligenti. Il senso della storia è spesso nemico della vita, perché ci rende schiavi del passato, passivi. Ne consegue una sfiducia nella propria capacità creativa e il formarsi di una pura erudizione da enciclopedie ambulanti, che annulla la personalità: "nessuno osa più esporre se stesso, ma ciascuno prende la maschera di uomo colto, di dotto, di poeta". Si diventa così "uomini che non vedono quello che anche un bambino vede". In particolare riconosce che:
- la storia archeologica si ferma al mediocre, si attarda ad ammirare il passato, anche nei suoi aspetti mediocri e meschini, per giustificare la presente mediocrità;
- la storia monumentale cerca nel passato esempi e modelli positivi, che mancano nel presente, onde poter guardare al futuro con la sicurezza che ciò che è stato possibile in passato lo sarà ancora;
- solo la critica della storia è davvero positiva, in quanto non si limita a favorire l'imitazione del passato, anche eroico, ma lo vuole superare.
Fondamentalmente Nietzsche si auspica che l'uomo del futuro, che lui definisce l'"oltre-uomo" (non super-uomo, definizione tradotta erroneamente da "Übermensch") abbia il coraggio di fare a meno di qualsiasi dio (per cui, per l'oltre-uomo, Dio è morto) e di navigare senza legami e senza paura verso il proprio divenire.

Il 29-10-2006, l'archeologo Andrea Carandini, che ha realizzato numerosi scavi nel centro di Roma, racconta alla cittadinanza ( QUI ) gli eventi che portarono al 21 aprile del 753 a.C., data più simbolica che vera della fondazione di Roma. Nel prologo al suo discorso, dice: "Noi archeologi siamo presi da una febbre, una febbre non dell'oro ma della Storia, che ci divora in qualche misura, perché non troviamo evidentemente nella vita tutto quello che vorremmo e lo andiamo a cercare in altre epoche, per allargare la varietà della vita, la varietà della Storia..."

Ora, visto che possiamo pensare che i primi documenti scritti, le prime fonti storiche, risalgano al 3500 p.e.v. (a.C.) con l'introduzione dell'alfabeto cuneiforme sumerico, sappiamo che il primo storico riconosciuto è stato Ecateo di Mileto (Mileto, 550 - 476 a.C.) e per i tempi antecedenti possiamo comunque estrapolare delle informazioni dalle narrazioni mitologiche e/o religiose oltre che dalle manifestazioni di artisti e arti del periodo temporale che si vuole prendere in considerazione. 

Per cercare di interpretare e criticare il periodo proto-storico, Friedrich Wilhelm Nietzsche ci propone alcune chiavi di lettura. Nietzsche, che vive con disagio il suo periodo storico, contrassegnato dal positivismo, in cui quella che lui definisce la "gaia scienza" la fa da padrona, nel suo primo libro, "La nascita della tragedia", analizza il senso della vita nell'antica Grecia, dove appariranno i primi storici e quindi le più antiche fonti storiche dell'occidente. In quei tempi, quando ancora non erano nate né la scienza né la storia, il sentire metafisico comune oscillava dall'irrazionale collettivo al razionalismo individuale. Nel suo scritto, Nietzsche descrive la prima forma della tragedia greca come una rappresentazione che sottintende uno spirito "irrazionale" e collettivo, dove la narrazione è svolta da un coro e non vi sono attori con partiture individuali né costumi: Dioniso, il dio dell'ebbrezza, è lo spirito di questa fase. Nietzsche se la prende quindi con il successivo Socrate che falsa, secondo lui, il vissuto con la "razionalità", applicando il ragionamento nella lettura del quotidiano e nel pensiero. E Apollo, nella sua individualità solare rappresenterà questa nuova fase nel teatro, per cui nella tragedia appariranno attori e maschere che tratteranno narrazioni più costruite ma soprattutto egocentriche. Con lo sguardo rivolto alla Grecia antica, Nietzsche si sente alieno al mondo moderno, erede dell'ottimismo socratico e intraprende una battaglia contro il presente e la sua mancanza di vera cultura scrivendo le "Considerazioni inattuali": inattuali poiché enunciano tesi contrastanti con i valori dominanti dell'epoca, scritte per stimolare la progettazione di un futuro su altre basi e non per il presente.

Da http://www.treccani.it/enciclopedia/apollineo-dionisiaco_%28Dizionario-di-filosofia%29/ : Lo spirito apollineo è ordine e armonia delle forme, mentre lo spirito dionisiaco è ebbrezza ed esaltazione entusiastica priva di forma: il primo domina l’arte plastica, il secondo pervade la musica. La straordinaria forza vitale della tragedia greca antica nacque, secondo Nietzsche, dal loro incontro: nelle tragedie di Eschilo e Sofocle sarebbe infatti avvenuto il miracolo dell’unione tra l’entusiastica accettazione della vita che si esprime nell’ebbrezza creativa e nella passione sensuale (elemento dionisiaco) e il tentativo di risolvere e superare il caos in forme limpide e armoniche (elemento apollineo). Ma il ‘miracolo’, secondo Nietzsche, ebbe vita breve: già a partire da Socrate prevalse nella cultura greca l’atteggiamento apollineo, ossia l’incapacità di sostenere la tragica realtà della vita - con i suoi dolori, le sue assurdità, le sue insensatezze - e il desiderio di rappresentarsela come una vicenda ordinata, razionale, dotata di senso. La perdita dell’elemento dionisiaco è all’origine, secondo il filologo tedesco, della decadenza del mondo occidentale, che trova espressione nell’allontanamento dai valori vitali (bellezza, salute, forza, potenza) e nella lunga serie di ‘menzogne’ (la più grande delle quali è Dio) con le quali gli uomini hanno ingannato sé stessi per secoli.

Apollineo e dionisiaco nella "Nascita della Tragedia"
Ogni vera arte è o apollinea o dionisiaca o risultato di entrambe: si tratta di impulsi o tendenze artistiche antitetici, dalla cui modulabile combinazione scaturisce in ogni tempo l'opera d'arte. Apollineo e dionisiaco costituiscono gli unici veri impulsi artistici: l'arte apollinea per eccellenza è la scultura, quella dionisiaca la musica (almeno nelle sue forme più elevate). La tragedia è il classico esempio di perfetta sintesi dei due impulsi.
Tuttavia apollineo e dionisiaco trovano espressione anche a livello elementare nel sogno (che è apollineo) e nell'ebbrezza (che è dionisiaca): nel sogno il mondo viene plasmato dal soggetto, nell'ebbrezza è invece il soggetto che viene plasmato dalla natura. In questo senso l'arte apollinea interagisce con il sogno e quella dionisiaca interagisce con l'ebbrezza, con l'estasi. L'artista apollineo gioca con la realtà nella propria ideazione creativa, gioca con il sogno nella propria traduzione produttiva. L'artista dionisiaco, invece, da un lato si abbandona all'ebbrezza, dall'altro si spia in quello stato: così nella sua creazione si intrecciano sobrietà e ebbrezza. Apollo è il dio solare della forma e della bellezza, dell'equilibrio e della armonia.
Dioniso, invece, il dio della perdita di ogni individuazione e dell'esperienza mistica dell'appartenenza nel tutto della natura.

La fase più antica della cultura greca (omerica) si sviluppò sotto il dominio esclusivo dell'apollineo (nell'epica, appunto). La poesia epica (dal greco épos, racconto) nasce e trova motivo di sviluppo nell'esigenza, che è di tutti i popoli, di conservare nel tempo la memoria delle proprie vicende e dei propri eroi, rendendola un patrimonio comune. Essa, attraverso la narrazione degli eventi di cui sono stati protagonisti i campioni di un popolo, permettono al popolo stesso di riconosce le proprie radici, divenendo anche lo strumento con cui celebrare il sentimento di appartenenza al proprio gruppo. Non è un genere letterario esclusivo della civiltà greca, ma è presente nel patrimonio storico e culturale di molti popoli. Dall'antico poema mesopotamico che ha come protagonista l'eroe Gilgamesh, alla sterminata narrazione indiana del Mahabharata, alle grandi saghe appartenenti alle popolazioni germaniche, come Sigfrido e i Nibelunghi, fino alla Gerusalemme liberata di Tasso o al Kalevala ottocentesco dello svedese Lönnrot, appare evidente come un unico filo leghi ciascun popolo ai miti delle proprie origini e come il bisogno di riconoscersi in una comune identità generi poesia. Durante quella stessa fase arcaica della cultura greca, il dionisiaco era appannaggio dei culti selvaggi del vicino Oriente: la loro progressiva penetrazione in Grecia produsse la reazione ancora riscontrabile nell'irrigidimento apollineo dell'arte dorica. Dal compromesso scaturì il culto greco di Dioniso, raffinato rispetto ai precedenti asiatici e simbolicamente collegato a quello di Apollo proprio nel centro della venerazione apollinea, a Delfi.

Con il culto di Dioniso si diffuse potentemente in Grecia anche la musica. Il flauto e il ditirambo (poesia lirica corale) caratterizzarono il culto del nuovo dio: in alternativa alla musica apollinea e al suo ritmo, eseguita con la lira, la musica dionisiaca introdusse la potenza emotiva della tonalità, della melodia e dell'armonia.
La religione dionisiaca fu una religione misterica: al centro del suo culto si ritrovano la rievocazione della dolorosa lacerazione della unità primordiale nella molteplicità propria della individuazione e la aspirazione degli iniziati alla sua ricostituzione, nella perdita della personale identità. Così nel ditirambo la potenza della musica dionisiaca, coniugata ai movimenti della danza, ne riproduceva simbolicamente agonia e gioia.
La religione olimpica suggerisce una piena adesione e fruizione della vita, in tutti i suoi aspetti, a dispetto di preoccupazioni d'ordine morale o della spiritualità propria di una religione della trascendenza. Tuttavia ai Greci non sfuggiva il volto orrido dell'esistenza: la verità dionisiaca rivelava lo sfondo tragico della vita, la irrisolta contraddizione, il dolore e l'eccesso che la caratterizzano, come maledizioni dell'individuazione. Ne sono ancora evidenze i risvolti oscuri della mitologia e la sapienza di Sileno.

Nel mito greco, il nome greco Dioniso vuol dire "giovane figlio di Zeus" e infatti Dioniso nacque dall'unione tra Zeus e la bella Semele. Era, venuta a conoscenza della relazione segreta tra i due, assunse le sembianze di una vecchia e consigliò Semele di chiedere a Zeus di mostrarsi nella sua vera natura. Semele credette alla vecchia e insistette a tal punto che Zeus, adirato, mostrò la sua folgore che incenerì all'istante Semele. Anche questa volta Era aveva avuto la sua vendetta ma Zeus volle salvare il frutto della sua relazione, Dioniso. Lo affidò al satiro Sileno che viveva nei boschi e fu per lui maestro di vita.
Sileno (da cui i nomi Silvio e Silvano) era il dio degli alberi, figlio di Pan (il dio silvestre) e di una ninfa. Dall'aspetto di un anziano corpulento, calvo e peloso, spesso raffigurato con attributi animaleschi, aveva il dono di una straordinaria saggezza, disprezzava i beni terreni ed aveva anche il dono della divinazione. Re Mida lo catturò proprio per costringerlo (con successo, secondo alcune versioni del mito) a rivelargli i suoi poteri che davano sconfinata saggezza e la capacità di prevedere il futuro. Si narra che il saggio Sileno, dopo aver svolto il suo ruolo nell'accompagnare il giovane dio durante il cammino della crescita, si sarebbe poi abbandonato completamente al vizio del bere. Si credeva partecipasse ai banchetti sacri a Dioniso presentandosi a cavallo di un'asina e lo si vede spesso far parte del tiaso dionisiaco. Il tìaso era in origine, nella mitologia greca, il corteo al seguito di Dioniso, i cui membri più significativi erano le Menadi, o figure demoniache, a metà strada tra l'uomo e gli animali selvaggi, come i Sileni, i Satiri, Pan e i Centauri.
Eracle fece parte del corteo dionisiaco per un breve periodo, dopo essere stato sconfitto dal dio in una sfida nel bere.
I sileni, nella mitologia greca, erano divinità minori dei boschi, di natura selvaggia e lasciva, imparentati con i centauri e nemici dell'agricoltura, molto spesso assimilati ai satiri, tanto che il termine sileno viene anche usato per indicare un satiro anziano.

La religione olimpica (con l'arte a essa connessa) incarnò la reazione allo strato di credenze pre-elleniche: al terrore titanico succedette la vittoria della gioia olimpica. Il mondo olimpico consistette nella creazione dell'istinto apollineo per la bella illusione, mentre il terrore richiedeva la negazione della gioia allo scopo di rendere sopportabile l'esistenza.
Così nel mondo greco arcaico la tendenza apollinea risultò dominante, coprendo con il gusto per la misura e l'equilibrio ogni accenno di eccesso o di deformità, come pure ogni spinta alla esagerata autoaffermazione, riferibili in qualche modo allo scenario preellenico. E la successiva diffusione del culto di Dioniso produsse la risposta dorica. La tragedia attica costituì una ulteriore fase, di correlazione tra le due tendenze. La tragedia nacque dalla lirica, che a sua volta si era delineata come genere con Archiloco (VII sec. a.C.). La sua natura non sarebbe stata soggettiva, come tradizionalmente accettato: in essa, come in ogni vera arte, si deve invece riscontrare la presenza dell'oggettività, come azzeramento della volontà individuale. Il lirico è in primo luogo un compositore e in quanto tale, è un artista dionisiaco che abbandona la propria soggettività individuale per identificarsi con la vera realtà metafisica ed esprimerla nella musica. Sotto l'influenza apollinea  riesce a simbolizzare la musica in idee e linguaggi specifici. La musica precede l'idea. Nella Grecia antica, la lirica (o lyrica) era quel genere poetico che faceva ricorso al canto o all'accompagnamento di strumenti a corde come la lyra, differenziandosi in questo dalla poesia recitativa. La lirica poteva essere accompagnata da strumenti a fiato e si parlava in questo caso di modo aulodico, o da strumenti a corda e in questo caso si parlava invece di modo citarodico. Nell'usare oggi l'espressione "lirici greci" si fa riferimento, in senso più lato, a tutto un modo di produrre versi che copre in Grecia l'arco di due secoli, il VII ed il VI secolo a.C.. Il contributo particolare di Archiloco fu quello di introdurre il canto popolare in letteratura: come nella lirica, anche in quel caso l'elemento dionisiaco (la musica) risulta originario rispetto alla simbolizzazione verbale (apollinea). La tragedia greca avrebbe avuto originariamente, secondo la tradizione che risale a Aristotele, una connessione con il culto di Dioniso: allestita all'interno delle celebrazioni dionisiache ad Atene, sarebbe sorta dal ditirambo dionisiaco. In questo senso un ruolo centrale l'avrebbe avuto il coro tragico, a cui si riduceva in origine l'intera recita. Il coro rappresentava il corteo dei seguaci del dio, che nell'estasi si ritrovavano trasformati in satiri.

Satiro che feconda una
ninfa, da un disegno di
Agostino Carracci.
La funzione primitiva della tragedia greca, sarebbe quindi stata quella di esprimere, con quelle figure semibestiali, il sentimento secondo cui in fondo alle cose la vita è, a dispetto di ogni mutare delle apparenze, indistruttibilmente potente e gioiosa. Alla presenza di quel coro la comunità poteva riporre la propria veste civile e recuperare il senso dell'unità con il tutto della natura: una esperienza consolatoria resa necessaria dall'estasi dionisiaca, con la quale si era gettato uno sguardo sull'essenza dolorosa dell'esistenza. I Greci trovarono nella mediazione artistica del coro satiresco il riscatto dalla nausea radicale della ebbrezza dionisiaca. Nella loro condizione estatica i seguaci di Dioniso si vedevano trasformati in satiri: questo sarebbe dunque stato il punto di partenza del dramma tragico. A differenza di quella del poeta epico, la visione del coro non implicava distacco e esteriorità, ma piena partecipazione e fusione con le figure dell'estasi. Tuttavia tale visione dionisiaca necessitava di una seconda esperienza visionaria, per poter realizzare la scena originaria del dramma: la rappresentazione apollinea del dio da parte di un attore, che affiancava il coro. Ciò comportò anche la ulteriore frattura nel seguito degli adoratori di Dioniso, tra coro e spettatori. Il coro aveva allora il compito di commuovere gli spettatori, così che essi non vedessero un attore in scena, ma la figura visionaria che l'attore intendeva rappresentare. In questo lo spettatore doveva ancora partecipare della visione del coro. La tradizione antica attesta il nesso tra le prime forme tragiche e i miti relativi alle sofferenze di Dioniso, il suo sbranamento a opera dei Titani e la sua rinascita. La dottrina misterica alla base della tragedia consiste appunto in quanto alluso nel mito: l'unità fondamentale di tutte le cose, la individuazione come colpa, la speranza della reintegrazione nell'unità. L'accettazione del culto pubblico di Dioniso nella seconda metà del VI sec. A.C. coincide con lo sviluppo del coro ditirambico in vero e proprio dramma: così anche la sapienza dionisiaca finì per servirsi della mitologia olimpica per esprimere la propria visione del mondo, intrecciando il mito dionisiaco con quello della tradizione epica. Dioniso rimaneva tuttavia l'unico eroe originario, sempre in scena, dietro la maschera dei diversi eroi della mitologia popolare olimpica. In questo senso lo scadimento della religiosità olimpica trovò nella musica dionisiaca uno strumento di catarsi, la sua corrente trivializzazione si riscattò nella profondità del pessimismo dionisiaco.

Metopa del Partenone: lotta fra
un Centauro e un Lapita.
Considerando il pensiero di Nietzsche, potremmo interpretare le mitologie arcaiche, le sole fonti che abbiamo a disposizione insieme alle scoperte archeologiche, alle espressioni artistiche e alla lirica epica, per ipotizzare quali avvenimenti hanno costituito la storia antica.

A proposito del fregio sulla metopa del Partenone qui a fianco, nella mitologia greca i Lapiti erano un popolo leggendario che abitava la vallata del Peneo, in Tessaglia. L’origine dei Lapiti, al pari dei Mirmidoni e delle altre tribù tessale, risale ad un’epoca pre-ellenica. Le antiche genealogie sostenevano che la loro stirpe fosse imparentata con quella dei Centauri: in particolare, secondo una leggenda, Lapite e Centauro sarebbero stati fratelli gemelli figli di Apollo e della Ninfa Stilbe, figlia del dio fluviale Peneo. Lapite era un abile guerriero, mentre Centauro era un essere deforme che visse insieme a dei cavalli e si accoppiò con delle giumente, generando i Centauri, creature metà uomini e metà cavalli. Lapite divenne invece il progenitore della stirpe che da lui prende il nome, e tra i suoi discendenti si trovano re e guerrieri come Issione, Piritoo, Ceneo e Corono, nonché i veggenti Idmone e Mopso. La madre di Piritoo era Dia figlia di Deioneo (o Ioneo) mentre, come era comune per molti eroi, egli aveva sia un padre divino che un padre mortale. Il suo padre immortale era Zeus che però, per mettere incinta Dia, aveva dovuto assumere la forma di un cavallo, ragion per cui i Lapiti divennero anche abili cavalieri. A loro era attribuita l’invenzione del morso delle briglie. Secondo l’Iliade i Lapiti parteciparono alla guerra di Troia con quaranta navi sotto il comando di Polipete, figlio di Piritoo e di Leonteo, figlio di Corono.

La Centauromachia - La più famosa leggenda che coinvolge i Lapiti è quella della loro battaglia contro i Centauri in occasione della festa nuziale di Piritoo, la cosiddetta "Centauromachia". I Centauri erano stati invitati ai festeggiamenti ma, non essendo abituati al vino, ben presto si ubriacarono, dando sfogo al lato più selvaggio della loro natura. Quando la sposa Ippodamia ("colei che doma i cavalli") arrivò per accogliere gli ospiti il centauro Euritione balzò su di lei e tentò di stuprarla. In un attimo anche tutti gli altri centauri si lanciarono addosso alle donne ed ai fanciulli. Naturalmente scoppiò una battaglia nella quale anche l’eroe Teseo, amico di Piritoo, intervenne in aiuto dei Lapiti. I centauri furono alla fine sconfitti e scacciati dalla Tessaglia e ad Euritione furono mozzati naso ed orecchie. Durante lo scontro cadde il Lapite Ceneo, che originariamente era una ragazza di nome Ceni ed era la favorita di Poseidone, che per esaudire una sua supplica, la trasformò in un uomo, rendendola un guerriero invulnerabile. Donne guerriere di questo tipo, a stento distinguibili dagli uomini, erano comuni tra i cavalieri Sciti e furono ancora presenti nella tradizione albanese. Nel corso della battaglia contro i Centauri, Ceneo si era dimostrato invulnerabile ancora una volta, finché i Centauri non decisero semplicemente di schiacciarlo con dei massi e dei tronchi d’albero: a quel punto egli sprofondò, ancora apparentemente illeso, nelle profondità della terra, dalle quali riemerse trasformato in un uccellino.

Piero di Cosimo - Battaglia fra Centauri e Lapiti (1500-1515)
Da http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Piero_di_
Cosimo_015.jpg#/media/File:Piero_di_Cosimo_015.jpg
Quando l’interpretazione dei miti greci cominciò ad essere mediata dal pensiero filosofico, la battaglia tra Lapiti e Centauri fu vista come un’allegoria della lotta interiore tra gli istinti selvaggi dell’uomo e l’educazione basata sulla civiltà, rappresentata dalla giusta comprensione, da parte dei Lapiti, dell’uso che andava fatto del vino donato dagli dei, che doveva essere allungato con acqua e bevuto senza abbandonarsi agli eccessi. Gli scultori Greci della scuola di Fidia concepirono questa battaglia come una lotta tra l’umanità e mostri maligni che simbolicamente rappresentava anche il conflitto tra la civile Grecia e i barbari dell’impero Persiano. La battaglia tra Lapiti e Centauri fu rappresentata sulle sculture dei fregi che decoravano il Partenone per richiamare il reciproco rispetto e l’alleanza tra l’ateniese Teseo e il Lapite Piritoo, nonché su quelle del tempio di Zeus ad Olimpia. Fu inoltre un tema estremamente popolare per i decoratori di vasellame.

Passo dunque ad inserire un'elenco dei poeti proto-storici e dai più antichi storici dell'occidente a quelli alto-medievali di cui si abbiano notizie o di cui conosciamo almeno parte delle opere, coloro che presumo possano averci lasciato delle fonti storiche su cui impostare delle riflessioni sulla Storia, un esteso tessuto che può mostrarci un disegno che, per essere compreso, va analizzato filo per filo, nella trama e nell'ordito, per coglierne il complessivo:

Raffigurazione di Omero.
Per quello che riguarda Omero, considerato il primo poeta epico greco, si pensa che sia esistita, piuttosto che una sola persona, una scuola che potremmo definire omerica, che avrebbe formato una serie di poeti che recitavano, a memoria, versi inerenti l'epoca acheo-micenea del XX secolo a.C.. Fra l'altro, Iliade ed Odissea presentano evidenti differenze metriche che denotano diversi autori in tempi piuttosto distanti, di almeno cent'anni: si pensa al IX secolo a.C. per l'Iliade e il VII secolo a.C. per l'Odissea. In mancanza di fonti storiche, l'analisi della mitologia e della poesia epica può essere illuminante su fatti di cui si sia voluta tramandare la memoria. La poesia epica (dal greco épos, racconto) nasce e trova motivo di sviluppo nell'esigenza, che è di tutti i popoli, di conservare nel tempo la memoria delle proprie vicende e dei propri eroi, rendendola un patrimonio comune. L'Epica, attraverso la narrazione degli eventi di cui sono stati protagonisti i campioni di un popolo, permette al popolo stesso di riconosce le proprie radici e diventa anche uno strumento con cui celebrare il sentimento di appartenenza alla propria comunità. Un filo lega ciascun popolo ai miti delle proprie origini e il bisogno di riconoscersi in una comune identità, genera poesia.

Poeti proto-storici dell'antica Grecia:
Esìodo (Cuma o Ascra in Grecia, VIII secolo a.C. - VII secolo a.C.)
Archiloco (Paro, 680 a.C. circa - 645 a.C. circa)
Eschilo di Eleusi (Eleusi, 525 a.C. - Gela, 456 a.C.)

Storici antichi dell'Occidente:
 1. Ecateo di Mileto (Mileto, 550 - 476 a.C.)
 2. Ellanico di Mitilene o di Lesbo o Lesbio (Mitilene, 490 a.C. circa - Atene, 405 a.C. circa)
 3. Erodoto (Alicarnasso, 484 a.C. - Thurii, 425 a.C.)
 4. Antioco di Siracusa o Senofaneo (Siracusa, 460 a.C. - ...)
 5. Tucidide (Alimunte in Attica, 460 a.C. circa - dopo il 404 a.C., o secondo altri, dopo il 399 a.C.)
 6. Stesimbroto di Taso (Taso, seconda metà del V secolo a.C.)
 7. Filisto di Siracusa (Siracusa, 430 a.C. - 356 a.C.)
 8. Senofonte (Erchia in Attica, 430/25 a.C. circa - Corinto, 355 a.C. circa)
 9. Teopompo (Chio, anno discusso: 404/3 o 378/7 a.C. - 320 a.C.)
10. Eforo di Cuma (Cuma eolica, Cyme, 400 a.C. circa - 330 a.C. circa)
11. Anassimène di Lampsaco (Lampsaco, 380 a.C. circa - 320 a.C. circa)
12. Callistene (Olinto 370 a.C. - 327 a.C.)
13. Timeo di Tauromenio o di Taormina (Tauromenium, 350 a.C. circa - Siracusa, 260 a.C. circa)
14. Eratostene di Cirene (Cirene, 275 a.C. circa - Alessandria d'Egitto, 195 a.C. circa)  
15. Marco Porcio Catone detto "il Censore" (Tusculum, 234 a.C. circa - 149 a.C.)
16. Polibio (Megalopoli, 206 a.C. circa - Grecia, 124 a.C.)
17. Marco Terenzio Varrone (Rieti, 116 a.C. - Roma, 27 a.C.)
18. Diodoro Siculo (Agira, l'antica Agyrion, 90 a.C. circa - 27 a.C. circa)
19. Gaio Sallustio Crispo (Amiternum, 1º ottobre 86 a.C. - Roma, 13 maggio 34 a.C.)
20. Strabone (prima del 60 a.C. - Amasea ?, tra il 21 e il 24 d.C.)
21. Dionisio o Dionigi d'Alicarnasso (Alicarnasso, 60 a.C. circa - 7 a.C.)
22. Tito Livio, il cui cognomen è sconosciuto (Patavium, 59 a.C. - Patavium, 17 d.C.)
23. Marco Verrio Flacco (Praeneste, 55 a.C. - 20 d.C.)
24. Gaio Plinio Secondo conosciuto come Plinio il Vecchio (Como, 23 - Stabiae, 25 agosto 79)
25. Tiberio Cazio Asconio Silio Italico (Padova? 25 circa - Campania, 101)
26. Tito Flavio Giuseppe (Gerusalemme, 37 circa - Roma, 100 circa)
27. Plutarco (Cheronea, 46/48 - Delfi, 125/127) 
28. Publio (o Gaio) Cornelio Tacito (Gallia Narbonese 56 - 120) 
29. Gaio Svetonio Tranquillo, chiamato talvolta Suetonio (Ippona in Algeria, 70 - 126)
30. Publio Annio Floro, o Lucio Anneo Floro o Giulio Floro (Africa, 70/75 circa - Roma, 145 circa)
31. Gneo Pompeo Trogo (Narbona, seconda metà del I secolo a.C. - I secolo d.C.?) in cui è citato
32. Pausania il Periegeta (Lidia, 110 - 180)
33. Sesto Pompeo Festo (Narbona, II secolo d.C. - ...)  
34Scimno di Chio citato anche come Sciano di Chio (Chio, fl.= floruit, cioè aveva 40 anni, nel 185 a.C.)
35. Ateneo di Naucrati (Naucrati, ... - dopo il 192)
36. Marco Giuniano Giustino (fl.= floruit, cioè fiorì, aveva 40 anni, fra II e III secolo) 
37. Lucio Cassio Dione, forse Cocceianus (Nicea in Bitinia, 155 - 235)
38. Gaio Giulio Solino (Italia, 210 circa - dopo il 258?)  
39. Eusebio di Cesarea (Cesarea in Palestina, 265 - Cesarea in Palestina, probabilmente 340)
40. La "Storia Augusta" ("Historia Augusta"), biografie di imperatori da Adriano (117) a Numeriano (284)
41. Flavio Eutropio (Italia, fl.= floruit, aveva 40 anni, nel 363-387; Bordeaux ? - dopo il 387)
42. Rufo Festo Avieno (Volsinii/Bolsena, fl.= floruit, aveva 40 anni nella seconda metà del IV secolo)
43. Ammiano Marcellino (Antiochia di Siria, 330/332 circa - Roma, dopo il 397/400)
44. Servio Mario Onorato o Deuteroservio o Servio Danielino (fl., aveva 40 anni alla fine del IV secolo)
45. Filostorgio (Borissus in Cappadocia 368 - 439)
46. Paolo Orosio (Braga in Portogallo 375 circa - 420 circa)
47. Prisco di Panion (Panio in Tracia, 420 circa - dopo il 471)  
48. Flavio Magno Aurelio Cassiodoro Senatore (Scolacium in Calabria, 485 circa - Scolacium, 580 ca.)
49. Procopio di Cesarea (Cesarea marittima, 490 circa - Costantinopoli, 560 circa)
50. Stefano di Bisanzio, conosciuto anche come Stefano Bizantino (Costantinopoli, VI secolo - …)
51. Giordane o Giordano o Jordanes (Impero Romano, 510 circa; ... - ...)
52. Fredegario (Burgundia, fine del VII secolo d.C. - inizio dell'VIII secolo d.C.)
53. Paolo Diacono (Cividale del Friuli, 720 - Montecassino, 799)
54. Molte fonti storiche sono tramandate dalla Suda o Suida, un lessico e un'enciclopedia storica del X secolo.


POETI PROTO-STORICI dell'antica Grecia in ordine cronologico:

Busto noto come "pseudo Seneca"
che ritrae Esìodo. Napoli, museo
archeologico.
- Esìodo (in greco antico Ἡσίοδος, Hēsíodos; VIII o VII secolo a.C. - VII secolo a.C.) è stato un poeta greco antico, le cui opere sono fatte risalire al periodo tra la fine dell'VIII secolo e l'inizio del VII secolo a.C. Non si è sicuri se Esiodo sia nato a Cuma, città eolica dell'Asia Minore, o ad Ascra, in Beozia, un villaggio ai piedi del monte Elicona, sacro alle Muse della Poesia.
Carta dall'antica Asia minore
con evidenziata Cuma eolica.
Questo perché il padre del poeta emigrò da Cuma ad Ascra per sfuggire alla povertà. Se Esiodo fosse nato a Cuma, non si spiegherebbe come mai egli affermi di aver compiuto un solo viaggio per mare in tutta la sua vita, quello attraverso l'Euripo, per recarsi in Eubea, a meno che non consideri nullo il viaggio da Cuma verso Ascra perché era troppo piccolo per conservarne un qualche ricordo.
Carta della Beozia, in Grecia, con
indicato dal segnalino rosso il monte
Elicona, presso cui sorgeva Ascra.
In rosso sono indicati il braccio
di mare Euripo e l'isola Eubea.
Per quanto riguarda il periodo in cui visse, fin dall'antichità non si sa con precisione se fosse precedente, contemporaneo o posteriore ad Omero. Erodoto risolse il problema considerandoli contemporanei. Egli tuttavia prese parte alle feste in onore del principe Anfidamante nell'isola di Eubea, dove partecipò a un agone (Agōn in greco e Agone in italiano, è il termine, dal significato di gara e disputa, con cui nell'antica Grecia e successivamente anche a Roma, si indicò una manifestazione pubblica consistente in gare e giochi organizzati in occasione di celebrazioni religiose presso un santuario) in cui ottenne la vittoria ed un tripode (sostegno a tre piedi, in genere di metallo pregiato e artisticamente lavorato, per sorreggere vasi, anfore, bacili, assegnato in premio ai vincitori dei concorsi di canto e di poesia o di gare sportive) in premio. È quindi riconosciuta dai critici moderni la collocazione di Esiodo intorno al principio del VII secolo a.C. (nettamente successivo a Omero). L'Agone di Omero e Esiodo dà invece una testimonianza del tutto sospetta della contemporaneità dei due poeti. I dati biografici ci provengono invece dalle sue stesse opere. Figlio del commerciante marittimo Dios, originario della Cuma eolica in Asia Minore, costretto a trasferirsi in Beozia per la fallita attività, dice egli stesso di non intendersi di mare e di navigazione, perché fece una sola traversata nella sua vita, quella dell'Euripe, da Aulide a Calcide in Eubea per le feste di Anfidamante. Trasferitosi quindi in Beozia, il padre dovette diventare un agricoltore e, sulle sue orme, lo divenne pure Esiodo, tanto che "Le opere e i giorni", danno una dettagliata descrizione della vita contadina del tempo.
Alla morte del padre, il patrimonio viene diviso tra lui e il fratello Perse, che dopo avere dilapidato tutta la sua parte, riesce tramite un raggiro ad impossessarsi della parte di Esiodo (grazie a un processo giudiziario in cui corrompe i giudici). Plutarco ci informa della sua morte violenta, ucciso dai fratelli di una donna che sedusse o tentò di sedurre. Si narra che ai ludi funebri in onore di Anfidamante, in bravura vinse e superò persino Omero stesso. Tuttavia questo dato non è storicamente attendibile, poiché il certamen che lo attesta, l'Agone di Omero e Esiodo, viene guardato con sospetto, sembrando ai critici un'invenzione del sofista Alcidamante. Oltre alle "Opere e i giorni", è possibile attribuire con certezza ad Esiodo anche la "Teogonia", il primo poema religioso greco che tenta di stabilire un ordine nella genealogia delle divinità adorate in Grecia (teogonia è esattamente questo, cioè la nascita delle divinità). Quest'opera nasce dall'esigenza da parte dell'autore di "definire" e riorganizzare la fluttuante materia mitologica che, a causa delle diverse tradizioni locali dell'Ellade, presentava differenti leggende o addirittura differenti "genealogie" per il medesimo dio o dea. Essa, inoltre, contiene numerose informazioni sulle origini dell'universo e sulle divinità primordiali che contribuirono alla sua formazione e proprio per tale ragione si ritiene che la Teogonia fu il testo che garantì la vittoria di Esiodo alle feste Calcidiche, e che quindi vada ritenuto precedente alle Opere. Oltre alle due celeberrime opere a noi arrivate per intero, del corpus esiodeo dovevano far parte anche "Il catalogo delle donne" o "Eoie", conservato in forma frammentaria, "Lo scudo di Eracle" e una serie di opere minori, tutte conservate in modo frammentario, della cui autenticità gli stessi antichi già dubitavano. Non è per nulla chiaro cosa fossero le "Grandi Eoie", di cui sono attestati a malapena il titolo e qualche frammento. Esìodo si occupò per primo ad una nuova poesia: la poesia "didascalica" cioè tesa ad insegnare. Essendo una grandissima personalità, come avvenne per Omero, attirò a sé una discreta quantità di opere non sue. Le caratteristiche dell'opera esiodea sono tre:
1) Ideologia - La proposta di Esìodo si colloca nell'VIII secolo a.C. e dobbiamo quindi proiettare la sua opera nel pensiero del tempo; è il primo autore greco a tentare di mettere per iscritto l'antica mitologia teologica e a farlo con la consapevolezza di essere un poeta vate. (La figura del poeta vate è attribuita agli autori che cercano di interpretare e guidare i sentimenti delle masse di ogni epoca. Tale appellativo fu attribuito per la prima volta ad autori latini, impegnati nella ricerca dei valori perduti dell'antica romanità, venuti a mancare durante il periodo di grande corruzione in cui versò Roma dall'età di Cesare in poi. La funzione di poeta-vates, attribuita ad esempio a Lucrezio o ad Orazio, è quella, secondo la concezione latina, di un poeta divinamente ispirato e quasi profetico, in grado di proporsi come guida della comunità, impegnato attivamente per il ripristino di valori morali, ma anche filosofici come nel caso dello stesso Lucrezio, scomparsi o, a volte, considerati in alcuni casi nefasti, come la stessa dottrina epicurea.). Fino ad allora nessuno aveva provato ad introdurre un concetto teologico e teogonico (Teogonia), affiancandolo ad un complemento etico (come in "Le Opere e i Giorni"). Ciò pone in risalto l'evidente complementarità delle due opere principali di Esìodo.
2) Sociologia - Esìodo è stato giustamente definito da alcuni il poeta degli umili. Egli infatti compone l'opera, "Le Opere e i Giorni", che suona come una critica contro l'inerte oziosità dell'aristocrazia; inoltre, è la prima volta che i ceti inferiori trovano spazio nella poesia epica greca. La poesia epica (dal greco épos, racconto) nasce e trova motivo di sviluppo nell'esigenza, che è di tutti i popoli, di conservare nel tempo la memoria delle proprie vicende e dei propri eroi, rendendola un patrimonio comune. Essa, attraverso la narrazione degli eventi di cui sono stati protagonisti i campioni di un popolo, permettono al popolo stesso di riconosce le proprie radici, divenendo anche lo strumento con cui celebrare il sentimento di appartenenza al proprio gruppo. Non è un genere letterario esclusivo della civiltà greca, ma è presente nel patrimonio storico e culturale di molti popoli. Dall'antico poema mesopotamico che ha come protagonista l'eroe Gilgamesh, alla sterminata narrazione indiana del Mahabharata, alle grandi saghe appartenenti alle popolazioni germaniche, come Sigfrido e i Nibelunghi, fino alla Gerusalemme liberata di Tasso o al Kalevala ottocentesco dello svedese Lönnrot, appare evidente come un unico filo leghi ciascun popolo ai miti delle proprie origini e come il bisogno di riconoscersi in una comune identità generi poesia.
3) Poetica - Esìodo configura in modo assolutamente inedito l'attività poetica. Mentre l'epica tradizionale era oggettiva e impersonale, senza un autore dichiarato, Esìodo porta l'epica verso un orizzonte a noi più consono: egli si dichiara e rende la poesia soggettiva e personale, le conferisce un'individualità storica. Inoltre, se l'epica tradizionale aveva una funzione edonistico-pedagogica, in Esìodo la poesia acquista un timbro schiettamente didascalico: Esìodo si fa maestro di sapienza, poeta vate; la poesia diviene magistero sapienziale, ponendo le basi di una radice ineliminabile nella cultura occidentale.
Lingua, stile e metrica - Esìodo è un poeta epico, e quindi la sua lingua è quella dell'epos, condizionata già dall'uso dell'esametro. Esiste tuttavia qualche eccezione, spesso forme che rimandano ai dialettismi locali, più presenti nelle Opere. Ovviamente, data la posizione eolica della Beozia (dove le opere esiodee sono composte), sono più presenti gli eolismi in confronto all'epos omerico. Da parte di quei critici che vogliono Esìodo come un rappresentante di una tradizione poetica indipendente, sono stati considerati con maggiore attenzione quegli aspetti linguistici estranei totalmente ad Omero, come alcuni infiniti brevi e accusativi plurali brevi della prima declinazione. Lo stile formulare invece, è variegato. Molte difatti le formule prettamente omeriche o costruite su di esse. Omero inoltre non poteva essere presente come modello (a differenza di quello che avvenne nell'epica più tarda) bensì come rappresentante di un genere letterario ancora vivo e attivo, e la cultura a cui apparteneva Esìodo, quella Beotica, era diversa da quella che aveva prodotto l'epos.
Lo stile epico tradizionale ha una tonalità uniforme, senza frastagliature. Invece lo stile di Esìodo è versicolore, pericolosamente oscillante fra una tonalità ieratica e una tonalità popolareggiante. Comunque nel suo complesso ha un andamento icastico, lapidario, tendenzialmente caustico, ellittico. La grandezza di Esìodo è testimoniata dal fatto che egli è parimenti abile nel delineare scene di genere, magari tracciate con una sorta di gusto oleografico ottocentesco, quanto nel condensare affreschi tipicamente epici. Esìodo sostanzialmente transcodifica il linguaggio omerico, manipola quindi il testo omerico in rapporto alle sue necessità contingenti, oppure, essendo un innovatore, segue la strada della neoformazione, inventa cioè un nuovo lessico e nuove immagini. Da alcuni, per questo suo spirito innovativo, è stato paragonato ad un Leopardi dell'epoca. Ad Esiodo è stato intitolato il cratere Hesiod, sulla superficie di Mercurio. L'ammonimento ricordato nei suoi scritti ricorda il proverbio popolare 'd'agosto moglie mia non ti conosco'. Ad Esiodo è dedicato il primo atto dell'opera "Le Muse galanti" di Jean-Jacques Rousseau.

Archiloco, da: https:
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- Archiloco (in greco antico Ἀρχίλοχος, Archílochos; Paro, 680 a.C. circa - 645 a.C. circa) è considerato il primo grande lirico greco e il giambografo più famoso. Il giambo è un tipo di piede adoperato nella metrica classica, genere di poesia, o componimento poetico, di tono violentemente polemico, aggressivo e satirico. L'etimologia del nome giambo resta ignota; i moderni ritengono che derivi dalla terminazione in -αμβος, (anbos) che accostano a parole come thriambos e ditirambo, nomi di canti che si riferiscono al culto di Dioniso, la cui etimologia è di origine anellenica, non greca. La connessione del giambo a Demetra e ai culti della fertilità però non sembra casuale, in ogni caso il giambo è associato, sin dalla sua presunta origine mitica, allo scherzo, alla battuta, al motteggio, come testimoniano i temi della poesia giambica. Si pensa anche che possa derivare dal nome Ἴαμβος (Ianbos), il figlio di Ares, abile lanciatore di giavellotto, paragonando quindi il gesto del lanciatore al ritmo del giambo, caratterizzato da una sillaba breve e una lunga.
Regioni della Grecia e isole greche
 con evidenziate Taso (Thassos)
e Paro (Paros). Clicca per ingrandire.
Archiloco nacque probabilmente intorno al 680 a.C. nell'isola di Paro, (Paros in greco) nelle Cicladi. Il padre era un nobile, Telesicle, mentre la madre, secondo la tradizione, era una schiava tracia di nome Enipò. Tale nome potrebbe essere fittizio, in quanto nato da un'assonanza con il sostantivo greco enipè (ingiuria), e dunque riconducibile alla sua attività di poeta giambico, mentre l'origine servile della madre è probabilmente solo una diceria. Il nonno (o bisnonno) Tellis, alla fine dell'VIII secolo a.C. partecipò al trasferimento del culto di Demetra a Taso (Thassos in greco): per tale motivo Pausania, nel descrivere la Lesche degli Cnidi, a Delfi, ricorda che in essa Polignoto di Taso (V secolo a.C.) raffigurò anche lo stesso Tellis, posto accanto alla sacerdotessa Cleobea, fautrice dell'introduzione a Taso del culto di Demetra. Archiloco visse probabilmente nel periodo che va dal 680 a.C. al 645 a.C. in quanto in una sua opera viene menzionata un'eclissi di sole probabilmente avvenuta il 6 aprile 648 a.C., che sconvolse gli abitanti dell'Egeo e alla quale egli assistette mentre si trovava a Taso. Inoltre l'accenno alla distruzione di Magnesia al Meandro, avvenuta nel 652 a.C., e il sincronismo stabilito dagli storici antichi tra la sua attività poetica e il regno del lido Gige, lasciano pochi dubbi ai critici moderni. Nella seconda metà del VII secolo a.C., durante il grande movimento di colonizzazione ellenica, i Pari colonizzarono a nord l'isola di Taso, ma dovettero sostenere lunghe lotte contro i barbari del continente e contro le colonie delle città rivali tra cui la vicina Nasso. Archiloco, figlio del fondatore della colonia tasia, combatté in tali guerre e ne cantò le vicende. In una sua famosa elegia si mostra rattristato per la perdita del cognato morto in mare in un naufragio. Sua è la prima raffigurazione allegorica della politica come il naufragio di una nave, che verrà ripresa da poeti successivi come Alceo e Quinto Orazio Flacco. In un altro componimento si lamenta della qualità della vita a Paro, invitando alcuni conoscenti a lasciarla, e sostiene che a trattenerlo nella vicina Nasso non basti né il dolce vino, né il suo vitto peschereccio. Andando verso sud, giunse a Scarpanto e a Creta; verso Nord visitò le isole Eubea, Lesbo e il Ponto. Come da lui stesso affermato in alcuni frammenti, si guadagnò da vivere facendo il soldato mercenario. La tradizione vuole che perse la vita in un combattimento contro Nasso, ucciso da un certo Calonda.
Personalità - Sulla base dei pochi frammenti rimasti dell'opera archilochea, la tradizione ha tracciato un profilo di Archiloco: individualista, litigioso, trasgressivo e anticonformista. Secondo molti però, tale interpretazione vizia in senso autobiografico i caratteri satirici della poesia giambica: in spregio della morale del tempo, Archiloco afferma di aver gettato lo scudo ed essere fuggito per salvarsi la vita, ripromettendosi di comprarne uno nuovo: alla negazione dei topoi dell'ethos eroico, (tipi dell'etica eroica) si affianca l'affermazione di una visione pragmatica tipica del lavoro mercenario. Rifiutò anche la kalokagathia, sintesi tradizionale di bellezza e virtù.
L'amore - Si racconta che amò una fanciulla di Paro, di nome Neobule ("Oh, se potessi così toccar la mano di Neobule"), promessagli in sposa dal padre Licambe, che però poi negò il matrimonio. La tradizione vuole che nei propri versi avrebbe attaccato tanto pesantemente il padre della fanciulla da indurre lui e la figlia a impiccarsi. La storicità di tale episodio è assai dubbia, in quanto si tratta di un topos letterario assai ricorrente, presente anche in un altro poeta giambico, Ipponatte. Fu il primo poeta di tutta la letteratura occidentale a rappresentare l'amore come tormento. Il violento erotismo della sua poesia, seppur meno oscenamente crudo che in quella ipponattea, assieme allo spregio dei valori tradizionali, gli valse aspri rimproveri da parte degli antichi e degli autori contemporanei. L'amore gli ispira le sensazioni più disparate, dalla tenerezza, alla bellezza, fino alla sensualità e agli sfoghi irati per gli amori delusi. « O miserabili cittadini, ascoltate dunque le mie parole » (Frammento 109 West - Trad. Bruno Gentili). Delle sue opere restano circa 300 frammenti che furono ordinati dai grammatici alessandrini secondo il metro utilizzato: Archiloco scrisse elegie, giambi, tetrametri trocaici, asinarteti, epodi. La quantità di libri scritti è incerta, ma si ritiene ve ne furono almeno uno di elegie, tre di giambi, e forse altri. La maggior parte dei frammenti a noi è pervenuta per via indiretta, ma alcuni, i più estesi e lacunosi, in forma papiracea. I frammenti superstiti di Archiloco vengono convenzionalmente raggruppati nel seguente modo:
- frammenti legati all'esperienza biografica
- componimenti di carattere gnomico e riflessivo
- versi caratterizzati dallo psògos e dall'invettiva
- versi di stampo erotico
I destinatari principali della poesia archilochea erano gli hetàiroi, i membri della sua consorteria aristocratica, suoi compagni d'armi. Le occasioni concrete di riunione erano i simposi.
Mito - Una parte di rilievo della lirica archilochea ebbe anche carattere obbiettivo e addirittura narrativo. Archiloco si situa all'origine non solo della lirica, ma soprattutto della melica, che trattava di mitologia. Cantò le leggende di Eracle, di Achille, di Euripilo e del pario (dell'isola di Paro) Coiranos salvato da un delfino. Come linguaggio era inoltre considerato dagli antichi come il più vicino a Omero.
Favola - Come il mito è considerato la rappresentazione ideale della vita umana, allo stesso modo ne è la rappresentazione volgare il mito animale: la favola. Gli scarsi frammenti ci dicono che le favole della volpe e dell'aquila o della scimmia erano trattate da Archiloco con grande ampiezza a tal punto che consentiva discorsi diretti tra animali protagonisti, invocazioni a Zeus e forse il riferimento esplicito alla realtà. La figura della volpe compare per la prima volta proprio con questo poeta.
Metrica - Archiloco è ritenuto l'inventore del giambo, ma probabilmente tale verso è più antico dell'autore stesso. Egli fu il primo a utilizzarlo in larga scala e molti poeti successivi come Saffo, Alceo, Anacreonte e i latini Catullo e Orazio lo presero come modello. I ritmi giambici e trocaici erano i più vicini alla lingua viva, a quella parlata nelle processioni. Ad Archiloco si deve inoltre la creazione della prima strofa (epodo). L'epodo archilocheo, il distico della poesia giambica, risulta dall'accoppiamento di un verso semplice o composto, con uno generalmente più breve.
Lingua e stile - La lingua di Archiloco è la lingua omerica. Egli però la sottopone a un processo continuo di transcodificazione, spesso violentemente rappresentativo (carattere ironico anti-omerico). I pregi stilistici sono esaltati da Quintiliano: brevità, efficacia espressiva e moltissimo sangue. Inoltre nelle reliquie compare una geniale ricchezza tropica (metafore, similitudini).
Lo ψόγος (psògos) - I versi caratterizzati dallo ψόγος (biasimo) e dall'invettiva erano composti in metro giambico: per questo motivo con "poesia giambica" si intende, in senso lato, una poesia di tono satirico e canzonatorio; poeti giambici o giambografi sono detti gli autori di versi faceti, ingiuriosi o osceni. Al contrario, i componimenti elegiaci trattano motivi autobiografici ed evitano ogni oscenità; tuttavia, nell'accezione moderna di poesia archilochea, si tende ad assimilare componimenti giambici e componimenti elegiaci: da ciò ne deriva un'immagine unitaria di Archiloco. Le invettive, in Archiloco, tendevano innanzitutto a denunciare aspetti deformi della realtà a lui contemporanea, criticando o deridendo persone e fatti non per distruggere, ma anzi per costruire e affermare quei principi e quei valori che erano o avrebbero dovuto essere condivisi da tutti. È proprio nei frammenti elegiaci che la denuncia si intreccia con la riflessione e l'esortazione: esempi eclatanti sono il fr. 1 West, in cui Archiloco ci riferisce la sua doppia vocazione e "investitura"; il fr. 5 West, sullo scudo abbandonato; il fr. 13 West, noto come "l'elegia del naufragio". Nelle invettive di Archiloco quelli che apparentemente sembrano attacchi o scherni sono in realtà schiette e risentite denunce dei molteplici aspetti negativi del mondo: il poeta, in questo modo, non va inteso come un individualista, maledetto e irridente personaggio, bensì come un convinto assertore di valori, come la modestia, la lealtà, l'amicizia, l'equilibrio, la misura, che erano ampiamente condivisi e non avevano nulla di eversivo.
La persona loquens - Molto caratteristico di Archiloco, è l'uso della persona loquens, un personaggio terzo cui vengono attribuiti fatti personali, ideali o considerazioni del poeta. Ne abbiamo un esempio nel frammento riguardante l'uomo, che poi verrà identificato da Aristotele come il falegname Carone, che afferma di non provare alcun'ambizione o invidia delle ricchezze di Gige o delle imprese compiute dagli dei, né aspira ai grandi poteri della tirannide, poiché "queste cose sono ben lontane dagli occhi miei". Secondo Aristotele l'uso della persona loquens era usato dai poeti per esprimere un'opinione o un ideale che era in contrasto con quelli della società in cui vivevano. Ricordiamo però che il poeta tra VII e VI secolo a.C. parlava spesso a nome della "comunità" o del gruppo a cui apparteneva; gli ideali che lui o la "persona loquens" esprime sono condivisi da altri.
Musica - Archiloco fu un grande innovatore anche nel campo della musica: a lui secondo la tradizione si deve l'invenzione della parakataloghè, il recitativo musicale tipico della poesia giambica dove la voce narrante era cioè accompagnata da uno strumento a corda o a fiato, senza arrivare al canto spiegato vero e proprio. A tutt'oggi, però, non è ancora chiaro in cosa quest'ultimo si differenziasse dal recitativo dell'epica.
Giudizi su Archiloco - Archiloco ebbe molta fama; fu infatti modello ispiratore per molti poeti e artisti: su tutti, Anacreonte, Alceo, Saffo e Orazio; studiato nelle scuole, imitato, copiato e canzonato dai comici, discusso da filosofi e sofisti, artista sommo per Platone, fonte per gli storici. Raccolse lodi presso i greci d'ogni luogo e fu considerato da Quintiliano come unico e sommo maestro di stile. Nel grande naufragio delle letterature classiche anche l'opera di Archiloco, tramandata e studiata attraverso tutta l'antichità greco-latina, è andata perduta. I frammenti pervenutici li dobbiamo a citazioni di scrittori e antologisti antichi e a un monumento epigrafo. Claudio Eliano, filosofo e scrittore in lingua greca, in una delle sue opere, la "Varia Historia", riporta il seguente discorso di Crizia, uomo politico ateniese di fede aristocratica della fine del V secolo a.C.: « Se costui [Archiloco] non avesse diffuso fra gli Elleni una tale fama di sé, noi non sapremmo che era figlio di una schiava, Enipò, né che per povertà e per angustie lasciò Paro e si recò a Taso, né che, giunto qui, si rese nemici tutti, e neanche che parlava male degli amici non meno che dei nemici”. [Crizia] aggiunge: “Oltre a ciò non sapremmo nemmeno, se non l'apprendessimo da lui, che fu adultero, né che fu sensuale e litigioso, né - il che è la più grande vergogna - che abbandonò lo scudo. Dunque Archiloco non fu buon testimone di se stesso, lasciando di sé una tale opinione e una tale fama”. Tali accuse non sono mie, bensì di Crizia ». Anche Pindaro, nella Pitica II, critica pesantemente il poeta di Paro; lo definisce: « amante del biasimo, che s'ingrassa con l'odio dalle gravi parole ». Aristotele, nel secondo libro della Retorica, ricorda: « per quanto maledicente, i concittadini di Paro lo onorarono ». Anche Eraclito testimonia che le opere di Archiloco erano recitate in pubblico, non meno di quelle di Omero ed Esiodo. L'ostilità di Eraclito nei confronti di Omero e Archiloco (che scrisse: "Omero è degno di esser frustato e cacciato via dalle gare e con lui Archiloco") è una critica alla cultura tradizionale che seduce le menti dei molti senza comunicare una conoscenza iniziatica, in grado di condurre l'uomo al di là dell'umano. Tuttavia, lo storico latino Velleio Patercolo lo definì il vero inventore della poesia giambica e il poeta più grande nel suo genere: infatti gli antichi considerarono unanimemente Archiloco un grandissimo giambografo, nonostante i vari dibattiti emersi sulla personalità e l'indole dell'autore. Il filosofo e grecista tedesco dell'Ottocento, Friedrich Wilhelm Nietzsche, ne "La nascita della tragedia", scrive: « Su ciò l'antichità stessa ci dà un chiarimento intuitivo, quando in opere di scultura, gemme, eccetera pone l'uno accanto all'altro, come progenitori e portatori di fiaccola della poesia greca, Omero e Archiloco, con il fermo sentimento che solo questi due siano da considerare nature originali in modo ugualmente pieno, da cui continua a sgorgare un torrente di fuoco per tutta quanta la posterità greca. Omero, il vecchio sognatore sprofondato in sé, il tipo dell'artista apollineo, ingenuo, guarda ora stupito la testa appassionata di Archiloco, il battagliero servitore delle Muse, selvaggiamente sospinto nell'esistenza: e l'estetica moderna ha saputo aggiungere solo, interpretando, che qui all'artista «oggettivo» è contrapposto il primo «soggettivo» »

Eschilo.
- Eschilo del demo di Eleusi (in greco antico Αἰσχύλος, Aischỳlos; Eleusi, 525 a.C. - Gela, 456 a.C.) è stato un  drammaturgo greco antico. Viene unanimemente considerato l'iniziatore della tragedia greca nella sua forma matura ed è il primo dei poeti tragici dell'antica Grecia di cui ci siano pervenute opere per intero. A lui seguirono Sofocle ed Euripide. Nato a Eleusi un demo (nell'antica Grecia, la più piccola unità territoriale amministrativa) di Atene intorno al 525 a.C., da famiglia nobile, fu testimone della fine della tirannia dei Pisistratidi ad Atene, nel 510 a.C. Combatté contro i persiani nelle battaglie di Maratona (490 a.C.), di Salamina (480 a.C.) e di Platea (479 a.C.). Secondo Emanuele Severino, Eschilo non è solo un grande drammaturgo, ma anche uno dei primi fondamentali filosofi dell'Occidente.
Carta dell'Attica, in Grecia,  con
indicata dal segnalino rosso
Elefsina, l'antico demo di Eleusi.
La tradizione vuole che il suo nome derivi da un insolito gesto che era solito fare per ispirarsi prima di comporre le sue tragedie, purtroppo non ci viene detto di preciso cosa l'autore facesse durante il componimento delle sue opere ma alcuni sostengono che ciò aiutasse di gran lunga la sua vena poetica. A proposito della battaglia navale di Salamina, di cui il poeta dà il resoconto ne "I Persiani", è interessante notare come la tradizione assegni lo stesso giorno, sulla stessa isola, alla nascita di Euripide. Nello stesso periodo, si dice, il giovane Sofocle intonava i primi peana, canti corale in onore di divinità o di uomini illustri. Dopo la rappresentazione dei "Persiani", si recò a Siracusa, rispondendo all'invito del tiranno Gerone, dove fece rappresentare "I Persiani" e scrisse le "Etnee" per celebrare la fondazione della città di Aitna. Eschilo fu forse iniziato ai misteri eleusini, come farebbe intendere Aristofane nella commedia "Le rane", e secondo alcune leggende sarebbe stato persino processato per empietà, dopo averne rivelato i segreti, e questa sarebbe la causa del suo secondo esilio a Gela, in Sicilia. Ottenne il suo ultimo grande successo nel 458 a.C. con l'"Orestea". Poco tempo dopo partì per Gela, in Sicilia, dove morì nel 456 a.C. Sul suo epitaffio non furono ricordate le vittorie in ambito teatrale, ma i meriti come combattente a Maratona, dove aveva combattuto coraggiosamente anche suo fratello Cinegiro, morto in quell'occasione. Lo scrittore Valerio Massimo narra una storia alquanto particolare (ma considerata non molto attendibile) sulla morte dell'autore: pare che egli sia morto per colpa di un'aquila, o più probabilmente di un gipeto, che avrebbe lasciato cadere, per spezzarla, una tartaruga sulla sua testa, scambiandola, data la calvizie, per una pietra. Dopo la sua morte ricevette dai suoi contemporanei molti riconoscimenti, il più grande dei quali fu la rappresentazione postuma delle sue tragedie, all'epoca segno di eccezionale onore. Fu padre di Euforione, anch'egli tragediografo. Eschilo viene considerato il vero padre della tragedia antica. A lui viene attribuita l'introduzione di maschera e coturni (calzature portate dagli attori tragici sulla scena, formate da una spessa suola di sughero allacciata con stinghe fino a mezza gamba), inoltre è con lui che prende l'avvio la trilogia, o "trilogia legata". Le tre opere tragiche presentate durante l'agone (gara e disputa, con cui nell'antica Grecia si indicava una manifestazione pubblica consistente in gare e giochi organizzati in occasione di celebrazioni religiose presso un santuario) erano appunto "legate" dal punto di vista contenutistico; nell'"Orestea" (unica trilogia pervenutaci per intero), ad esempio, viene messa in scena la saga della stirpe degli Atridi, dall'uccisione di Agamennone alla liberazione finale del matricida Oreste. Introducendo un secondo attore (precedentemente, infatti, sulla scena compariva un solo attore alla volta, come ci testimonia Aristotele, Poetica, 49a), rese possibile la drammatizzazione di un conflitto. Da questo momento fu infatti possibile esprimere la narrazione tramite dialoghi, oltre che monologhi, aumentando il coinvolgimento emotivo del pubblico e la complessità espressiva. Da notare anche la progressiva riduzione dell'importanza del coro, che prima rappresentava una continua controparte all'attore... (Da questo momento quindi, finisce il perfetto equilibrio fra dionisiaco ed apollineo, N.d.R.)
Per esempio, in una delle tragedie più antiche che ci siano pervenute, "Le supplici", il coro ha ancora una parte preponderante. Nonostante la presenza dei due attori (uno dei quali interpreta in successione due personaggi), l'impianto è ancora quello di un inno sacro, scarno di elementi teatrali. Facendo un confronto con la più tarda "Orestea", notiamo un'evoluzione e un arricchimento degli elementi propri del dramma tragico: dialoghi, contrasti, effetti teatrali. Questo si deve anche alla competizione che il vecchio Eschilo dovette sostenere nelle gare drammatiche: c'era un giovane rivale, Sofocle, che gli contendeva la popolarità, grazie anche a innovazioni come l'introduzione di un terzo attore, trame più complesse, personaggi più umani nei quali il pubblico poteva identificarsi. Tuttavia, anche accettando in parte, e con riluttanza, le nuove innovazioni (tre personaggi compaiono contemporaneamente solo nelle "Coefore", e il terzo parla solo per tre versi), Eschilo rimane sempre fedele ad un estremo rigore, alla religiosità quasi monoteistica (Zeus, nelle opere di Eschilo, è rappresentato talvolta come un tiranno, talvolta come un dio onnipotente, con qualche somiglianza con il biblico Yahweh). In tutte le sue tragedie, lo stile è potente, pieno di immagini suggestive, adatto alla declamazione. Nonostante i personaggi di Eschilo non siano sempre unicamente eroi, quasi tutti hanno caratteristiche superiori all'umano. Se ci sono elementi reali, questi non sono mai rappresentati nella loro quotidianità, ma in una suprema sublimazione. Nella sua produzione tragica, Eschilo riflette la realtà circostante: ne "I Persiani" e ne "I sette contro Tebe" vi si ritrova resoconto delle battaglie di Salamina e anche una difesa della politica marittima di Temistocle, riferimenti dovuti molto alla sua esperienza nelle guerre persiane. Fu anche il solo testimone tra i grandi poeti greci classici dello sviluppo della democrazia ateniese. "Le supplici" contiene il primo riferimento che sia giunto fino ad oggi di una forma di governo definita come «potere del popolo». Nelle Eumenidi, la rappresentazione della creazione dell'areopago, tribunale incaricato di giudicare gli omicidi, sembra un implicito sostegno alla riforma di Efialte, che nel 462 a.C. trasferì i poteri politici dall'areopago al consiglio dei Cinquecento. Inoltre le sue tragedie affrontano temi come il diritto d'asilo o la nascita dello stato dalle lotte di famiglia. Al centro del teatro di Eschilo c'è il problema dell’azione e della colpa, della responsabilità e del castigo. Eschilo si chiede perché l’uomo soffra, da dove provenga agli uomini il dolore. Viene solo dalla loro condizione di mortali, come affermavano i poeti arcaici, o da un errore originario, scontato dall’intera umanità, come è l’errore di Prometeo in Esiodo? Oppure all’interno della condizione umana v’è anche la responsabilità del singolo individuo? Tutta la sua tragedia è una tensione alla ricerca di una risposta che arriverà a dare, rivestendo la sua tragedia di forza etica per la polis ateniese del V sec. A proposito dell’origine della sofferenza, nella mentalità più arcaica e anche contemporanea di Eschilo si definiva hýbris, quell'accecamento mentale che impedisce all'uomo di riconoscere i propri limiti e di commisurare le proprie forze: chi ha ambizioni troppo elevate e osa oltrepassare il confine posto dagli dei pecca di hýbris e incorre in quella che viene chiamata “invidia degli dei” (in greco fthònos theòn): le divinità sono “invidiose” del potere della vita umana e come tali, sono determinate ad abbatterlo, per prepotente capriccio. Da qui, secondo questa teoria, la causa della sofferenza umana. Eschilo però rinuncia a questa teoria e mostra invece come le azioni delle divinità sugli uomini non sono prodotte da semplice invidia, ma sono conseguenze edificanti di una colpa umana, in quanto gli dei sono assoluti garanti di giustizia e di ripristino dell’ordine, e dunque alla hýbris corrisponde sempre il saggio ammaestramento divino, attraverso la punizione. Giustizia (in greco dìke), insomma, è la legge che gli dèi impongono al mondo e che spiega la casualità degli avvenimenti, apparentemente inesplicabile, regolando con bilance esattissime la colpa e la punizione, rivelandosi allora come un immanente ingranaggio che non lascia scampo a chi si è macchiato di una colpa o a chi eredita una colpa commessa per prima dai propri antenati (Eschilo mantiene infatti l’antica idea che la condanna del delitto travalichi la colpa immediata dell’individuo che l’ha commessa, propagandosi sull’intera stirpe: così, anche la vittima incolpevole si lega al male ed è costretta a commettere a sua volta una colpa, di cui comunque si rivela cosciente e perciò consapevole e responsabile, seppure dietro lo schermo della “necessità”). Alla luce della funzione edificante della punizione è chiaro che, attraverso il dolore che ogni uomo è destinato a soffrire, egli matura la propria conoscenza (pàthei màthos). L'uomo si rende conto, scontando la sua pena, dell'esistenza di un ordine perfetto e immutabile che regge il suo mondo. Lo stile di Eschilo è estremamente complesso. È ricco di espressioni retoriche, neoformazioni linguistiche (fra cui anche degli hapax) e arcaismi molto ricercati. Eschilo scrisse probabilmente una novantina di opere, ma ne sono giunte ai giorni nostri solo sette:
- I Persiani (rappresentata nel 472 a.C.)
- I sette contro Tebe (rappresentata nel 467 a.C.)
- Le supplici (rappresentata nel 463 a.C.)
- Prometeo incatenato (rappresentata tra il 470 e il 460 a.C.)[2]
- Orestea, trilogia (rappresentata nel 458 a.C.) di cui:
- Agamennone
- Coefore
- Eumenidi


STORICI ANTICHI dell'Occidente in ordine cronologico:
L'ecumene di Ecateo di Mileto,
fra le prime rappresentazioni
del mondo conosciuto.

1. Ecateo di Mileto, (in greco antico Ἑκαταῖος Μιλήσιος; Mileto, 550 - 476 a.C.) è stato un geografo e storico greco antico. Visse attorno al 500 a.C. e fu tra i primi autori di scritti di storia e geografia in prosa del mondo greco. I logografi erano uomini che viaggiavano molto e descrivevano i paesi che visitavano nei loro vari aspetti: cultura, storia, geografia del luogo in cui vivevano, tradizioni, usi, costumi, religione.
Carta dell'antica Asia minore
con evidenziata Mileto.
Grazie ai suoi numerosi viaggi lungo l'ecumene, la terra abitata conosciuta allora e formata dall'impero persiano, dalla Grecia, dall'Egitto, dal bacino del Mediterraneo, egli disegnò una carta geografica che perfezionava quella di Anassimandro e fu autore di una "Periégesis", forse conosciuta da Erodoto. Essa rappresenta la fase intermedia tra poesia epica e storiografia. Figlio dell'aristocratico Egesandro, Ecateo si vantava, secondo quanto racconta Erodoto (Storie, II, 143), di avere avuto nella propria genealogia un dio per antenato nella sedicesima generazione, ma quando i sacerdoti egiziani del dio Amon gli mostrarono nel tempio ben 345 statue di sacerdoti della stessa stirpe e il più antico di essi era ancora un uomo, cominciò a considerare razionalmente i miti e a basarsi sui fatti per valutare le tradizioni. Sempre Erodoto (Storie, V, 36) racconta che al tempo della rivolta delle città ioniche contro i persiani (500 - 494 a.C.) Ecateo consigliò di costruire una flotta utilizzando il tesoro del tempio dei Branchidi per poter combattere con successo e fu poi tra gli ambasciatori che trattarono la pace col satrapo Artaferne; anche questo episodio mostrerebbe la sua spregiudicatezza e la sua noncuranza per ciò che allora era considerato sacro e inviolabile. Le Genealogie (Geneelogiai) sono una sua opera in 4 libri di natura storica, con un'esposizione di avvenimenti mitici ordinati cronologicamente per generazioni, in cui una generazione corrisponde a circa quarant'anni. Probabilmente Ecateo considerava il periodo dai deucalionidi, da Prometeo a Eracle. Restano una trentina di frammenti dai quali non si può ricavare carattere e distribuzione della materia trattata anche se sono considerate un tentativo di razionalizzare gli elementi mitici della storia primitiva della Grecia. Nel II libro erano narrati alcuni miti di Eracle e nel IV delle leggende milesie, del popolo degl'Itali e dei Morgeti. Restano frammenti anche del Giro della Terra (Periegesis), opera di natura geografica, pubblicata alla fine del VI secolo, in due libri riguardanti l'Europa e l'Asia, una descrizione di luoghi visitati, con indicazione delle distanze e osservazioni etnografiche: secondo Erodoto, disegnò una carta geografica che rappresentava la Terra come un disco rotondo circondato dall'Oceano, concezione del resto a lui anteriore. Esordisce nelle Genealogie con la perifrasi "os emoi dokei", "io scrivo cose che credo vere; invece molti racconti greci sono ridicoli". Questa fu una delle prime individualizzazioni dell'autore nella storia della letteratura, mentre in precedenza (basti pensare ai poemi omerici) lo scrittore non compare nell'opera, anzi essa è raccontata dalla musa per mezzo del poeta, non è frutto della fantasia o dell'abilità del poeta stesso. Considerando leggende molte tradizioni della sua terra, cerca di comprendere i miti, razionalizzandoli: così, per esempio, spiega la leggenda di Eracle che, nel capo Tenaro, scende nell'Ade per portare il cane infernale Cerbero a Euristeo. Verificando che in quel luogo non c'è nessuna strada sotterranea e nessun ingresso all'Ade; dunque, secondo lui, Eracle ha semplicemente catturato in quel luogo un comune serpente chiamato, per la sua velenosità, cane dell'Ade. In questo modo il mito viene adattato ai tempi ma mantenuto, perché Ecateo non interpreta e mantiene reali Eracle e l'Ade, che sono i fondamenti della leggenda. È il limite di ogni razionalizzazione: in realtà le mitologie vanno spiegate storicizzandole, cioè comprendendo come e perché siano sorte, altrimenti vengono soltanto modificate, creandone altre, come infatti la storia insegna. Ma Ecateo non potevastoricizzare”, proprio a causa dell'inesistenza, ai suoi tempi, di una storiografia e perciò di una metodologia storiografica e tuttavia, per il suo sforzo di mettere in discussione le narrazioni del passato, per la ricerca della verosimiglianza dei fatti e il rifiuto dell'autorità, merita il nome di padre della storiografia greca.

Frammento della
"Atlantis" di
Ellanico.
2. Ellanico di Mitilene o di Lesbo o Lesbio (Mitilene, 490 a.C. circa - Atene, 405 a.C. circa) è stato uno storico greco antico, ricordato tra i logografi.
Carta dell'antica Asia minore
con evidenziata l'antica Mitilene,
nell'isola di Lesbo (Lesbos).
Ellanico, figlio di Scamone , nacque a Mitilene, nell'isola di Lesbo. Dal lessico Suda, Ellanico viene ritenuto contemporaneo di Euripide e Sofocle, quindi vissuto, grosso modo, tra il 480 e il 406 a.C. Si stabilì ad Atene, divenendone un importante cittadino, e rimanendovi fino alla morte. La Suda o Suida è un lessico e un'enciclopedia storica del X secolo scritta in greco bizantino riguardante l'antico mondo mediterraneo. Le opere di Ellanico o quantomeno la sua "Storia di Atene", vennero pubblicate all'epoca di Tucidide, che ebbe, infatti, a servirsene e criticarne l'impostazione cronologica. La varietà dei titoli citati per Ellanico (di cui restano circa 200 frammenti) è riconducibile essenzialmente alla storia genealogica, con opere come "Asopide" , "Atlantide", "Foronide", "Deucalionea", "Le denominazioni delle stirpi", "Storia delle regioni greche" (Aiolikà, Thessalikà, Lesbiakà, Argolikà, Boiotikà), "Atthis", storia dell'Attica in due libri. Alle genealogie mitiche e asiatiche riconducono opere come "I fatti di Troia", "La fondazione di Chio", "Barbarikà nòmima", sui costumi delle stirpi non greche, comprendente "Kypriakà", "Lydiakà", "Persikà", "Skythikà", "Aigyptiakà". Il logografo lesbio, che scrisse in dialetto ionico, diversamente dal contemporaneo Erodoto, il quale intese documentare con l'esperienza diretta i fatti narrati, si limitò a sviluppare le origini mitiche delle vicende descritte: così, nell'"Asopide", trattava del mito di Asopo, nei due libri della "Foronide" si occupava dell'eroe Foroneo, considerato il capostipite degli abitanti del Peloponneso, e nei due libri de "I fatti di Troia" trattava della leggenda della fondazione della città fino al viaggio di Enea in Italia. Un elenco di genealogie erano sostanzialmente la "Fondazione di Chio" e "Le denominazioni delle stirpi". Le "Sacerdotesse di Hera" erano una lista, compilata secondo un presunto ordine cronologico, delle sacerdotesse della dea Hera; opera di cronologia è anche quella dal titolo "Vincitori delle Carnee".

Erodoto.
Da http://commons.wikimedia.org
/wiki/File:Herodotus_Massimo_
Inv124478.jpg#mediaviewer/File:
Herodotus_Massimo_Inv124478.jpg
3. Erodoto (in greco antico Ἡρόδοτος, Heròdotos; Alicarnasso, 484 a.C. - Thurii, 425 a.C.) è stato uno storico greco, famoso per aver descritto paesi e persone da lui conosciute in numerosi viaggi, considerato da Cicerone come il «padre della storia».
Carta dell'antica Asia minore con
evidenziata Alicarnasso.
In particolare ha scritto a riguardo dell'invasione persiana in Grecia nell'opera "Storie". Nella sua opera, ispirata a quella dei logografi (in particolare Ecateo di Mileto), egli cerca di individuare le cause che hanno portato alla guerra fra le polis unite della Grecia e l'Impero persiano, ponendosi in una prospettiva storica, utilizzando l'inchiesta e diffidando degli incerti resoconti dei suoi predecessori. È molto considerato anche per le sue descrizioni dei popoli cosiddetti "barbari" (Persiani, Egiziani, Medi e Sciti) che, seppur con molte inesattezze, mostrano un pensiero aperto e una grande capacità d'osservazione. Nell'opera "Erodoto Alicarnasseo tomo II" troviamo la descrizione dell'abbigliamento etnico dei vari guerrieri dell'esercito di Serse in cui si descrivono i Ligi, forse i Liguri: QUI. Questa apertura mentale e curiosità verso culture non greche, può essere spiegata pensando al luogo di nascita dello storico: Alicarnasso era, infatti, una città greca dalle varie tradizioni e in forte contatto con il mondo barbaro. La stessa biografia dello storico porta il segno di questo intreccio di culture. Le sue storie o favole, con animali protagonisti, sembra trarre origine da una tradizione dei Sumeri.

La Sicilia nel 218 a.C. da: http://
4. Antioco di Siracusa  o Senofaneo (Siracusa, 460 a.C. - ...) è stato uno storico siceliota. Figlio di Senofane, è stato il primo storico della Sicilia greca, e secondo diversi storici fu anche il primo storico dell'Occidente greco e scriveva in dialetto ionico. Gli si attribuiscono le prime opere che raccontano le vicende fondative e leggendarie della Sicilia e dell'Italia. È opinione diffusa e accettata che lo storico ateniese Tucidide, nello scrivere le più antiche notizie relative alle fondazioni della Sicilia nella sua Guerra del Peloponneso, abbia attinto alle opere di Antioco. Nulla si sa riguardo alla sua vita, ma dei suoi lavori restano dei frammenti che posseggono un’alta reputazione per la loro accuratezza. Scrisse una "Storia della Sicilia" fino al 424 a.C. e descrisse la colonizzazione della Magna Grecia, fornendo dati che ancora oggi sono ritenuti fondamentali per lo studio di quel fenomeno. Frequenti riferimenti all’opera di Antioco si trovano anche in Strabone e Dionigi di Alicarnasso.

Tucidide.
5. Tucidide (in greco antico Θουκυδίδης, Thūkydídēs; 460 a.C. circa - dopo il 404 a.C., o secondo altri, dopo il 399 a.C.) del demo di Alimunte o Alinunte in Attica, è stato uno storico e militare ateniese, uno dei principali esponenti della letteratura greca grazie al suo capolavoro, "La Guerra del Peloponneso".
Carta dell'Attica, in Grecia, con
indicata dal segnalino rosso la
posizione dell'antico demo
di Alimunte.
Questo accurato resoconto sulla grande guerra tra Atene e Sparta (avenuta nel periodo 431 - 404 a.C.) è considerato - in termini di modernità - uno dei maggiori modelli narrativi dell'antichità, sicuramente uno dei primi esempi di analisi degli eventi storici secondo il metro della natura umana, con l'esclusione quindi dell'intervento di ogni divinità. Nato ad Atene dalla nobile famiglia dei Filaidi, (suo padre era Oloro, del demo attico di Alimunte, imparentato con Cimone, figlio di Milziade) intorno al 460 a.C. e fervente sostenitore dello statista Pericle, Tucidide svolse un importante ruolo come stratega della flotta di Atene nella guerra contro Sparta, sul mare Egeo settentrionale. Accusato di tradimento per aver fallito la spedizione di soccorso alla battaglia di Anfipoli, gli toccò (o scelse volontariamente) l'esilio in Tracia dove pare che abbia trascorso gran parte della sua vita, anche se non è chiaro se, invece, Tucidide avesse deciso di rimanere ad Atene, restando comunque escluso dalla vita politica. Secondo un'accurata indagine storica e filologica di Luciano Canfora, Tucidide era presente ad Atene nel 411, forse partecipò al colpo di stato oligarchico e avrebbe assistito al processo contro Antifonte, il principale artefice di quel colpo di stato che originò la "Boulé dei Quattrocento", l'organismo che governò Atene per quattro mesi. Dopo aver tentato di consegnare la città agli Spartani, i Quattrocento furono abbattuti da Teramene, che instaurò l'"Assemblea dei Cinquemila". Dopo il processo, Tucidide avrebbe lasciato Atene e si sarebbe ritirato in Tracia, dove avrebbe frequentato la corte del re macedone Archesilao, a Pella, insieme ad altri fuoriusciti, come Euripide. Nei lunghi anni di esilio, (o di permanenza in incognito ad Atene) Tucidide riordinò i suoi scritti, raccogliendoli nella sua articolata e sofferta opera: un insieme di otto libri che compongono la "Guerra del Peloponneso", profondo e analitico resoconto cronologico del conflitto che oppose fra il 431 a.C. e il 404 a.C. Sparta ed Atene, tese entrambe ad un controllo sulla Grecia. Secondo Tucidide, lo storico ha il compito di fornire, a chi partecipa e guida la vita politica della comunità, gli strumenti per interpretare il presente e prevedere gli sviluppi futuri dei rapporti tra le polis. Tale previsione è resa possibile, egli ritiene, dal fatto che esiste, nella storia umana, una costante fondamentale, che è la natura (in greco φύσις, physis): data l'esistenza di questa costante, è possibile delineare l'esistenza di leggi che regolano deterministicamente il comportamento degli uomini aggregati socialmente, prendendo spunto dalla concezione ippocratica della medicina. La principale caratteristica della natura umana è il desiderio inesauribile di accrescimento, che non può essere né limitato né contrastato se non da una forza uguale e contraria. L'accrescimento (in greco αὔξησις, áuxesis), ossia la tendenza ad aumentare la propria potenza, è il tratto caratteristico e indissolubile della società umana organizzata politicamente: di conseguenza, quando, all'interno di un territorio circoscritto geograficamente, si vengono formando due centri di potere - nel caso greco le due polis di Sparta e Atene - è certo che queste due entità tenderanno ad accrescere la propria forza, ad espandersi, a sottomettere le polis più deboli, finché le reciproche sfere di influenza entreranno inevitabilmente in conflitto. Non sono possibili altri esiti se non la guerra di annientamento: trattati di pace, accordi di convivenza, alleanze potranno avere luogo, ma solo per tempi e modi limitati, perché il desiderio di accrescimento non può che comportare il desiderio di annientare il rivale. L'analisi di Tucidide, fornisce questa spiegazione alla guerra del Peloponneso e questo è lo strumento di indagine che Tucidide fornisce agli storici e ai cittadini della polis: in ogni tempo e in ogni luogo, la politica si esplicherà attraverso rapporti di forza e la guerra sarà il naturale esito del confronto tra due centri di potere collocati all'interno di uno stesso territorio. Riconoscendo la centralità della guerra nella storia umana, Tucidide riconosce anche l'importanza delle basi materiali grazie alle quali gli uomini si fanno la guerra, vale a dire il denaro. Senza denaro non si fa la guerra. Tucidide lo afferma esplicitamente all'inizio della sua opera, nei discorsi pronunciati da Archidamo a Sparta e da Pericle ad Atene, i quali considerano le riserve finanziarie l'elemento essenziale per sostenere una guerra di grandi dimensioni. Senza di esse non è possibile armare un esercito, pagare i soldati, costruire una flotta, sostenere un assedio. In Tucidide la storia è diretta dagli uomini e dalle risorse materiali, non dagli dei o da considerazioni di ordine diverso. I libri che compongono il racconto di Tucidide, la "Guerra del Peloponneso", redatti in maniera non sequenziale, sono tramandati, come del resto quelli di Erodoto, sotto il nome di "Storie" o, semplicemente, "Guerra del Peloponneso". L'opera distingue e tratta tre fasi del conflitto:
1) lo scontro tra i due colossi Atene e Sparta dal 431 a.C. al 421 a.C. (anno della pace stipulata dall'uomo politico e generale ateniese Nicia);
2) la sventurata spedizione ateniese in Sicilia iniziata nel 415 a.C. e conclusa nel 413 a.C. con la distruzione della flotta di Atene nel porto di Siracusa da parte delle truppe del comandante spartano Gilippo;
3) la prosecuzione del conflitto fino al 411 a.C.
Nelle intenzioni di Tucidide la narrazione sarebbe dovuta proseguire fino 404 a.C., cioè fino alla fine della guerra del Peloponneso. Nell'indagine condotta da Canfora si presume che una parte finale del resoconto di Tucidide, quello relativo agli anni 410 - 404, sia da identificare nel I e II libro delle "Elleniche" di Senofonte.
Contenuto delle Storie (Guerra del Peloponneso):
- I Libro: si apre con una sezione denominata "Archeologia" che sintetizza la storia della Grecia a partire dai primi abitanti fino all'età di Tucidide. Segue una promessa metodologica utile per comprendere l'opera, in quanto l'autore chiarisce il fine che si è proposto e il metodo di indagine utilizzato. Si passa poi agli antefatti che portarono all'ostilità tra Atene e Sparta.
- II Libro: descrive i primi tre anni di guerra peloponnesiaca (431-429 a.C.). Qui si narra di Pericle e, di notevole importanza è l'orazione funebre tenuta dal medesimo,per commemorare i caduti del primo anno di guerra.
- III Libro: copre il periodo dal 428 al 426 a.C., durante il quale gli spartani invasero per la terza volta l'Attica e rasero al suolo Platea, dopo aver massacrato la popolazione locale. Importanti sono anche i fatti di Corcira che spinsero Tucidide a riflettere sul sovvertimento di tutti i valori umani a causa della guerra.
- IV Libro: protagonista di esso è il triennio 425-423 a.C., l'Attica viene invasa nuovamente dagli spartani, la guerra in Sicilia viene momentaneamente conclusa, e gli Ateniesi ottengono alcuni successi.
- V Libro: esso si spinge fino al 416 a.C. La tregua tra Sparta e Atene durò meno di sette anni, provocata da violazioni da parte di entrambe. Fatto peculiare di questo libro, è che esso dà l'impressione di essere stato solamente abbozzato.
- VI-VII Libro: sono dedicati alla narrazione dell'impresa in Sicilia con una breve introduzione sulla storia dell'isola.
- VIII Libro: l'ultimo libro narra degli avvenimenti compresi tra il 413-411 a.C. La narrazione si sofferma inoltre sul colpo di Stato dei Quattrocento che rovesciò la democrazia Ateniese e impose l'oligarchia.
Altre opere - Tucidide indicò con chiarezza i suoi criteri metodologici (Hist. I, 20, 23), in due principi generali, fili conduttori di tutta l'opera. Una concezione ciclica della storia, dalla quale deriva la necessità di conoscere il passato per poter comprendere il presente e, nei limiti dell'umano, prevedere il futuro; la storia quindi è κτῆμα ἐς αἰεί (Ktêma es aiei, possesso perenne), ha cioè dei principi universali che sono validi per ogni epoca. L'intento di comporre un'opera storiografica assolutamente libera da esigenze estetiche delle akroaseis, ma basata sul vaglio critico delle fonti, lontana dunque da quella di Erodoto incentrata ancora sul mito e sul trascendente; la storiografia tucididea infatti circoscrive il suo campo d'azione ad eventi recenti, ricorrendo all'αὐτοψία (autopsía "attestazione personale"), processo che implica l'inserimento di eventi vissuti in prima persona dall'autore: caratteristico in questi frangenti è l'uso del verbo greco οἶδα (óida "so per aver visto)". In piena fedeltà a questi principi, lo storico si propone di indagare in primo luogo i fatti, τὰ πραχθέντα (ta prachthenta), descrivendo con questo termine due categorie:
- Τὰ ἔργα le azioni vere e proprie innescanti l'evento.
- οἱ λόγοι i discorsi dei protagonisti che ne costituiscono la premessa o la conseguenza, attraverso cui Tucidide analizza psicologicamente l'autore, cercando di scoprire le cause che lo muovevano.
Le azioni, dunque, sono, all'occhio dello storico, frutto di decisioni umane, preparate, difese o giustificate attraverso λόγoι. Le azioni sono causate da tre motivi della physis umana:
- Tὸ δέος la paura, l'istinto di autoconservazione dell'uomo che lo spinge a compiere azioni terribili pur di salvare la propria vita.
- Ἡ τιμή il desiderio di onore e prestigio.
- Ἡ ὠφελία l'utilità.
In nome del primo l'uomo è portato a difendersi, per i restanti ad attaccare, con un unico risultato; la guerra. Tucidide si distacca così dal resto della logografia greca, gettando le basi per la storiografia moderna.
I discorsi - I discorsi sono la testimonianza che Tucidide, nonostante il carattere scientifico della sua opera,subì una certa influenza da parte della cultura orale-aurale tipica dell'epica.Ai discorsi egli attribuisce tale importanza da ritenere che i lettori dovessero essere informati circa i criteri su cui si è basato per la loro stesura. Essi vengono espressi in forma diretta e si mostrano uno strumento necessario per la ricerca del vero,in quanto il loro scopo è quello di rendere il più probabile verosimile possibile, quanto fu effettivamente detto in determinate circostanze. Risultano così lontano dai discorsi di impronta sofistica. Evitano allo storico di intervenire personalmente nella narrazione, contribuendo così a conferire un'impressione di distacco e imparzialità,in quanto sono gli stessi personaggi a spiegare i motivi ,i retroscena,le cause e le finalità degli avvenimenti. L'esposizione di essi, rappresenta quindi altro livello di ricerca del vero,tuttavia essi sono caratterizzati da una costante tensione interna e dalla ricerca del pathos. In tal senso Tucidide fallisce il suo obbiettivo di tenersi lontano dagli influssi dell'epica, in quanto l'argomento delle "Storie" ha una natura epica per il ruolo svolto dai casi "dolorosi". La tipologia dei discorsi è: dimostrativa e agonale. I discorsi dimostrativi descrivono eventi o situazioni che si prestano a considerazioni di tipo ideologico e politico;i discorsi agonali enunciano tesi per poi confutarle con argomentazioni opposte. Un esempio di questi discorsi è quello tenuto da Pericle per commemorare i caduti del primo anno di guerra.
Il dominio della Tyche (sorte, fato, destino o fortuna) all'interno delle "Storie"- Nonostante l'assoluta centralità dell'uomo nelle "Storie", l'agire umano incontra un ostacolo nell'intervento della Tyche, intesa come variabile drammaticamente connessa al corso degli eventi terreni. Perciò la fallibilità umana è uno degli elementi della natura mortale, "Per natura degli uomini, sia come privati cittadini sia come organismo politico, sono indotti a errare e non esiste legge che glie lo possa impedire" (3,45,3). La Tyche perciò veglia affinché l'uomo non creda di poter dominare il futuro, anche la storia, fornisce una casistica di eventi tanto ampi, da creare la certezza che esistono alcuni punti fermi definibili come leggi, nonostante il futuro non si possa prevedere. Tucidide non è un autore di facile lettura: il carattere speculativo della sua opera trova infatti espressione in una prosa densa e irregolare, con periodi complessi. Le caratteristiche peculiari del suo stile sono un ampio uso di variatio e di antitesi. Tucidide inoltre - contrariamente a Erodoto, che si era preoccupato di esprimersi in modo semplice - indulge all'andamento narrativo. Altro punto rilevante del suo stile lo troviamo nella contrapposizione tra il "clinico" distacco nei confronti della realtà narrata in taluni passi, e invece un'intima partecipazione emotiva ai fatti descritti in altri. Esempi significativi di ciò sono la descrizione della peste di Atene, nella quale lo storico adotta il primo stile, e il tragico episodio della spedizione ateniese in Sicilia, in cui invece mostra, seppure con la consueta compostezza, tutto il suo rammarico per la drammatica sorte dei soldati compatrioti. Il suo stile risultava complesso anche per gli antichi commentatori, come Dionigi di Alicarnasso, il quale non condivideva la fama dello storico. Pur risultando eccessivo parlare di una dipendenza del pensiero di Tucidide da quello dei sofisti, con questi egli ebbe in comune l'intento paideutico indirizzato alla formazione dell'uomo politico: infatti a chi governa sono necessari dei piani d'azione razionali e fondati sulla conoscenza della realtà perciò a questi risulteranno preziose le indicazioni provenienti dalle riflessioni circa i principi ricavabili dal racconto di Tucidide. Il più importante principio è la relatività della nozione di "giusto", affermata dagli Ateniesi ai Meli che chiedono loro di essere ascoltati sul tema della giustizia:" sappiamo, noi e voi, che nelle discussioni fra gli uomini ciò che è giusto funge da metro di giudizio solo se tra le parti vi è un uguale stato di necessità, altrimenti i più potenti vanno avanti per quanto possano e i più deboli cedono di altrettanto." Tale realismo assoluto e cinico sembra quasi anticipare il pensiero machiavellico ed è scaturito dalla guerra del Peloponneso, che come racconterà l'autore, si tratta di una guerra combattuta senza esclusione di colpi. Dato il criterio di imparzialità che lo scrittore si pone, potrebbe risultare difficile ricostruirne il pensiero politico, che può, tuttavia, essere compreso da un brano in particolare: le demagogie di Pericle. Tucidide infatti esprime, anche se discretamente, un apprezzamento dell'opera dello statista ateniese: difatti, di quest'ultimo apprezzava le scelte politiche e l'organizzazione dello stato, facendo così trasparire il proprio pensiero, moderato e conservatore allo stesso tempo. Una sorta di conciliazione tra democrazia ed autorità dello stato. Tucidide (II 65) elogia Pericle sostenendo che la sua scelta di non cercare lo scontro campale con gli Spartani e limitarsi a saccheggiare le coste nemiche sfruttando la propria superiorità navale costituiva una saggia decisione che alla lunga avrebbe sfiancato il nemico ed assicurato la vittoria finale di Atene. Secondo lo storico, tuttavia, gli Ateniesi non seguirono scrupolosamente le indicazioni di Pericle e dopo la sua morte si lanciarono in imprese troppo ambiziose, prima fra tutte la spedizione in Sicilia, la quale si concluse in un disastro e privò Atene delle sue migliori risorse umane e materiali, accelerandone la sconfitta militare. Si tratta di una secca condanna della politica seguita dai democratici radicali dopo la morte di Pericle. Tra i personaggi più invisi a Tucidide vi erano i demagoghi Cleone ed Iperbolo, fortemente stigmatizzati nell'opera dello storico. Tucidide si rivela essere un democratico moderato quando definisce la costituzione dei Cinquemila del 411 a.C. come la migliore forma di governo mai avuta da Atene. Si trattava di una giusta commisurazione di democrazia ed oligarchia (metria xynkrasis), che tuttavia ebbe vita breve, poiché nel 410 a.C. fu restaurata la democrazia radicale invisa allo storico. Per Tucidide, inoltre, l'uomo politico deve conoscere le istanze razionali ed emotive che coesistono nell'essere umano, e deve saperle conciliare anche con l'elemento della "casualità".

Carta dell'antica Grecia con
evidenziata l'isola di Taso
(Thassos).
6. Stesimbroto di Taso (in greco antico Στησίμβροτος, Stesìmbrotos; nato a Taso e vissuto nella seconda metà del V secolo a.C.) è stato uno storico, logografo (scrittore, a pagamento, di orazioni giudiziarie) e rapsodo (cantore o narratore di poemi epici) greco antico. Fu autore di alcuni pamphlet (termine francese traducibile con libèrcolo, che connota il suo aspetto materiale e fisico o libello, che ha una connotazione ideologica: è un breve saggio o uno scritto polemico di dimensioni agili) politici su Temistocle, Tucidide e Pericle, dove critica il loro imperialismo. Plutarco studiò Stesimbroto e dalla sua opera trasse notizie per le vite di Temistocle, Cimone e Pericle, ma riconobbe la parzialità della fonte, accogliendo quindi con riserva alcune delle informazioni fornite dallo storico, come quella che accusava Pericle d'intrattenersi con prostitute procurategli dall'amico e confidente Fidia. Un'imparzialità, osservava Plutarco, dovuta anche al fatto che lo storico scriveva di cose a lui contemporanee. Stesimbroto è anche citato come fonte da Apollonio Rodio. Influenzato dal misticismo orfico, Stesimbroto scrisse anche sulle cerimonie rituali nell'opera "Perí teletó̱n".

Siracusa antica durante la II guerra
punica, con le mura rinforzate da
 Archimede. Da http://poliremi.
altervista.org/greci8.html
7. Filisto di Siracusa (Siracusa, 430 a.C. - 356 a.C.) è stato uno storiografo siceliota del IV secolo a.C., autore di una "Storia della Sicilia" (Sikelikà). Filisto nacque nel 430 a.C. a Siracusa e ricoprì importanti incarichi militari sotto Dionisio I e Dionisio II. Infatti, Dionisio I, del quale lo storiografo fu un forte sostenitore, gli affidò, per molti anni, il comando della guarnigione di stanza ad Ortigia. Ma nel 386 a.C. venne esiliato ad Adria e non è chiaro se tornò in patria sotto lo stesso Dionisio I o sotto Dionisio II. Fu proprio durante gli anni dell'esilio che, secondo Plutarco, Filisto avrebbe scritto la sua opera storica. Si suppone che la fossa Filistina, nei pressi di Adria (sede del suo esilio), abbia preso il nome da Filisto. Le ultime notizie di cui disponiamo sulla sua vita riguardano lo scontro decisivo con Dione del 356 a.C., a cui egli partecipò come generale di Dionisio II, scontro che terminò con una sconfitta per lo storiografo. Secondo Eforo di Cuma, dopo la sconfitta, il nostro si sarebbe tolto la vita; secondo Timeo, invece, sarebbe stato torturato ed ucciso dal nemico.
"Storia della Sicilia" (Sikelikà) è l'opera storica di Filisto, in quindici libri, di cui ci restano oggi soltanto pochi frammenti, che iniziava dal mitico regno di Kokalos e giungeva fino al 363/2 a.C..
I primi nove libri raccontavano gli eventi fino alla conquista di Akragas da parte dei Cartaginesi nel 406/5 a.C.; i quattro successivi riguardavano il regno di Dionisio I fino al 367/6 a.C.; gli ultimi due trattavano del regno di Dionisio II fino al 363/2 a.C. Dall'opera emerge una posizione fortemente filotirannica, che traspare anche dai frammenti giunti fino a noi. Severo il giudizio di Dionigi di Alicarnasso, che definisce Filisto un imitatore di Tucidide che non riesce ad eguagliare il suo modello. Più positivi, invece, i giudizi di Quintiliano e Cicerone, che ne apprezzano lo stile conciso.

Senofonte. Da http://
commons.wikimedia.org/
wiki/File:Xenophon.jpg#/
media/File:Xenophon.jpg
8. Senofonte (in greco antico Ξενοφῶν, Xenophôn; Erchia 430/425 a.C. circa - Corinto, 355 a.C. circa) del demo di Erchia in Attica, figlio di Grillo, è stato uno storico e mercenario ateniese.
Carta dell'Attica, in Grecia, con
indicata dal segnalino rosso, la
posizione dell'antico demo di Erchia.
Senofonte è stato uno scrittore poligrafo (scrittore che si occupa di argomenti vari, talvolta notevolmente diversi) del quale ci sono pervenute tutte le opere e anche complete, una circostanza che ha fatto di lui una delle maggiori fonti per la conoscenza dei suoi tempi. In particolare da lui, oltre che da Platone, provengono molte notizie riguardanti la vita e i detti di Socrate. È stato soprannominato dalla Suda "l'ape attica", per la semplicità e la chiarezza della sua prosa. Suo padre Grillo, del demo di Erchia, era un personaggio di cui non si sa nulla, al di là di certe indirette supposizioni che lo farebbero rappresentante di una famiglia agiata, appartenente forse all'ordine dei cavalieri. Ciò appare probabile sia in virtù della dimestichezza di Senofonte con l'arte equestre, sia dalla militanza di questi, e dei suoi figli, nella cavalleria ateniese. L'agiatezza delle origini è comunque provata dalla buona educazione ricevuta, che lo vide allievo dei sofisti Prodico e Isocrate. In gioventù, poco più che ventenne, entrò anche in contatto con Socrate, di cui fu discepolo per almeno tre anni, un'esperienza che si rivelò determinante per la sua educazione. La sua "Apologia" di Socrate si discosta per certi versi da quella di Platone e ha dato luogo a molti dibattiti sulla figura storica di Socrate.
La breve militanza politica ateniese - Senofonte militò nei cavalieri, che influirono sulle sue scelte politiche conservatrici e filo-spartane: appoggiò sicuramente il regime dei Trenta Tiranni (così come, in precedenza, aveva appoggiato la Boulé dei Quattrocento, della quale probabilmente anche Tucidide era stato membro). Lo storico Luciano Canfora, su una stringente ricostruzione filologica delle fonti, ipotizza che Senofonte fu uno dei due ipparchi al servizio dei Trenta; pensa inoltre che, quando Trasibulo restaurò la democrazia, Senofonte abbia seguito gli oligarchi nel loro esilio nel demo di Eleusi, lasciando poi Atene quando essi furono massacrati, nel 401 a.C. Questo fatto, secondo lo storico, sarebbe testimoniato dalla mancanza di notizie riguardanti il periodo tra il 403 e il 401, che non figura nelle "Elleniche". Nella primavera del 401, infatti, Senofonte si trova in Asia Minore, prima ad Efeso e poi a Sardi, invitatovi dal tebano Prosseno, a cui era legato da antichi vincoli di ospitalità.
L'Anabasi di Ciro - Nel 401 a.C., sempre su invito di Prosseno, partecipò ad una spedizione di mercenari greci comandati da Clearco di Sparta e ingaggiati, dopo la fine dalla Guerra del Peloponneso, da Ciro il Giovane, che tentava di sostituire sul trono di Persia il fratello maggiore, l'imperatore Artaserse II. Nella battaglia di Cunassa (3 settembre dello stesso anno) i greci riportarono la vittoria sul loro fronte ma Ciro, spintosi troppo oltre nel tentativo di uccidere personalmente il fratello, trovò invece la morte. Clearco, invitato a negoziare con le forze di Artaserse, fu vittima, insieme agli altri strateghi greci, di un inganno ordito da Tissaferne, un consigliere di Artaserse, nel quale furono sopraffatti ed uccisi tutti i comandanti greci, incluso Prosseno. Il contingente greco, che contava circa diecimila uomini (i famosi Diecimila), si trovò sbandato e disorientato, privo di ogni guida, in un territorio ostile, a migliaia di chilometri dalla patria. I soldati seppero però darsi dei buoni condottieri, tra i quali lo stesso Senofonte, e con un'epica marcia verso il nord attraverso l'Armenia, raggiunsero Trapezunte (Trebisonda), sul Mar Nero (allora Ponto Eusino). Di qui si imbarcarono per la Tracia, per poi tornare al luogo di concentramento di Tibron, nei pressi di Pergamo, a nord-ovest di Sardi (luogo di concentramento all'inizio dell'"Anabasi") e infine raggiunsero la Grecia. Il racconto di questa impresa è contenuto nella più nota delle opere di Senofonte, l'"Anabasi".
Al seguito di Agesilao di Sparta - Le conseguenze politiche della fallita spedizione di Ciro non si fecero attendere: nel mutato quadro venutosi a determinare, Sparta decide un intervento contro Farnabazo, in favore della città greche della Ionia. Della spedizione, guidata da Agesilao, re di Sparta, farà parte anche Senofonte, che già a Pergamo aveva consegnato i superstiti dei Diecimila al generale spartano Tibrone, determinandone quindi l'arruolamento nelle file spartane. Nel 394, Senofonte partecipò probabilmente alla battaglia di Coronea, schierato con Sparta, al seguito di Agesilao e contro Atene, la sua stessa città, coinvolta nell'alleanza con Tebe.
L'esilio - Per questo motivo o forse per essere stato mercenario di Ciro, ma più probabilmente per il suo coinvolgimento nel governo dei Trenta tiranni del 404 a.C., fu esiliato da Atene e privato di tutti i beni cittadini. Nel 390 ottenne dagli Spartani una proprietà a Scillunte, una località dell'Elide, tra Sparta e Olimpia, dove trascorse un esilio di vent'anni all'incirca. La fattoria di Scillunte si rivelò un ritiro sereno e prolifico, sia in senso letterale che letterario: fu in questo periodo che sposò una donna di nome Filesia, dalla quale ebbe due figli, Diodoro e Grillo che, sotto la guida di Agesilao, ricevettero l'agoghè (Άγωγή), l'educazione spartana. Negli stessi anni, probabilmente prima del 380 a.C., redasse e pubblicò l'"Anabasi". Nella sua fattoria, lontano dalle piccole ambizioni politiche, si dedicò interamente alla coltivazione, al culto degli dei e dell'ospitalità, all'equitazione e, nei dintorni ricchi di selvaggina, alla caccia. Ma questa parentesi appagata e agiata cessò bruscamente dopo la sconfitta che gli Spartani subirono nel 370 nella battaglia di Leuttra ad opera di Epaminonda: Scillunte fu conquistata dagli Elei e Senofonte fu costretto a riparare con la famiglia in vari luoghi finché, resosi conto dell'irrimediabile perdita dei beni, rinunciò ad ogni perorazione e decise di stabilirsi a Corinto.
Il miglioramento dei rapporti con Atene - Fu allora che, dopo molti anni di lontananza, giunse una schiarita nei rapporti con la sua città d'origine, a cui non fu estraneo il migliorato quadro dei rapporti tra Sparta e Atene: fu infatti intorno al 368 (o 367) che, su proposta di Eubulo, Senofonte vide annullarsi il provvedimento di bando e confisca dei beni. A questo fece seguito il riconoscimento della cittadinanza ateniese per i suoi figli e l'assegnazione di un risarcimento per i danni subiti a seguito del provvedimento di esilio; in questi stessi anni è probabile che facesse temporaneo ritorno in patria.
La morte - Senofonte visse a Corinto fino alla sua morte, avvenuta attorno al 355 a.C.; altre fonti, comunque, sostengono che morì ad Atene.
La prosa e la lingua - Riguardo alla prosa di Senofonte, il giudizio tramandato dal lessico di Suda è positivo: Senofonte ha infatti goduto, dall'antichità fino ai tempi moderni, di unanime apprezzamento per la peculiare sobrietà e chiarezza della prosa, frutto non solo di un istintivo senso della misura e del bello, ma anche di un'intenzionale e studiata ricerca della semplicità nella costruzione della frase; queste caratteristiche hanno fatto di lui un vero e proprio modello di stile per oratori e prosatori di epoche successive. Quale naturale conseguenza delle sue vicende e delle sue frequentazioni, la lingua usata da Senofonte si caratterizza per l'accoglimento di elementi e costrutti provenienti dai più diversi ambiti dialettali e letterari del mondo greco: così vi si riconoscono in particolare gli influssi dalla prosa scritta ionica, anche di carattere tecnico (e quindi del corrispondente dialetto) ma anche elementi linguistici estranei alla prosa attica e ionica o addirittura provenienti del registro linguistico parlato. Tutto questo fa sì che la sua lingua non può essere ascritta ad una sfera di purezza dialettale attica (almeno nel senso dei fraintendimenti atticistici) ma, nella nostra ottica, debba essere considerata un'anticipatrice di fenomeni linguistici che porteranno alla formazione della koinè, la lingua comune dell'epoca ellenistica. Questa contaminazione linguistica non ha impedito il sorgere di un equivoco atticista, che ha voluto vedere, nella sua lingua, un modello di quella presunta purezza linguistica attribuita al dialetto attico: un equivoco provvidenziale al quale, probabilmente, sono dovute la trasmissione e la conoscenza moderna delle sue opere.
Opere storiografiche - Anabasi, Ciropedia, Elleniche, Agesilao, Costituzione di Sparta.
Opere su Socrate - Memorabili o Detti Memorabili di Socrate, Apologia di Socrate, Simposio o Convito, Economico, Ierone.
Trattati tecnici - Sull'equitazione, (grazie a quest'opera viene ricordato come il primo sostenitore delle attività di equitazione nella quale si dia importanza su un rapporto di affetto fra uomo e cavallo) Ipparchio, Caccia con i cani, Poroi
La tradizione antica attribuiva a Senofonte anche una sorta di pamphlet sulla Costituzione degli Ateniesi, ma la critica moderna è tuttora indecisa sulla sua attribuzione. Si attribuiscono a Senofonte anche alcune lettere. A Senofonte è stato intitolato il cratere Senofonte, sulla superficie della Luna. Senofonte è il protagonista de" L'armata perduta", romanzo di Valerio Massimo Manfredi, incentrato sull'"Anabasi".

Teopompo.
9. Teopompo (in greco antico Θεόπομπος, Theòpompos; Chio, anno discusso, 404/3 o 378/7 a.C. - 320 a.C.), figlio di Damasistrato, è stato uno storico greco antico. 
Carta dell'antica Asia minore
con evidenziata l'isola di Chio
(Chios in greco).
Teopompo nacque a Chio e visse a lungo alla corte di Filippo II di Macedonia. Secondo Fozio sarebbe stato cacciato da Chio, insieme al padre, poiché era filospartano e solo grazie ad una lettera di Alessandro il Grande sarebbe riuscito a riottenere la cittadinanza. Alla morte di Alessandro, venendo a mancare i vincoli della sua intercessione, sarebbe dovuto ripartire da Chio e si sarebbe presentato in Egitto, alla corte dei Tolemei, senza esservi accettato. Secondo una lunga tradizione, ormai spesso messa in dubbio, Teopompo, insieme ad Eforo di Cuma, fu scolaro di Isocrate. Fu certamente un celebre e prolifico retore oltre che uno storicoOpere - Teopompo vantava per sé stesso, secondo i frammenti a nostra disposizione, una certa fama e produttività: 20.000 righe di discorsi epidittici e 150.000 di Storia. L’"Epitome" di Erodoto, di cui parla la tradizione, pare in realtà essere un estratto composto con digressioni presenti nelle sue opere principali. Le sue "Elleniche" (in XII libri) sono un proseguimento della storia di Tucidide, dal 411 al 394 a.C., data della Battaglia di Cnido, che segna la fine dell'egemonia spartana nel mare Egeo. La narrazione di Teopompo è molto dettagliata e assai più ampia di quella parallela di Senofonte. Ci sono però rimasti pochissimi frammenti di quest’opera. Per alcuni le "Elleniche" di Ossirinco o almeno alcuni dei frammenti papiracei che ce le tramandano, sono manoscritti di quest'opera di Teopompo. Più ampia è la parte rimastaci delle "Storie Filippiche" (Φιλιππικά), opera intrapresa verso la metà del IV secolo, interrompendo le "Elleniche". Questa è una storia universale al cui centro si trova la controversa figura di Filippo II di Macedonia, opera che descrive gli eventi dall'ascesa al potere di Filippo nel 359, fino alla sua morte nel 336. Era un'opera estremamente vasta (ben LVIII libri), con una grande quantità di digressioni anche geografici, culturali, mitologiche e persino storie fantastiche e racconti favolosi (in questo Teopompo si pone sulla scia di Erodoto), come diceva anche Cicerone. In queste stesse digressioni, Teopompo tratta anche delle vicende della Sicilia, della penisola Italica, della penisola iberica, della Persia oltre a fenomeni straordinari e misteriosi. Scrisse anche, secondo le testimonianze antiche, un'opera "Sulle ricchezze saccheggiate a Delfi" e una "Contro Platone". Anche queste, tuttavia, potrebbero essere state estratte dalle digressioni nelle "Storie Filippiche". Molto nota è la digressione sui "Demagoghi ateniesi" del X libro, che ebbe forse una propria indipendente fortuna e prendeva spunto dall'opera di Stesimbroto di Taso.
Metodo e stile - Per Teopompo il lavoro di storico non è secondario rispetto a quello di retore. Sappiamo della meticolisità messa nella ricerca, dell'attenzione all'autopsia come metodo di accertamento delle fonti e di un interesse per l'epigrafia e i documenti come fonte per la storiografia. D'altro canto, Teopompo era noto per aver preso parti di opere da altri e per raccontare fatti cambiando di volta in volta i nomi dei protagonisti. Nelle opere di Teopompo era riconosciuta una certa abilità nell'introspezione dei personaggi e delle loro sofferenze. Un aspetto moralistico pervade l’intera suo opera: numerosi politici sono accusati di depravazione morale, in particolare i demagoghi ateniesi; si rivelano così le tendenze aristocratico-conservatrici di Teopompo, abbinate a sentimenti filospartani. Più avanti egli vide concretizzarsi il suo ideale politico in una monarchia patriarcale, il cui rappresentante ideale era Filippo. Teopompo ebbe vastissima fortuna nell’antichità e divenne uno degli storici greci più letti; nonostante ciò, ad un certo punto, le sue opere andarono quasi completamente perdute. In età moderna si dà invece un giudizio meno positivo, dovuto soprattutto al suo interesse per il meraviglioso, alla forma retorica e alle esagerazione moralistiche.

Carta dell'antica Asia minore con
evidenziata l'antica Cuma eolica.
10. Eforo di Cuma (Cuma eolica, 400 a.C. circa - 330 a.C. circa) è stato uno storico greco antico, incluso nell'elenco degli otto storici esemplari (Erodoto, Tucidide, Senofonte, Teopompo, Eforo di Cuma, Filisto di Siracusa, Anassimene di Lampsaco, Callistene) del Canone alessandrino, il nome dato ad un elenco di scrittori greci che i grammatici alessandrini consideravano come i modelli dei vari generi letterari. Nato a Cuma eolica, in Asia Minore, Eforo visse ad Atene ed ebbe come maestro di retorica Isocrate e studiò con Teopompo. Suo figlio Demofilo seguì le sue orme come studioso ed erudito, aggiungendo ai 29 libri storici del padre un suo libro sulla guerra sacra del 356 a.C. A parte tali notizie, è certo che raggiunse una tale notorietà da essere invitato da Alessandro Magno come storico ufficiale nella sua spedizione contro i Persiani. Eforo avrebbe rifiutato, probabilmente per la tarda età, a favore di Callistene di Olinto.
Opere - Eforo si dedicò, oltre che alla storia "universale", ad altri generi, a metà tra erudizione e retorica. Nell'"Epichó̱rios lógos", un "discorso locale", Eforo doveva celebrare, in linea con le tendenze isocratee, la sua patria, visto che uno dei due frammenti rimasti riguarda la teoria secondo la quale Omero sarebbe stato di Cuma. Il "Perí léxeo̱s", "A proposito della parola" era un trattato sullo stile che doveva porsi in modo abbastanza diverso dalle tendenze di Isocrate, che non stimolava tali discussioni teoriche, mentre nei due libri di "E̔v̱ri̱máto̱n ó̱n ékastos e͂v̱re" il cui titolo è citato in tal modo dal Suda o Suida, (la Suda o Suida è un lessico e un'enciclopedia storica del X secolo scritta in greco bizantino, riguardante l'antico mondo mediterraneo) mentre di solito è citato, in altri autori, come "Perí e̔v̱ri̱máto̱n", "Reperti informazioni", Eforo si occupava del tema topico del protos heuretes, il primo inventore. L'opera più importante di Eforo, comunque, furono le "Storie", redatte in 30 libri (anche se l'ultimo fu completato dal figlio Demofilo), sul lungo periodo che andava dal ritorno degli Eraclidi nel Peloponneso (nel 1104 a.C.) fino alla terza guerra sacra (356 a.C.), ovvero l'inizio del regno di Filippo II il macedone. Dall'opera, che era anche geografica e etnografica, furono esclusi tutti gli avvenimenti considerati mitici dall'autore, compresa la Guerra di Troia; oltre alla descrizione degli avvenimenti della Grecia, Eforo narrava anche gli eventi relativi ad altri popoli allora conosciuti. All'inizio di ogni libro, l'autore inserì un proemio moraleggiante. Della sua "Storia" si sono conservati brevi ma numerosi frammenti ed i riassunti che Diodoro Siculo inserì nella propria "Bibliotheca Storica". Particolare attenzione riveste, proprio sulla scorta di quanto ci è rimasto di Eforo in Diodoro, un artificio della tecnica narrativa, che può essere osservata per la prima volta in Eforo, ossia la duplicazione. Eforo, infatti, riempie gli spazi vuoti ed estende la narrazione duplicandone un particolare: così, ad esempio, il dibattito prima della battaglia di Micale era una povera imitazione del più famoso dibattito prima della battaglia di Salamina. La Battaglia di Micale fu una delle due principali battaglie che posero fine all’invasione persiana della Grecia durante le guerre persiane. La battaglia ebbe luogo all’incirca il 27 agosto 479 a.C. sui pendii del monte Micale, nel territorio della Ionia, di fronte all'isola di Samo. Questa battaglia portò alla distruzione della maggior parte delle forze persiane nella Ionia, così come della loro flotta nel Mediterraneo.

Grecia antica con sottolineata in
rosso, al centro, Lampsaco.
11. Anassimène di Lampsaco (in greco antico Anaximénes; Lampsaco 380 a.C. circa - 320 a.C. circa), figlio di Aristocle, è stato uno storico e retore greco antico, incluso nell'elenco degli otto storici esemplari del Canone alessandrino, nome dato a un elenco di scrittori greci che i grammatici alessandrini consideravano come i modelli dei vari generi letterari. Discepolo di Zoilo e Diogene il Cinico, Anassimène fu un contemporaneo di Alessandro Magno, che egli dice aver istruito e che accompagnò nelle campagne in Asia. I suoi concittadini gli dedicarono, perciò, una statua ad Olimpia per averli salvati da Alessandro, adirato poiché si erano alleati con i Persiani. Anassimene ha scritto tre opere storiche:
- una storia di Filippo II di Macedonia, costituita da almeno otto libri;
- una storia di Alessandro Magno;
- una storia della Grecia, che Pausania il Periegeta chiama L'influenza dell'antico e che comunque è normalmente conosciuta come "Prima Storia" e che comprendeva, in dodici libri, la storia della Grecia dalle più antiche età mitologiche fino alla battaglia di Mantinea (362 a.C.) e alla morte di Epaminonda. La battaglia di Mantinea fu combattuta nell'estate del 362 a.C. dagli Spartani e dagli Ateniesi, insieme a contingenti peloponnesiaci dell'Acaia e di Mantinea, contro l'esercito tebano di Epaminonda affiancato da contingenti provenienti dall'Arcadia, dalla Messenia e delle città di Sicione e Argo. Le storie di Anassimene, delle quali rimangono pochissimi frammenti, furono censurate da Plutarco per i numerosi discorsi retorici e prolissi in esse contenuti. Anche la scarsità dei frammenti che possediamo è indice del poco apprezzamento che gli antichi avevano della sua opera, più retorica che storica. Ci sono stati dei critici, come il Casaubon, che ritenevano che il retore e lo storico Anassimene fossero due persone distinte, ma la loro comune identità è stata provata con argomenti soddisfacenti. Anassimene fu anche un retore esperto e scrisse il Trikáranos, un'opera in cui muoveva accuse alle grandi città della Grecia come Sparta, Atene e Tebe e che pubblicò sotto il nome di Teopompo, suo nemico personale, del quale riuscì a imitare tanto bene lo stile da far credere a tutti che lo scritto fosse opera sua, procurandogli grande ostilità in tutta la Grecia. Anassimene raggiunse, in effetti, una certa reputazione come insegnante di retorica e come oratore, sia nelle assemblee popolari sia nei tribunali e scrisse anche discorsi per altri, come quello che Eutia pronunciò contro Frine. Ciò che rende comunque importante Anassimene nel panorama della letteratura greca è l'esser stato l'unico retore prima di Aristotele di cui resti un trattato scientifico sull'arte retorica, ossia la "Retorica ad Alessandro" (Ῥητορικὴ πρὸς Ἀλέξανδρον), normalmente pubblicato fra le opere spurie di Aristotele. L'opinione che fosse, appunto, un'opera di Anassimene fu per la prima volta espressa dal Victorius nella sua prefazione alla Retorica aristotelica ed è stata confermata da Leonhard Spengel. Questa "Retorica" fu preceduta nel II secolo a.C. da un'apocrifa lettera di dedica di Aristotele ad Alessandro che fu probabilmente concepita come introduzione allo studio della "Retorica di Aristotele". Considerando la struttura dell'opera, risulta evidente che l'autore non era un filosofo, si tratta infatti solo di una serie di suggerimenti pratici su come questo o quel soggetto dovessero essere trattati nelle varie circostanze. Mentre l'oratoria è stata suddivisa dal filosofo Aristotele in tre generi di «discorsi retorici», il giudiziario, il deliberativo e l'epidittico, che comprendono sei specie di eloquenza: l’esortazione, la dissuasione, la lode, il biasimo, l’accusa e la difesa, nell'opera di Anassimene è specificata solamente l'«exetastica», o esame accurato.

Ubicazione dell'antica Ólynthos
(Olinto), nella penisola Calcidica.
12. Callistene (in greco antico Kallisthénēs; Olinto, l'antica Ólynthos, 370 a.C. - 327 a.C.) è stato uno storico greco antico, nipote di quel Prosseno di Atarneo che era stato il tutore di Aristotele dopo la morte dei suoi genitori e ne aveva sposato la sorella, Arimneste. Nel 336 a.C., Callistene seguì Alessandro Magno nella sua spedizione contro l'Impero persiano, come storico e segretario del sovrano macedone, posizione raggiunta grazie anche all'influenza di Aristotele stesso. Le fonti attribuiscono a Callistene numerose opere, di cui, tuttavia, non restano che frammenti. Con lo zio Prosseno di Atarneo scrisse i "Pitionici", una lista dei vincitori nei Giochi Pitici di Delfi, per poi comporre un "Encomio di Ermia", un elogio del re della città asiatica di Atarneo. Anche Aristotele, che aveva sposato una parente di Ermia, alla morte del re compose un encomio in versi. Tipicamente peripatetici erano la "Descrizione della terra" e gli "Apoftegmi", una raccolta di massime celebri di tipo retorico, forse ispirata alla "Retorica aristotelica". Come storico, Callistene deve aver esordito con le "Elleniche", una storia in 10 libri che andava dal 387 a.C. al 357 a.C. terminando all'inizio del regno di Filippo II. In quest'opera Callistene si occupava anche di mitologia, geografia ed etnografia. Inoltre, a complemento dell'opera precedente, "Sulla guerra sacra", una monografia. Il capolavoro di Callistene sono state tuttavia, le incompiute "Gesta di Alessandro", un'opera propagandistica voluta da Alessandro, che giungeva fino alla battaglia di Arbela (331 a.C.). L'opera fece dello storico di Olinto uno dei più importanti storici di Alessandro Magno. Callistene pubblicava l'opera man mano che la componeva, immediatamente dopo le vittorie di Alessandro, che narrava con stile vivo e con toni apologetico-propagandistici, presentando il giovane macedone come il condottiero scelto dalla Lega panellenica per abbattere la ùbris ("tracotanza", "eccesso", "superbia", “orgoglio” o "prevaricazione", un antefatto che vale come causa a monte che condurrà alla catastrofe della tragedia) persiana e vendicare l'invasione che due secoli prima il Grande Re Serse aveva compiuto ai danni della Grecia. L'opera, di fatto, si situa all'inizio della leggenda sul sovrano, venendo a creare nel tempo il corpus letterario-mitologico conosciuto come romanzo di Alessandro (le versioni più antiche in greco vengono attribuite convenzionalmente ad un anonimo Pseudo-Callistene) che ebbe molta fortuna in epoca medioevale nella traduzione latina del X secolo di Leone Arciprete e nella successiva versione in francese realizzata nel XII secolo, attribuita ad Alexandre de Bernay.
Rifiutatosi di prostrarsi davanti al sovrano (come prevedeva l'usanza persiana della proskýnesis adottata dal re macedone), nel 327 a.C. Callistene divenne l'ispiratore morale dell'opposizione macedone alla politica cosmopolita di Alessandro. Inoltre, quando venne sventata la Congiura dei paggi, che mirava a eliminare Alessandro, emerse che ne era coinvolto proprio Callistene. Accusato da alcuni dei congiurati, Callistene sarebbe morto, secondo la versione ufficiale, in carcere per ftiriasi (o pediculosi, una parassitosi che può colpire le parti della cute, soprattutto il capo o il pube o, più in generale, il corpo) mentre altre versioni non filomacedoni ritengono di sapere che fu torturato ed impiccato nello stesso 327 a.C.. Questa morte per coerenza ispirò l'amico filosofo Teofrasto, successore di Aristotele alla guida della scuola peripatetica, a scriverne un trattato, "Callistene", o "Sul dolore", andato perduto.

Taormina con il monte Tauro, di pjt56,
Opera propria, CC BY-SA 3.0, da:
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index.php?curid=21935636
13Timeo di Tauromenio (Tauromenium o Taormina, 350 a.C. circa - Siracusa, 260 a.C. circa), noto anche come Timeo di Taormina, è stato uno storico greco, autore anche di una “Vita di Pitagora” andata perduta, citata comunque nella Nota 2 di https://it.wikibooks.org/wiki/La_religione_greca/Le_religioni
_dei_misteri/Pitagora_e_il_Pitagorismo: Le "Vita di Pitagora" riferibili rispettivamente a Diogene Laerzio, Porfirio e Giamblico sono tutte del III secolo d.C. anche se attingevano a fonti del IV secolo a.C., oggi perdute, come due libri di Aristotele dedicati ai pitagorici e alle opere dei suoi allievi, Dicearco e Aristosseno, sempre dedicate al pitagorismo, oltre alle opere del platonico Eraclide Pontico e di Timeo di Tauromenio. Di Timeo di Tauromenio non ci sono pervenute opere, ma deve averne prodotte diverse, poiché è stato citato in:
Strabone - Geografia Volume 2/Libro IV/Capitolo I pg. 393
Strabone - Geografia Volume 3/Libro V/Capitolo IX pg. 86
Strabone - Geografia Volume 3/Libro VI/Capitolo III pgg. 128-129
Antonio Brandimarte - Piceno Annonario, ossia Gallia Senonia illustrata (1825), Capitolo VII.
Giuseppe Micali - Storia degli antichi popoli italiani (1836), Capitoli III, VII, X, XIV, XVII, XIX, XX e XXIV.
Pietro Tessieri, Giuseppe Marchi, Girolamo Apolloni - L'aes grave del Museo Kircheriano (1839), Utilità che ritraggonsi dal peso e dalle impronte dell'aes grave, pg.10
Giacomo Leopardi - Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura (XIX secolo), pagina 4432
Storia della letteratura italiana (Tiraboschi, 1822-1826)/Tomo I/Parte II/Capo II
Luigi Schiaparelli - Le stirpi ibero-liguri nell'Occidente e nell'Italia antica (Torino, 1880), § IV

Eratostene di Cirene.
Da http://commons.wikimedia.
org/wiki/File:Portrait_of_
Eratosthenes.png#/media/File:
Portrait_of_Eratosthenes.png
14. Eratostene di Cirene (in greco antico Έρατοσθένης, Eratosthénēs; Cirene, 275 a.C. circa - Alessandria d'Egitto, 195 a.C. circa) è stato un poeta, storico, matematico, astronomo e geografo greco antico. Fu uno degli intellettuali più versatili della sua epoca. Terzo bibliotecario della Biblioteca di Alessandria e precettore di Tolomeo IV Filopatore, è oggi ricordato soprattutto per aver misurato per primo, con ottima approssimazione, le dimensioni della Terra. È anche conosciuto come Eratostene beta, ovvero Eratostene secondo, nomignolo assegnatogli, non senza malizia, già dagli antichi, per sottolineare come egli si applicasse in moltissime discipline diverse, senza però primeggiare in nessuna, risultando così sempre alle spalle di qualcun altro. Eratostene ha scritto una storia della filosofia e saggi filosofici, probabilmente di contenuto etico, ma della sua produzione in questo settore non sappiamo nulla di preciso. Uno spiraglio sulle sue concezioni è dato da un frammento riportato da Strabone (Geografia, I), nel quale Eratostene afferma che non bisognerebbe dividere gli uomini tra barbari e Greci, ma secondo le loro qualità, in quanto non solo vi sono Greci pessimi, ma anche “barbari” di alta civiltà. Si occupò di storia della letteratura, scrivendo trattati sulla commedia antica, e di critica letteraria. Coniò per se stesso il termine “filologo”, nel senso di amante della cultura; dando inizio, anche terminologicamente, alla filologia alessandrina.
Carta dei terrori del Mar Mediterraneo
ai tempi della Repubblica di Roma, con
evidenziata Cirene, nell'attuale Libia.
Storia e cronologia - Tra i suoi lavori di storia, alcuni trattavano l’antica storia egiziana, ma il suo contributo principale in questo campo consistette nel primo tentativo di fissare su base scientifica una precisa cronologia per la storia greca. A questo scopo, nella sua opera cronologica, introdusse l’uso, poi seguito dagli autori successivi, di datare gli eventi storici e letterari in base alle Olimpiadi nelle quali si erano verificati (questo sistema era utile per l’abbondanza di riferimenti in letteratura ai giochi olimpici e il loro carattere panellenico). La sua compilazione di un elenco di vincitori nelle gare olimpiche era chiaramente funzionale alle sue ricerche cronologiche. Il metodo di datazione riferito alle Olimpiadi poteva però essere applicato soltanto agli eventi successivi al 776 a.C., anno della prima Olimpiade (che fu vinta da Corebo di Elide): per il periodo precedente al 776, lo stesso Eratostene pensò di servirsi delle liste dei re spartani, a noi pervenute nella "Cronaca" di Eusebio di Cesarea. Grazie alle liste, Eratostene fornì una cronologia relativa della Guerra di Troia (che egli data ad 80 anni prima del ritorno in Grecia degli Eraclidi, dunque intorno al 1180 ca) e del floruit (fioritura) di Omero, che Eratostene collocò 100 anni dopo Troia, dunque intorno al 1080.
Mitologia e poesia - L’interesse di Eratostene per l’antica mitologia è testimoniato da uno dei suoi scritti più noti, i "Catasterismi", un saggio in cui sono descritte 42 costellazioni con i miti che le riguardano. I "Catasterismi" sono stati a lungo attribuiti ad un anonimo della tarda antichità, ma nel 1956, lo studioso Jean Martin accertò l'attribuzione ad Eratostene dell'opera originale, della quale il testo giunto a noi è una versione abbreviata. L'opera fu per la prima volta pubblicata in una lingua europea nel 1998, quando fu tradotta in francese con il titolo "Le Ciel, Mythes et histoire des constellations".
Astronomia - Tra i risultati nell'ambito dell'astronomia ottenuti da Eratostene, conosciamo la misura dell'inclinazione dell'eclittica, effettuata con un errore di 7', e la compilazione di un catalogo di 675 stelle, andato perduto. Intorno al 255 a.C. avrebbe inventato la sfera armillare, strumento che consente la rappresentazione della sfera celeste e la descrizione del moto delle stelle intorno alla Terra. Sulle sue misure delle distanze tra Terra e Luna e tra Terra e Sole abbiamo solo una notizia confusa, trasmessa da Eusebio di Cesarea.
Matematica - Tra i risultati matematici di Eratostene, quello più noto è il crivello di Eratostene, un metodo per individuare i numeri primi. Un'altra sua invenzione è quella del mesolabio, riportata in dettaglio da Eutocio di Ascalona. Si tratta di uno strumento meccanico con il quale si possono calcolare due medi proporzionali da inserire tra due segmenti assegnati o, equivalentemente, estrarre una radice cubica. Pappo di Alessandria riferisce che Eratostene scrisse un'opera matematica intitolata Sulle medie.
Geografia fisica - Sui contributi di Eratostene nel campo della geografia fisica, siamo informati soprattutto da Strabone, che scrive come Eratostene si fosse occupato, in particolare, delle maree, studiando il ciclo lunare e individuandolo come causa delle correnti negli stretti. Studiando i fossili marini presenti in località lontane dal mare, aveva dedotto il lentissimo movimento della linea di costa: un'idea spesso attribuita a Leonardo da Vinci.
Curiosità - Il nome "Eratostene" è stato attribuito ad un imponente rilievo sottomarino localizzato tra l'isola di Cipro e l'Egitto.
Mappa del mondo di Eratostene, da
https://commons.wikimedia.org/wiki/
File:Mappa_di_Eratostene.jpg#/me
dia/File:Mappa_di_Eratostene.jpg
Geografia e cartografia - Fu Eratostene ad introdurre il termine geografia (Γεωγραφία), con il significato di descrizione della Terra. Può essere considerato il fondatore della geografia matematica, avendo usato sistematicamente il sistema di coordinate sferiche costituito da latitudine e longitudine, inventato da Dicearco da Messina. Compilò una mappa dell’Egitto, che descriveva il percorso del Nilo dal delta fino a Khartum, ed una mappa dell'intero mondo conosciuto, dalle isole britanniche (per le quali usò il resoconto di Pitea) fino a Ceylon e dal Mar Caspio fino all'Etiopia. Nella sua Geografia in tre libri, Eratostene rifletteva anche sulla geografia omerica, che egli riteneva del tutto immaginaria.
Misura del meridiano di Eratostene.
La misura del meridiano terrestre è certamente il risultato più famoso di Eratostene, che stimò per esso una lunghezza di 252.000 stadi, con un errore, assumendo uno stadio compreso tra i 155 e i 160 metri, tra il -2,4% e il +0,8% rispetto al valore corretto. Il procedimento seguito era descritto in un'opera (perduta) in due libri "Sulla misura della Terra"; ad essere pervenuto è un breve resoconto divulgativo e semplificativo fatto da Cleomede. Cleomede prende in considerazione due città, Alessandria e Siene, l'odierna Assuan, distanti tra di loro 5.000 stadi egizi. Facendo l'ipotesi semplificativa che siano sullo stesso meridiano (in realtà sono separate da 3° di longitudine) e che Siene sia esattamente sul Tropico del Cancro, in modo che a mezzogiorno del solstizio d’estate si possa supporre che a Siene il sole sia allo zenit, con i raggi del sole perfettamente verticali; in questo modo l'angolo di incidenza dei raggi solari misurato ad Alessandria corrisponde all’angolo con il vertice al centro della Terra contenuto tra le semirette che lo congiungono alle due città. Il suo valore era di 1/50 di angolo giro, di conseguenza la misura dell'intero meridiano terrestre era di 250.000 (50 x 5.000) stadi egizi (1 stadio egizio = 157.5 metri), quindi 39.375 km (contro i 40.075 reali) con l'errore dell'1.5% circa. In realtà il metodo di Eratostene era più complesso, come testimoniato dallo stesso Cleomede, il cui scopo dichiarato era quello di esporre una versione semplificata rispetto a quella contenuta nell'opera di Eratostene. Il metodo, come ricostruito da Lucio Russo, si basava su una campagna di misurazioni avvenuta per mezzo dei mensores regii, funzionari regi incaricati di effettuare misure capillari del territorio egiziano per fini fiscali. Anche il fatto che la misura trovata corrisponda a 252.000 stadi potrebbe essere significativa: si tratta infatti di un numero divisibile per tutti i numeri naturali da 1 a 10; secondo una interpretazione, Eratostene avrebbe alterato i dati per ottenere questo risultato "utile". Secondo l'interpretazione di Russo, invece, basata su una affermazione di Plinio che parla dello stadio "secondo il rapporto di Eratostene", Eratostene avrebbe introdotto un nuovo stadio come sottomultiplo del meridiano.

Marco Porcio Catone
 il Censore
15. Marco Porcio Catone (in latino Marcus Porcius Cato, nelle epigrafi M·PORCIVS·M·F·CATO; Tusculum, 234 a.C. circa - 149 a.C.) è stato un politico, generale, storiografo e scrittore romano, soprannominato "il Censore" (Censor), Sapiens, Priscus o maior per distinguerlo da Marco Porcio Catone Uticense, il suo pronipote. Tusculum, città dove nacque, era stata una città pre-romana, romana e medievale del Lazio, posta sui Colli Albani nell'area dei Castelli Romani. Plutarco, autore delle "Vite parallele", dà questo ritratto di Catone: «[...]Quanto al suo aspetto, aveva capelli rossastri e occhi azzurri, come ci rivela l'autore di questo poco benevolo epigramma: "Rosso, mordace, occhiazzurro, Persefone neanche morto accoglie Porcio in Ade". Fisicamente era ben piantato; il suo corpo s'adattava a qualunque uso, era tanto robusto quanto sano, poiché fin da giovane si applicò al lavoro manuale - saggio metodo di vita - e partecipò a campagne militari ». Nacque nel 234 a. C. a Tusculum, da un'antica famiglia plebea che si era fatta notare per qualche servizio militare, ma non nobilitata per aver rifiutato le più importanti cariche civili. Fu allevato, secondo la tradizione dei suoi antenati latini, perché divenisse agricoltore, attività alla quale egli si dedicò costantemente quando non fu impegnato nel servizio militare. Ma, avendo attirato l'attenzione di Lucio Valerio Flacco, fu condotto a Roma, e divenne successivamente questore (nel 204 a.C.), edile (199 a.C.), pretore (198 a.C.) e console nel 195 a.C. percorrendo tutte le tappe del "cursus honorum" assieme al suo vecchio protettore; nel 184 a.C. divenne infine censore. Marco Porcio Catone è considerato il fondatore della Gens Porcia. Ebbe due mogli. La prima fu Licinia, una aristocratica della Gens Licinia, da cui ebbe come figlio Marco Porcio Catone Liciniano. La seconda moglie fu Salonia, figlia di un suo liberto, sposata in tarda età dopo la morte di Licinia, da cui ebbe Marco Porcio Catone Saloniano, nato quando Porcio Catone aveva 80 anni. Di lui si è citata una considerazione amara: « I ladri di beni privati passano la vita in carcere e in catene, quelli di beni pubblici nelle ricchezze e negli onori » (Marco Porcio Catone, citato in Aulo Gellio, Notti attiche, XI, 18, 18). Durante i suoi primi anni di carriera politica si oppose all'abrogazione della lex Oppia, emanata durante la seconda guerra punica e finalizzata a contenere il lusso e le spese esagerate da parte delle donne. Nel 204 a.C. prestò servizio in Africa come questore con Scipione l'Africano ma lo abbandonò dopo un litigio a causa di presunti sperperi. Egli comandò invece in Sardegna, dove per la prima volta mostrò la sua rigidissima moralità pubblica, e in Spagna, che egli assoggettò spietatamente, guadagnando di conseguenza la fama di trionfatore (nel 194 a.C.). Nel 191 a.C. ricoprì il ruolo di tribuno militare nell'esercito di Manio Acilio Glabrione nella guerra contro Antioco III il Grande di Siria, giocò un ruolo importante nella battaglia delle Termopili e attaccando alle spalle Antioco permise la vittoria dei romani, che segnò la fine dell'invasione seleucide della Grecia. Porcio Catone è tra le principali personalità della letteratura latina arcaica: egli fu oratore, storiografo e trattatista. Fu autore di una vasta raccolta di manuali tecnico-pratici, con i quali intendeva difendere i valori tradizionali del mos maiorum contro le tendenze ellenizzanti dell'aristocrazia legata al circolo degli Scipioni, indirizzata al figlio Marco, i "Libri ad Marcum filium" o "Praecepta ad Marcum filium", di cui si conserva per intero soltanto il "Liber de agri cultura", in cui esamina, soprattutto, l'azienda schiavile che tanto spazio si conquisterà poi in età imperiale. Affrontò inoltre la tematica dei valori tradizionali romani anche in un "Carmen de moribus" di cui sono ad oggi pervenuti pochissimi frammenti. Fin dalla giovinezza si dedicò, inoltre, all'attività oratoria: pronunciò in tutta la sua vita oltre centocinquanta orazioni, ma sono attualmente conservati frammenti di varia estensione riconducibili a circa ottanta orazioni diverse. Si distinguono tra esse orationes deliberativae, ovvero discorsi pronunciati in senato a favore o contro una proposta di legge, e orationes iudiciales, discorsi giudiziari di accusa o difesa. Fu inoltre autore, nella vecchiaia, della prima opera storiografica in lingua latina, le "Origines", il cui argomento era la storia romana dalla leggendaria fondazione fino al II secolo a.C.. Dell'opera, pur significativa dal punto di vista ideologico, si conservano scarsi frammenti. Catone individua nel culmine del percorso educativo la formazione di un vir bonus, dicendi peritus (uomo di valore, esperto nel dire), espressione che sarà il cardine del successivo modello educativo romano. L'opera letteraria di Porcio Catone, in particolare quella storica e oratoria, fu elogiata da Cicerone, che definì il censore primo grande oratore romano, e il più degno d'essere letto. Nella prima età imperiale, nonostante l'ideologia di Porcio Catone coincidesse in buona parte con la politica restauratrice del mos maiorum promossa da Augusto, l'opera di Porcio Catone fu oggetto di sempre minore interesse. Con l'affermarsi delle tendenze arcaizzanti nel II secolo d.C., invece, essa fu oggetto di grandi attenzioni, seppure a carattere esclusivamente linguistico ed erudito: Gellio e Cornelio Frontone ne tramandarono molti frammenti, e l'imperatore Adriano dichiarò di preferire Porcio Catone anche allo stesso Cicerone. A partire dal IV secolo d.C. l'opera di Porcio Catone iniziò a disperdersi, e se ne perse la conoscenza diretta. Grande diffusione ebbero, invece, le raccolte di proverbi in esametri erroneamente attribuite a Porcio Catone e denominate "Disticha Catonis" e "Monosticha Catonis", ma composte probabilmente nel III secolo d.C..

Polibio.
16. Polibio (in greco antico Πολύβιος,  Polìbios; Megalopoli, 206 a.C. circa - Grecia, 124 a.C.) fu lo storico greco antico del mondo mediterraneo.
Antica Grecia con cerchiata in rosso
Megalopolis.
Studiò in modo particolare il sorgere della potenza della Repubblica Romana, motivata, secondo lui, all'onestà dei romani ed all'eccellenza delle loro istituzioni, civiche e militari. "Storie", la sua opera di ricerca storica, è estremamente importante per il suo resoconto della Seconda guerra punica e della Terza guerra punica fra Roma e Cartagine. Figlio di Licorta, stratega della Lega Achea, Polibio era per tradizione familiare fra i più eminenti uomini di Megalopoli, capitale dell'Arcadia, importante componente della Lega Achea. Se il padre fu uno stratega, cioè comandante in capo della Lega, Polibio ne fu ipparco, ovvero capo della cavalleria, secondo in grado delle forze armate. La sua carriera politica in Grecia si concluse dopo la battaglia di Pidna, (168 a.C.) con la quale il console Lucio Emilio Paolo, figlio del console caduto nella Battaglia di Canne, cancellò la Macedonia di Perseo dal novero delle potenze dell'epoca. Come dirigente del partito della neutralità durante la guerra, attirò infatti i sospetti dei romani e fu uno dei mille nobili achei che nel 166 a.C. furono inviati quali ostaggi a Roma. Vi rimase per diciassette anni. A Roma, in ragione della sua vasta cultura, Polibio fu ammesso nei più rinomati salotti, in particolare quello di Paolo Emilio, amico e "rivale" degli Scipioni, a cui affidarono l'educazione dei figli, uno dei quali fu poi adottato da Scipione e cambiò nome in Scipione Emiliano (Africano Minore). L'amicizia degli Scipioni permise a Polibio frequenti uscite da Roma, con viaggi in Italia, Gallia e Spagna, (Plinio, Naturalis historia, V, 9) al seguito di Scipione nel 134 a.C., nella guerra a Numanzia. Per intercessione di Scipione, nel 150 a.C. Polibio ottenne di ritornare in Grecia, ma già nell'anno successivo era in Africa con il suo amico Scipione, e nel 146 a.C. assistette alla caduta di Cartagine, che in seguito descrisse. Dopo la distruzione di Corinto, nello stesso anno (146 a.C.), ritornò in Grecia e usò le sue conoscenze a Roma per rendere meno gravose le condizioni della Grecia, diventata una Provincia romana. Gli fu anche affidato il compito di riorganizzare le città greche sotto la nuova forma di governo, e per quest'opera di legislatore ed interprete delle leggi, si guadagnò le più alte considerazioni, tanto che gli furono erette statue. Gli anni successivi li trascorse a Roma, teso al completamento del suo lavoro storico, affrontando occasionali lunghi viaggi nelle terre bagnate dal Mediterraneo, che interessavano la sua "Storia", soprattutto con l'obiettivo di ottenere informazioni di prima mano sui siti storici. Alla morte di Scipione ritornò in Grecia dove morì, all'età di 82 anni, per una caduta da cavallo. In "Le Storie", Polibio cercava di fornire una storia universale (la sua Pragmateia) del periodo fra il 220 a.C. e il 146 a.C., con un prologo concernente la storia romana a partire dal 264 a.C.. Dei quaranta libri in cui, sappiamo, si divideva l'opera, solo i primi cinque (che coprono il periodo fino al 216 a.C.) ci sono giunti completi. Per il resto ci sono pervenuti solo lunghi frammenti ed epitomi. I due libri dell'introduzione raccontano gli eventi nel Mediterraneo a partire dal Sacco di Roma da parte del Galli di Brenno (390 a.C. ) fino alla Prima guerra punica, focalizzandosi sulla crescita dell'egemonia romana. Nei libri I (I, 1, 5-6) e III (III, 1-3) esprime dichiaratamente l'intenzione di esaminare come e perché Roma, nel breve volgere di nemmeno 53 anni, divenne l'incontrastata dominatrice dell'ecumene, dell'intero mondo abitato. L'affermazione è un po' esagerata, ma in effetti Roma, potenza esclusivamente peninsulare italiana, in mezzo secolo eliminò Cartagine, acquisendo la costa africana dall'Egitto all'Algeria, assoggettando la Spagna, la Provenza, l'Illiria, la Grecia, la Macedonia, l'Asia (Turchia e Siria). Polibio non tiene conto dei secoli di "preparazione" necessari. E dobbiamo ricordare che era greco e che per "mondo" intendeva il Mediterraneo "greco". Tutto il resto, era barbarie. Anche se, in quanto amico degli Scipioni, non fu del tutto imparziale ma piuttosto ammirativo delle capacità dei romani, Polibio non era romano, e i suoi scritti erano intesi per lettori greci. Tito Livio lo utilizzò come fonte, anche perché, a sua volta, Polibio poteva attingere a ottime fonti: i Scipioni, una delle più influenti e politicamente impegnate famiglie dell'aristocrazia romana. Anche in qualità di ostaggio, rimaneva membro della classe al governo,m con opportunità di accedere a informazioni di prima mano e di vedere nel profondo degli affari politici e militari. In una classica storia del comportamento umano, Polibio ne coglie tutte le essenze: nazionalismo, razzismo, doppiezze politiche, orrende battaglie, brutalità assieme a lealtà, valore, intelligenza, ragione e risorse. Con il suo occhio per i dettagli ed il suo stile criticamente ragionato, Polibio ci dà una visione unificata di "Storia" piuttosto che una cronologia. Polibio racconta di eventi di cui ha avuto diretta esperienza. È uno dei primi storici che cercano di presentare la storia come una sequenza di cause ed effetti, «...basata sull'attento esame della tradizione, proseguita con accorta critica, in parte anche su quanto egli stesso vide e con comunicazioni di testimoni oculari e di protagonisti del fatto. Racconta il corso degli avvenimenti con chiarezza e penetrazione, giudizio e amore per la verità ed, a seconda dei casi, pone una speciale attenzione alle condizioni geografiche. Appartiene, quindi, alla più grande tradizione di antichi storici anche se, per stile e linguaggio non si attiene alle caratteristiche tipiche della prosa attica. Il linguaggio spesso richiede più purezza e lo stile è rigido e disarmonico. » (Peck, 1898). I suoi scritti ebbero una grande influenza su Cicerone, sui Padri fondatori degli Stati Uniti e su Charles de Montesquieu. Ne sarebbe stato felice, data la sua quasi ossessione nel ritenere la storia come "maestra" per il comportamento degli uomini i quali, non si stanca mai di ripetere, devono imparare da essa a non commettere gli stessi errori compiuti dai predecessori e riportati dagli storici. Si ha notizia di altre tre opere di Polibio, però perdute: una "Vita di Filopemene" in tre libri, un trattato di tattica e una storia della guerra di Numanzia. Quest'ultima è però incerta. Fu l'ideatore, verso il 150 a.C., della cosiddetta "scacchiera di Polibio", nota anche come quadrato di Polibio, un sistema crittografico descritto nelle sue Storie. Si basava sul frazionamento dei caratteri del messaggio in chiaro, così che potessero essere rappresentati utilizzando un più piccolo insieme di simboli. Polibio, inoltre, si adoperò anche al perfezionamento di un utile strumento di telecomunicazione, inventato da Cleosseno e Democlito che, attraverso segnali di fuoco, permetteva la facile trasmissione di qualunque tipo di messaggio. Il sistema di telecomunicazione è descritto nei dettagli da Polibio stesso (X, 45-46), che ne spiega preliminarmente i vantaggi rispetto ai sistemi precedenti, i quali consentivano solamente di trasmettere messaggi preimpostati, estratti da una lista concordata preventivamente tra mittente e destinatario, o, ancora più semplicemente, confermavano o smentivano un evento atteso. Lo storico considera l'utilizzazione di questo sistema nel contesto di campagne militari, ma è ovvio che l'applicazione poteva essere generale. Il mittente si colloca dietro un parapetto provvisto di cinque fiaccole a sinistra e cinque a destra, con una tavoletta distinta in cinque righe e cinque colonne riportante in ogni cella una lettera dell'alfabeto greco (composto da 24 lettere, di cui 7 vocali e 17 consonanti), secondo uno schema simile:
A B Γ Δ Ε
Z H Θ I K
Λ M N Ξ O
Π Ρ Σ T Υ
Φ Χ Ψ Ω
La comunicazione si svolge secondo le seguenti fasi:
1. La comunicazione viene stabilita: il trasmittente alza due torce, segnalando che sta per iniziare la trasmissione; il destinatario risponde alzando due torce, segnalando che è pronto a ricevere,
2. La comunicazione viene inoltrata: viene trasmessa una lettera alla volta; il trasmittente alza un numero di torce a sinistra, corrispondente al numero di riga e un numero di torce a destra, corrispondente al numero di colonna, individuando così una lettera precisa,
3. La comunicazione termina: il trasmittente alza due torce segnalando la fine della trasmissione.
È da notare che questo metodo si prestava ottimamente alla trasmissione di messaggi crittografati; era sufficiente che trasmettitore e ricevitore concordassero uno stesso schema comune (diverso da quello banale alfabetico indicato sopra) con una disposizione particolare delle lettere in riga e colonne.
Ad esempio, se si vuole trasmettere la parola “Cretesi”, in greco KΡHTEΣ (cretès), si trasmetteranno le lettere nel modo seguente:
K 2 torce a sinistra, 5 torce a destra
Ρ 4 torce a sinistra, 2 torce a destra
H 2 torce a sinistra, 2 torce a destra
T 4 torce a sinistra, 4 torce a destra
E 1 torcia a sinistra, 5 torce a destra
Σ 4 torce a sinistra, 3 torce a destra
Il metodo di trasmissione richiede che il testo sia sintetico: non si sceglierà di comunicare la frase “circa mille soldati cretesi sono passati ai nemici”, si preferirà dire “mille Cretesi disertano”.

Marco Terenzio Varrone.
17. Marco Terenzio Varrone (in latino M. Terentius Varro; Rieti, 116 a.C. - Roma, 27 a.C.) è stato un letterato, scrittore e militare romano, che pur non essendo stato uno storico nel senso pieno del termine, ci ha lasciato notevoli fonti storiche. Nacque a Rieti (o in alta Sabina) nel 116 a.C.: per tale motivo è detto Reatino (attributo che lo distingue da Varrone Atacino, vissuto nello stesso periodo).
Carta con l'ubicazione di Rieti.
Nato da una famiglia di nobili origini, aveva rilevanti proprietà terriere in Sabina, dove fu educato con disciplina e severità dai familiari, integrati dall'acquisto di lussuose ville a Baia e fondi terrieri a Tusculum e Cassino. A Roma compì studi avanzati presso i migliori maestri del tempo: tra gli altri, studi di grammatica presso Lucio Elio Stilone Preconino, che lo fece appassionare anche agli studi etimologici e oratori, e di linguistica e filologia presso Lucio Accio, a cui dedicò la prima opera grammaticale "De antiquitate litterarum". Come molti giovani romani, compì un viaggio in Grecia fra l'84 a.C. e l'82 a.C., dove ascoltò filosofi accademici come Filone di Larissa e Antioco di Ascalona, da cui dedusse una posizione filosofica di tipo eclettico. A differenza di molti altri eruditi del tempo, non si ritirò dalla vita politica ma anzi vi prese parte attivamente accostandosi agli "optimates", forse anche influenzato dall'estrazione sociale. Dopo aver percorso le prime tappe del cursus honorum (triumviro capitale nel 97 a.C., questore lo stesso anno, legato in Illiria nel 78 a.C.) fu vicino a Pompeo, per il quale ricoprì incarichi di grande importanza: fu legato e proquestore in Spagna fra il 76 a.C. e il 72 a.C. e combatté nella guerra contro i pirati difendendo la zona navale tra la Sicilia e Delo. Allo scoppio della guerra civile nel 49 a.C., fu propretore in Spagna: in una guerra che vedeva i romani contro i romani, tentò un'incerta difesa del suo territorio che si concluse in una resa, che Gaio Giulio Cesare, nei "Commentarii de bello civili", definì poco gloriosa. Dopo la disfatta dei pompeiani, si avvicinò a Cesare, che apprezzò il Reatino, soprattutto sul piano culturale, affidandogli la costituzione di due biblioteche, una di testi latini l'altra di testi greci, ma che, dopo le idi di Marzo, furono sospese. Dopo la morte del dittatore, fu inserito nelle liste di proscrizione, sia di Antonio che di Ottaviano, interessati più alle sue ricchezze che a punire i congiuranti della morte di Cesare, da cui si salvò, grazie all'intervento di Fulvio Caleno, per poi avvicinarsi a Ottaviano, a cui dedicò il "De gente populi Romani", volto alla divinizzazione della figura di Giulio Cesare. Morì quasi novantenne nel 27 a.C. dopo aver scritto una produzione di oltre 620 libri suddivisi in circa settanta opere. La vasta produzione di Varrone fu suddivisa da San Gerolamo in un catalogo (incompleto, poiché sono elencati circa la metà degli scritti del reatino); in totale, le opere varroniane sono verosimilmente 74, suddivisi in 620 libri o volumi, sebbene Varrone stesso, in un momento della sua vita, abbia riferito di aver scritto 490 libri. Le opere che egli scrisse possono essere suddivise in:
- opere di erudizione, filologia e storia,
- opere giuridiche e burocratiche,
- epitomi di grandi opere,
- opere di filosofia e agricoltura,
- poesia, orazioni, satire, varie prose.
Di questa grande produzione è pervenuta (quasi integra) solo un'opera: il "De re rustica"; del "De lingua Latina" sono pervenuti solo 6 libri su 25.
Il canone varroniano - Composto da due opere, le "Quaestiones Plautinae" e il "De comoediis Plautinis", ripartisce il corpus plautino, che includeva 130 fabulae, di queste 21 vengono definite autentiche, 19 di origine incerta dette pseudo-varroniane, e le restanti false.
I Logistorici - Dal greco “discorsi di storia”. È un'opera in 76 libri, composto in forma di dialogo in prosa, di argomento letterario e antiquario, in cui ogni libro prendeva il nome di un personaggio storico e un tema di cui il personaggio costituiva un modello. Es.: "Marius, de fortuna", "Cato, de liberis educandis".
Le Saturae Menippeae - Prendono come modello Menippo di Gadara, esponente della filosofia cinica (da cui il nome), sono state scritte tra l'80 a.C. e il 46 a.C., si compongo di 150 libri, in prosa e in versi, di cui però ci rimangono circa 600 frammenti e novanta titoli, di argomento soprattutto filosofico, ma anche di critica dei costumi, morale, con rimpianti sui tempi antichi in contrasto con la corruzione del presente.
Ciascuna satira recava un titolo, desunto da proverbi (Cave canem con allusione alla mordacità dei filosofi cinici) o dalla mitologia (Eumenides contro la tesi stoico-cinica per cui gli uomini sono folli, Trikàranos, il mostro a tre teste, con un maligno riferimento al primo triumvirato).

Raffigurazione di
Diodoro Siculo
18. Diodoro Siculo (in greco antico Διόδωρος, Diódōros; Agira, l'antica Agyrion, 90 a.C. circa - 27 a.C. circa) è stato uno storico siceliota, autore di una monumentale storia universale, la "Bibliotheca historica".
Carta con l'ubicazione di Agira,
 in Sicilia.
Girolamo scrive che Diodoro fiorì (cioè ebbe 40 anni) nel 49 a.C., e questa data pare confermata dalle stesse parole dello storico greco. Il più antico tratto autobiografico che egli segnala nella sua opera è il suo viaggio in Egitto durante la 180ª Olimpiade (fra il 60 e il 56 a.C.). In quell'occasione egli fu testimone della rabbia della gente che chiedeva la pena di morte per un cittadino romano, reo di aver ucciso accidentalmente un gatto, animale sacro agli Egizi (Bibliotheca historica, 1, 41 e 1, 83). Il dato storico più recente invece è la menzione della vendetta di Ottaviano sulla città di Tauromenion, colpevole di avergli rifiutato l'aiuto che sarebbe stato necessario ad evitare la disfatta sul mare attorno al 36 a.C. Poiché Diodoro sembra non sapere che l'Egitto diventò una provincia dell'Impero romano - il che avvenne nel 30 a.C. - è presumibile che egli abbia scritto la sua opera prima di quella data. Diodoro stesso informa di aver dedicato trent'anni della propria vita (quindi all'incirca dal 60 a poco prima del 30 a.C.) alla realizzazione della sua Biblioteca, durante i quali compì numerosi e pericolosi viaggi in Europa e in Asia, utili alle sue ricerche. Alcuni critici hanno sollevato dubbi su tale testimonianza, perché il testo di Diodoro presenta alcuni errori in cui difficilmente un testimone oculare sarebbe incorso. Diodoro presenta la sua opera, la "Bibliotheca historica", come una storia universale, dalle origini del mondo alle campagne di Cesare in Gallia e in Britannia. Era composta da 40 libri, suddivisi successivamente in pentadi e decadi. L'opera non si è conservata integralmente. A noi sono giunti completi i primi 5 libri (sull'Egitto [libro I], sulla Mesopotamia, sull'India, sulla Scizia e sull'Arabia [II], sull'Africa settentrionale [III], sulla Grecia [IV] e sull'Europa [V]) e i libri XI-XX (dal 480 e dai diadochi al 301 a.C.). Possiamo tuttavia trarre alcuni dati sull'opera e ricostruirne l'impianto, grazie ai numerosi estratti di epoca medievale (contenuti negli scritti di Fozio e Costantino Porfirogenito) e ai numerosi frammenti che ne rimangono. Dal momento che la parte finale è perduta, non si sa se Diodoro tenne fede ai suoi propositi di giungere fino alle campagne di Cesare o se, come sembra probabile, vi abbia rinunciato, fermandosi al 60 a.C. Nel proemio sono enunciate le finalità dell'opera: innanzitutto giovare a tutti gli uomini, garantendo loro la conoscenza di quella comune esperienza umana che è la storia e offrendo loro un insegnamento, esente da rischi, di ciò che è utile; quindi, secondo un'ideologia stoica, tentare di riunire sotto un unico ordinamento tutti gli uomini, tutti cittadini del mondo anche se divisi nello spazio e nel tempo. L'ambizioso progetto proemiale, però, si risolse, come eloquentemente rivela il titolo, in una biblioteca, in un'antologia delle fonti, in un repertorio di libri - riletti, revisionati o copiati - di altri autori (Ecateo, Ctesia di Cnido, Eforo, Teopompo, Timeo, Duride, Ieronimo di Cardia, Polibio, Posidonio, gli annalisti romani). È poco corretto considerare Diodoro come mero ripetitore delle sue fonti, secondo un diffuso pregiudizio di matrice ottocentesca. In ogni caso la sua opera risulta molto utile agli studiosi moderni, poiché consente di recuperare, pressoché intatti nella loro forma originale, testi di autori altrimenti perduti. L'opera di Diodoro è infatti stata, giustamente, considerata alla stregua di un "libro-biblioteca", ossia un libro fatto di altri libri, quelli che, appunto, Diodoro leggeva, e che ha riassunto o epitomato nella sua opera, la quale perciò svolge un fondamentale ruolo di conservazione e trasmissione del sapere. Il greco di Diodoro è quello della koinè, il greco colloquiale, nel quale si inseriscono talora tratti classicistici in puro attico. L'editio princeps della Biblioteca fu la traduzione latina che Poggio Bracciolini fece dei primi cinque libri (Bologna 1472). La prima riproduzione del testo greco avvenne per opera di Vincentius Opsopoeus (Basilea 1535), ma era limitata ai soli libri XVI-XX. La prima edizione completa anche dei frammenti fu invece l'Edizione di Stephanus (Henry Estienne), Ginevra 1559.

Sallustio Crispo.
19. Gaio Sallustio Crispo, o più semplicemente Sallustio (in latino: Gaius Sallustius Crispus, nelle epigrafi: C·SALLVSTIVS; Amiternum, 1º ottobre 86 a.C. - Roma, 13 maggio 34 a.C.) è stato uno storico e politico romano, senatore della repubblica romana.
Carta con la posizione di L'Aquila,
nei cui pressi sorgeva Amiternum.
« La rivoluzione a Roma si realizzò in due tempi, nel primo repentina, nell’altro lenta. Il primo atto distrusse la repubblica nel corso della guerra civile, il secondo la libertà e l’aristocrazia negli anni di pace. Sallustio è il prodotto della prima epoca, Tacito dell’altra. » (R. Syme, "Tacito", vol. II, Brescia 1971, p. 718). Proveniente da una famiglia plebea legata alla nobilitas municipale, compì a Roma il cursus honorum, divenendo prima questore, poi tribuno della plebe ed infine senatore della res publica. Dopo esser stato cacciato dal Senato per indegnità morale, partecipò alla guerra civile del 49 a.C. tra Cesare e Pompeo, schierato tra le file cesariane. Dopo la sconfitta di Pompeo, Cesare lo ricompensò per la sua fedeltà conferendogli la pretura, riammettendolo in Senato e nominandolo governatore della provincia dell'Africa Nova. Dopo la fallimentare esperienza di governo e a seguito dell'uccisione di Cesare, si ritirò dalla vita politica; in questo momento si diede alla stesura di opere a carattere storico, in particolare le due monografie "De Catilinae coniuratione" e "Bellum Iugurthinum", le prime della storiografia latina, e delle "Historiae", un'opera di tipo annalistico. Grazie a queste importanti opere ottenne un'enorme fama ed è annoverato tra gli storici latini più importanti del I secolo a.C. e di tutta la latinità.
Gioventù in politica - Poche sono le notizie certe riguardo alla vita di Sallustio; godono di una certa attendibilità la sua data di nascita, le calende di ottobre (il 1º ottobre) dell'anno 86 a.C., ed il suo luogo di nascita, Amiternum, un centro sabino del Samnium occidentale. La sua famiglia, probabilmente plebea, ma di condizione agiata e legata alla nobilitas locale, si trasferì poco dopo a Roma, dove ebbe modo, come era prassi per i giovani figli della nobilitas municipale, di dedicarsi alla carriera politica. « Ma io, fin da giovane, come molti fui spinto alla politica per passione e lì ebbi molte esperienze negative. » (Sallustio, "De Catilinae coniuratione" cap. 3,3; trad. di L. Piazzi, "La congiura di Catilina"). Si adattò tuttavia ai costumi corrotti dell'Urbe, che in seguito criticò aspramente nelle sue monografie, con risentimento e rimpianto per i valori antichi (le pristinae virtutes) del popolo romano. In lui non mancavano una rigorosa tempra morale e delle serie inclinazioni verso la filosofia; in particolare fu attratto dal neopitagorismo, filosofia allora particolarmente in voga presso i ceti elevati della società romana, e venne in contatto con la scuola neopitagorica di Nigidio Figulo.
Homo novus: il cursus honorum - Nel 54 Sallustio diede inizio al suo cursus honorum con la carica di questore; la sua carriera politica si rivelò però anomala, in quanto saltò alcune delle tappe principali del cursus honorum. È possibile ipotizzare che, essendo un homo novus, abbia trovato naturale schierarsi col partito dei populares, il cui leader era allora Gaio Giulio Cesare, nipote per parte di madre ed erede politico di Gaio Mario. Potrebbe anche aver avuto un rapporto particolare con Marco Licinio Crasso, di cui era forse cliente (cliens): infatti, pur non esprimendo mai un giudizio positivo nei suoi confronti, nel "De Catilinae coniuratione" (capp. 17,7; 48,9) traspare il fatto che da lui ricevette delle importanti confidenze. Nel 52 ricoprì la carica di tribuno della plebe. Durante il suo tribunato si trovò ad affrontare la grave crisi scoppiata in seguito all'omicidio del tribuno Publio Clodio Pulcro, un popularis candidato console per quell'anno. L'assassinio si inquadra nella lunga serie di lotte, spesso con l'uso di bande armate, che coinvolgevano ottimati e popolari, e in uno di questi scontri, più precisamente sulla via Appia, Tito Annio Milone, organizzatore delle bande dei possidenti, uccise Clodio. In un simile clima politico, reso ulteriormente incandescente anche dalle rivendicazioni di Cesare, allora impegnato a reprimere la rivolta di Vercingetorige durante la conquista della Gallia, sulla leadership della factio dei populares, Sallustio si schierò con decisione contro Milone ed i suoi sostenitori, tra cui Cicerone. Al processo per omicidio, l'avvocato arpinate difese Milone ma, non riuscendo a pronunciare la sua orazione (in seguito profondamente emendata e pubblicata come Pro Milone) per il tumulto della folla e per il timore che gli incutevano i compagni di Clodio nel foro, Milone venne condannato all'esilio. Nel 51 Sallustio divenne senatore, rimanendo sempre un fedele sostenitore di Cesare nella lotta contro Pompeo. Nonostante l'amicizia di Cesare, nel 50 fu espulso dal senato probri causa, "per indegnità morale", pare per una vendetta politica messa in atto da parte dell'oligarchia senatoria, in particolare da Appio Claudio Pulcro e Lucio Calpurnio Pisone, censori in carica quell'anno di dichiarata fede pompeiana.
Capo del partito cesariano e propretore in Africa - Subito dopo l'espulsione dal senato, Sallustio raggiunse Cesare in Gallia, mentre si accingeva a completarne la conquista, e fu al suo fianco nella guerra civile del 49, durante la quale Sallustio divenne uno dei capi del partito cesariano; lo stesso anno fu riammesso in senato per intercessione di Cesare, mentre due anni dopo gli fu assegnata la pretura. Durante il conflitto svolse alcuni importanti incarichi militari, in particolare una fortunata spedizione nel 46 a.C., durante le operazioni in Africa, contro l'isola di Cercina (l'attuale Chergui nell'arcipelago delle isole Kerkennah), presidiata dai pompeiani, allo scopo di derubarli delle riserve di frumento. Nello stesso anno prese parte alla decisiva battaglia che ebbe luogo a Tapso; in tale occasione probabilmente diede buona prova di sé, dato che, dopo la sconfitta dei pompeiani, gli fu riconferita la pretura e fu nominato governatore (con il titolo di propraetor) della neonata provincia nordafricana dell'Africa Nova, originatasi dal disfacimento del regno di Numidia. Nei diciotto mesi del suo mandato poté, secondo il malcostume del tempo, arricchirsi a dismisura, impadronendosi delle ricchezze dell'ultimo re numida, Giuba I, ed incassando tangenti sugli appalti pubblici. Il suo malgoverno gli valse, al rientro a Roma, l'accusa de repetundis.
L'abbandono della politica e gli ultimi anni - Tornato a Roma nel 44 a.C., con i soldi accumulati durante il suo proconsolato acquistò una proprietà a Tivoli, precedentemente appartenuta a Cesare, e si fece costruire nell'Urbe una sontuosa dimora fra il Pincio e il Quirinale nota col nome di Horti Sallustiani ("Giardini sallustiani"), dal nome dei grandiosi giardini (hortus significa infatti giardino) che circondavano il suo palazzo. Accusato nuovamente di concussione, riuscì con estrema difficoltà ad evitare la condanna, ma la sua carriera politica, irrimediabilmente compromessa a seguito di questo episodio, poteva dirsi definitivamente conclusa. Fu forse lo stesso Cesare a suggerirgli, o addirittura imporgli, il ritiro a vita privata per evitargli un'ulteriore condanna ed una nuova e degradante espulsione dal Senato. In seguito sposò Terenzia, ex moglie di Cicerone, dal quale aveva divorziato nel 46 a.C. Con la morte di Cesare, avvenuta alle idi di marzo (il 15 marzo) del 44 a.C., ebbe termine definitivamente la carriera politica di Sallustio. Egli si dedicò allora all'otium privato ed alla composizione delle sue opere storiche: le due monografie "De Catilinae coniuratione" e "Bellum Iugurthinum" oltre alle "Historiae", rimaste però incompiute a causa della morte dello storiografo, avvenuta intorno al 35-34 a.C. (molto probabilmente il 13 maggio del 34), all'età di 52 anni. In realtà, nel proemio del "De Catilinae coniuratione", Sallustio vuole far credere di aver sempre ritenuto la sua carriera politica come una tormentata fase transitoria prima di giungere al sospirato approdo alla storiografia. « [...] Tornai invece a quel progetto e a quella passione da cui una cattiva ambizione mi aveva distolto e decisi di narrare le imprese del popolo romano per episodi, come mi parevano degne di memoria; tanto più che avevo ormai l'animo libero da speranze, timori, faziosità. » (Sallustio, "De Catilinae coniuratione" cap. 4,2; trad. di L. Piazzi, "La congiura di Catilina"). Sta di fatto che in politica, ruoli di primo piano, eccetto il governatorato dell'Africa Nova, non ne ebbe mai; non sarebbe azzardato addirittura affermare che politicamente abbia fallito, non essendo riuscito ad affermarsi come altri suoi contemporanei. Tuttavia, la grande fama che lo ha reso noto sino ai giorni nostri, gli è stata data dalle sue opere storiografiche.
Opere - Sallustio è autore di importanti opere storiche, tramandate per tradizione diretta dai codici medioevali: le due monografie, il "De Catilinae coniuratione" ed il "Bellum Iugurthinum", composte e pubblicate negli anni fra il 43 e il 40 a.C., e le "Historiae", di cui restano numerosi frammenti, iniziate intorno al 39 a.C. e rimaste incompiute, che forse dovevano fungere da allaccio tra le due monografie. Sono state attribuite allo scrittore di Amiternum anche diverse opere considerate oggi spurie: due "Epistulae ad Caesarem senem de re publica" e l'"invectiva in Ciceronem", probabilmente esercizi scolastici di età posteriore. Prima dell'esperienza monografica di Sallustio, nella storiografia romana, salvo rari casi, la tipologia di opere principalmente redatte erano i regesti, nei quali gli eventi erano narrati secondo una scansione per annum, ovvero anno per anno. Sallustio è dunque colui che introduce a Roma il genere monografico, che consiste nel raccontare solo un determinato fatto (come dirà lui nel "De Catilinae coniuratione", cap. 4,2, vedi la citazione sopra , carptim = per episodi, monograficamente), arricchendolo di un'accurata indagine introspettiva atta ad esaminare il contesto e le cause più viscerali che hanno contribuito al suo scatenarsi. Sallustio crea una storiografia di carattere politico e una storiografia di carattere filosofico. L'obiettivo di quest'ultima è storico, ma il risultato finisce per essere una filosofia della storia: il continuo scontro fra il bene e il male.
De Catilinae coniuratione - « La gloria delle ricchezze e della bellezza è effimera e fragile, la virtù è un bene splendido ed eterno. » (Sallustio, "De Catilinae coniuratione" cap. 1, 4; trad. di L. Piazzi, "La congiura di Catilina")
Cesare Maccari  - Cicerone
denuncia Catilina in senato (1880).
Il "De Catilinae coniuratione" è la prima vera e propria monografia storica mai composta in tutto il mondo latino. L'opera, come si comprende dal titolo, tratta la congiura di Lucio Sergio Catilina e il moto che ne seguì nel 63-62 a.C. Alla trattazione della cospirazione, Sallustio fa precedere un'analisi della condotta cesariana del 66-63, dimostrata (anche se non lo fu realmente) del tutto esente da colpe nel tentativo insurrezionale e vista come unica valida alternativa al corrotto "regime dei partiti" («mos partium atque factionum») di cui auspica la fine, con conseguente riflesso sulle sue scelte politiche.
Dopo un proemio moraleggiante e filosofico (cap. 1), basato sull'affermazione che l'uomo è composto di anima e di corpo e che le facoltà spirituali devono prevalere su quelle materiali (le facoltà spirituali principali sono l'attività politica, militare, oratoria e storiografica), tutta la prima parte restante dell'opera è effettivamente un'analisi e una forte introspezione della figura di Catilina e dell'inquietante fenomeno rivoluzionario, alla luce di categorie storiche, morali e psicologiche. Ne risulta perciò un quadro largamente dipinto a tinte fosche, ma estremamente vivace, di una società estremamente corrotta, su cui campeggia come figura dominante Catilina, definito un monstrum (una stranezza) in quanto assomma nella sua complessa e contorta personalità caratteristiche diverse, persino opposte e contrastanti tra loro: è intelligente, coraggioso e malvagio; una figura sinistra, ma estremamente affascinante, al cui carisma sembra non riuscire a sottrarsi neanche lo stesso Sallustio. Accanto a Catilina si trovano poi altri personaggi "studiati" con simile interesse: i congiurati, tra cui campeggia Sempronia, Cicerone (per quanto ridimensionato) e soprattutto Cesare e Catone il Giovane, messi a confronto nei capitoli 53,5 e 54 e visti ambedue come estremamente positivi, persino "complementari" per la salute della res publica di Roma, in quanto avevano una simile visione del mos maiorum: uno con la sua liberalitas, munificentia e misericordia; l'altro con la sua integritas, severitas, innocentia. Come già si può desumere da quanto detto, il metodo e il fine adottati nell'analisi sono moralistici: Sallustio ritiene che l'antica grandezza della repubblica fosse garantita dall'integritas e dalla virtus dei cittadini, e vede nel successo, nella ricchezza e nel lusso (ambitio, avaritia atque luxus) le cause della decadenza e la possibilità di tentativi di "impadronirsi dello stato" (rei publicae capiundae) come quello di Catilina.
Bellum Iugurthinum - Il "Bellum Iugurthinum" è la seconda monografia storica composta da Sallustio e narra, in 114 capitoli, la guerra combattuta dai romani (nel 111-105 a.C.) contro Giugurta, re di Numidia. Il pretesto bellico serviva però a mascherare un'altra guerra: quella interna, del popolo che combatteva la prepotenza della nobiltà senatoria, detentrice del monopolio delle imprese militari a vantaggio dei suoi appaltatori, avidi di nuovi guadagni provinciali. Non si trattò in questo caso di una guerra voluta dall'avaritia (per usare un termine sallustiano) della nobilitas. Infatti il Senato non aveva realmente alcun interesse in Africa e non avrebbe tratto grandi giovamenti a combattere sul fronte africano, lasciando invece scoperto il fronte settentrionale, minacciato da Cimbri e Teutoni, che proprio in quegli anni ne progettavano l'invasione. I ceti più interessati alla campagna africana erano in realtà i cavalieri, sostenitori di una politica di sfruttamento delle risorse disponibili nel bacino del Mediterraneo, i ricchi mercanti italici, la plebe romana ed italica che intravedeva la possibilità, con la conquista, di una distribuzione delle terre africane. In un quadro del genere è comprensibile come, dopo anni di guerriglia inconcludente, il conflitto sia stato portato a termine da un rappresentante delle forze interessate alla conquista, l'homo novus Gaio Mario, e non da generali aristocratici, che Sallustio inevitabilmente (ed ovviamente) accusa di corruzione, incapacità e superbia.
Anche in quest'opera è presente un forte taglio moralistico ed essenzialmente politico. Sallustio, capace da una parte di forti sintesi storiche, che tralasciano elementi essenziali all'analisi storica (come le descrizioni geografiche ed etnografiche, assenti del tutto o trattate poco esaustivamente), dall'altra rivela un grande vigore polemico nel denunciare l'incompetenza della nobilitas nella conduzione della guerra, e la sua corruzione generale: Egli valorizza le ragioni espansionistiche della classe mercantile, auspicando la nascita di una nuova aristocrazia, fondata sulla virtus. Sallustio apprezza quindi i valori che gli antenati hanno cercato di tramandare e di seguire; ma la corruzione ha ormai dilaniato l'intera res publica.
Historiae - Dopo le due monografie, Sallustio si cimentò in un'opera annalistica di più ampia portata, le "Historiae". Esse dovevano narrare, secondo una scansione per annum, la storia dal 78 a.C., anno della morte di Silla (a questo punto terminano le "Historiae" scritte dallo storiografo Lucio Cornelio Sisenna, giunte incompiute, di cui Sallustio intendeva porsi come continuatore), fino al 67 a.C. (anno della vittoriosa campagna di Pompeo contro i pirati). Si tratta dunque del periodo che già nella prima monografia ("De Catilinae coniuratione", cap. 11) era stato definito cruciale nel processo di progressiva corruzione e degenerazione dello stato repubblicano. Dell'opera, che Sallustio lasciò incompiuta, restano solo dei frammenti, comunque significativi: ciò consente, almeno in parte, di ricostruirne la struttura complessiva. È certo che era strutturata in cinque libri (volumina) e che dopo il prologo iniziale seguiva un'ampia retrospezione sul mezzo secolo precedente di storia. Al centro del libro I campeggiava la figura di Silla; nel II dominavano le guerre di Pompeo in Spagna e in Macedonia, nel III la guerra mitridatica, la fine della guerra contro Sertorio e la rivolta di Spartaco; il libro IV abbracciava i fatti del periodo 72-70 a.C., con la conclusione della guerra servile; il V racconta l'esito della guerra di Lucullo e la guerra di Pompeo contro i pirati. L'ampiezza dell'approfondimento storico-politico e la pregevolezza letteraria che contrassegna i frammenti sopravvissuti rendono la perdita delle "Historiae" una delle più gravi, assieme a quella degli "Ab Urbe condita libri" di Tito Livio, della letteratura latina. Alcuni frammenti superstiti sono di proporzioni piuttosto estese e riguardano quattro discorsi e due lettere, tramandati dall'uso scolastico delle scuole di retorica; fra i discorsi spicca quello di Lepido contro il sistema di governo dei sillani. Tra le lettere ha notevole rilievo l'epistola che Sallustio immagina scritta da Mitridate, re del Ponto, al re dei Parti, Arsace XII, e che dà voce alla protesta dei provinciali contro il dispotismo romano. Il quadro generale è improntato ad un marcato pessimismo; sulla scena si avvicendano solo avventurieri e corrotti, in un clima di grave decadenza. Infatti, dopo la morte di Cesare, non erano più pensabili per Sallustio attese o progetti di riscatto. La sua ammirazione va a quei ribelli che, come Sertorio, postosi a capo di un regno indipendente nella penisola iberica, contestano apertamente le istituzioni repubblicane, mettendosi però in luce grazie al proprio valore, non a manovre demagogiche. Pompeo invece viene caratterizzato in modo polemico: Sallustio, fedele alla sua politica pro Caesare, non manca di atteggiarlo come un attivista, che scatena le più basse passioni del popolo per meri fini politici.
Pensiero - La figura di Sallustio è fortemente rappresentativa della complessità e delle tensioni della societas romana che, proprio durante la vita dell'autore, era protagonista di una gravissima crisi che portò al collasso della res publica ed all'avvento del principatus con Ottaviano Augusto. In un tale intrigo di vicende, in cui era incredibilmente brutale la lotta per il potere ed appariva evidente un quasi incolmabile vuoto di ideali, non era sicuramente agevole assumere una posizione ideologica definitiva. A riprova di ciò, è possibile scorgere in Sallustio un'enorme contraddizione tra il suo comportamento politico e le dichiarazioni di principio. Il suo fu un comportamento da arrivista ed opportunista senza scrupoli, e per ciò ricevette le adeguate condanne; al contrario le sue concezioni ideologiche sono improntate ad un irreprensibile moralismo, con una forte nostalgia per le virtù antiche ed una altrettanto forte condanna del malcostume generale delle classi al governo di Roma.
Storico per il bene dello stato - Escludendo i due "Commentarii" di Cesare, Sallustio è il primo grande storico di Roma. Egli diede una svolta a quel processo di evoluzione della storiografia, intesa come un'opera nobilmente letteraria, come una rilettura degli eventi in chiave politica e come forma di intervento nella vita dello stato, secondo la tradizione annalistica degli storici di classe senatoria dei secoli precedenti. La finalità essenzialmente politica della riflessione storica sallustiana emerge in primo piano negli ampi proemi delle due monografie; in essi l'autore si sforza di giustificare l'approdo alla storiografia come un indiretto prolungamento ed una forma sostitutiva di impegno politico. Sallustio sente il bisogno di chiarire al pubblico romano, tradizionalmente convinto che fare la storia sia più importante che scriverla, come la storiografia sia un modo diverso, ma non per questo inutile, di lavorare per il bene della civitas. In tal stesso senso è necessario interpretare la scelta del genere monografico, che costituiva per il pubblico romano (e senza veri precedenti neppure nella storiografia greca) una novità rispetto alla tradizionale impostazione annalistica. Giustificabile anche per ragioni puramente letterarie (all'epoca dei poetae novi, dominata dal nuovo gusto alessandrino, infatti era viva la richiesta di opere brevi e più elaborate), questa scelta si spiega soprattutto per la sua funzione chiarificatrice e didattica nei confronti dei lettori, poiché favorisce il focalizzare l'attenzione su un singolo e specifico problema storico, prestandosi a mirate riflessioni sulla storia di Roma, specie sul piano sociale ed istituzionale. L'indagine storica si trasforma così in un'illustrazione della crisi della res publica oligarchica e nella ricerca delle radici profonde di tale crisi; pur limitando l'attenzione su due argomenti ritenuti «minori» dal punto di vista storico, come la congiura di Catilina e lo scandalo della guerra giugurtina, Sallustio approfondisce in maniera analitica le dinamiche alla base di quel processo drammaticamente in atto, che stava producendo lo sfaldamento, morale prima ancora che istituzionale, delle basi dello stato repubblicano, che sfoceranno nel crollo della repubblica e nell'avvento dell'impero.
Messaggero del crollo della res publica - Se dunque la crisi della res publica è il problema che le due monografie individuano con estrema sistematicità di riflessione, l'autore evita però accuratamente di isolare tale tematica, scegliendo invece, per maggiore efficacia di analisi, di collocarla sullo sfondo di una visione più organica della storia romana. Tale visione d'insieme emerge in alcuni momenti salienti delle due opere; per il resto Sallustio procede per quadri emblematici ed approfonditi. Nel "De Catilinae coniuratione" l'autore si sofferma a rappresentare i mali nascosti di una società divenuta ricca e potente dopo le vittorie su nemici esterni (soprattutto i Cartaginesi), ma che poi aveva abbandonato i valori alla base di questi successi: giustizia, disinteresse, rettitudine, severità di vita, altruismo, e cioè i valori alla base del mos maiorum tradizionale. Pagine decisive in questo senso si leggono nell' «archaeologia» (cap. 6-13): dopo aver abbandonato questi ideali, la città si era divisa in factiones. È il tema dell'altra digressione, di grande tensione etico-politica, posta poco oltre la metà dell'opera, nei capitoli 36,5-39, che ripercorre le cause che spinsero la plebe a dar credito alla rivoluzione di Catilina. La nobilitas corrotta, invece di costituire, come in passato, la guida sicura dello stato, poteva ormai piegarsi a forme di vera criminalità politica: Catilina è l'incarnazione del pericolo eversivo che minacciava ormai apertamente la res publica. Nel "Bellum Iugurthinum", Sallustio si concentra su un'epoca precedente, in un momento di ritorno alle origini del male che, si presuppone, potrà essere vinto qualora se ne estirpino le radici. Nella digressione ai capitoli 41-42, l'autore denuncia lo stato di corruzione in cui versava l'aristocrazia romana del tempo della guerra giugurtina: qui, a suo giudizio, va rintracciata l'origine della fiacca condotta di guerra, e, più in generale, dei mali della res publica. Accanto alla prima vittoriosa resistenza dei populares, si delinea nell'opera quella radicalizzazione dello scontro politico nelle due opposte fazioni che avrebbe condotto alle successive fasi della crisi istituzionale, dalla guerra civile tra Mario e Silla (di cui il "Bellum Iugurthinum" costituisce di fatto il preambolo) alla coniuratio capeggiata da Catilina, fino al conflitto generalizzato tra Cesare e Pompeo. Infine, nelle "Historiae", lo scrittore ha abbozzato il quadro «mondializzato» di una crisi che pare irreversibile. Il processo di disgregazione della res publica si allarga alle dimensioni del bacino del Mediterraneo ed insieme si carica, nei frammenti a noi giunti, di un amaro, "cosmico", pessimismo.
Accuse contro la nobilitas - Da questo organico quadro storico-politico, che nell'arco delle tre opere sembra via via precisarsi ed approfondirsi, emerge che le cause principali del male dello stato risiedono nell'ambitio (la sete di potere) e nell'avaritia (la brama di denaro) dell'aristocrazia senatoria. Sallustio punta il dito impietosamente contro i demagoghi, che aizzavano il popolo con false promesse, e contro i nobili, che si facevano velo della dignità senatoria per consolidare ed estendere ricchezze e domini. Specialmente dopo la dittatura sillana, la nobilitas senatoria, perduto ogni freno ed ormai pronta ad ogni compromesso e ad ogni avventura politica, trova una grande polveriera nel panorama sociale ed umano largamente variegato di Roma, punto d'incontro di diseredati, nullatenenti, contadini impoveriti, ex possidenti indebitati, liberti senza patroni. Fuori da Roma, i provinciales (le popolazioni provinciali) non tolleravano più le angherie dei governanti, mentre gli schiavi costituivano una riserva a basso prezzo per le rivolte. Questa «diagnosi», spassionata e per certi versi crudele, è ben intonata a quell'andamento «drammatico» che è una caratteristica fondamentale della storiografia sallustiana. Peraltro l'autore evita di scendere fino in fondo nella sua analisi, non volendo svelare l'insostenibile disparità per cui, nel tramonto della res publica, i ricchi erano sempre più ricchi e potenti, ed i poveri sempre più poveri e privi di speranze. Tuttavia egli rimane fondamentalmente un moderato; non desidera il sovvertimento delle basi sociali dello stato e punta piuttosto ad individuare le cause morali all'origine della malattia di Roma. La sua analisi giunge dunque a toccare alcuni aspetti socio-economici della crisi ed è anche questa una rilevante novità della monografia sallustiana.
Rimedi contro la corruzione del Senato - Quanto ai rimedi, Sallustio auspica la fine del «mos partium et factionum» ("regime delle fazioni", "Bellum Iugurthinum", cap. 41,1) e l'avvento di un potere super partes, nelle mani di Cesare, che dia corpo ad un programma di riordinamento dello stato e di rinsaldamento delle sue strutture sociali. Oltre a ristabilire la concordia tra i ceti possidenti (un celebre invito alla concordia viene rivolto da Micipsa al propri figli: «nam concordia paruae res crescunt, discordia maximae dilabuntur», «la concordia fa prosperare anche i piccoli stati, la discordia fa crollare anche i più grandi», "Bellum Iugurthinum", cap. 10,6), bisogna ampliare la base senatoria, "arruolando nuove leve" dall'élite municipale. Erano questi i punti salienti del programma intrapreso da Cesare nella breve durata della sua dittatura ed è ben noto che Sallustio, oltre ad essere fiero oppositore della classe senatoria, era un aperto sostenitore della politica cesariana. Il piano riformista di Cesare si basava sull'alleanza di classe tra gli equites (che detenevano in esclusiva il monopolio commerciale) e l'allora potentissimo esercito. Si trattava di un disegno antinobiliare ed antisenatoriale, un disegno che Cesare aveva tentato di rendere più accettabile, a differenza delle soluzioni più radicali della politica dei Gracchi, evitando di intaccare i privilegi dei ceti possidenti della penisola, a cui lo stesso Sallustio apparteneva. Verso i due celebri fratelli tribuni della plebe, Sallustio mostra un'aperta diffidenza: a suo avviso non la rivoluzione sociale, la distribuzione delle terre ai nullatenenti o la cancellazione dei debiti potevano costituire il rimedio alla crisi, bensì l'ampliamento della classe dirigente e, soprattutto, la sua profonda rigenerazione morale.
Stile - « Per chi sa il Latino, sarà senza alcun dubbio assai meglio di leggere questo divino autore nel testo. Per chi non lo sa, e desidera pur di conoscerne non solamente i fatti narrati, ma anche alcun poco l'indole, la brevità, l'eleganza, il meno peggio sarà di cercarsi quel traduttore che dal testo si verrà meno a scostare, senza pure aver faccia di servilità. Ogni traduttore, che ne ha durata la pena, crederà d'esser quello, benché non lo dica. Io, non più modesto d'un altro, ma forse alquanto più sincero, non nasconderò al lettore questa mia segreta speranza, di essere pur quello. » (Vittorio Alfieri, "Della congiura di Catilina", traduzione del "Bellum Catilinae": Prefazione; Firenze, 1798). Sallustio è considerato il rinnovatore della storiografia latina. Il suo stile è fondato sull'inconcinnitas e trae origine da due illustri modelli: lo storico greco Tucidide, e in particolare il suo capolavoro "La guerra del Peloponneso" e il noto predecessore Marco Porcio Catone, detto il Censore.
Modelli - Sallustio attinge dallo storico greco Tucidide, la capacità di ampliare la portata di un fatto per inserirlo in un più vasto contesto di cause: è quello che fa in particolare nell'«archeologia», nel sesto capitolo del "De Catilinae coniuratione", dove imita coscientemente la vasta ricognizione tucididea della storia arcaica greca, presente nel primo capitolo dell'opera incentrata sulla "Guerra del Peloponneso", oppure nei discorsi dei protagonisti, vere e proprie pause d'interpretazione dei fatti, oltre che pezzi di grande foggia retorica.
Da Catone invece prende la concezione moralistica della storia come edificazione morale collettiva, e quindi come celebrazione nostalgica e severa di un passato glorioso da opporre agli elementi disgregativi che funestano la civitas contemporanea. Non a caso nell'«archaeologia» la ricerca delle cause più profonde, di stampo tucidideo, si unisce con i toni solenni della denuncia della crisi del mos maiorum, derivati da Catone.
Inconcinnitas e particolarità stilistiche - Al contrario di Cicerone che si esprimeva con uno stile ampio, articolato, ricco di subordinazione, Sallustio preferisce un discorso irregolare, pieno di asimmetrie, antitesi e variazioni di costrutto; tale stile prende nome di inconcinnitas (disarmonia). La padronanza di una tecnica simile crea un effetto di gravitas, producendo un'immagine essenziale di quello che si descrive. « Amputatae sententiae et verba ante exspectatum cadentia et obscura brevitas » cioè « Pensieri troncati e brusche interruzioni e una concisione che tocca l'oscurità » (Seneca, "Epistolae ad Lucilium" 114,17). Da Tucidide, Sallustio prende l'essenzialità espressiva, le sentenze brusche ed ellittiche, l'irregolarità e variabilità (variatio) del testo, un periodare parattattico, pieno di frasi nominali, omissione dei legami sintattici, ellissi dei verbi ausiliari (con un uso ritmato e continuo dell'infinito narrativo e del chiasmo): sono evitate le strutture bilanciate e le clausole ritmiche del discorso oratorio. Da Catone prende l'eloquio solenne, moralmente atteggiato, una lingua a volte severa ed aulica, a volte popolare, ruvida nelle forme, austera e dalla pàtina arcaica, come nel lontano modello epico che anticipa la storiografia nella narrazione delle gesta collettive. Il periodare essenziale è arricchito dagli arcaismi, che esaltano le frequenti allitterazioni e asindeti.
Abbondano in particolare:
- gli arcaismi grafici: es. novos (per novus, nuovo), pessumus (per pessimus, pessimo), lubido (per libido, piacere), advorsus (per adversus, contro), vostra (per vestra, vostra);
- gli arcaismi morfologici: -ēre alla terza persona plurale del perfetto indicativo (al posto di -erunt); 
- -is all'accusativo plurale dei sostantivi con tema in -i (es. omnis per omnes, tutti);
- -i al genitivo e -u al dativo singolare dei sostantivi della IV declinazione (es. senati per senatus, del senato; luxu per luxui al lusso);
- il dativo del pronome relativo quis (per quibus, ai quali);
- il congiuntivo forem (per essem, che io fossi);
- altre forme non assimilate, come conruptus (per corruptus, corrotto);
- gli arcaismi lessicali: la desinenza più solenne -udo per -tas (es claritudo per claritas, fama);
- la desinenza -mentum per -men (cognomentum per cognomen, cognome);
- i poeticismi (mortalis per homo, uomo, essere umano; algor per frigus, freddo);
- le inversioni dei costrutti classici: es. militiae et domi (per domi militiaeque, in pace e in guerra);
- le variationes: es. pars... alii (per il più frequente alii... alii, alcuni... altri).
Si tratta dunque di uno stile arcaizzante ma nello stesso tempo innovatore, capace di introdurre un lessico e una sintassi in contrasto con gli standard del linguaggio letterario dell'epoca. Sallustio evita di riproporre gli effetti drammatici dello stile tragico tradizionale, preferendo suscitare emozioni partendo da una descrizione realistica dell'evento (più volte definita "sobrietà tragica") e puntando ad una grande drammatizzazione dell'avvenimento, ricca di pathos.
Eredità sallustiana - Già dall'antichità fu riconosciuta a Sallustio una certa fama che col tempo non è andata scemando. Nel periodo immediatamente successivo alla morte di Sallustio, circola contro di lui una "Invectiva in Sallustium", erroneamente attribuita a Cicerone e considerata l'accesa replica all'"Invectiva in Ciceronem", anch'essa di dubbia origine; ma pare si tratti in entrambi i casi di un falso preparato in una scuola di retorica. In seguito, il commediografo Leneo si avventa contro di lui scagliandogli una satura, con la quale lo accusa di aver saccheggiato e defraudato Cicerone. Apprezzato da Marziale e Quintiliano, ma criticato piuttosto aspramente da Tito Livio e Asinio Pollione per l'eccessivo arcaismo, Tacito lo prende a modello del suo "moralismo tragico" per comporre il "De vita et moribus Iulii Agricolae" (Vita e costumi di Giulio Agricola), nel quale accende un'aspra polemica contro l'avida politica imperialistica di Roma, prendendo spunto dall'analoga denuncia nel "Bellum Iugurthinum". Fu celebrato ed ampiamente imitato nell'età degli Antonini (Antonino Pio, Marco Aurelio e Commodo). Zenobio, paremiografo greco, traduce nella sua lingua tutti gli scritti sallustiani. Fu apprezzato sia da pagani che da cristiani e fu ripreso sia nel Medioevo per i contenuti morali sia in età umanistica per il pessimismo moralistico e la sentenziosità; lo apprezzò molto anche Brunetto Latini, precettore di Dante Alighieri. Durante l'epoca umanistica viene preso come modello per la prosa assieme a Tacito, in particolar modo da Leonardo Bruni ed Angelo Poliziano. Proprio il Poliziano scrisse nel 1478 un commentarium (Pactianae coniurationis commentarium), di stile ed argomentazione sallustiana, riguardante la congiura dei Pazzi. Tuttavia a partire dalla seconda metà del Cinquecento a lui verrà preferito Tacito, sia come approccio linguistico che come stile. Nel Settecento Vittorio Alfieri curerà due traduzioni in italiano delle monografie sallustiane. Il filosofo tedesco Friedrich W. Nietzsche riconoscerà - nel «Crepuscolo degli Idoli» - a Sallustio, il merito di averlo destato nel gusto per lo stile, «dell'epigramma come stile». Tutt'oggi Sallustio è oggetto di studi presso i licei e le università, in quanto è uno dei più importanti storici di tutto il mondo latino.

Strabone.
20. Strabone (in greco Στράβων, Strábôn e in latino Strabo; Amasea, prima del 60 a.C. - Amasea ?, tra il 21 e il 24 d.C.) è stato un geografo e storico greco antico.
Carta della Turchia con l'ubicazione
di Amasya, che anticamente
si chiamava Amasea.
Della sua vita sappiamo poco: tutti i riferimenti biografici sono desunti dalla sua opera principale, la "Geografia", in cui l'autore accenna a episodi che permettono di datare le tappe fondamentali della sua esistenza. La sua famiglia abitava ad Amasea, una città del Ponto Eusino (allora in Cappadocia, oggi in Turchia). Un tempo era stata una famiglia illustre: bisnonno materno di Strabone fu infatti uno degli ufficiali di Mitridate Evergete, Dorialo. Ai tempi della giovinezza del Geografo era ormai decaduta, ma godeva ancora dell'agiatezza necessaria per permettere a Strabone di ricevere una formazione completa. Egli stesso dichiara di aver studiato con Aristodemo, precettore dei figli di Pompeo, a Nysa, in Caria. Nel 44 a. C. si trasferì poi a Roma, dove ebbe come maestro Tirannione, grammatico peripatetico e geografo suo compatriota. Sembra che proprio quest'ultimo, esperto di geografia e maestro, tra l'altro, dei figli di Cicerone, lo abbia indirizzato all'approfondimento di questo tipo di studi. Sempre a Roma, egli prese parte alla scuola di un altro filosofo peripatetico, Senarco di Seleucia e, secondo una notizia peraltro di contestata autenticità, ebbe modo di conoscere e frequentare lo stoico Posidonio di Apamea. L'influenza di Posidonio fu in ogni caso indiscutibile, anche se alcuni studi del secondo Novecento hanno contestato una pedissequa dipendenza dalle sue teorie, riconoscendo al pensiero di Strabone una certa originalità. L'autore della "Geografia" fu amico di un discepolo di Posidonio, Atenodoro di Tarso. Strabone soggiornò nuovamente a Roma nel 35, nel 31 e attorno al 29 a.C. e nel 25 a.C. o 24 a.C. viaggiò in Egitto, risalendo il Nilo con il prefetto Elio Gallo. Visse poi alcuni anni ad Alessandria, per compiere in seguito ancora un soggiorno - forse l'ultimo - a Roma, dove si trovava nel 7 a. C., come attesta il suo riferimento al portico di Livia, dedicato in quell'anno. Tornò quindi ad Amasea, dove cominciò a redigere una Storia in 43 libri (nessuno dei quali è pervenuto fino a noi). Passò poi alla compilazione di una Geografia in 17 libri, pensata come complementare dell'opera storica, che ci è pervenuta per intero, salvo alcune parti mancanti del libro VII. Il suo obiettivo era mettere a disposizione di un pubblico il più ampio possibile un libro piacevole, istruttivo e appassionante. Poco o nulla si conosce degli ultimi anni, ma l'allusione alla morte di Giuba II, avvenuta nel 23 d. C., dimostra che in quella data viveva ancora, mentre la morte potrebbe averlo colto l'anno seguente, nella città natale. La formazione di Strabone fu ampia e varia, e lo mise in contatto sia con la dottrina stoica che con quella peripatetica. Il "Geografo" si definì seguace della prima, avallato dalla definizione di « filosofo stoico », attribuitagli da Stefano Bizantino in epoca altomedioevale. Anche la critica lo vide prevalentemente come un discepolo della Stoà, finché attorno alla metà del XX secolo, lo studioso tedesco Wolf Aly mise in luce le influenze che su di lui ebbe l'aristotelismo (mediato dalla cultura romana). Studi successivi hanno poi assegnato al Geografo di Amasea « una posizione di originalità, almeno su certi aspetti, nell'ambito della dottrina stoica ». In linea con i dettami del pensiero stoico e con l'inscindibilità, propria del mondo romano, tra otium e negotium, Strabone riteneva che il sapere dovesse essere posto al servizio della società e rivestire un ruolo concreto. La sua Geografia, quindi, vuole essere utile al mondo romano e ai suoi governanti. Nell'opera, Strabone dispensa sinceri elogi ad Augusto, al mondo romano e ai suoi governanti, anche se l'autore rimane fondamentalmente un uomo di formazione greca, al pari di Polibio e Posidonio. La "Geografia", in cui Strabone per primo parlò di una popolazione chiamata Oi Albanoi, con capitale Albanopoli, 20 Km a nord est dell'attuale Tirana, è così divisa:
- libri I e II: introduzione all'opera, in cui Strabone vuole dimostrare che Eratostene ha avuto torto a invalidare l'opera di Omero dal punto di vista geografico.
- libri dal III al X: descrivono l'Europa, e più in particolare la Grecia antica (libri VIII-X).
- libri dall'XI al XVI: descrivono l'Asia Minore.
- libro XVII: descrive l'Africa (Egitto e Libia).
Strabone pensava che la fortuna della Grecia fosse dovuta in parte alla sua posizione sul mare, e stabiliva una interessante correlazione tra il progredire della civiltà di un popolo ed il suo contatto con il mare.
Allo stesso tempo, insisteva sul fatto che la geografia non poteva spiegare, da sola, la grandezza di un popolo, sostenendo che la civiltà greca si fondava sull'interesse dei cittadini per le arti e per la politica. Se la sua opera, che è il trattato geografico più ampio dell'antichità, riprende talvolta testi di diversi secoli più antichi del suo, tuttavia la sua conoscenza del diritto romano applicato nelle varie città ne fa una fonte essenziale per la conoscenza dell'inizio della romanizzazione in Gallia e nella Penisola iberica, che mostra, soprattutto nei libri III e IV, come a seguito dell'acculturazione graduale delle popolazioni, si stesse sviluppando in queste regioni una nuova, specifica cultura. A differenza della geografia tolemaica, improntata su uno studio ed una analisi più rigidamente matematiche, la "Geografia" di Strabone presenta un impianto più storico-antropologico risultando il più importante autore di questo filone. In età imperiale l'opera di Strabone resta abbastanza nell'ombra, nonostante le intenzioni divulgative dell'autore. È solo a partire dal VI secolo che Strabone diventa l'archetipo del geografo. Gli storici classici come Wilamowitz, hanno riconosciuto l'interesse della sua opera e il suo talento letterario, grazie al quale egli riusciva a descrivere un luogo dove non era stato, meglio di Pausania, che c'era stato davvero. L’autore però si era cimentato in gioventù con una fatica ben più ardua: l’elaborazione di una "Storia universale". Dei 47 libri originari, ci rimangono oggi solamente 19 frammenti, la maggior parte dei quali conservati nelle "Antichità Giudaiche di Flavio Giuseppe". Intento di Strabone era quello di ricollegarsi al punto nel quale si interrompeva la narrazione di Polibio (146 a.C.) e condurre il racconto almeno fino alla data epocale del 27 a.C., l’anno in cui ha inizio il Principato augusteo.

Dionigi d'Alicarnasso.
21. Dionisio o Dionigi d'Alicarnasso, (Alicarnasso, 60 a.C. circa - 7 a.C.), è stato uno storico e insegnante di retorica greco antico, vissuto durante il principato di Augusto. La sua opera principale è "Antichità romane". Nato ad Alicarnasso, come altri intellettuali greci del suo tempo, si trasferì a Roma, dove sviluppò i suoi molteplici interessi culturali grazie alla frequentazione di personaggi, come Quinto Elio Tuberone, membro di una famiglia in cui erano ben vivi gli interessi giuridici. Dionigi divenne ben presto un capofila dell'atticismo, la corrente che intendeva porre un argine allo stile oratorio pomposo, che si era affermato in epoca ellenistica nell'ambito del cosiddetto "asianesimo": Dionigi, in contrapposizione a tale stile misto di prosa e poesia, sostenne i modelli oratori dell'età classica. Dopo la fine delle guerre civili, spese ventidue anni a studiare la lingua e la letteratura latina, nonché a preparare i materiali per la sua storia. In questo periodo diede lezioni di retorica. La data della sua morte non è nota, si suppone poco dopo il 7 a.C., anno di pubblicazione delle "Antichità romane". La sua opera maggiore, intitolata Rhomaikè archaiología, "Antichità romane", abbraccia la storia romana dal periodo mitico fino all'inizio della Prima guerra punica. L'opera era divisa in venti libri, di cui rimangono interi i primi nove; il decimo e l'undicesimo sono quasi completi e degli altri libri rimangono frammenti negli estratti di Costantino Porfirogenito, ed una epitome scoperta in un palinsesto da Angelo Mai a Milano.
Carta dell'antica Asia minore con
evidenziata l'antica Alicarnasso.
I primi tre libri di Appiano di Alessandria e la Vita di Camillo di Plutarco incorporano molto del lavoro di Dionigi. Dionigi vuole far conoscere in modo dettagliato ai Greci la storia di Roma, città che ha conquistato il mondo e che da più di un secolo controlla la Grecia, poiché gli storici greci, pur interessandosi della storia romana, non l'hanno mai trattata in maniera particolareggiata. Pone l'accento sul fatto che i Romani discendano dai Greci: 17 secoli prima della guerra di Troia, il popolo da cui derivano, gli Aborigeni, sarebbero emigrati dall'Arcadia e si sarebbero stabiliti in Italia. Seguirono a questa prima ondata migratoria altre migrazioni di popoli greci, i Pelasgi e gli Arcadi. Sottolineare la comune origine di Greci e Romani ha un significato ben preciso: vuole appianare le diversità tra i due popoli e auspicare una partecipazione diretta delle classi dirigenti greche al governo di Roma. Secondo lui, la storia è un insegnamento filosofico che procede per esempi, concetto preso dalla visione dei retori Greci. Tuttavia, Dionigi ha consultato accuratamente le migliori autorità: la sua opera e quella di Livio sono gli unici resoconti ancora esistenti che siano coerenti e dettagliati. Dionigi è stato anche autore di diversi trattati di retorica, con i quali dimostra di aver studiato approfonditamente i migliori modelli attici:
- "Sulla disposizione delle parole", dove tratta la combinazione delle parole secondo i diversi stili dell'oratoria.
- "Sulla mimesi" , sui migliori modelli ed il modo in cui possono essere imitati - un'opera frammentaria.
- "Sugli oratori attici", un trattato sui dieci oratori secondo il canone di Cecilio di Calatte: ci è giunto per intero il primo libro, contenente le parti che riguardano Lisia, Isocrate ed Iseo; del secondo libro ci è giunta una breve parte che riguarda Demostene:
- "Sul mirabile stile di Demostene", con l'analisi stilistica.
- "Sul carattere di Tucidide"; un breve saggio sull'opera di Tucidide con una disamina dettagliata ma nel complesso ingiusta.
- "Su Dinarco", un altro degli oratori del canone.
- "Arte retorica"), un insieme di saggi sulla teoria della retorica: probabilmente l'opera è posteriore.
- "Lettere retoriche": una lettera scritta a Pompeo Gemino e due ad Ammeo.

Tito Livio.
 Da http://commons.wikimedia.
org/wiki/File:Titus_Livius.png#
mediaviewer/File:Titus_Livius.png
22. Tito Livio, che non portava il nomen della gens essendo plebeo (in latino T. Livium; Patavium (l'attuale Padova), 59 a.C. - Patavium, 17 d.C.), è stato uno storico romano, autore della monumentale storia di Roma "Ab Urbe Condita libri CXLII", dalla sua fondazione  (tradizionalmente datata 21 aprile 753 a.C.) fino alla morte di Druso, figliastro di Augusto, nel 9 a.C.
Carta con l'ubicazione di Padova,
che anticamente si chiamava
Patavium.
Quintiliano ha tramandato la notizia che Asinio Pollione rilevava in Livio una certa patavinitas (padovanità o peculiarità padovana), da intendersi come patina linguistica rivelatrice della sua origine provinciale, mentre Marziale ricorda l'accentuato moralismo della sua terra, tipico come le sue tendenze politiche conservatrici. Lo stesso Livio, citando Antenore, mitico fondatore di Padova, all'inizio della sua monumentale opera, conferma indirettamente le proprie origini patavine. I Livi erano di origine plebea, ma la famiglia poteva fregiarsi di antenati illustri in linea materna: nella Vita di Tiberio Svetonio ricorda che la famiglia «era stata onorata da otto consolati, due censure, tre trionfi, da una dittatura e dal magistero della cavalleria». Verosimilmente, fu educato nella città natale, istruito prima da un grammatico, con il quale apprese a scrivere in un buon latino e imparò altresì il greco, e in seguito da un retore, che lo avvicinò «all'eloquenza politica e giudiziaria». Uno degli avvenimenti più importanti della sua vita fu il trasferimento a Roma per completare gli studi; fu qui che entrò in stretti rapporti con Augusto, il quale, secondo Tacito, lo chiamava "pompeiano" per il suo filo-repubblicanesimo; questo fatto non compromise la loro amicizia, tanto che godette sempre della stima e dell'ospitalità dell'imperatore, e per suo consiglio il nipote e futuro imperatore Claudio compose un'opera storica andata perduta, sugli Etruschi, visto che aveva avuto una moglie etrusca che gli aveva rivelato memorie delle sue genti. Non ebbe tuttavia incarichi pubblici, ma si dedicò alla redazione degli "Ab Urbe condita libri" per celebrare Roma e il suo imperatore, e si impose ben presto come uno dei più grandi storici del suo tempo. Fu anche autore di scritti di carattere filosofico e retorico andati perduti. Ebbe un figlio, che egli esortò a leggere Demostene e Cicerone, autore di un'opera di carattere geografico, e una figlia, che sposò il retore Lucio Magio. Non si sa quando sia tornato a Padova, dove morì nel 17 d.C., secondo Gerolamo: « Livius historiographus Patavi moritur ».
Iniziata nel 27 a.C., la raccolta “Ab Urbe condita” si componeva di 142 libri che narravano la storia di Roma dalle origini (nel 753 a.C.) fino alla morte di Druso (9 a.C.), in forma annalistica; è molto probabile che l'opera si dovesse concludere con altri 8 libri (per un totale di 150) che proseguissero fino alla morte di Augusto, avvenuta nel 14 d.C. I libri furono successivamente divisi in decadi (gruppi di 10 libri) che avrebbero dovuto coincidere con determinati periodi storici. Dell'intera opera ci è pervenuta solo una piccola parte, per un totale di 35 libri, cioè quelli dall'I al X e dal XXI al XLV (la prima, la terza, la quarta decade e cinque libri della quinta). Gli altri sono conosciuti solo tramite frammenti e riassunti ("Periochae"). I libri che si sono conservati descrivono in particolare la storia dei primi secoli di Roma dalla fondazione fino al 293 a.C., fine delle guerre sannitiche, la seconda guerra punica, la conquista della Gallia cisalpina, della Grecia, della Macedonia e di una parte dell'Asia Minore. L'ultimo avvenimento importante che si trova è relativo al trionfo di Lucio Emilio Paolo a Pidna.
Già il titolo dell'opera dà l'idea della grandezza dei propositi dello storico. Livio utilizzò il metodo storiografico che alterna la cronologia storica alla narrazione, spesso interrompendo il racconto per annunciare l'elezione di un nuovo console, dato che questo era il sistema utilizzato dai Romani per tener conto degli anni. Nell'opera, Livio denuncia inoltre la decadenza dei costumi ed esalta al contrario i valori che hanno fatto la Roma eterna.
Lo stesso Livio affermò inoltre che la mancanza di dati e fonti certe precedenti al sacco di Roma da parte dei Galli, nel 390 a.C., aveva reso il suo compito assai difficile. A rendere più arduo il compito dello storiografo fu il fatto che non poteva accedere, come privato cittadino, agli archivi e dovette accontentarsi di fonti secondarie (documenti e materiali già elaborati da altri storici). Allo stesso modo, molti storici moderni ritengono che, per la mancanza di fonti puntuali e precise, Livio abbia presentato per le stesse vicende sia una versione mitica sia una versione "storica", senza privilegiare nessuna delle due versioni, ma lasciando alla discrezione del lettore la decisione su quale sia la più verosimile. Nella prefazione è l'autore a spiegare che «quanto agli eventi relativi alla fondazione di Roma o anteriori, non cerco né di confermarli né di smentirli: il loro fascino è dovuto più all'immaginazione dei poeti che alla serietà dell'informazione» (ne è un esempio la presenza nell'opera del mito dell'ascensione al cielo di Romolo e di un racconto secondo il quale lo stesso Romolo sarebbe stato ucciso). Il suo talento non va tuttavia ricercato nell'attendibilità scientifica e storica del lavoro, quanto nel suo valore letterario: il metodo con cui impiega le fonti è criticabile poiché non risale ai documenti originali, qualora ve ne siano, ma utilizza quasi esclusivamente fonti letterarie.
Livio scrisse larga parte della sua opera durante l'impero di Augusto; nonostante ciò, la sua opera è stata spesso identificata come legata ai valori repubblicani e al desiderio di una restaurazione della repubblica. In ogni modo, non vi sono certezze riguardo alle convinzioni politiche dell'autore, dal momento che i libri sulla fine della repubblica e sull'ascesa di Augusto sono andati perduti. Certamente Livio fu critico nei confronti di alcuni dei valori incarnati dal nuovo regime, ma è probabile che il suo punto di vista fosse più complesso di una mera contrapposizione repubblica/impero. D'altro canto, Augusto non fu affatto disturbato dagli scritti di Livio, e anzi lo incaricò dell'educazione di suo nipote, il futuro imperatore Claudio.
Nella “Ab Urbe condita” (libro IX, capp. 17–19) si trova la prima ucronia conosciuta, quando Livio immagina le sorti del mondo se Alessandro il Grande fosse partito per la conquista dell'occidente anziché dell'oriente. Lo storico si dice convinto che, in tal caso, Alessandro sarebbe stato sconfitto dalla maggiore organizzazione dell'esercito e dello Stato romano.
Stile - Livio fu sempre accusato di patavinitas ("padovanità"); ancora oggi non si è riusciti a capire quale sia il significato preciso del termine: la maggior parte dei critici rileva in ciò una critica nei confronti dello stile "provinciale" dello storico (ma di suddetta provincialità non si rilevano tracce negli scritti a noi pervenuti) mentre altri, come il Syme, ritengono che il termine riguardi più la sfera morale e ideologica. Questa critica è stata mossa inizialmente da Asinio Pollione, politico e letterato romano. Quintiliano definì il suo stile come una lactea ubertas (letteralmente "abbondanza di latte"), per indicare che la prosa di Livio è scorrevole e allo stesso tempo dolce e piacevole per il lettore. Lo stile di Livio è caratterizzato da architetture ben studiate e da un periodare fluente.
A Livio interessa comporre un'opera dilettevole sulla storia di Roma, non facendolo scientificamente (come faceva Tucidide in Grecia), ma raccogliendo semplicemente le notizie dando così piacevolezza all'opera. Ciò lo allontana dallo stile secco e chiuso tipico di Polibio e fa sì che la sua narrazione venga caratterizzata da sfumature definibili "drammatiche", senza eccessi. La storia per lui è "Magistra Vitae" dal punto di vista morale, vivendo infatti in un periodo difficile per la società romana riteneva che il modello da seguire per tornare la grande potenza di un tempo sarebbe stato quello degli antichi romani, per primo quello di Romolo. Livio era un grande nostalgico del passato soprattutto riguardo alla morale e ai valori che avevano reso grande Roma, che in quel periodo erano in grande declino.
Livio attribuisce ai vari personaggi che pone sotto analisi dei caratteri quasi assoluti, facendoli diventare dei paradigmi di passioni (tipi). Un altro elemento tipico della drammatizzazione è quello di mettere in bocca ai personaggi dei discorsi, sia in forma diretta che indiretta, informazioni utili ai fini della narrazione, soprattutto per quanto riguarda la parte "dilettevole" del suo intento. I discorsi sono infatti costruiti in maniera fantasiosa, e di fatto non sono da prendere come verità storiche oggettive ma come esigenze di stampo narrativo e psicologico. Spesso lo storico padovano rileva come una situazione stia precipitando, quando all'ultimo istante si ha un ribaltamento di fronte inatteso, il tipico procedimento teatrale greco del "deus ex machina".
Dal punto di vista prettamente stilistico Livio procede sulle orme di Erodoto (più fiabesco) e segue il modello di Isocrate, con la sua eloquenza piacevolmente narrativa.
Fama di Tito Livio tra i posteri - L'opera di Livio fu un esempio di stile e di rigore storiografico durante l'epoca dell'Impero, venendo copiata nelle biblioteche imperiali. Successivamente, nel Medioevo, il testo fu copiato anche nelle abbazie cristiane. Livio ebbe famosi ammiratori, tra cui Dante Alighieri, che nel XXVIII canto dell'Inferno della Divina Commedia cita un episodio cruento della Battaglia di Canne, preso da Livio, ed elogia lo storico: «come Livio scrive, che non erra» (XXVIII, 12). Anche Niccolò Machiavelli lo stimava e scrisse i famosi “Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio”.

Praeneste, nel Latium Vetus.
23. Marco Verrio Flacco (in latino: Marcus Verrius Flaccus; Praeneste, 55 a.C. - 20 d.C.) è stato un grammatico romano. Verrio, come altri grammatici, era un liberto, anche se non si conosce il nome del suo patronus. Ignota è anche la sua terra di origine, ma si suppone però che fosse di Preneste. Svetonio infatti afferma che in quella città (anche se non fu l'unica) gli furono tributati onori e gli fu dedicata una statua, e fu lo stesso Verrio Flacco a riordinare i "Fasti praenestini". Come insegnante, introdusse un nuovo sistema educativo. A differenza dei suoi colleghi, che prediligevano un tipo di apprendimento passivo da parte degli studenti, Verrio Flacco ne utilizzava uno basato sulla competizione e la promessa di un premio (di solito un libro di valore) per il vincitore. Questo sistema, per i tempi certo innovativo, gli valse grande fama, tanto che lo stesso Augusto lo scelse come precettore dei suoi figli. Nulla dice Svetonio sulle opere di Verrio Flacco, soltanto un accenno indiretto nei suoi confronti permette di informarci che scrisse dei libri sull'ortografia. Viene ricordato da Scribonio Afrodisio "[Verrii Flacci] libris de orthographia rescripsit" = "replicò ai libri sull'ortografia di Verrio Flacco". Comunque, di tali libri se ne conoscono i titoli e si possiedono inoltre 67 frammenti di altri suoi scritti. In primo luogo, "Res memoria dignae", un'opera antiquaria citata da Aulo Gellio e Plinio il Vecchio, di cui restano 9 frammenti, simili agli "Exempla aneddotic"i di Cornelio Nepote. Il "Saturnus", citato da Macrobio, era un'altra opera antiquaria sui Saturnalia, di cui non possiamo definire, comunque, l'argomento. Del "De obscuris Catonis", di argomento filologico, restano due citazioni in Aulo Gellio. Infine le "Res Etruscae" o "Disciplinae", testimoniate da due soli frammenti, opera che erano suddivisa in diversi libri e riguardava, da quanto ce ne resta, la storia e le fondazioni etrusche. Amplissimo era il "De verborum significatu", il prodotto più completo ed erudito dell'antica lessicografia latina. Il testo è a noi noto grazie al compendio che ne fece Festo (II secolo) e il successivo compendio di Festo operato da Paolo Diacono (VIII secolo), dai quali è possibile apprendere il carattere e la struttura dell'originaria opera di Verrio Flacco. Si trattava di un "vocabolario" di termini rari e eruditi, ordinati alfabeticamente e corredati di citazioni di autori precedenti utili a capirne sia il contesto che il significato. L'opera più importante è stata comunque i "Fasti Praenestini" o "Kalendarium", composto da Verrio FIacco per i prenestini, che fu fatto incidere dal municipium su un emiciclo marmoreo nel foro cittadino: ritrovato fra i ruderi di Preneste (Praeneste oggi è Palestrina, in provincia di Roma), furono pubblicati nel 1779 a Roma.

Plinio il Vecchio.
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24. Gaio Plinio Secondo (in latino Caius Plinius Caecilius Secundus), conosciuto come Plinio il Vecchio (Como, 23 - Stabiae, 25 agosto 79), è stato uno scrittore, ammiraglio e naturalista romano.
Carta con l'ubicazione di Como.
Era proprio del suo stile descrivere le cose dal vivo, per cui è per noi un vero cronista dell'epoca. Morì infatti tra le esalazioni sulfuree dell'eruzione vulcanica del Vesuvio che distrusse Stabiae, Ercolano e Pompei, mentre cercava di osservare il fenomeno vulcanico più da vicino. Per questo venne riconosciuto come primo vulcanologo della storia. In suo onore viene usato il termine di eruzione pliniana per definire una forte eruzione esplosiva, simile appunto a quella del Vesuvio in cui perse la vita. La "Naturalis historia", che conta 37 volumi, è il solo lavoro di Plinio il Vecchio che si sia conservato. Quest'opera è stata il testo di riferimento in materia di conoscenze scientifiche e tecniche per tutto il Rinascimento e anche oltre. Plinio vi ha infatti registrato tutto il sapere della sua epoca su argomenti molto diversi, come cosmologia, geografia, antropologia, zoologia, sostanze medicinali, metallurgia e mineralogia. 
Interessante è inoltre la sua osservazione sulle fondamentali differenze fra Greci e Romani: "I Romani posero ogni cura in tre cose soprattutto, che furono dai Greci neglette, cioè nell'aprire le strade, nel costruire acquedotti e nel disporre nel sottosuolo le cloache". 
Plinio il Vecchio nacque sotto il consolato di Gaio Asinio Pollione e di Gaio Antistio Vetere fra il 23 e 24 d.C. Discusso è il luogo della sua nascita: Verona per alcuni, Como (Novocomum) per altri. A sostegno della tesi veronese ci sono dei manoscritti in cui è possibile leggere Plinius Veronensis e il fatto che Plinio stesso, nella sua prefazione, citi Gaio Valerio Catullo come proprio conterraneus (e Catullo era di Verona). Ad avvalorare l'idea di Como come luogo di nascita, si osserva invece che Eusebio di Cesarea, nella sua cronaca, unisce il nome di Plinio con l'epiteto di Novocomensis. Eusebio e gli autori successivi hanno però a lungo confuso Plinio, l'autore della Naturalis Historia, e Plinio il giovane, suo nipote, l'autore delle lettere e del Panegirico di Traiano. L'argomentazione più considerevole a favore di Como sono le iscrizioni presenti in questa città, nelle quali il nome di Plinio ritorna spesso. Plinio il Vecchio riveste cariche quali Ufficiale di cavalleria (eques) in Germania, grazie a sua madre, compagna di Gaio Cecilio di Novum Comum, senatore e procuratore in Gallia e Spagna. Prima del 35, suo padre lo portò a Roma, dove affidò la sua istruzione ad uno dei suoi amici, il poeta e generale Publio Pomponio Secondo. Plinio vi acquisì il gusto di apprendere. Due secoli dopo la morte dei Gracchi, il giovane ammirò alcuni dei loro manoscritti conservati nella biblioteca del suo tutore, e dedicò loro più tardi una biografia. Plinio cita i grammatici e retori Quinto Remmio Palemone ed Arellio Fusco nella sua Naturalis historia e fu certamente loro seguace. A Roma studiò botanica: l'arte topiaria di Antonio Castore e vede le vecchie piante di loto che un tempo erano appartenute a Marco Licinio Crasso. Poté anche contemplare la vasta struttura costruita da Nerone della Domus Aurea ed assistette probabilmente al trionfo di Claudio sui Britanni nel 44. Sotto l'influenza di Lucio Anneo Seneca, diventa uno studente appassionato di filosofia e di retorica ed inizia ad esercitare la professione di avvocato. Plinio ricoprì cariche civili sotto Vespasiano e Tito. Comandante della flotta tirrenica di stanza a Miseno (Praefectus classis Misenis), morì durante l'eruzione del Vesuvio, che distrusse Pompei, Ercolano e Stabia. Plinio il Giovane, suo nipote, ce lo rappresenta come un uomo dedito allo studio ed alla lettura, intento ad osservare i fenomeni naturali ed a prendere continuamente appunti, dedicando poco tempo al sonno ed alle distrazioni. Il racconto della sua morte, contenuto in una lettera del nipote, Plinio il Giovane, ha contribuito all'immagine di Plinio come protomartire della scienza sperimentale (definizione di Italo Calvino), anche se, sempre secondo il resoconto del nipote, si espose al pericolo anche per recare soccorso ad alcuni cittadini in fuga dall'eruzione. Il presunto teschio di Plinio il Vecchio è conservato nella sala Flajani del Museo storico nazionale dell'arte sanitaria a Roma.
Carriera militare - Prestò servizio in Germania nel 47 agli ordini di Gneo Domizio Corbulone, partecipando alla sottomissione dei Cauci ed alla costruzione del canale tra il Reno e la Mosa. Da giovane comandante di un corpo di cavalleria (praefectus alae), redasse nel corso degli stazionamenti invernali all'estero una prova sull'arte del lancio del giavellotto a cavallo (de iaculatione equestri). In Gallia ed in Spagna annotò il significato di un certo numero di parole celtiche. Notò le località associate alle campagne militari di Germanico; sui luoghi delle vittorie di Druso, sognò che il vincitore lo pregava di trasmettere alla posterità le sue imprese (Plin. Ep., III, 5,4). Accompagnò probabilmente Pomponio, amico di suo padre, in spedizione contro i Catti nel 50.
Ricerche - Sotto Nerone, vive soprattutto a Roma. Cita la carta d'Armenia e gli accessi del mar Caspio che fu ceduto a Roma dal personale di Corbulo in 59 (VI, 40). Assiste anche alla costruzione della Domus Aurea di Nerone dopo il grande incendio del 64 (XXXVI, 111). Nel frattempo, completa i venti libri della sua Storia delle guerre germaniche, solo lavoro di riferimento citato nei primi sei libri degli annali di Tacito (I, 69). Questo lavoro è probabilmente una delle principali fonti di informazioni sul germanico. All'inizio del V secolo, Simmaco ebbe una piccola speranza di trovarne una copia (Epp., XIV, 8). Plinio dedica molto tempo ad argomenti relativamente più sicuri, come la grammatica e la retorica.
Al servizio di Roma - Sotto il regno del suo amico Vespasiano, torna al servizio di Roma come procuratore nella Gallia Narbonense e nella Spagna romana . Visita anche Gallia Belgica . Durante il suo soggiorno in Spagna, si dedica all'agricoltura e alle miniere del paese, oltre a visitare l'Africa. Al suo ritorno in Italia, accetta un incarico di Vespasiano, che lo consulta alle albe prima di partecipare alle sue occupazioni ufficiali. Alla fine del suo mandato, dedica la maggior parte del suo tempo ai suoi studi (Plin. Ep., III, 5,9). Completa una storia del suo tempo in 31 libri, che tratta del regno di Nerone fino a quello di Vespasiano (N.H., Praef. 20). Quest'opera è citata da Tacito, ed influenza Gaio Svetonio Tranquillo e Plutarco. Porta a termine il suo grande lavoro: la "Naturalis historia", un'opera di carattere enciclopedico, nella quale Plinio raccoglie una grande parte dello scibile della sua epoca, lavoro progettato sotto la direzione di Nerone. Le informazioni che raccoglie riempiono non meno di 160 volumi nell'anno 73, quando Larcio Licino, il legato pretore di Spagna Tarraconense, prova invano a comperarli con una somma notevole. Dedica una sua opera a Tito Flavio nel 77. In occasione dell'eruzione del Vesuvio del 79 che seppellì Pompei ed Ercolano, si trovava a Miseno come praefectus classis Misenis. Volendo osservare il fenomeno il più vicino possibile, e volendo aiutare alcuni suoi amici in difficoltà sulle spiagge della baia di Napoli, parte con le sue galee, che attraversano la baia fino a Stabiae (oggi Castellammare di Stabia) dove muore, probabilmente soffocato dalle esalazioni vulcaniche, a 56 anni. L'eruzione è stata descritta dal suo nipote Plinio il giovane, il cui nome è stato preso in considerazione nella vecchia vulcanologia: eruzione pliniana. Il resoconto delle sue ultime ore è riferito in una lettera interessante che Plinio il giovane indirizza, 27 anni dopo l'accaduto, a Tacito. Invia anche, ad un altro corrispondente, una relazione sugli scritti ed il modo di vita di suo zio: « Iniziava a lavorare ben prima dell'alba… Non leggeva nulla senza fare riassunti; diceva anche che non esisteva nessun libro tanto inutile, cioè da non contenere qualche valore. Al paese, solo l'ora del bagno lo asteneva da studiare. In viaggio, era privo d'altri obblighi, si dedicava soltanto allo studio. In breve, considerava perso il tempo che non era dedicato allo studio. » (Plinio il giovane). Era occupato su i suoi manoscritti per venti ore su ventiquattro, non risparmiandosi neppure nel tempo più caldo. Talora lo si trovava impegnato all'una del mattino a leggere e scrivere a lume di candela. Dopo aver fatto visita a corte tornava a lavorare sino a mezzogiorno quando interrompeva per una breve pausa per un pranzo molto leggero al cui termine si riposava prendendo il sole mentre un segretario gli faceva ad alta voce l'ultima lettura della giornata. Dopo un bagno freddo, seguito da un breve riposo e da una merenda ricominciava a lavorare, quasi che fosse all'inizio del giorno, sino all'ora della cena. Il solo frutto del suo instancabile lavoro che persiste al giorno d'oggi è la sua "Naturalis Historia", che fu utilizzata come riferimento durante numerosi secoli da innumerevoli allievi. L'elenco delle opere di Plinio ci è fornito dal suo stesso nipote:
- "De iaculatione equestri", libro sull'arte di tirare stando a cavallo, frutto della sua esperienza di ufficiale di cavalleria.
- "De vita Pomponii Secundi", due libri sulla vita di Pomponio Secondo, poeta tragico a cui era legato da amicizia.
- "Bella Germaniae", venti libri sulle guerre di Germania, che servirono a Tacito per i suoi "Annales".
- "Studiosus", tre libri sulla formazione dell'oratore tramite lo studio dell'eloquenza.
- "Dubius sermo", otto libri sui problemi di lingua e grammatica che presentavano oscillazioni ed incertezze nell'uso, tenute in gran conto dai grammatici posteriori.
- Infine "Aufidii Bassi", trentuno libri di storia che riprendevano la narrazione dove aveva concluso Aufidio Basso, ovvero dalla morte dell'imperatore Claudio.
"Naturalis historia", trentasette libri che formavano un'opera enciclopedica di larghissimo respiro, l'unica rimastaci per intero. La "Naturalis historia" fu pubblicata nell'anno 77; già nel titolo l'opera si presenta come ricerca di carattere enciclopedico sui fenomeni naturali: il termine historia conserva il suo significato greco di indagine, e va notato che la formula ha dato la denominazione alle scienze biologiche, cioè alla storia naturale nel senso moderno della locuzione. Il primo libro fu completato dal nipote Plinio il Giovane dopo la morte dello zio, contiene la dedica a Tito, il sommario dei libri successivi ed un elenco delle fonti per ciascun libro. Partendo dal lavoro di Lucrezio, l'autore vuole far conoscere all'uomo i vari aspetti della natura, perché possa elevarsi dalla sua condizione animale. L'informazione tratta svariati temi:
- La descrizione dell'universo (II libro)
- La geografia ed etnografia del Bacino del Mar Mediterraneo (III-VI libro)
- L'antropologia (VII libro)
- La zoologia (VIII-XI libro)
- La botanica e l'agricoltura (XII-XIX libro)
- La medicina e le piante medicinali (XX-XXVII libro)
- La medicina ed i medicamenti ricavati dagli animali (XXVII-XXXII libro)
- La mineralogia (XXXIII-XXXVII libro)
L'ultima parte, trattando della lavorazione dei metalli e delle pietre, contiene anche una lunghissima digressione sulla storia dell'arte dell'antichità, in particolare riguardo alla statuaria, alla pittura e all'architettura (ma non mancano notizie relative ai mosaici e ad opere di altro tipo). In sostanza si tratta di un'opera che risente della fretta di chi legge e registra tutto quanto va apprendendo; dello sforzo di mettere ordine nell'immensa materia. Sebbene non si possa chiedere all'autore originalità ed esattezza scientifica, si deve riconoscere l'altissimo valore antiquario e documentario dell'opera, e l'enciclopedismo pratico dell'autore, spesso soffermatosi in credenze superstiziose e gusto del fantastico. Non mancano, inoltre informazioni errate o dati "gonfiati", ad esempio nella descrizione del teatro di Pompeo e di quelli di Curione e Scauro.
Filosofia - Come molti letterati e persone di cultura della prima età imperiale, Plinio segue lo stoicismo. È anche influenzato dall'epicureismo, dall'accademismo e dalla reviviscente scuola pitagorica. Ma la sua visione della natura e degli dèi resta principalmente stoica. Secondo lui, c'è la debolezza dell'umanità che chiude la divinità sotto forme umane falsate dai difetti e dai vizi. La divinità è reale: è il cuore del mondo eterno, che dispensa la sua beneficenza sulla Terra, sul sole e le stelle. L'esistenza della divina provvidenza è dubbia, ma la credenza nella sua esistenza ed alla punizione dei reati è salubre; la virtù apparteneva alle divinità, cioè a quelli che somigliavano ad un dio facendo il bene per l'umanità. È opera maligna informarsi sul futuro e forzare la natura ricorrendo alle arti della magia, ma l'importanza dei prodigi e dei presagi non è trascurata. La visione che Plinio ha della vita è oscura: vede la razza umana immersa nella rovina e nella miseria. Contro il lusso e la corruzione morale, si consegna a declamazioni così frequenti (come quelle di Seneca) che finiscono per stancare il lettore. La sua retorica fiorisce praticamente contro invenzioni utili (come l'arte della navigazione) in l'attesa del buon senso e del gusto. Con lo spirito d'orgoglio nazionale romano, forma l'ammirazione delle virtù che hanno condotto la repubblica alla sua dimensione. Egli non dimentica i fatti storici sfavorevoli a Roma e, anche se onora i membri eminenti delle case romane distinte, è libero dalla parzialità eccessiva di Tito Livio per l'aristocrazia. Le classi agricole ed i vecchi signori della classe equestre (Cincinnato, Curio Dentato, Serrano e Catone il Vecchio) sono per lui i pilastri dello Stato romano e si deplora amaramente del declino dell'agricoltura in Italia. Inoltre, preferisce seguire gli autori pre-augustiani; tuttavia vede il potere imperiale come indispensabile al governo dello Stato e saluta il salutaris exortus di Vespasiano.
Letteratura e scienze - Alla fine dei suoi lunghi lavori letterari, il solo Romano ad avere scelto come tema la totalità del mondo della natura, implora la benedizione della madre universale su tutto il suo lavoro. In letteratura, attribuisce il più alto posto ad Omero ed a Cicerone (XVII, 37 sqq.) quindi in secondo luogo Virgilio. È stato influenzato dalle ricerche del re Giuba II di Numidia che chiamava ”mio maestro”. Dedica un interesse profondo alla natura ed alle scienze naturali. Nonostante la poca stima che uno porta per questo genere di studio, egli si sforza sempre di essere al servizio dei suoi concittadini (XXII, 15). La portata della sua opera è vasta e completa, un'enciclopedia di tutte le conoscenze. A questo scopo, studia tutto ciò che fa autorità in ciascuno di quest'argomenti e non si astiene a citare estratti. I suoi indices auctorum sono, in alcuni casi, le autorità che lui stesso ha consultato (benché ciò non sia esauriente) e a volte questi nomi rappresentano gli autori principali sull'argomento, che sono conosciuti soltanto di seconda mano. Riconosce sinceramente i suoi obblighi a tutti i suoi predecessori in una frase che merita d'essere proverbiale (Pref. 21, plenum ingenni pudoris fateri per quos profeceris). Ma c'è la sua curiosità scientifica per i fenomeni dell'eruzione del Vesuvio che porta la sua instancabile vita di studio alla fine prematura. Ogni testimonianza dei suoi difetti d'omissione è disarmata dal candore della sua confessione nella sua prefazione: nec dubitamus multa esse quae ed i nostri praeterierint; homines enim sumus ed occupati officiis. Il suo stile denuncia un'influenza di Seneca. Mira meno alla chiarezza che all'epigramma. È pieno d'antitesi, di questioni, d'esclamazioni, di tropi, di metafore, e d'altri manierismi dell'età del denaro della letteratura latina (primi due secoli). La forma ritmica ed artistica della frase è sacrificata da una passione per l'enfasi che delizia con il riporto dell'argomentazione verso la fine. La struttura della frase è molto spesso irregolare. Si nota anche un utilizzo eccessivo dell'ablativo assoluto, spesso messo in apposizione per esprimere l'opinione dell'autore su un enunciato che precede immediatamente. Ad esempio: XXXV, 80, dixit... uno se praestare, quod manum de tabula sciret tollere, memorabili praecepto nocere saepe nimiam diligentiam. Le sue fonti sono i trattati persi sulla scultura in bronzo e sulla pittura dello scultore Senocrate d'Atene (III secolo a.C.). All'entrata principale della cattedrale di Como è possibile vedere statue di Plinio il Vecchio e suo nipote Plinio il giovane in posizione seduta, e indossanti abiti degli eruditi del XVI secolo. Gli aneddoti di Plinio il Vecchio per quanto riguarda gli artisti greci hanno ispirato Giorgio Vasari sui temi degli affreschi che decorano ancora oggi le pareti della sua vecchia casa ad Arezzo.
Gastronomia - Plinio è una miniera inesauribile di informazioni sui prodotti alimentari e sui costumi Romani. Dopo Columella, Plinio è, tra tutti gli autori latini, quello al quale dobbiamo maggiori informazioni sulle varie specie di viti e di vini conosciuti. Il libro XIV della "Naturalis Historia" è dedicata a questo tema; conta 22 capitoli che trattano dell'argomento nei suoi minimi dettagli, dalle varie specie di viti, la natura del suolo, il ruolo che gioca il clima, il vino in generale, i vari vini d'Italia e d'oltremare conosciuti dai tempi più arretrati, all'enumerazione dei più famosi consumatori della Grecia e di Roma. Fornisce anche informazioni preziose sulle piante odorose, gli alberi da frutto, il grano, l'agricoltura, il giardinaggio, le piante medicinali, le carni, pesci, selvaggina, l'apicoltura, la panetteria e le verdure.
Ornitologia - Il libro X è dedicato agli uccelli e si apre con informazioni sullo struzzo. Plinio lo considera come il punto di passaggio dagli uccelli ai mammiferi. Inserisce numerose specie e si sofferma particolarmente sulle aquile e altri rapaci come gli sparvieri.
La fisiologia - Plinio il Vecchio fu uno studioso interdisciplinare e si occupò anche di fisiologia e di ricerche sui problemi di natura sessuale; infatti consigliò "l'uso di pene di lurch intriso di olio o di quello di iena trattato con il miele", per rafforzare la sessualità.
Storia dell'opera - Verso la metà del III secolo, un riassunto delle parti geografiche delle opere di Plinio è realizzata da Solino ed all'inizio del IV secolo, i passaggi medici sono riuniti nella "Medicina Plinii". All'inizio dell'VIII secolo, Beda il Venerabile possiede un manoscritto di tutte le opere. Nel IX secolo, Alcuino invia a Carlo Magno una copia dei primi libri (Epp. 103, Jaffé) e Dicuilo riunisce estratti delle pagine di Plinio per la sua "Mensura orbis terrae" (C, 825). I lavori di Plinio acquisiscono grande stima nel Medioevo. Il numero di manoscritti restanti è di circa 200, ma il più interessante e tra i più vecchi è quello di Bamberga, contenente soltanto i libri dal XXXII al XXXVII. Roberto di Cricklade, superiore del St Frideswide a Oxford, indirizza al re Enrico II un "Defloratio", contenente nove volumi di selezioni prese da uno dei manoscritti di questa. Fra i manoscritti più vecchi, il "Codex Vesontinus", precedentemente conservato a Besançon (del XI secolo), è oggi sparso in tre città: a Roma, a Parigi, e l'ultimo a Leida (dove esiste anche una trascrizione del manoscritto totale).
Curiosità - Plinio nei suoi trattati sulle Scienze Naturali, studia anche pietre dure di altissimo valore: i diamanti. Posseduto o disegnato sulla propria pelle, il diamante viene descritto come un talismano contro i veleni e le malattie ed inoltre avrebbe il potere di tenere alla larga i brutti sogni e gli spiriti maligni.

La tomba di Virgilio al chiaro di luna,
con Silio Italico, dipinto di Joseph
Wright of Derby da: https://it.wiki
25. Tiberio Cazio Asconio Silio Italico, noto semplicemente come Silio Italico (Padova? 25 circa - Campania, 101), è stato un avvocato, politico e poeta romano, autore dei "Punica" (Punicorum libri XVII), il più lungo poema epico latino pervenutoci, composto da 12.202 versi in diciassette libri. Abbiamo notizie di lui da una lettera di Plinio il Giovane a Caninio Rufo, nella quale parla della sua morte, all'età di settantacinque anni. Poiché la lettera è databile fra il 101 e il 106, è probabile che la morte sia avvenuta fra il 101 e il 104. Da queste deduzioni si evince che Silio nacque fra il 25 e il 29 d.C.. Il nome Asconio (Asconius) porta a ritenere che fosse legato alla gens patavina, ma non se ne ha certezza. Altre brevi informazioni ci vengono da Tacito e da Marziale: di quest'ultimo Silio fu il patrono e sappiamo che operò nel Foro come avvocato difensore, probabilmente già all'epoca dell'Imperatore Claudio. Secondo Plinio, nel periodo neroniano dovette esercitare anche l'avvocatura d'accusa, ovvero la delazione vera e falsa per il favore dell'imperatore. Il beneficio che ne trasse fu il consolato ordinario che esercitò nel 68. Con la caduta e morte di Nerone, in quanto amico di Vitellio, Silio Italico partecipò alle trattative di questi con il fratello di Vespasiano, Tito Flavio Sabino, che era a Roma con il figlio di Vespasiano, Domiziano. Nel 77 Silio Italico fu proconsole in Asia Minore agli ordini dell'Imperatore Vespasianoː testimonianza sarebbe un'epigrafe, rinvenuta nel 1934 ad Afrodisia, che riporta il suo nome completo: Tib. Catius Asconius Silius Italicus. Allo scadere del mandato proconsolare Silio Italico si ritirò dalla vita politica attiva dedicandosi agli studi e alla stesura del suo poema, i Punica. Nel terzo libro vi è un riferimento al titolo di "Germanico" assunto da Domiziano (nell'83) e Marziale saluta l'opera nel IV libro degli Epigrammi (composto attorno all'88-89). Anche a causa dello stato di salute trascorse gli ultimi anni in Campania, dove aveva acquistato una villa che era stata di Cicerone, il suo modello di oratoria e la terra che custodiva la tomba di Virgilio, di cui era un estimatore e ai cui stilemi si rifà abbondantemente nel corso dei Punica. Secondo una parte della critica il testo "Punica" è incompiuto, in quanto si ipotizza un progetto originario in diciotto libri, parallelo alle dimensioni degli Annales di Ennio. I  "Punica" raccontano la seconda guerra punica dalla spedizione di Annibale in Spagna al trionfo di Scipione dopo Zama. La disposizione annalistica testimonia la sua volontà di ricollegarsi alla terza decade di Livio, ne recupera la cornice architettonica del modello: colloca dopo il proemio il ritratto di Annibale e chiude, come Livio, con l'immagine del trionfo di Scipione. L'opera fu concepita quale continuazione ed esplicazione dell'Eneide virgiliana: infatti la guerra di Annibale è, di fatto, vista come la continuazione di Virgilio, originata dalla maledizione di Didone contro Enea, mentre dal poema virgiliano Silio restaura la funzione strutturale dell'apparato mitologico, anche se lo stravolgimento antifrastico della provvidenza virgiliana è sostituito da un'epopea dal finale rassicurante. Plinio ha delle riserve sulle capacità di Silio, lo ritiene più antiquario che artista per il suo gusto per le ricostruzioni minuziose. Lo stile sembra influenzato dal gusto del tempo: "barocco", scene macabre unite al modello epico mitologico, con banali riflessioni etiche. L'opera, comunque, risulta frammentaria, poiché dà più importanza ai particolari piuttosto che non all'unità dell'opera stessa. Quindi, lo scritto di Silio Italico è importante soprattutto per la quantità di informazioni storiche e mitologiche piuttosto che per la sua poesia.

Flavio Giuseppe.
26. Tito Flavio Giuseppe (latino: Titus Flavius Iosephus; ebraico Yosef ben Matityahu; aramaico Joseph bar Matthias; greco Iosepos Flavios; Gerusalemme, 37 circa - Roma, 100 circa) è stato uno scrittore, storico, politico e militare romano di origine ebraica, noto come Flavio Giuseppe o Giuseppe Flavio, che scrisse le sue opere in greco. Le notizie sulla vita di Flavio Giuseppe sono desunte dalla sua autobiografia. Il suo nome ebraico era Giuseppe figlio di Mattia (Joseph Ben Matityahu); il nome romano Flavio fu da lui assunto al momento dell'affrancamento e conseguente conferimento della cittadinanza romana da parte dell'imperatore Tito Flavio Vespasiano. Nato nel primo anno del regno di Caligola (37-38) da una famiglia della nobiltà sacerdotale imparentata con la dinastia degli Asmonei, Giuseppe ricevette una educazione tradizionale ebraica con un forte influsso della cultura greca e latina. In gioventù assunse posizioni vicine al movimento dei farisei, molto osservante della Torah, ma ostile ai nazionalisti ebrei ed in particolare agli zeloti. Per "I conflitti negli Ebrei: Sadducei, Farisei, Esseni, Zeloti e Sicarii, Gnostici e Cristiani" clicca QUI. Tra il 63 e il 65, durante il periodo del grande incendio di Roma, si recò nell'Urbe, dove fu ospite alla corte di Poppea rimanendo impressionato dalla potenza militare e dal livello di vita dei Romani.
Carta con Giudea, Samaria
e Galilea al tempo di
Flavio Giuseppe.
Durante la prima guerra giudaica, iniziata nel 66, fu governatore militare della Galilea per le forze ribelli. Quando i ribelli asserragliati a Iotapata, assediata dai romani, si accorsero dell'imminente espugnazione romana, Giuseppe li convinse dell'immoralità del suicidio e dell'opportunità che a turno si perdesse la vita per mano dei compagni; con uno stratagemma riguardante l'ordine delle successive morti fece poi in modo di rimanere l'ultima persona viva del suo gruppo di combattenti (Problema di Giuseppe) e, invece di uccidersi, si consegnò ai Romani. Durante l'incontro con il comandante militare romano Tito Flavio Vespasiano, Giuseppe gli predisse che sarebbe diventato imperatore: « In Giudea, mentre stava consultando l'oracolo del dio del Carmelo, le sorti confermarono a Vespasiano che avrebbe ottenuto tutto ciò che voleva e aveva in animo, per quanto fosse grande; ed un nobile tra i prigionieri di nome Giuseppe, mentre veniva messo in catene, affermò che lo stesso Vespasiano lo avrebbe liberato, quando fosse ormai [divenuto] imperatore. » (Svetonio, Vita di Vespasiano, 5). Quando infatti Vespasiano dispose di mettere Giuseppe sotto custodia con ogni attenzione, volendo inviarlo subito dopo a Nerone, il prigioniero dichiarò che aveva da fare un annuncio importate allo stesso Vespasiano, di persona ed a quattr'occhi. Quando il comandante romano ebbe allontanato tutti gli altri tranne il figlio Tito e due amici, Giuseppe gli parlò: « Tu credi, Vespasiano, di aver catturato soltanto un prigioniero, mentre io sono qui per annunciarti un grandioso futuro. Se non avessi avuto l'incarico da Dio, conoscevo bene quale sorte spettava a me in qualità di comandante, secondo la legge dei Giudei: la morte. Tu vorresti inviarmi da Nerone? Per quale motivo? Quanto dureranno ancora Nerone ed i suoi successori, prima di te? Tu, o Vespasiano, sarai Cesare e imperatore, tu e tuo figlio. Fammi pure legare ancor più forte, ma custodiscimi per te stesso. [...] e ti chiedo di essere punito con una prigionia ancor più rigorosa se sto mentendo, davanti a Dio. » (Giuseppe Flavio, La guerra giudaica, III, 8.9.400-402). Sul momento Vespasiano rimase incredulo, pensando che Giuseppe lo stesse adulando per aver salva la vita, ma poi, sapendo che anche in altre circostanze Giuseppe aveva fatto predizioni esatte, fu indotto a ritenere che ciò che gli aveva annunciato fosse vero, avendo egli stesso in passato pensato al potere imperiale e ricevendo altri segnali che gli presagivano il principato. Alla fine non mise in libertà Giuseppe, ma gli donò una veste ed altri oggetti di pregio, trattandolo con ogni riguardo anche per le simpatie del figlio Tito.
L'anno successivo, quando Vespasiano fu acclamato imperatore dalle truppe di Giudea, Siria, Egitto, Mesia e Pannonia, ora che la fortuna era dalla sua parte e ne assecondava tutti i suoi desideri, rifletté sul giusto destino di essere stato fatto signore del mondo. Fra i molti presagi ricevuti da ogni parte a predirgli l'impero, si ricordò delle parole di Giuseppe, che aveva avuto il coraggio di chiamarlo imperatore quando Nerone era ancora in vita. Sapendo che Giuseppe era ancora in prigione, convocò Muciano assieme ad altri generali e amici e, dopo aver ricordato loro la sua perizia militare nell'assedio di Iotapata, accennò alle predizioni di Giuseppe, che al momento aveva sottovalutato, ma che nei fatti risultarono verificate, cosicché sembrò che fossero di origine divina. « Mi sembra vergognoso che chi mi ha predetto l'impero [...] sia ancora in prigionia con le catene. » (Giuseppe Flavio, La guerra giudaica, IV, 10.7.626). Detto ciò, fece condurre Giuseppe al suo cospetto e diede ordine di togliergli i ceppi. Tito, che stava assistendo alla scena a fianco del padre, gli suggerì: « Padre è giusto che Giuseppe venga liberato, oltre che dei ceppi anche della vergogna. Se noi non slegheremo le sue catene, ma al contrario le spezzeremo, dimostreremo che egli non è mai stato incatenato. Così accade a chi è stato incatenato ingiustamente. » (Giuseppe Flavio, La guerra giudaica, IV, 10.7.628). Vespasiano accolse la richiesta del figlio e la catena venne spezzata a colpi di scure. Così Giuseppe, ricevuta la libertà, poté godere del credito di profeta e si legò alla famiglia del princeps, cambiando il suo nome in Flavio Giuseppe. Flavio Giuseppe venne usato dai romani a fini propagandistici, per convincere i ribelli ad arrendersi. Trascorse il resto della sua vita a Roma, scrivendo opere che avevano un carattere filo-romano, ma che spiegavano ai lettori anche la storia e le credenze degli ebrei. I suoi scritti sono estremamente importanti dal punto di vista storico, poiché sono la principale fonte di informazioni che abbiamo sulla Giudea del I secolo. Morì intorno all'anno 100. Mentre gran parte degli ebrei contemporanei considerarono Flavio Giuseppe come un traditore e apostata, taluni ritengono che egli, in un periodo nel quale le forze esterne minacciavano la totale distruzione del monoteismo ebraico, abbia perseguito con lucidità il fine della sua conservazione, al prezzo di compromessi con il mondo vincente alessandrino-romano.
Opere - In "Antichità giudaiche" Flavio Giuseppe racconta la storia del popolo ebraico, dalle origini fino all'epoca immediatamente precedente la guerra giudaica del 66-70. Quest'opera contiene preziose notizie relative ai movimenti religiosi del giudaismo del I secolo, come gli Esseni, i Farisei, gli Zeloti, eccetera.
Nel Libro XX (da 197 e seguenti) contiene lil racconto della dinastia di Anano e del martirio di Giacomo, fratello di Gesù soprannominato il Cristo (Libro XX, 200). Essa contiene anche il cosiddetto Testimonium flavianum, ovvero un breve passo che menziona la predicazione e la morte di Gesù, confermando sostanzialmente il resoconto dei Vangeli. Benché questo passo sia considerato da alcuni storici, tra i quali E. Schürer e H. Chadwick, in tutto o in parte, una falsificazione inserita in epoca cristiana, esso fu conservato nell'originale greco da parte della Chiesa cristiana; mentre uno studio, del 1971, di Shlomo Pinès dell'Università Ebraica di Gerusalemme su un codice arabo del X secolo (studio ripreso dal giornalista Antonio Socci) sembra confermare che si tratti di un riferimento al Gesù Cristo dei Vangeli. Le crocefissioni erano supplizi pubblici aventi lo scopo di dissuadere chiunque intendesse emulare le gesta dei condannati, disposti dalle autorità che rappresentavano l’Imperatore, pertanto le incriminazioni, come informative scritte, dovevano essere registrate negli Atti del Sinedrio, essendo avvenimenti che riguardavano direttamente gli Ebrei, la loro religione ed i loro sacerdoti, ma, nelle opere di Giuseppe Flavio, non viene citato il Sinedrio nel I secolo, sino al “martirio” di Giacomo il Minore nel 62 d.C. Giuseppe Flavio scadenzava gli annali giudaici con i nominativi dei Sommi Sacerdoti del Tempio (in carica uno per anno), così come lo storico Cornelio Tacito scadenzava gli annali di Roma con i nominativi dei Consoli. In "Antichità Giudaiche" vengono puntualmente riportate tutte le nomine e sostituzioni dei Sommi Sacerdoti del Tempio, ad eccezione del periodo compreso fra il 19e il 36 d.C.: riportano tuttavia, nel libro XVIII, che Anna e Caifa furono in carica dal 6 al 15 e dal 18 al 36 d.C., molto più a lungo di un anno, così come è scritto in alcuni Vangeli. Nelle opere di Giuseppe Flavio non viene citato il Sinedrio del I secolo, sino al martirio di Giacomo il Minore, nel 62 d.C.
Guerra giudaica - Nella "Guerra giudaica" Flavio Giuseppe racconta lo svolgersi della rivolta contro i Romani scoppiata nel 66 e repressa nel 70 (ma alcuni focolai di resistenza durarono ancora per i due-tre anni successivi) dalle legioni comandate da Vespasiano e da suo figlio Tito. Flavio Giuseppe sostenne che la rivolta era opera di una piccola banda di zeloti e non, come generalmente si riteneva, una insurrezione popolare. Tuttavia, a causa della presunta volontà di attirarsi i favori dei Romani scrivendo testi ad essi favorevoli, oggi gli Ebrei non riconoscono validità storica ai suoi scritti (che tendevano anche a celare le sue responsabilità nell'insuccesso militare). Emerge dai suoi scritti anche una evidente ammirazione per l'Impero romano, il nemico che aveva sconfitto il suo popolo: « Un popolo [quello dei Romani] che valuta le situazioni prima di passare all'azione e che, dopo aver deciso, dispone di un esercito tanto efficiente: non meraviglia se i confini del suo impero sono individuati, ad Oriente dall'Eufrate, dall'oceano ad occidente, a settentrione dal Danubio e dal Reno? Senza compiere esagerazioni, potremmo dire che le loro conquiste sono inferiori ai conquistatori. » (Giuseppe Flavio, Guerra giudaica, III, 5.7.107.). Descrisse anche gli ultimi giorni della fortezza ebraica di Masada, dove la maggior parte di coloro che la stavano difendendo si suicidò.
Opere minori - Nei due libri "Contro Apione", un grammatico alessandrino che aveva scritto contro gli ebrei, riprese i motivi tradizionali dell'apologetica giudaica sull'antichità e sulla superiorità degli ebrei rispetto ai greci. Giuseppe scrisse anche un'"Autobiografia", nella quale difendeva la sua reputazione nei confronti dei correligionari ebrei, che lo consideravano un traditore. Coerente con le "Antichità Giudaiche": « Quando Erode ebbe il regno dai Romani fu abbandonata la prassi di nominare sommi sacerdoti della linea degli Asmonei e, con la sola eccezione di Aristobulo, vennero nominate persone insignificanti che erano semplicemente di discendenza sacerdotale » (Antichità Giudaiche, Libro XX, 247) in cui mostra la sua opinione per le famiglie sacerdotali diverse da quella Asmonea-Maccabea. Nell'Autobiografia afferma la discendenza sia da parte di madre che di padre, enfatizzando che questa risale alla prima delle 24 famiglie sacerdotali (Ioarib). « Da noi l’eccellenza della stirpe trova conferma nell’appartenenza all’ordine sacerdotale. La mia famiglia non solo discende da sacerdoti, ma addirittura dalla prima delle ventiquattro classi che già di per sé è un segno di distinzione, e, all’interno di questa, dalla più illustre delle tribù. Inoltre, da parte di madre, sono imparentato con la famiglia reale, giacché i discendenti di Asmoneo (i Maccabei), dei quali lei è nipote, detennero per lungo tempo il sommo sacerdozio e il regno del nostro popolo. Questa è la mia genealogia, e la esporrò. Nostro bisavolo fu Simone il Balbuziente, visse al tempo di colui che per primo tra i sommi sacerdoti ebbe nome Ircano (134 a.C.). Simone il Balbuziente ebbe nove figli, dei quali uno, Mattia, chiamato figlio d'Efeo, prese in moglie una figlia del Sommo Sacerdote Gionata, il primo fra gli Asmonei a rivestire il sommo sacerdozio e fratello del Sommo Sacerdote Simone. Durante il primo anno del regno di Ircano, a Mattia, figlio d'Efeo, nacque un figlio: Mattia detto il Gobbo. Da costui, nel nono anno del regno di Alessandra, nacque Giuseppe, e da Giuseppe nacque Mattia, nel decimo anno del regno di Archelao (6 d.C., anno del censimento di Quirinio), infine, da Mattia nacqui io, il primo anno del regno di Gaio Cesare (37 d.C.) » (Bios 1,1-5). Il brano non fornisce informazioni per ricostruire la discendenza da parte di madre, dagli Asmonei. I due libri dei Maccabei ricostruiscono la genealogia dei sommi sacerdoti del periodo asmonìta, ma non fanno menzione di mogli ed eventuali figlie (con il consueto patronimico "bar" = "figlio di"). Ciò accade sia per Gionata Maccabeo, che per i fratelli Giuda e Simone. Perciò, non vi sono elementi per verificare nel testo biblico se una figlia del sommo sacerdote Gionata fosse stata sposata a un antenato di Flavio Giuseppe.
Controversie sulla figura di Giuseppe - Alcuni studiosi alternativi hanno avanzato l'ipotesi che il personaggio di Giuseppe di Arimatea, pur collocato in uno scenario storico diverso, sia basato in parte su Flavio Giuseppe. Basano l'ipotesi sul fatto che Giuseppe di Arimatea nel vangelo apocrifo di Barnaba è chiamato "Giuseppe di Barimatea", che sarebbe una storpiatura di Joseph bar Matthias, il nome aramaico di Giuseppe Flavio, oltre che sulla contestata identificazione - ritenuta da essi errata - di Arimatea con Ramla. Questa ipotesi è basata anche sulla somiglianza tra alcuni brani dei Vangeli e un passo dell'Autobiografia di Giuseppe Flavio, che allude a un uomo crocifisso "sopravvissuto": « C'era un uomo, di nome Giuseppe, che era membro del Consiglio, uomo giusto e buono, il quale non aveva acconsentito alla deliberazione e all'operato degli altri. Egli era di Arimatea, città della Giudea, e aspettava il regno di Dio. Si presentò a Pilato e chiese il corpo di Gesù. E, trattolo giù dalla croce, lo avvolse in un lenzuolo e lo mise in una tomba scavata nella roccia, dove nessuno era ancora stato deposto. » (Vangelo di Luca, 23,50-53). « In seguito, inviato dal Cesare Tito, con Cereale e mille cavalieri, a un villaggio chiamato Tekoa, per verificare se il luogo era adatto ad accogliere un campo trincerato, poiché ripartendone vidi molti prigionieri crocifissi e ne riconobbi tre che erano stati miei amici, ne ebbi il cuore straziato e mi recai piangendo a dirlo a Tito. Egli ordinò immediatamente che fossero tirati giù e che ricevessero le cure più attente. Due, nonostante le cure, morirono, ma il terzo sopravvisse. »
Per "Il Sangraal o sangue reale, Maria Maddalena moglie di Gesù e loro figlia, Sara la Nera" clicca QUI
Per "Gesù Cristo nel suo contesto storico" clicca QUI
Per "L'apporto di Esseni, Zeloti (o Sicari) e Gnostici alla nascita del Cristianesimo" clicca QUI
Per "Il fiume sotterraneo che collega Beniaminiti, Arcadi, Spartani e i sovrani Merovingi" clicca QUI
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Per "Da Canaan, Israele, Giudea fino alle guerre giudaico-romane, poi Palestina" clicca QUI

Plutarco
27. Plutarco (in greco antico Πλούταρχος, Plùtarchos; Cheronea, 46 /48 - Delfi, 125/127) è stato un biografo, scrittore e filosofo greco antico, vissuto sotto l'Impero Romano, di cui ebbe anche la cittadinanza e dove ricoprì incarichi amministrativi. Studiò ad Atene e fu fortemente influenzato dalla filosofia di Platone. La sua opera più famosa sono le "Vite parallele", biografie dei più famosi personaggi dell'antichità. Durante l'ultima parte della sua vita fu sacerdote al Santuario di Delfi. La maggior parte delle notizie sulla vita di Plutarco, meno qualche informazione tratta dal lessico Suda, deriva da riferimenti autobiografici presenti nelle sue opere (la Suda o Suida è un lessico e un'enciclopedia storica del X secolo scritta in greco bizantino riguardante l'antico mondo mediterraneo).  
Carta dell'antica Grecia con
evidenziata Cheronea.
Plutarco nacque attorno al 46 d.C. a Cheronea in Beozia, si suppone da una famiglia ricca. Il padre, secondo alcuni, è identificabile con uno degli interlocutori del "De sollertia animalium", un trattato nelle "Moralia" di Plutarco stesso, un certo Autobulo, secondo altri con un tale Nicarco; tuttavia il filologo Wilamowitz, e con lui la maggior parte degli studiosi, ritengono che ogni ipotesi sia completamente indimostrabile. Si suppone comunque che non avesse un buon rapporto con il figlio, il quale però più volte ne cita i consigli, e che non fosse molto colto. Plutarco ricordava con stima invece il fratello, un certo Lampria, e il bisnonno Nicarco. Nel 60 d.C. si stabilì ad Atene dove conobbe e frequentò il filosofo platonico Ammonio, di cui divenne il più brillante discepolo. Studiò retorica, matematica e la filosofia platonica. Nel 66 d.C. conobbe Nerone, verso il quale fu sostanzialmente benevolo, probabilmente poiché l'imperatore aveva esentato la Grecia dai tributi. Nello stesso periodo, si pensa abbia acquisito la cittadinanza ateniese e che sia entrato a far parte della tribù Leontide. Visitò poi Sparta, Tespie, Tanagra, Patrie e Delfi. Tornato ad Atene, fu nominato arconte eponimo, sovrintendente all'edilizia e ambasciatore presso Acaia. Istituì inoltre nella sua casa una specie di Accademia impostata sul modello ateniese. Plutarco visitò poi l'Asia, tenne conferenze a Sardi e ad Efeso, fece frequenti viaggi in Italia e soggiornò anche a Roma, presso la corte imperiale. Eduard von Hartmann ritiene che visse a Roma tra il 72 e il 92. Certo è che non imparò mai bene il latino e che conobbe l'imperatore Vespasiano, come racconta nel "De solertia animalium". Tenne a Roma molte lezioni ed ebbe il sostegno delle autorità in quanto divenne presto un convinto sostenitore della politica estera romana. Durante questo soggiorno, gli venne concessa la cittadinanza romana e assunse quindi il nomen di Mestrio, in onore del suo amico Mestrio Floro. Successivamente, ebbe da Traiano la dignità consolare. A Roma conobbe il filosofo e retore Favorino di Arles. Terminata l'esperienza romana, tornò a Cheronea, dove fu arconte eponimo, sovrintendente all'edilizia pubblica e telearco. Intorno al 90 d.C. fu eletto sacerdote nel santuario di Apollo a Delfi e nel 117 d.C. l'imperatore Adriano gli conferì la carica di procuratore. Eusebio racconta che morì forse nel 119, ma molti oggi indicano date che vanno oltre il 120-125. Nel 70 sposò Timossena, una donna di Cheronea colta e di buona famiglia, il cui nome è stato ricavato da una nota occasionale di Plutarco stesso nella quale sostenne di aver chiamato la figlia come la madre. Da lei ebbe cinque figli, che sostenne di aver allevato personalmente: Soclaro e Cherone (che morirono in tenera età), Autobulo, Plutarco e Timossena, l'unica femmina (anche lei morta giovanissima, a due anni: si legga la lettera che Plutarco indirizzò alla moglie, per consolarla della perdita, contenuta nei "Moralia"). Si dice che Timossena fosse una donna forte e di grande virtù, molto legata al marito (lo affiancò, per esempio, nelle pratiche liturgiche che il suo ruolo di sacerdote del tempio di Delfi gli imponeva). Pare che abbia scritto un breve trattato sull'amore per il lusso, indirizzandolo all'amica Aristilla. A differenza del suo contemporaneo Svetonio, che propone un'esposizione dei fatti più documentaria che appassionata e appare distaccato, astenendosi da giudizi personali, Plutarco partecipa emotivamente al racconto che scrive
Contro la superstizione - Nel trattato "Sulla superstizione", Plutarco scrive che essa produce un timore distruttivo perché consiste nel credere che Dio esista, ma che sia ostile e dannoso. La superstizione è una malattia piena di errori e di suggestioni, per evitare la quale non bisogna però fare come coloro che, correndo alla cieca, rischiano di cadere in un precipizio. È così infatti che alcuni, per emanciparsi dalla superstizione, si volgono ad un ateismo rigido e ostinato, varcando d'un balzo la vera religiosità, che sta nel mezzo.
Contro il mangiar carne - Plutarco scrisse numerose pagine contro l'uso del mangiar carne e contro le crudeltà sugli animali. Nel dialogo "Sull'intelligenza degli animali" afferma che essi, essendo esseri animati, sono dotati di sensibilità e di intelligenza come gli umani. Nel trattato "Del mangiar carne" critica aspramente e con un linguaggio crudo quella che considera l'efferatezza di chi imbastisce banchetti con animali morti e fatti a pezzi (a quest'opera è ispirata la canzone Sarcofagia di Franco Battiato, contenuta nell'album Ferro Battuto).
Opere - Plutarco di Cheronea fu uno degli scrittori più prolifici di tutta la Grecia antica. Le sue opere vengono, per convenzione secolare, divise in due grandi blocchi:
- "Vite Parallele" (Βίοι Παράλληλοι)
- "Moralia" (Ἠθικά)
Vite Parallele - Le Vite parallele sono dedicate a Quinto Sosio Senecione, amico e confidente di Plutarco, al quale lo scrittore dedica anche altre opere e trattati. Costituite da 23 coppie (una è andata perduta), alla biografia di un personaggio greco viene accostata, generalmente, quella di un romano, ad esempio Alessandro Magno e Giulio Cesare. Plutarco in Vite Parallele, precisa di non voler essere uno storico ma un biografo e che non cerca di stilare un elenco di episodi a cui un personaggio storico ha partecipato ma è interessato invece a svelare comportamenti che rivelino la forma mentis del soggetto stesso.
Quasi tutte le biografie si chiudono con delle syncrìseis, o confronti, che tendono a trovare similitudini o divergenze. Alle coppie suddette si devono aggiungere 4 Vite singole, tramandateci dai manoscritti congiuntamente alle altre. Epaminonda e Scipione l'Africano è la coppia andata perduta; le 22 coppie pervenuteci sono: Teseo e Romolo, Licurgo e Numa, Temistocle e Camillo, Solone e Publicola, Pericle e Fabio Massimo, Alcibiade e Marco Coriolano, Focione e Catone l'Uticense, Agide e Cleomene - Tiberio e Gaio Gracco, Timoleonte e Paolo Emilio, Eumene e Sertorio, Aristide e Catone Censore, Pelopida e Marcello, Lisandro e Silla, Pirro e Mario, Filopemene e Tito Flaminino, Nicia e Crasso, Cimone e Lucullo, Dione e Bruto, Agesilao e Pompeo, Alessandro e Cesare, Demostene e Cicerone, Demetrio e Antonio.
Vite singole: Arato e Artaserse, Galba, Otone.
Vite singole perdute: Vita di Augusto, Tiberio, Scipione Africano, Claudio, Vita di Nerone, Gaio Cesare, Vita di Eracle, Vita di Esiodo, Vita di Pindaro, Vita di Cratete, Daifanto, Aristomene, Arato.
Moralia - Gruppo più numeroso ed eterogeneo, si tratta di una serie di trattati, di diversa impostazione letteraria, in cui l'autore spazia dalla filosofia alla storia, dalla religione alle scienze naturali, dall'arte alla critica letteraria. L'ordinamento complessivo delle opere fu fatto dal monaco Massimo Planude verso il 1302 e visto che i primi quindici scritti trattano di argomenti etico-filosofici, diede alla raccolta il nome "Moralia", "Opere morali", i cui titoli vengono generalmente indicati in latino:
De animae procreatione in Timaeo - Sulla procreazione dell'anima nel Timeo
De genio Socratis - Sul demone di Socrate
De virtute morali - Sulla virtù morale
De facie quae in orbe lunae apparet - Sul volto della luna
An seni res publica gerenda sit - Se un anziano possa fare politica
De Stoicorum repugnantiis - Sulle contraddizioni degli Stoici
De communibus notitiis adversus Stoicos - I principi comuni contro gli Stoici
Stoicos absurdiora poëtis dicere - Gli stoici dicono cose più assurde dei poeti
Adversus Colotem - Contro Colote
Non posse suaviter vivi secundum Epicurum - Non si può vivere felici secondo Epicuro
De virtute morali - Sulla virtù morale
Quomodo quis suos in virtute sentiat profectus - In che modo qualcuno avverta i suoi progressi nella virtù
De defectu oraculorum - Sul tramonto degli oracoli
Quomodo adulator ab amico internoscatur - Come distinguere l'adulatore dall'amico
De primo frigido - Sul freddo primario
De sera numinis vindicta - Sui ritardi della punizione divina
De garrulitate - Sulla loquacità
De tuenda sanitate praecepta - Precetti igienici
De tranquillitate animi - Sulla serenità dell'anima
De vitioso pudore - Sulla vergogna
De curiositate - Sulla curiosità
De fraterno amore - Sull'amore fraterno
De exilio - Sull'esilio
De recta ratione audiendi - L'arte di ascoltare
Quomodo adolescens poetas audire debeat - Come il fanciullo debba ascoltare i poeti
Praecepta gerendae rei publicae - Precetti politici
Amatorius - Amatorio
Regum et imperatorum apophthegmata - Detti di re e imperatori
Septem sapientium convivium - Simposio dei sette sapienti
Consolatio ad uxorem - Consolazione alla moglie
Coniugalia praecepta - Precetti coniugali
De Pythiae oraculis - Sugli oracoli della Pizia
De E apud Delphos - Sulla E a Delfi
De Iside et Osiride - Su Iside e Osiride
De comparatione Aristophanis et Menandri - Comparazione tra Aristofane e Menandro
De Herodoti malignitate - Sulla malignità di Erodoto
Mulierum virtutes - Le virtù delle donne
Bruta animalia ratione uti - Gli animali usano la ragione
Parallela minora - Paralleli minori
De capienda ex inimicis utilitate - Come ricavare vantaggio dai nemici
Platonicae quaestiones - Questioni platoniche
Aetia Romana - Cause Romane
De sollertia animalium - Sull'intelligenza degli animali
De superstitione - Sulla superstizione
Aetia Graeca - Cause Greche
Apophthegmata Laconica - Apoftegmi spartani
De fortuna Romanorum - Sulla fortuna dei Romani
De Alexandri Magni fortuna (I) - Sulla fortuna di Alessandro Magno
An virtus doceri possit - Se la virtù si possa insegnare
De Alexandri Magni fortuna (II) - Sulla fortuna di Alessandro Magno
De gloria Atheniensium - Sulla gloria degli Ateniesi
Aquane an ignis sit utilior - Se sia più utile l'acqua o il fuoco
Animine an corporis affectiones sint peiores - Se siano prioritarie le passioni dell'anima o del corpo
De cupiditate divitiarum - Sull'amore delle ricchezze
De vitando aere alieno - Sul rigettare la pratica dell'usura
Aetia physica - Cause fisiche
Amatoriae narrationes - Narrazioni amorose
Opere note solo per tradizione indiretta - Se sia utile la previsione degli avvenimenti futuri, Commento alle Opere e i Giorni di Esiodo, Sopra il piacere, Sopra la forza, Sulla ricchezza, Anche la donna può ricevere un'educazione, Sull'amore, Sulla tranquillità, Sulla bellezza, Sulla mantica, Tappeti, Sulla natura e gli impulsi, Epistola sull'amicizia, Sull'inganno.
Tradizione delle opere di Plutarco - Le opere di Plutarco hanno influenzato famosi scrittori e autori teatrali, come Shakespeare, che nel suo "Giulio Cesare" riproduce fedelmente il testo plutarcheo dell'addio di Bruto agli amici, o nell'Alfieri che dalle opere del filosofo trasse le numerose notizie storiche per rivivere le vite di grandi personaggi ed eventi dell'antichità. Per Jean-Jeaques Rousseau, le opere di Plutarco erano le letture preferite. Plutarco fu per Michel de Montaigne un'inesauribile fonte di ispirazione per i suoi famosi "Essais", nei quali vengono citate testualmente e commentate molto frequentemente le testimonianze riportate dal filosofo greco. Inserite in questo celebre quadro di indagine filosofica della condizione umana, compiuto dallo scrittore francese nel XVI secolo, le citazioni del Plutarco risaltano ancor più per quel carattere veridico, enciclopedico e velatamente scettico verso la conoscenza dello scibile che la tradizione gli ha sempre riservato.

Publio Cornelio Tacito, da:
28. Publio (o Gaio) Cornelio Tacito (in latino Publius o Gaius Cornelius Tacitus; Gallia Narbonese 56 - 120) è stato uno storico, oratore e senatore romano. È uno degli storici più importanti dell'antichità. Le sue opere maggiori, gli "Annales" e le "Historiae", illustrano la storia dell'Impero romano del I secolo, dalla morte dell'imperatore Augusto, avvenuta nel 14, fino alla guerra giudaica dell'imperatore Tito (anno 70). Le poche informazioni sulla vita e sull'ambiente in cui visse Tacito sono offerte, principalmente, dagli indizi sparsi nel corpus delle sue opere, dalle lettere del suo amico e ammiratore Plinio il Giovane, da un'iscrizione trovata a Mylasa, in Caria (nell'attuale Turchia) e da altre deduzioni di storici; comunque molti particolari della sua vita restano sconosciuti.
Il prenome - Anche il suo stesso prenome è tuttora incerto: in alcune lettere di Sidonio Apollinare ed in alcuni vecchi scritti di poca rilevanza letteraria lo storico è nominato con Gaius, ma nel manoscritto principale della tradizione, con Publius. Questi finora sono riconosciuti come i due praenomina più avvalorati. L'insufficienza di informazioni ci impedisce, allo stesso modo, di individuare inequivocabilmente l'anno e il luogo di nascita dello scrittore. Si suppone che Tacito sia nato tra il 56 e il 58 d.C. nella Gallia Narbonense. Il luogo d'origine è deducibile anche dalla simpatia occasionale per i barbari che fecero resistenza contro la lex romana (come nell'episodio degli Annales II, 9), nonostante la possibile origine spagnola del Fabius Iustus al quale Tacito dedica il "Dialogus" suggerisca un legame con la Spagna e la sua amicizia con Plinio indichi l'Italia del Nord come terra natale. Allo stesso modo, una testimonianza contraria all'ipotesi della Gallia Narbonense come luogo di nascita è una tradizione tarda che, rifacendosi ad un passo dell'"Historia Augusta" relativo alla vita dell'imperatore romano Marco Claudio Tacito (275 - 276), attribuisce i natali dello storico alla città di Terni.
Ascendenza familiare - Si ritiene rintracciabile una discendenza nobile, da un ramo sconosciuto della gens romana patrizia Cornelia, ma non v'è alcun documento storico che attesti l'esistenza di un Cornelius chiamato Tacito. Tacito stesso dichiarò che molti senatori e cavalieri discendevano da liberti, ma l'ipotesi che egli discendesse da un liberto non ha trovato nessun supporto. Suo padre si ritiene possa essere il Cornelio Tacito procuratore della Gallia Belgica e della Germania. Un figlio di questo Cornelio Tacito è citato, tuttavia, da Plinio il vecchio come esempio di sviluppo e di invecchiamento anormalmente veloci, che gli provocò una morte prematura. Ciò impedirebbe di identificare questi col nostro Tacito, bensì con un possibile, ma non altrimenti attestato, fratello.
La posizione sociale - Il forte legame d'amicizia tra Plinio il giovane e Tacito ha fatto supporre agli storici un'uguale estrazione sociale dei due: ceto equestre, ricchezza significativa e provenienza provinciale. L'ipotesi, largamente accettata, per la quale lo scrittore latino sarebbe nato da una famiglia di rango equestre o senatorio può essere comprovata anche dal disprezzo per gli arrampicatori sociali su cui insiste Tacito. Si suppone inoltre che la posizione sociale di rilievo di Tacito sia stata ottenuta grazie alla benevolenza degli imperatori Flavii, poiché con la conclusione dell'età repubblicana, l'impostazione gentilizia della società s'era ormai dissolta e, con questa, anche i privilegi riservati alle gentes più influenti in Roma.
Vita pubblica, matrimonio e carriera letteraria - Da giovane studiò retorica a Roma, come preparazione alla carriera nella magistratura e nella politica e, come Plinio, potrebbe aver studiato sotto Quintiliano. Nel 77 o nel 78 sposò Giulia Agricola, figlia tredicenne del generale Gneo Giulio Agricola, il quale era al comando di una legione operante in Bitinia, a cui Tacito partecipò sotto l'incarico di tribuno militare, incarico concessogli da Vespasiano attorno il 77; nulla si sa della loro unione o della loro vita domestica, a parte il fatto che Tacito amava cacciare. Vespasiano diede grande impulso all'inizio della sua carriera, come racconta nelle "Historiae" (1, 1), ma fu sotto Tito che entrò realmente nella vita politica con la carica di quaestor, nell'anno 81 o 82. Proseguì costantemente nel suo cursus honorum, divenendo praetor nell'88 e facendo parte dei quindecemviri sacris faciundis, un collegio sacerdotale che custodiva i "Libri Sibillini" e i "Giochi Secolari". Si distinse come avvocato e oratore, a dispetto del fatto che il cognomen Tacitus abbia, in latino, il significato di "taciturno"; ricoprì funzioni pubbliche nelle province, all'incirca dall'89 al 93, forse a capo di una legione o forse in ambito civile, come si può intuire dal fatto che non fu presente alla morte del suocero, Agricola. Sopravvisse con le sue proprietà al regno del terrore di Domiziano (93-96), ma l'esperienza lasciò in lui cupa amarezza, forse per la vergogna della propria complicità, che contribuì allo sviluppo di quell'odio verso la tirannia così evidente nelle sue opere. I paragrafi 44 - 45 dell'"Agricola" sono paradigmatici: « [Agricola] scampò a quest'ultimo periodo in cui Domiziano, non più a intervalli o attimi di respiro, ma di continuo e come d'un sol colpo annientò lo stato. [...] Subito dopo le nostre stesse mani mandarono in carcere Elvidio; ci ha fatto arrossire di vergogna la vista di Maurico e di Rustico, ci ha bagnato con il suo innocente sangue Senecione. Nerone almeno distolse lo sguardo dai suoi delitti: li ordinò, ma non rimase a godersi lo spettacolo. Sotto Domiziano, invece, la parte peggiore delle nostre miserie era vedere ed essere visti... » (Publio Cornelio Tacito, "De vita et moribus Iulii Agricolae" (Agricola), XLIV - XLV)
Divenne consul suffectus nel 97, durante il principato di Nerva, diventando il primo della sua famiglia a ricoprire tale carica. Durante tale periodo raggiunse i vertici della sua fama di oratore nel pronunciare il discorso funebre per il famoso soldato Virginio Rufo. Durante l'anno seguente scrisse e pubblicò sia l'"Agricola" sia la "Germania", primi esempi dell'attività letteraria che lo occuperà fino alla sua morte. In seguito sparì dalla scena pubblica, a cui tornò durante il regno di Traiano. Nel 100, con il suo amico Plinio il giovane, perseguì Mario Prisco (governatore dell'Africa) per corruzione. Prisco fu riconosciuto colpevole e fu esiliato; Plinio scrisse alcuni giorni dopo che Tacito aveva parlato "con tutta la maestosità che caratterizza il suo usuale stile oratorio". Seguì una lunga assenza dalla politica e dalla magistratura. Nel frattempo scrisse le sue due opere più importanti: le "Historiae" e, quindi, gli "Annales". Ricoprì la più alta carica di governatorato, quello della provincia romana dell'Asia in Anatolia occidentale, nel 112 o nel 113, come provato dall'iscrizione trovata a Milasa. Un passaggio negli annali indica il 116 come il terminus post quem della sua morte, che può essere posto più tardi nel 125 e non sono pochi gli storici che pongono la data della morte durante il regno di Adriano. Non si sa se abbia avuto figli.
Opere letterarie - Cinque sono le opere attribuite a Tacito che sono sopravvissute, almeno in una parte sostanziale di esse. Le date sono approssimative e le ultime due (le sue opere "maggiori"), hanno comunque richiesto alcuni anni per essere completate:
- Nel 98: "De vita et moribus Iulii Agricolae" ("La vita e i costumi di Giulio Agricola") e "De origine et situ Germanorum" ("L'origine e la posizione dei Germanici")
- Nel 102: "Dialogus de oratoribus" ("Dialogo sull'oratoria")
- Nel 105: "Historiae" ("Le storie")
- Nel 115: "Annales" o "Ab excessu divi Augusti" ("Annali")
Le due opere principali, originariamente pubblicate separatamente, sono state indicate come parti integranti di una singola opera in trenta libri (le "Historiae" composte entro il 110 e gli "Annales" composti successivamente, nonostante raccontino un tratto della storia cronologicamente più antica delle Historiae). Esse offrono una narrazione della storia di Roma dalla morte di Augusto (14 d.C.) alla morte di Domiziano. Benché alcune parti siano andate perdute, essa è una delle maggiori opere storiche dell'antichità. Nel terzo capitolo dell'Agricola (una delle opere minori pubblicate precedentemente), Tacito aveva dichiarato il suo desiderio di comporre una "memoria della precedente servitù" (ossia il regno di Domiziano) e una "testimonianza dei beni presenti" (il regno di Nerva e di Traiano); nelle Historiae il progetto è però differente: nell'introduzione, Tacito rimanda la sua opera su Nerva e Traiano e decide di occuparsi prima del periodo compreso tra le guerre civili del 68-69 d.C. e il regno dei Flavii. Del testo originale sono rimasti conservati soltanto i primi quattro libri, insieme a ventisei capitoli del quinto libro, concernenti gli anni 69 (inizio del regno di Galba) e la prima parte del 70 (rivolta giudaica). Secondo le ricostruzioni, il lavoro avrebbe dovuto proseguire fino alla morte di Domiziano, avvenuta il 18 settembre 96. Il quinto libro contiene, come preludio alla narrazione della repressione della rivolta ebrea durante il principato di Tito, un excursus etnografico sugli ebrei, importante testimonianza dell'atteggiamento dei Romani verso quel popolo. Tacito coglie nell'anno 69 un nodo fondamentale nella storia dell'impero: quello della successione alla dinastia giulio-claudia, con il seguito di guerre civili e intrighi politici, il succedersi rapido dei tre imperatori Servio Sulpicio Galba, Otone, Vitellio e, infine, l'insediamento della dinastia flavia con Vespasiano. Galba prende atto, nel suo celebre discorso per la scelta del successore, dell'impossibilità di fare ritorno alla repubblica, afferma la necessità del principato e presenta il principio dell'adozione come scelta del migliore: argomenti che dovevano essere tornati d'attualità nel 97, quando Nerva, con l'adozione di Traiano, aveva trovato un rimedio alla sua debolezza scongiurando una nuova guerra civile. Nella designazione di Pisone come successore di Galba, così come quella di Traiano successore di Nerva, solo apparentemente la scelta del principe dipendeva dal senato: il potere supremo era di fatto succube della volontà degli eserciti, di fronte al quale il rispetto del mos maiorum professato da Galba risultava incapace di controllare gli avvenimenti. Tacito prova simpatia per questo vecchio senatore capax imperii nisi imperasset ("capace di governare, se non avesse governato", I 49) travolto da milizie strapotenti e da una plebe che assisteva alla guerra civile come a uno spettacolo, di fronte a un contesto di violenza generalizzata che fa dettare allo storico cupi quadri di ingiustizia e ritratti di personaggi introspettivamente indagati nei loro momenti meno generosi. L'attenzione allo scandaglio psicologico trova riscontro nello stile franto e sallustianamente disarticolato, ma capace di profonda suggestione artistica.
Gli "Annales" - Gli "Annales" furono l'ultima opera storiografica di Tacito, e per sua esplicita ammissione gli "Annales" seguono cronologicamente la composizione delle "Historiae" e risalgono con verosomiglianza agli anni seguenti il suo proconsolato d'Asia (nel 112-113). L'opera copre il periodo che va dalla morte di Augusto (il funerale dell'imperatore è il brano di apertura degli "Annales" e chiarisce subito il ruolo dell'autore nell'opera) avvenuta nel 14, fino a quella dell'imperatore Nerone, nel 68. L'opera era composta di almeno sedici libri, ed è possibile diciotto, ma ci sono pervenuti soltanto i primi quattro, l'inizio del quinto e il sesto privo dei capitoli iniziali (questo primo nucleo comprende gli avvenimenti dalla morte di Augusto a quella di Tiberio nel 37 d.C.), oltre ai libri XI-XVI con alcune lacune nella prima parte dell'XI e nella seconda parte del sedicesimo libro (regni di Claudio e Nerone), che avrebbe dovuto terminare con l'intero resoconto degli eventi dell'anno 66, mentre si interrompe al suicidio di Trasea Peto. Si presume che i libri dal settimo al dodicesimo parlassero dei regni di Caligola e Claudio. I restanti libri dovrebbero trattare del regno di Nerone, forse fino alla sua morte nel giugno del 68. Non è noto se Tacito abbia completato l'opera o se si sia dedicato alle opere che aveva pianificato di fare: le biografie di Nerva e Traiano. Non esistono prove che il lavoro su Augusto e sui primi anni dell'Impero (con cui Tacito intendeva concludere il suo lavoro da storiografo) sia stato effettivamente espletato. In confronto alle "Historiae", che riferiscono i movimenti di eserciti e masse, gli "Annales" si focalizzano sui meccanismi dell'Impero e sulla sua corruzione: i protagonisti sono dunque i singoli imperatori, opposti al senato, erede della libertas repubblicana, ormai solo mero nome senza peso politico. Interessante notare come le figure dei principi siano indagate con introspezione psicologica: Tiberio è descritto come un esempio di falsità e dissimulazione nel presentare il proprio potere come rassicurante continuazione della legalità repubblicana; Claudio invece appare come un inetto privo di volontà, monovrato dai liberti e dalle donne di corte, mentre Nerone è il tiranno privo di scrupoli, la cui follia sanguinaria non risparmia né la madre Agrippina né il suo antico consigliere Seneca. Nonostante ciò, Tacito rimane convinto della necessità storica del principato, ma coglie l'ambiguità sulla quale è stato fondato da Augusto, che svuotando le magistrature repubblicane da ogni potere ha lasciato terreno fertile per la corruzione, l'intrigo e la decadenza morale; complice di una politica di degrado, dove l'avidità di potere regna sovrana, è anche il senato, diviso fra succube servilismo e sterili atteggiamenti di opposizione. Concordemente all'incupirsi della visione storica di Tacito, lo stile degli "Annales" accentua le disarmonie, riflettendo l'ambiguità degli avvenimenti e un moralismo sempre più pessimistico in un periodo nervoso e spezzato.
Opere minori - Tacito inoltre scrisse tre opere secondarie su vari soggetti: l'"Agricola", una biografia del suocero Gneo Giulio Agricola; la "Germania", una monografia sulle terre e le tribù di barbari della Germania; il "Dialogus", un dialogo sull'arte dell'oratoria.
De Origine et situ Germanorum - La "Germania" (De origine et situ Germanorum) è un'opera etnografica su diversi aspetti delle tribù germaniche residenti al di là dell'Impero Romano. La "Germania" si inserisce perfettamente all'interno della tradizione etnografica che va da Erodoto a Cesare. Ciò non toglie che quest'opera si riveli anche come una creazione originale nell'ambito dei generi tradizionali delle letterature classiche, comprendendo anche parti storiche ma soprattutto "ideologiche", quasi "da pamphlet": intenzione neanche troppo nascosta dell'autore, infatti, è descrivere i puri e incorrotti costumi dei Germani per criticare indirettamente i corrotti e degenerati costumi romani. Non solo: anche per istituire una sorta di parallelo tra quello che erano i Germani allora (un popolo rude e semplice e per ciò stesso valoroso in guerra) con quello che i Romani erano stati e ora non erano più, sempre a causa della loro decadenza morale. Tacito sostiene che i veri barbari siano i romani poiché i barbari rispetto ai romani avevano un forte senso religioso e amavano la libertà, quest'ultima era quasi negata in questo periodo. Questo porta Tacito a "profetizzare" un futuro scontro tra i Germani e Roma in cui i popoli del Nord Europa potrebbero anche risultare vincitori ("urgentibus imperii fatis"). L'opera inizia con una descrizione delle terre, delle leggi e dei costumi dei germani (capitoli 1-27); continua quindi con le descrizioni delle singole tribù, iniziando da quelle più vicine ai territori romani e terminando con quelle ai più estremi confini sul mar Baltico, con una descrizione dei primitivi e selvaggi Fenni e di sconosciute tribù al di là di essi.
De vita et moribus Iulii Agricolae - L'"Agricola" (scritto circa nel 98) è una monografia dedicata alla vita di Gneo Giulio Agricola, suocero di Tacito, uomo politico ed eminente generale romano, noto per aver conquistato la Britannia. Corpo dell'opera è dunque costituito dalle imprese di Agricola in Britannia (capp.18-38), incorniciato da due parti simmetriche, rispettivamente il racconto della gioventù (capp. 4-9) e degli ultimi anni del protagonista (capp.39-46). È la prima opera scritta da Tacito, con la quale l'autore rompe il suo silenzio in seguito alla morte di Domiziano (che aveva mantenuto una politica di repressione del dissenso intellettuale); la biografia di Agricola anticipa dunque molti dei temi tipici della successiva produzione tacitiana: la questione della legittimità del principato (che Traiano vede come istituzione portatrice di pace) e della sua corruzione (dovuta al degrado delle virtù nell'epoca contemporanea), del silenzio fino ad allora tenuto da parte dell'autore, il problema dei confini dell'impero, le trattazioni etnografiche (anticipando alcuni dei caratteri della Germania, l'opera esamina anche la geografia e l'etnografia dell'antica Britannia), le digressioni di carattere storico (in cui già Tacito ricorre alla storiografia drammatica). L'identificazione del genere letterario di appartenenza dell'"Agricola" è forse il suo aspetto più dibattuto negli studi, dai quali emergono una varietà di posizioni che varrebbero da sé a dimostrare la natura composita dell'opera. Saggio storico ed etnografico, biografia elogiativa, encomio, laudatio funebris e consolatio scritta in ritardo (a causa dell'assenza di Tacito da Roma nel 93, all'epoca della morte del suocero), pamphlet politico, laudatio composta per lettura pubblica: queste sono alcune delle chiavi di lettura che sono state proposte. Sembrerebbe che l'"Agricola" sia in realtà un incrocio di vari generi: si può dire che l'intento base della laudatio funebris prenda spessore nella dimensione della biografia, allargandosi a comprendere spezzoni di storia contemporanea. Per Tacito storico dunque, l'Agricola costituisce un passaggio fondamentale della sua formazione. Infatti, quando fu composta l'Agricola, erano troppi gli interessi in campo perché l'opera potesse avere una chiave di lettura unitaria. Si ricordi infatti che era appena finito il quindicennio di silenzio coatto di Domiziano (81-96 d.C.), e Tacito avvertiva l'esigenza di lasciare una memoria storica che, benché si incardinasse sulla figura del suocero, lo coinvolgesse da vicino: molte delle esperienze vissute dal suocero durante la tirannide venivano infatti ritrovate da Tacito nelle sue stesse esperienze, permettondogli di riflettere nei suoi comportamenti. L'esempio di Agricola non riguarda quindi un astratto modello di virtù, ma coinvolge il modo di vivere e comportarsi in momenti di tirannide, definendo un esempio per le generazioni future. Degni di nota sono l'introduzione (nella quale l'autore lancia una dura invettiva contro l'abbandono delle virtù nella Roma imperiale) e il celebre passo del discorso pronunciato da Calgaco (capo dei Caledoni), mentre incita i suoi soldati prima della battaglia del monte Graupio (cap. XXX). Seguendo i canoni della storiografia drammatica antica, Tacito costruisce un discorso in cui mette in bocca a Calgaco una dura accusa verso l'avidità e l'imperialismo romano: « Predatori del mondo intero, i Romani, dopo aver devastato tutto, non avendo più terre da saccheggiare, vanno a frugare anche il mare; avidi se il nemico è ricco, smaniosi di dominio se è povero, tali da non essere saziati né dall'Oriente né dall'Occidente, gli unici che bramano con pari veemenza ricchezza e miseria. Distruggere, trucidare, rubare, questo, con falso nome, chiamano impero e là dove hanno fatto il deserto, lo hanno chiamato pace. » (Publio Cornelio Tacito, "La vita di Agricola", BUR, Milano, trad.: B. Ceva). Tanto famoso è questo brano da rendere proverbiale la locuzione: Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant (dove fanno il deserto e lo chiamano pace). In realtà però Tacito non era a priori contro l'espansione dei confini dell'impero (anzi, negli "Annales" rimprovera a Tiberio la politica di non espansione); piuttosto era critico verso l'atteggiamento di sfruttamento delle popolazioni conquistate. Calcago fu il capo del popolo dei Caledoni che, nell'83 o nell'84, si scontrarono al Monte Graupio, nella Scozia settentrionale, con le truppe romane del governatore della Britannia, Gneo Giulio Agricola. L'unica fonte storica che ci parla di lui è l'"Agricola" di Tacito, che lo descrive come "il più distinto per valore e nobiltà tra i diversi capi" e al quale mette in bocca un celebre discorso, ricco di pathos, del quale è rimasto proverbiale l'explicit (ubi solitudinem faciunt, pacem appellant): « Ogni volta che penso alle cause della guerra e alla situazione in cui ci troviamo, nutro la grande speranza che questo giorno e la vostra unione siano per tutta la Britannia l'inizio della libertà. Perché per voi tutti che siete qui e che non sapete cosa significhi la servitù, non esiste altra terra oltre questa e neppure il mare è sicuro, da quando su di noi incombe la flotta romana. Per questa ragione, nel combattere, scelta gloriosa dei forti, troverà sicurezza anche il codardo. I nostri compagni che si sono battuti prima di adesso con diversa fortuna contro i romani avevano in noi l'ultima speranza di aiuto, perché noi, i più rinomati di tutta la Britannia - perciò vi abitiamo proprio nel cuore, senza neanche vedere le coste dove risiede chi ha accettato la servitù - avevamo persino gli occhi non contaminati dalla schiavitù. Noi, che siamo al limite estremo del mondo e della libertà, siamo stati fino a oggi protetti dall'isolamento e dall'oscurità del nome. Ora, tuttavia, si aprono i confini ultimi della Britannia e l'ignoto è un fascino. Ma dopo di noi non ci sono più altre tribù, ma soltanto scogli e onde e un flagello ancora peggiore, i romani, contro la cui prepotenza non servono come difesa neppure la sottomissione e l'umiltà. Razziatori del mondo, adesso che la loro sete di universale saccheggio ha reso esausta la terra, vanno a cercare anche in mare: avidi se il nemico è ricco, arroganti se povero, gente che né l'oriente né l'occidente possono saziare. Loro bramano possedere con uguale smania ricchezze e miseria. Rubano, massacrano, rapinano e, con falso nome, lo chiamano impero. Fanno il deserto, e lo chiamano pace. » (Tacito, "Agricola", 30). Calcago non viene menzionato durante o dopo la battaglia del Graupio, e neppure tra gli ostaggi che Agricola si fa consegnare dopo la vittoria e non sappiamo quindi se fu ucciso nello scontro o se scampò alla morte. Comunque sia, egli scompare dalla scena della storia, altrettanto rapidamente di come vi era comparso.
Dialogus de oratoribus - La data di composizione del "Dialogus" è incerta, ma fu probabilmente scritto dopo l'"Agricola" e la "Germania" (dopo il 100 d.C.), ma alcuni ne datano la composizione tra il 75 e l'80 e la pubblicazione dopo la morte di Domiziano. Molte caratteristiche lo distinguono dagli altri scritti di Tacito, tanto che l'autenticità fu a lungo messa in discussione, nonostante esso, nella tradizione manoscritta, compaia sempre con l'Agricola e la Germania. Lo stile (oltre alla scelta del genere letterario) entra nella tradizione del dialogo ciceroniano, modello di riferimento per le opere che, come questa, trattavano di retorica; esso si presenta elaborato ma non prolisso, secondo il canone che esortava l'insegnamento di Quintiliano; esso manca delle incongruenze che sono tipiche delle maggiori opere storiche di Tacito. Potrebbe risalire alla giovinezza di Tacito; la dedica a Fabiu Iustus potrebbe così indicare soltanto la data di pubblicazione dell'opera e non della sua stesura. Lo scritto riferisce una discussione, che si immagina sia avvenuta nel 75 o 77, e a cui dice di aver assistito, fra quattro oratori dell'epoca, Curiazio Materno, Marco Apro, Vipstano Messalla e Giulio Secondo. All'inizio Marco Apro rimprovera a Curiazio Materno di accantonare l'eloquenza per dedicarsi alla poesia drammatica: se ne ricava una discussione in cui Materno sostiene il primato della poesia e Apro dell'eloquenza; segue un dibattito sulla decadenza dell'oratoria, che viene attribuito da Messalla all'educazione moderna e da Curiazio Materno alla fine della repubblica e di quella anarchia che offriva libero campo ai conflitti, non solo verbali. Tacito non esprime un parere diretto ma sembra identificarsi perlopiù con le opinioni espresse da Curiazio Materno, che indica nel regime liberticida e assolutista dell'età flaviana la causa principale della decadenza oratoria (pur non identificandosi completamente in esse: il riconoscimento della necessità del principato non esclude espressioni amaramente rassegnate e la sfiducia nel recupero della grande eloquenza repubblicana) contrariamente a quanto sosteneva Plinio il giovane, il quale individua la causa della decadenza dell'arte oratoria nella cattiva istruzione della scuola, a quanto sosteneva Quintiliano, che attribuiva a tale causa il degrado della società o a quanto sosteneva Petronio all'interno del Satyricon.
Le fonti - Complessivamente, Tacito fu uno storico scrupoloso, attento e preciso, ove il pragmatismo e l'obiettività erano per lui elementi di ricerca storica non meno che per gli storici moderni. Questi criteri coesistono però con altre tendenze (moralismo, punto di vista senatorio, storia intesa come spazio drammatico e pessimismo), che a volte si interpongono, facendo velo alla 'storicità formale', creando cioè l'impressione che lo storico si dimentichi per un istante della ricostruzione oggettiva degli eventi e insegua effetti diversi: retorici, narrativi o politici. Merito di Musti è, nel suo studio sul pensiero romano, l'aver distinto la storicità formale (di chi scrive storie continuate, formate sugli avvenimenti) dalla storicità reale, misurabile su due fattori inscindibili: 'la ricerca di notizie attendibili e/o documentate, e la loro proiezione su un piano più generale, che sia di valido fondamento per una ricostruzione e valutazione complessiva di una situazione o di un personaggio; insomma, il particolare sicuro e attendibile, da un lato, e il quadro generale, reso verosimile dalla giusta disposizione e ponderazione dei singoli dati, dall'altro'. In questo ambito si possono recuperare gli elementi di tipo psicologico, narrativo o di altro genere, nella storiografia, nella loro funzionalità e inquadrandoli nella delineazione di un complesso, che nell'Agricola è unitario e consapevole, non di meno che nelle Historiae e negli Annales. Infatti, sebbene paradossalmente fosse uno storico "politicamente impegnato" e, talvolta, tendenzioso, ciò non esclude l'attendibilità generale né l'incidenza sulle biografie personali elimina l'attenzione, per quanto sommaria, agli eventi militari, amministrativi e soprattutto alla situazione etico-politica. Le piccole inesattezze che si riscontrano negli "Annales" potrebbero derivare dal fatto che Tacito morì prima di terminare la sua opera e di farne una rilettura completa. In qualità di senatore, aveva facile accesso ai documenti ufficiali degli "Acta Diurna populi Romani" (atti di governo e notizie su quanto avveniva nell'Urbe) e degli "Acta senatus" (i verbali delle sedute del senato) tra cui le raccolte dei discorsi di alcuni imperatori, come Tiberio e Claudio. Utilizzò anche una grande varietà di fonti storiche e letterarie di diversa provenienza, come opere di autori del I secolo, come Aufidio Basso e Servilio Noniano, per l'epoca di Tiberio, Cluvio Rufo, Fabio Rustico e Plinio il vecchio, autore dei "Bella Germaniae" ("Le guerre in Germania"), per l'età neroniana. Inoltre, accanto a questi, fece sovente uso di epistolari, memoriali (negli "Annales" sono citati quelli di Agrippina e probabilmente Domizio Corbulone) e libelli come gli exitus illustrium virorum: una serie di scritti riguardo a coloro che si erano opposti all'imperatore e da essi stessi redatti, in altri termini raccontavano il sacrificio dei martiri per la libertà, soprattutto di coloro che si erano suicidati seguendo la morale stoica. A riguardo, tuttavia, occorre sottolineare quanto Tacito si sia servito di tale materiale per dare un tono drammatico alla sua storia, senza appoggiare la teoria del suicidio, a suo dire gesto ostentato e politicamente inutile. In conclusione, se in passato si riteneva che Tacito usasse una sola fonte, almeno per ciascuna sezione delle opere maggiori, attualmente, è predominante la teoria per cui lo storico si sia servito di una molteplicità di fonti, talune anche di opposta tendenza e manipolate con una certa libertà.
Stile letterario - Tacito fu estremamente attento e competente nell'esposizione, nel lessico e nell'uso di diversi registri linguistici che riflettono i suoi modelli. Infatti, dalla storiografia greca aveva tratto la capacità di sviscerare eventi complessi in un'esposizione chiara e lineare e l'attenzione ai caratteri, ai soggetti del "dramma storico", di cui fu capace di analizzare, con pochi tratti, le emozioni e la mentalità, in modo da fornire al lettore un quadro completo delle loro personalità, spesso contrastate e contraddittorie.
Dalla storiografia romana, invece, in particolar modo da Gaio Sallustio Crispo, si riprende la forma annalistica: una cornice per racchiudere le interpretazioni politiche degli eventi e il dramma delle azioni umane.
Tuttavia, ciò che maggiormente impressiona il lettore è l'uso magistrale della parola cui riesce a conferire forza, ritmo e colore: lo stile è elevato, solenne, poetico, tipico della tradizione romana e, come il pensiero, rifugge dalla morbidezza artificiosa. Il periodo è secco, conciso, dettato da una forte "inconcinnitas" o asimmetria che rompe ogni facile equilibrio delle frasi in modo tale da enfatizzare, talvolta assai rudemente, determinate parole o determinati concetti creando un impatto formidabile[50]. Sono esempio di tale stile i primi libri degli Annales, incentrati sulla figura sfumata, ambigua, di Tiberio ma in ogni caso l'inconcinnitas permea tutte le opere dello storico. L'opera di Tacito, se certamente non forniva per l'epoca una fonte semplice della storia imperiale, tuttavia, riscosse una forte simpatia presso l'aristocrazia per il pensiero politico dello storico, fu letta e copiata fino a quando, nel IV secolo, Ammiano Marcellino proseguì il lavoro, riprendendone lo stile. Ancor oggi gli studiosi considerano gli scritti di Tacito come una fonte autorevole, anche se spesso critica, per ricostruire la storia del Principato mentre continuano ad essere apprezzate come capolavori stilistici.
Approccio alla storia - Il metodo storiografico di Tacito deriva esplicitamente dagli esempi della tradizione storiografica precedente (in particolare Sallustio). Celebre è l'affermazione dello stesso Tacito sul proprio metodo storiografico: « Consilium mihi [...] tradere, [...] sine ira et studio, quorum causas procul habeo. »
« Il mio proposito è riferire [...], senza ostilità e parzialità, dalle cui cause sono lontano. » (Publio Cornelio Tacito, "Annales", I, 1). Sebbene questo sia quanto di più possibile vicino a un punto di vista neutrale nell'antichità, si è discusso molto accademicamente sulla pretesa "neutralità" di Tacito (o "parzialità" per altri, cosa che renderebbe la citazione precedente nulla più che una figura retorica). In incerto iudicium est, fatone res mortalium et necessitate immutabili an forte volvantur. Questa la frase da cui si rivela tutta l'incertezza dell'analisi storiografica tacitiana: egli non si appoggia ad un generale disegno filosofico, ma analizza e indaga in modo autonomo il comportamento umano, sine ira et studio, in una prospettiva squisitamente politica. Nonostante nei suoi racconti accadano segni e prodigi (non mancano inoltre accenni alla religione romana), Tacito tende ad escludere, quasi in senso epicureo, come regola per gli avvenimenti, l'intervento divino. Degli accadimenti umani sono responsabili solo gli uomini, vittime talvolta dei loro stessi crimini, verso i quali spicca la serenità degli dei. Difatti attraverso i suoi scritti, Tacito sembra primariamente interessarsi alla distribuzione del potere tra il Senato Romano e gli imperatori. Tutti i suoi scritti sono pieni di aneddoti di corruzione e di tirannia fra le classi di governo a Roma, dal momento che esse avevano fallito nel riassesto del nuovo regime imperiale. Gettarono via le loro tanto amate tradizioni culturali di libertà di parola e di rispetto reciproco quando iniziarono a cedere a loro stessi pur di far piacere all'imperatore, spesso inetto (e quasi mai benevolo). Un altro importante tema ricorrente è l'importanza, per un imperatore, di avere simpatie nell'esercito per salire al comando (e rimanerci). Si noti comunque come la posizione di Tacito non sia ben definita in questo problema: il suo scetticismo coinvolge non solo il soprannaturale ma anche la natura degli uomini, nonostante riconosca nella storia un certo margine di casualità che rende ancora più cupa la visione degli eventi. Sotto questa base Tacito rivolge l'occhio alle vicende storiche vicine, trascorse la maggior parte della sua carriera politica sotto l'imperatore Domiziano, cioè sotto l'Impero, con l'occhio del senatore, per il quale la fine della repubblica fu un iniqua cessione della libertà in cambio di una misera pace. La sua amara ed ironica riflessione politica può essere spiegata dalla sua esperienza della tirannia, della corruzione e della decadenza tipica del suo periodo (81-96). Tacito mise in guardia dai pericoli derivanti da un potere poco comprensibile ai più, da un amore per il potere non temprato da principi e dalla generale apatia e corruzione del popolo, problemi sorti a causa della ricchezza dell'impero che ha permesso la nascita di questi aspetti negativi. L'esperienza della tirannia di Domiziano può inoltre essere vista come la causa di un ritratto della gens Giulio-Claudia, a volte presentata in maniera amara ed ironica. Tuttavia Tacito è convinto della necessità dell'impero e non sembra avere rimpianti per l'ultima repubblica, dove la vita dei cittadini era messa a repentaglio per le sue turbolenze. D'altronde Tacito sembra convinto, risentendo forse dell'Anonimo Del Sublime, che non sia possibile l'esistenza di una forma politica o sociale che sia capace di resistere di fronte alla corruzione dei costumi: mentre presso i Germani plusque ibi boni mores valent quam alibi bonae leges, a Roma non sembrava bastare la felicitas temporum inaugurata da Nerva e Traiano, per il recupero dei boni mores, difatti: 'per la natura della debolezza umana, i rimedi sono più lenti dei mali e, come i nostri corpi crescono lentamente ma si estinguono di colpo, così si potrebbero più facilmente soffocare che richiamare in vita le attività dell'ingegno: infatti si insinua proprio il piacere dell'inerzia stessa, e l'inattività, dapprima odiosa, alla fine è amata'. Fu forse proprio questo pessimismo radicale a impedire a Tacito di narrare il principato di Traiano come epoca felice, come si era proposto di compiere nel terzo capitolo dell'"Agricola". Nonostante questo l'immagine di Tiberio presentata nei primi sei libri degli Annali non è ne tragica ne positiva: molti studiosi ritengono che l'immagine di Tiberio descritta nei primi libri sia prevalentemente positiva, mentre nei libri seguenti, a causa della descrizione degli intrighi di Seiano, diventa prevalentemente negativa. Nonostante questo, l'arrivo dell'imperatore Tiberio presentato nei primi capitoli del primo libro è una storia di crimini, dominata dall'ipocrisia sia del nuovo imperatore che stava salendo al potere, sia di chi gli stava attorno; e nei libri seguenti si può trovare una qualche forma di rispetto nei confronti della saggezza ed intelligenza del vecchio imperatore, che ha preferito allontanarsi da Roma per rendere saldo il suo ruolo. In generale dunque, Tacito non si fa problemi nel dare, nei confronti di una stessa persona, a volte un giudizio di rispetto e altre volte un giudizio di disprezzo, spiegando spesso in maniera aperta quali sono le qualità che lui giudica lodevoli e quali quelle che giudica spregevoli. Una caratteristica di Tacito è quindi il non schierarsi in maniera definitiva a favore o contro le persone che descrive, permettendo ai posteri la possibilità di interpretare le sue opere come una difesa del sistema imperiale o come un suo rifiuto. Una migliore descrizione dell'opera di Tacito "sine ira et studio" è difficilmente spiegabile.
Fortuna - «Auguror nec me fallit augurium, historias tuas immortales futuras.» traducibile con « Prevedo, e possano le mie previsioni non tradirmi, che le tue storie saranno immortali. » (Plinio il Giovane, epistola 33). Tacito non fu particolarmente letto nella tarda antichità e ancor meno nel medioevo. Delle sue opere, meno di un terzo è conosciuto e sopravvissuto: dipendiamo da un unico manoscritto per i libri I - VI degli "Annales" e da un altro per i libri XI - XVI, oltre che per i cinque libri delle "Historiae", anche perché l'antipatia mostrata nei confronti di ebrei e cristiani dell'epoca, lo rendevano assai impopolare presso i dotti medievali, quasi sempre ecclesiastici. Nel Rinascimento, tuttavia, le sue sorti si capovolsero e la sua presentazione drammatica della prima età imperiale ben presto gli fece guadagnare il rispetto dei letterati dell'epoca, fino a quando l'undicesima edizione dell'Encyclopædia Britannica lo ricordò come il più grande storico romano, non solo per lo stile ma anche per l'insegnamento morale e la narrativa drammatica. Tuttavia, oltre che come storico, Tacito divenne importante anche come teorico politico, tanto che Giuseppe Toffanin individuò due correnti di pensiero: i tacitisti rossi, che lo considerano come simbolo degli ideali repubblicani, i tacitisti neri, invece, che lo considerano l'ideologo della realpolitik. Infine non bisogna tralasciare il fatto che le opere di Tacito costituiscono ancor oggi la fonte più affidabile per gli studi sull'età del Principato, anche se talvolta la precisione è messa in discussione. Gli "Annales" si basano in parte, infatti, su fonti secondarie e non mancano alcuni errori come la confusione tra le figlie di Marco Antonio e di Ottavia Minore, entrambe di nome Antonia. Le "Historiae", invece, trascritte come fonte primaria, sono generalmente considerate come più accurate e precise.

Svetonio.
Da http://commons.wikimedia.
org/wiki/File:Nuremberg_
chronicles_f_111r_1.png#
mediaviewer/File:Nuremberg_
chronicles_f_111r_1.png
29. Gaio Svetonio Tranquillo, chiamato talvolta Suetonio (in latino: Gaius Suetonius Tranquillus; Ippona in Algeria, 70 - 126), è stato uno scrittore romano d'età imperiale, fondamentale esponente del genere della biografia. Fu un erudito, vista la grande mole di opere dallo stesso composte negli ambiti più svariati (in parte scritte in greco), amante della vita ritirata onde potersi dedicare agli studi che più amò. Fu figura di antiquario, studioso enciclopedico, con grande interesse per le antichità e la cultura romana, accostabile a Marco Terenzio Varrone per le caratteristiche della produzione.
Svetonio nacque attorno al 70 in un luogo imprecisato del Latium vetus, forse a Ostia, dove ebbe la carica religiosa locale di pontefice di Vulcano (solitamente conferita a vita). Non si conosce tuttavia con precisione l'anno di nascita. Alcuni, facendo riferimento ad una lettera inviata da Plinio il Giovane a Svetonio nel 101, collocano la data al 77, anno in cui avrebbe potuto ricevere un tribunato militare, se avesse intrapreso la carriera militare. Altri anticipano la data al 69, altri ancora, esaminando altre lettere indirizzate all'autore del "De vita Caesarum", la collocano al 71 o al 75.
Altrettanto incerta è l'origine sociale di Svetonio: non si può stabilire con preciso se la sua famiglia appartenesse al ceto equestre o fosse plebea. Si sa comunque che il padre, Svetonio Leto, era tribuno angusticlavio della XII legione, che servì Otone nella battaglia di Bedriaco contro Vitellio. Ciò nonostante, Svetonio studiò non solo grammatica e letteratura, ma anche retorica e giurisprudenza, divenendo avvocato e facendo fortuna, tanto che divenne amico e corrispondente di Plinio il Giovane, che lo considerava un suo protetto e che diede impulso alla sua carriera. Prima di morire, nel 113, Plinio il giovane lo affidò alla protezione di Setticio Claro, che divenuto prefetto del pretorio dell'imperatore Adriano, ottenne per lui la carica di segretario dell'imperatore (procurator a studiis e ab epistulis, ovvero sovrintendente degli archivi e curatore della corrispondenza imperiale), ed in tale qualità aveva accesso ai documenti più importanti degli archivi imperiali. Ricoprì dunque cariche importanti sotto l'imperatore Adriano, e forse già sotto Traiano, entrando a far parte del personale a più stretto contatto con l'imperatore. Della sua vita non si hanno molti altri dati certi. L'ultimo è il suo allontanamento da parte dell'imperatore Adriano nel 122, assieme al prefetto del pretorio Setticio Claro, con la motivazione ufficiale di aver trattato con eccessiva vicinanza l'imperatrice Sabina, probabilmente nel contesto di una epurazione dei quadri dirigenti voluta forse dall'imperatrice stessa per conferire gli incarichi ai suoi protetti. Anche la data di morte non è del tutto sicura, ed è posta da alcuni attorno al 126, da altri una quindicina di anni dopo, attorno al 140 o addirittura al 161, anno della morte dell'imperatore Antonino Pio. Fu certamente un grande erudito e grazie alla sua opera preziosa e paziente, ci sono giunte le vite dei dodici Cesari, altrimenti irrimediabilmente perdute ai nostri giorni. Nel periodo di contatto con l'Imperatore Traiano infatti, ebbe occasione di consultare la foltissima libreria regia e si fece sentire in lui il bisogno di mettere per iscritto in un unico grande libro ("De vita Caesarum") la vita dei dodici principes che si susseguirono dopo Gaio Giulio Cesare (ma vi sono anche dei capitoli dedicati a Cesare). Fu però suo grande difetto quello di farsi influenzare, riguardo alle vite di alcuni Cesari, come Caligola e Nerone, dal suo rango e dalla presenza di fonti storiche del tempo di per sé corrotte e parziali.
"De viris illustribus" (I personaggi famosi), che trova un suo chiaro precedente in Cornelio Nepote, analizza le figure di personalità illustri suddividendole in cinque categorie: poeti (De poetis), grammatici e retori (De Grammaticis et rhetoribus), oratori (De oratoribus), storici (De historicis) e filosofi (De philosophis). Questa raccolta, come altri suoi lavori, non fu però organizzata cronologicamente.
Dell'opera si conserva pressoché intatta soltanto la sezione riservata ai grammatici e ai retori (21 grammatici e 5 retori), anche se mancante della parte finale. Dopo un indice che riporta gli scrittori che saranno trattati, Svetonio offre dei brevi ritratti (alcuni brevissimi) di coloro che hanno contribuito allo sviluppo dello studio della grammatica a Roma. Di ogni autore non sono forniti specifici dati biografici, ma in genere l'attenzione è posta sulle novità che ciascun grammatico ha apportato. Delle altre sezioni del "De viris illustribus", rimangono soltanto alcune vite, sulla cui reale attribuzione a Svetonio, peraltro, non c'è accordo fra gli studiosi. Si ricordano la "Vita Terentii" (che costituisce la premessa al commento di Elio Donato alle commedie terenziane), la vita di Orazio e quella di Lucano; deriva dal "De poetis" anche la vita di Virgilio, premessa al commento delle opere del poeta, sempre da Elio Donato.
De vita Caesarum - Le "Vite dei dodici Cesari", in otto libri, ci sono giunte pressoché complete, manca solo una breve parte iniziale. Comprendono, in ordine cronologico, i ritratti di dodici imperatori romani, tra cui lo stesso Cesare, a cui seguono Augusto, Tiberio, Caligola, Claudio, Nerone, Galba, Otone, Vitellio, Vespasiano, Tito, Domiziano. A parte una genealogia introduttiva e un breve riassunto della vita e della morte del personaggio, queste biografie non seguono un modello cronologico, bensì uno schema non rigido, modificabile a seconda delle esigenze dell'autore. Questo schema era composto da moduli biografici di tipo alessandrino, vale a dire: si partiva dalla nascita e dalle origini familiari, per poi passare all'educazione, alla giovinezza, alla carriera politica prima dell'assunzione al potere; qui iniziava la seconda parte (organizzata per species, ovvero per categorie) della narrazione: i principali atti di governo, un ritratto fisico e morale, la descrizione della morte e del funerale, infine il testamento. Tutto ciò a discapito dell'organicità del racconto, con un interesse (spesso dispersivo) verso il particolare o l'aneddoto. La differenza con il contemporaneo Plutarco è che, mentre quest'ultimo partecipava più emotivamente al racconto, Svetonio dimostra un'attenzione più documentaria che appassionata; appare più distaccato, astenendosi da un giudizio personale. Emerge anche una caratterizzazione negativa degli imperatori del I secolo, forse incoraggiato dallo stesso Adriano, al fine di contrapporre il suo buon governo a quello dei suoi predecessori, caratterizzato spesso da eccessi (vedi su tutti Caligola, Nerone e Domiziano). Svetonio sembra concentrarsi soprattutto attorno alla figura del princeps, quasi incurante del mondo imperiale che lo circonda. La forma, che appare in alcuni casi sciatta, risulta semplice, lineare, con una struttura schematica, anche frammentaria, che non fornisce un discorso articolato da un punto di vista stilistico. In alcuni casi, Svetonio riesce invece ad "ottenere notevoli effetti drammatici ed a mostrare una caratterizzazione psicologica coerente".
Come membro della corte imperiale (del consilium principis) e procurator a studiis e a bibliothecis (sovrintendete degli archivi e delle biblioteche imperiali), Svetonio aveva a disposizione documenti di prima mano (decreti, senatus consulta, verbali del Senato), tutte utili fonti per il suo lavoro e materiale utile agli storici moderni per la ricostruzione del periodo. Tuttavia si servì anche di fonti non ufficiali, quali scritti propagandistici e diffamatori e anche testimonianze orali, al fine di alimentare quel gusto per l'aneddoto e il curioso cui egli dedica ampio spazio e che alcuni gli ascrivono come difetto ed altri come pregio.
Opere perdute - Sotto il nome di Svetonio sono pervenuti anche alcuni titoli e frammenti di argomento storico-antiquario (sul gioco della dama), grammaticale (opere filologiche e lessicografiche) e scientifiche (sulla natura e gli animali), tra i quali una "Ludrica Historia" (riguardante gli spettacoli a Roma) e due opere enciclopediche ("Prata" e "Roma"). L'insieme dei frammenti, in parte latini e in parte greci, è tuttavia troppo esiguo per consentire un'analisi di tali opere e verificarne la paternità.

Roma antica: gara di Poesia.
30. Publio Annio Floro, detto anche Lucio Anneo Floro o anche Giulio Floro (in latino Publius Annius Florus, Lucius Annaeus Florus, Julius Florus; Africa, 70/75 circa - Roma, 145 circa), è stato uno storico e poeta romano, di origini africane, autore dell'opera "Bellorum omnium annorum septingentorum libri duo". È dato solo come più probabile dagli studiosi che i diversi nomi, fino a tre diversi Floro autori di opere pervenute, siano la stessa persona, cui riferire quindi, come un unicum, le notizie che seguono. Floro visse tra il 70/75 e il 145, della sua vita si sa solo quel poco che lo stesso Floro dice nel dialogo, di genere autobiografico,  "Vergilius orator an poeta" (Virgilio oratore o poeta), di cui è pervenuta la parte iniziale. Di origine africana, partecipò a Roma a una gara di poesia nella quale, ingiustamente, non fu premiato per la gelosia di Domiziano. Floro lasciò allora, indispettito, la capitale e viaggiò a lungo nel Mediterraneo; si fermò in Spagna, a Tarragona, dove insegnò retorica. Ritornato nella capitale, divenne amico dell'imperatore Adriano e si dedicò alla storia ed alla poesia, anticipando il gusto della scuola di coloro che saranno definiti poetae novelli. Non si conosce con certezza l'anno della morte. Ebbe, come esigenza letteraria primaria, quella di rinnovare i modelli storiografici tradizionali, o per lo meno di variarne le caratteristiche, in modo da aggiungerne particolari e dettagli a volte cruciali, a volte futili. Ebbe un rapporto di amicizia sia con Svetonio che testimonia la medesima ricerca letteraria dei due scrittori, sia con l'Imperatore romano Adriano. La sua opera storica "Bellorum omnium annorum DCC (sott. libri)", riassunto di 700 anni di guerre romane da Romolo ad Augusto ha, come "Epitomae de Tito Livio" (anche Epitoma o Epitome), un titolo probabilmente non autentico ma aggiunto successivamente e impropriamente, perché l'autore, se attinge soprattutto a Livio, se ne differenzia nello spirito e nell'impostazione (fino a contraddirlo) e utilizza ampiamente altre fonti, quali Sallustio, Cesare e Seneca il Retore, registrando inoltre avvenimenti successivi alla trattazione liviana. Floro divide la storia romana in quattro età, come quelle della vita umana, secondo un criterio che aveva adottato Seneca il Vecchio nelle sue "Historiae": il periodo monarchico (infanzia), l'età repubblicana fino alla conquista di tutta le penisola italica (adolescenza), la costruzione di un impero e la pacificazione di Augusto (maturità), l'età imperiale fino ad Adriano (vecchiaia), sebbene con Traiano all'Impero romano venga restituita una nuova giovinezza. L'opera è un panegirico, pieno di retorica e di enfasi, del valore militare di tutto il popolo romano, di cui esalta le gesta dalle origini. Aveva come modello la dottrina stoica dei cicli e della palingenesi. Il valore storico dell'opera risulta però di scarso valore, troppo dominata da intenti retorici e moralistici, connessi con profondi motivi di propaganda imperiale del periodo in cui scrive: Floro elogia più che raccontare. Egli presenta l'epoca delle guerre puniche come un'epoca aurea ed incorrotta, lamentando l'eccesso di lusso e ricchezza del suo tempo. Lo stile particolarmente colorito della sua opera, rappresentò un'anticipazione dei caratteri di ciò che sarà la letteratura africana, pagana e soprattutto cristiana, dei secoli successivi.

La Gallia Narbonese segnata come
Provincia Romana, con indicata
Narbo, l'attuale Narbona.
31. Gneo Pompeo Trogo (in latino: Gnaeus Pompeius Trogus; Narbona, seconda metà del I secolo a.C. - I secolo d.C.?) è stato uno storico romano del periodo augusteo. Nato nella provincia romana Gallia Narbonense, apparteneva all'aristocrazia ellenizzata che aveva collaborato con i romani, ottenendo quindi la cittadinanza romana. La regione era diventata provincia romana nel 121 a.C., col nome originario di Gallia Transalpina (ossia "Gallia al di là delle Alpi", nota anche come Gallia ulterior e Gallia comata, in contrapposizione alla Gallia cisalpina ossia "Gallia al di qua delle Alpi", nota anche come Gallia citerior e Gallia togata). Dopo la fondazione della città di Narbo Martius, o Narbona nel 118 a.C., la provincia era stata rinominata Gallia Narbonensis, o Gallia bracata, con la nuova colonia costiera come capitale, chiamata anche Provincia Nostra o semplicemente Provincia, termine ancora attuale della regione francese Provence o Provenza. Con la riforma dioclezianea, la Gallia narbonese perse la sua parte più settentrionale, che assunse il nome di Gallia Viennensis e poco dopo la provincia venne ulteriormente divisa, in Narbonensis prima (ad occidente del Rodano) e Narbonensis secunda (a oriente del Rodano). Insieme all'Aquitania prima, all'Aquitania secunda, alla Novempopulana (da Novempopuli il resto del sud-ovest della Gallia) e alle Alpi Marittime andò a formare la Diocesi denominata Septem Provinciae, da cui il nome “Settimania” adottato nel medioevo per indicare la regione della Languedoc, la lingua occitana. Il nonno di Pompeo Trogo aveva combattuto per Pompeo Magno contro Sertorio, diventandone cliens ed aveva avuto il privilegio di fregiarsi del suo nome, mentre il padre aveva seguito Cesare in Gallia. Se ne presume che Trogo visse nella piena età augustea. La sua opera principale sono le "Historiae Philippicae" in 44 libri, una vera e propria storia universale, che andava dalle antichissime vicende di Babilonia fino ai suoi tempi. Possediamo solo, a parte frammenti e i prologi (ossia i riassunti dei singoli libri), il compendio “Historiarum Philippicarum T. Pompeii Trogi libri XLIV in epitomen redacti” di Marco Giuniano Giustino del II o III secolo, che aveva estratto i principali punti dell'opera di Trogo e li aveva collegati tra loro, ricavandone i 250 capitoli dell'”Epitome da Trogo”: ("Di questi 44 libri" - scrive Giustino nella prefazione all'epitome - "ho estratto quello che mi è parso più degno di essere conosciuto").
Statua colossale marmorea
di "Pirro", della dinastia
macedone, raffigurato come
Marte, fine del I secolo d.C.
Alta 3,6 m ritrovata presso
il Foro di Nerva, a Roma,
Musei Capitolini di Roma.
Marco Giuniano Giustino (in latino: Marcus Iunianius o Iunianus Iustinus; fl.= floruit, “fiorì”, nel senso che aveva 40 anni, fra II e III secolo) è stato uno storico romano dell'epoca degli Antonini, tra II e III secolo d.C.. Secondo la lettera premessa all'unica sua opera pervenutaci, in un periodo di riposo, durante il quale si trovava a Roma, si dedicò ad estrapolare dall'opera  “Historiae Philippicae”di Pompeo Trogo ciò che riteneva degno di nota ed utile alla lettura ed all'educazione morale, proprio per formare "una specie di piccolo mazzo di fiori, perché i conoscitori di greco ne avessero un mezzo d'essere istruiti". Dopo averla composta, la inviò ad un amico per fargliela correggere e per rendere conto del suo otium (dal che si deduce che fosse impegnato in politica). Inoltre, ulteriore spia dell'impegno di Giustino a livello politico o quantomeno come insegnante di retorica, è il fatto che egli usi un numero sostanziale di espressioni tecniche del diritto, attestate anche nel “Digesto” e nelle “declamationes” di Quintiliano. L' “Historiae Philippicae” di Pompeo Trogo è una storia dell'Oriente che ha come perno la dinastia macedone; infatti il titolo rimanda a Filippo II di Macedonia fondatore della dinastia macedone. Nei primi 6 libri viene fatta una storia della Grecia e dell'Asia, poi ci si sofferma su Filippo di Macedonia e suo figlio Alessandro Magno (libri VII-XII). Notevole interesse rivestono poi tutti i rapporti della Grecia con Roma: le guerre contro Pirro, Filippo V di Macedonia, Perseo, Mitridate e i Parti. Parte importante rivestono anche l'ebraismo, di cui tracciano le origini e i rapporti con Roma. Alla capitale dell'impero sono dedicati solo 2 libri su 44, ma bisogna vedere quanto, in questa riduzione, fu opera di Giustino e quanto opera dello stesso Pompeo Trogo. Gli eroi di Pompeo Trogo sono Filippo ed Alessandro, ma anche Pirro, Annibale e Mitridate. Trogo rivendica alla Macedonia e all'Oriente un ruolo di primo piano nella storia antica, a suo dire la parte dell'Impero economicamente e culturalmente più evoluta. Lo storico cerca di sminuire l'importanza egemonica di Roma, lasciando intravedere un senso di sfiducia nella direzione politica dell'Urbe proprio quando essa appariva più forte e più saggia, svalutandone l'imperialismo. Il mito di Roma trionfante di Tito Livio in Trogo è visto con occhio disincantato: infatti Pompeo Trogo è stato l'unico a non vedere tutta la Storia in funzione di Roma. La sua narrazione è molto tendente al patetico, con iperboli, ripetizioni ed anafore (ripetizioni di una o più parole all'inizio di frasi o di versi successivi, per sottolineare un'immagine o un concetto) in quantità. Preferisce il discorso indiretto, come Cesare, e disdegna quello diretto, più proprio di Livio, tranne forse in un caso: il discorso di Mitridate agli alleati antiromani. Le fonti che usa Pompeo Trogo sono greche, ricavate dagli ellenistici Duride e Filarco, Eforo di Cuma, Polibio, Posidonio di Apamea, Teopompo di Chio, fino al contemporaneo Timagene, famoso per le sue posizioni antiromane, probabilmente riunite in un perduto compendio di storia universale ellenistica (si pensi all'opera storica dello stesso Timagene di Alessandria). A parte l'opera storiografica, Trogo si sarebbe interessato anche di zoologia, componendo un “De animalibus”, utilizzato da Plinio il Vecchio, dal quale emerge come l'autore narbonese seguisse pedissequamente Aristotele: del resto, l'uso di digressioni (deviazioni del discorso, nelle quali vadano ad inserirsi temi o argomenti più o meno lontani da quello centrale) è probabilmente stato frequente anche nelle “Historiae”, a giudicare dalla selezione del testo compiuta da Giustino.

Un'edizione del 1593 della
"Periegesi della Grecia"
32. Pausania, detto anche Pausania il Periegeta (il periegeta presso gli antichi greci era la persona incaricata di guidare i forestieri nella visita di templi e monumenti), per distinguerlo da altri omonimi (in greco antico Παυσανίας, traslitterato in Pausanìas; Lidia, 110 - 180), è stato uno scrittore storiografico e geografo greco antico, d'origine asiatica, vissuto intorno al II secolo d.C. Forse è lo stesso "Pausania di Damasco" e il Pausania sofista vissuto anche a Roma. Le uniche notizie su Pausania ci derivano dai pochi accenni che si possono trovare nella sua opera, anche perché inizia ad essere citato solo a partire dal VI secolo d.C. Circa la sua provenienza, è stata proposta l'identificazione di Pausania con un omonimo sofista di Magnesia, in Lidia (secondo lo storico tedesco Christian Habicht, nato a Dortmund nel 1926), ma senza prove inoppugnabili: corroborerebbero l'origine micrasiatica di Pausania la frequenza delle citazioni di luoghi, miti e fenomeni caratteristici di queste regioni. Si ipotizza, inoltre, che sia vissuto sotto gli Antonini, dal momento che cita ed esalta le opere urbanistiche in Grecia di Adriano (117-138), e il regno di Antonino Pio (138-161) e Marco Aurelio (161-180), quindi nel periodo dal 117 (accenna al fatto di non aver visto Antinoo, amante di Adriano, dunque alludendo al fatto che avrebbe potuto) al 180. Altro cenno per la datazione dell'autore è dato dall'invasione dei barbari Costoboci, databile attorno al 170, che distrussero il tempio di Demetra a Eleusi, perno centrale della restaurazione filoellenica degli Antonini. La data di morte di Pausania viene posta intorno al 180, dal momento che l'autore non accenna all'ascesa al trono di Commodo, cosa difficilmente spiegabile se vi avesse assistito. La sua opera, in dieci libri, s'intitola "Periegesi della Grecia" (Ἑλλάδος περιήγησις - Helládos Periēgēsis). Per periegesi s'intende quel filone storiografico, soprattutto di epoca ellenistica, che, intorno a un itinerario geografico, raccoglie notizie storiche su popoli, persone e località, verificate, per quanto possibile, dall'esperienza diretta. Ogni libro dell'opera, fatta eccezione per l’Eubea e la Tessaglia, descrive una regione della Grecia antica, con excursus storici e geografici intesi a informare su fatti d’importanza secondaria, presupponendo la conoscenza delle opere storiche maggiori, quali la Guerra del Peloponneso di Tucidide e le Storie di Erodoto. L'autore, partendo dall'Attica (I libro), descrive Corinto e l'Argolide (II), per poi soffermarsi sul Peloponneso (Laconia e Messenia) (III-IV), sull'Elide, con un'ampia trattazione sulle Olimpiadi, e sull'area del santuario di Zeus Olimpio (V-VI), l'Acaia; il VII libro contiene con divagazioni sulla colonizzazione greca arcaica, mentre l'VIII libro descrive l'Arcadia. Pausania utilizzò l'opera di Riano sulla Messenia come fonte per la propria opera storica sulla seconda guerra messenica (IV libro).

Sextus Pompeius Festus: De verborum
significatu in edizione settecentesca.
Di Yuri Che:  https://books.google.c
33. Sesto Pompeo Festo (in latino: Sextus Pompeius Festus; Narbona, II secolo d.C. - ...) è stato un grammatico romano. Non si hanno molte notizie su questo scrittore, per il quale è stata suggerita una provenienza dalla città di Narbo, nella Gallia meridionale (odierna Narbona), che tuttavia permane incerta. Festo compose il "De verborum significatu", un dizionario enciclopedico in 20 libri (uno per lettera) in cui sono raccolti dati che possono riferirsi alla storia, alla società, alla religione, alla geografia e all'aspetto di Roma o dell'Italia, raccogliendo una ricca serie di fonti più antiche, ora in gran parte perdute, che alla fine dell'età repubblicana confrontavano le istituzioni e gli usi del passato con quelli contemporanei. In particolare sono numerose le citazioni da Marco Terenzio Varrone e da Verrio Flacco, del quale in effetti, Festo compose una sorta di epitome (riassunto) dall'omonima enciclopedia. Dei vocaboli trattati si danno spesso spiegazioni etimologiche e notizie grammaticali e vi si aggiungono resoconti di leggende della mitologia romana o di avvenimenti storici, informazioni sulle feste religiose e le istituzioni politiche e sociali. L'ordine è in principio quello alfabetico, ma spesso gruppi di notizie sono raccolti insieme per la somiglianza dell'argomento. Vengono citati testualmente, a sostegno delle ricorrenze e significati del termine, brani di vari autori più antichi, a volte in una versione più antica e più precisa delle edizioni poi giunte fino a noi (per esempio per Plauto), oppure per le quali mancano completamente altre testimonianze. Il testo originale è in gran parte perduto: quello che abbiamo ci è giunto attraverso un unico manoscritto dell'XI secolo, già mutilo di tutta la prima parte fino alla lettera M quando venne riscoperto, alla metà del XV secolo. Successivamente il manoscritto subì ulteriori danni in seguito ad un incendio e perse ancora altre sezioni del testo; tuttavia, parte del materiale perduto ha potuto essere ricostruita dalle copie rinascimentali o dalle citazioni di autori di quell'epoca, precedenti ad alcuni dei danni. L'opera intera ci è tramandata inoltre in un'epitome (Excerpta ex libris Pompeii Festi de significatione verborum) di Paolo Diacono, compilata per Carlo Magno (fine dell'VIII - inizi del IX secolo) sulla base forse di un manoscritto conservato nella biblioteca dell'Abbazia di Montecassino. Nell'epitome, tuttavia, come si può notare dal confronto con le parti ancora conservate del testo originale e come del resto dichiara lo stesso autore nella dedica iniziale, sono state tagliate molte delle voci e delle citazioni di altri autori, mentre altre parti sono state modificate perché sembravano poco chiare.

Ubicazione dell'isola di Chio.
34. Scimno di Chio, citato anche come Sciano di Chio (in greco antico Skýmnos ho Chîos; Chio, floruit, cioè aveva 40 anni, nel 185 a.C. circa - ...) è stato un geografo greco antico. Scimno fu l'autore di una periegesi in prosa (il periegeta presso gli antichi greci era la persona incaricata di guidare i forestieri nella visita di templi e monumenti), la "Circumnavigazione della Terra", dedicata a un non identificato re Nicomede. È un'opera in verso giambico, che descrive le coste della Spagna, della Liguria, del Ponto Eusino, annotando varie colonie greche, dando informazioni anche su Umbri, Celti, Liburni, e altri popoli. Strabone in Geografia Volume 1/Prolegomeni pg.32 lo cita. Un'anonima composizione periegetica, pubblicata per la prima volta in Augsburg nel 1600, inizialmente attribuita a Marciano di Eraclea, fu per lungo tempo considerata l'opera perduta di Scimno. Nel 1846, Augustus Meineke ipotizzò invece trattarsi di un altro autore, che chiamò Pseudo-Scimno (Pseudo-Scymnus), come ancora oggi viene anche chiamato. Tale nome identifica alle volte direttamente lo scritto, e non tanto l'autore. In tal caso il re in questione potrebbe essere Nicomede IV di Bitinia, della prima metà del I secolo a.C.. Un'altra teoria è che l'autore sia stato Pausania di Damasco, geografo dell'ultimo quarto del II secolo a.C., al quale ci si riferisce appunto come Pseudo-Scimno.

Ubicazione di Naucratis, in Egitto, da:
https://en.wikipedia.org/wiki/Nau
cratis#/media/File:Nile_Delta_
-_Naucratis.png
35. Ateneo di Naucrati, in greco antico: Athḕnaios Naukratítēs o Naukrátios (Naucrati, ... - dopo il 192), è stato uno scrittore egizio di cultura ellenistica dell'età imperiale romana. Di Ateneo si sa poco, tranne ciò che si può estrapolare da brani della sua opera, “I Deipnosofisti”, nome composto da deipno=cena e sofisti, considerando che “Il Sofista” è un dialogo di Platone dedicato a temi ontologici (riguardanti la natura e la conoscenza degli esseri in quanto tali e le loro categorie) risalente al periodo dei dialoghi cosiddetti dialettici o della vecchiaia, nell'ultima fase della produzione del filosofo; i sofisti sono quindi i sapienti, dotti. Ateneo dovrebbe aver scritto dopo la morte di Commodo (avvenuta nel 192 d.C.) perché ne parla con esecrazione e tra l'altro introduce come anfitrione del banchetto da cui prende il nome la sua opera, Publio Livio Larense, procurator dell'imperatore Commodo tra il 189 e il 192. Sappiamo dalle titolazioni dei suoi manoscritti che fu di Naucrati e quindi , greco egiziano, probabilmente grammatico e consultatore della Biblioteca di Alessandria, visto che cita circa 700 autori e 2.500 opere che, pur forse non consultate tutte direttamente, erano conservate al tempio Serapeo di Alessandria. Ateneo ha scritto, come egli stesso afferma, almeno due opere che non ci sono giunte: un commento sul pesce thratta, citato dai comici attici e una Storia dei re di Siria. L'unica sua opera giunta a noi è la miscellanea “Δειπνοσοφισταί” (I Dipnosofisti o I dotti a banchetto), redatta in quindici libri. Dei primi tre libri dell'opera (oltre a parti dei libri XI e XV), perduti, è sopravvissuta solo una epitome, che consente di avere idea dell'inizio dell'opera: «Ateneo è il padre di questo libro, destinatario della sua opera è Timocrate, e Dotti a banchetto ne è il titolo. Il soggetto dell’opera è il seguente: il romano Larense, uomo di condizione economica e sociale splendida, elegge a commensali i massimi esperti in ogni disciplina tra quelli del suo tempo, e fra di loro non ce n’è uno del quale l’autore non abbia riportato i bellissimi interventi nella conversazione. Ecco perché ha introdotto nell’opera pesci, con i relativi modi d’impiego e le spiegazioni dei nomi; molteplici varietà d’ortaggi e di animali d’ogni specie; autori di storia, poeti e dotti in ogni campo, strumenti musicali e innumerevoli tipi di scherzi, e ha incluso nell’esposizione differenze tra le coppe, ricchezze di re, dimensioni di navi e altri argomenti, tanto numerosi che non mi sarebbe facile neppure richiamarli alla memoria: se ne andrebbe l’intera giornata ad esporre un genere dopo l’altro. E ancora, il disegno generale dell’opera vuole imitare la sontuosa abbondanza del banchetto, e l’articolazione del libro rispecchia il menu servito nel corso della trattazione. Tale, dunque, si presenta il sopraffino banchetto di discorsi messo in scena da Ateneo, che del disegno generale dell’opera è il mirabile ideatore, e che, superando se stesso, come gli oratori di Atene, con l’ardore della sua eloquenza s’innalza di grado in grado attraverso le parti che si succedono nel libro.». Nell'opera Ateneo racconta all'amico Timocrate (secondo il modello classico del “Simposio” di Platone) un simposio in cui uomini dotti si intrattengono in un dialogo in cui dibattono riguardo a un ampio spettro di argomenti. Lusso, dieta, salute, sesso, musica, umorismo e lessicografia greca sono tutti argomenti che vengono trattati, ma il centro del dialogo sono il cibo, il vino e il divertimento. Si passa dai vini e i bagni a battute, musica di intrattenimento e grandiosi spettacoli; da parassiti, schiavi e adulatori celebri a pesci, vegetali e uccelli, per continuare con vari vizi, come gola, lusso, amore, prostituzione e omosessualità e finendo con intrattenimenti e profumi. Senza il lavoro di Ateneo sarebbero andate perdute molte importanti informazioni sul mondo antico e molti autori (inclusi i poeti parodici Archestrato di Gela, Matrone di Pitane e il medico Androne) sarebbero rimasti totalmente sconosciuti; Ateneo riporta di loro numerose ed ampie citazioni, specie da commediografi. Inoltre, all'interno del XV libro, è presente una raccolta di 25 scolii (insieme di annotazioni e glosse) attici risalente dalla fine del VI-V secolo a.C. Si tratta di una raccolta di brevi poesie legate all'uso di recitare o improvvisare versi simposiaci durante convivi e banchetti.
Testa in terracotta rinvenuta a
Naucratis, da: https://en.wiki
pedia.org/wiki/Naucratis#/me
dia/File:Terracotta_head_
Naucratis.png
"Il Satyricon", romanzo in prosimetro della letteratura latina (del I secolo) attribuito a Petronio Arbitro, celebra la parodia del mondo descritto ne "I Deipnosofisti". Riguardo a Naucratis, nel "Deipnosophistae" Atenaeus scriveva che il popolo pranzava nel Prytaneion (la sede del Prytaneis, il governo nell'antica Grecia, che si trovava normalmente nel centro della città, nell'agorà) nel giorno natale dell'Estia prytanitis. Estia era la dea vergine del focolare e rappresentava il giusto ordinamento della domesticità, della famiglia, della casa e dello stato. Nella mitologia greca era la figlia primogenita dei Titani Kronos e Rea). Erodoto scriveva che le prostitute di Naucratis erano "particolarmente seducenti" e racconta la storia di Charaxus, fratello della poetessa Saffo, che si recò a Naucratis per acquistare (per una "vasta somma") la libertà di una schiava rodope della Tracia, affascinante e bellissima cortigiana. Dopo averne ottenuto la libertà, aveva aperto un bordello creando un business fiorente e accumulando così una piccola fortuna. Per ringraziamento, commissionò una costosa offerta votiva agli dèi, collocata a Delfi, dove poteva essere vista ai tempi dello storico.

Statua di Pirro,
della dinastia 
macedone, da QUI.
36. Marco Giuniano Giustino (in latino: Marcus Iunianius o Iunianus Iustinus; fl.= floruit, “fiorì”, nel senso che aveva 40 anni, fra II e III secolo) è stato uno storico romano dell'epoca degli Antonini, tra II e III secolo d.C.. Secondo la lettera premessa all'unica sua opera pervenutaci, in un periodo di riposo, durante il quale si trovava a Roma, si dedicò ad estrapolare dall'opera  “Historiae Philippicae” di Pompeo Trogo ciò che riteneva degno di nota ed utile alla lettura ed all'educazione morale, proprio per formare "una specie di piccolo mazzo di fiori, perché i conoscitori di greco ne avessero un mezzo d'essere istruiti". Dopo averla composta, la inviò ad un amico per fargliela correggere e per rendere conto del suo otium (dal che si deduce che fosse impegnato in politica). Inoltre, ulteriore spia dell'impegno di Giustino a livello politico o quantomeno come insegnante di retorica, è il fatto che egli usi un numero sostanziale di espressioni tecniche del diritto, attestate anche nel “Digesto” e nelle “Declamationes” di Quintiliano. L'“Historiae Philippicae” di Pompeo Trogo è una storia dell'Oriente che ha come perno la dinastia macedone.

Carta con Nicea, in Bitinia.
37. Lucio Cassio Dione, in latino: Lucius Claudius Cassius Dio, forse Cocceianus (Nicea in Bitinia, 155 - 235) è stato uno storico e senatore romano di lingua greca, noto principalmente come Cassio Dione o Dione Cassio. Figlio di Cassio Aproniano, un senatore romano, nacque a Nicea in Bitinia. Stando a fonti epigrafiche, il suo praenomen sarebbe stato Lucius. Il suo nome gentilizio era Cassio, e assunse gli altri due nomi (cognomen e agnomen) in onore del nonno materno Dione Crisostomo, che per primo aveva portato il cognome di Cocceiano dal suo prottettore Cocceio Nerva. Quindi, benché fosse da parte di madre di discendenza greca e nei suoi scritti abbia adottato in prevalenza la lingua greca della sua provincia natale, deve essere considerato come un romano, in quanto cittadino romano e senatore. Altre fonti epigrafiche aggiungono il nomen "Claudio". Secondo un'altra interpretazione, "Claudio" sarebbe il praenomen, mentre l'agnomen "Cocceiano" deriverebbe da una errata tradizione bizantina che lo confondeva con lo zio. La questione sul suo nome rimane controversa, e gli unici punti saldi sono i nomi Cassio e Dione. Cassio Dione ha passato la maggior parte della sua vita nel servizio pubblico. Fu senatore sotto Commodo e governatore di Smirne dopo la morte di Settimio Severo. In seguito fu console suffetto verso il 205, e proconsole in Africa e in Pannonia. Alessandro Severo lo tenne in grande stima e lo fece eleggere console per la seconda volta, nel 229 insieme a lui, benché la Guardia pretoriana, irritata contro di lui per la sua severità, avesse richiesto la sua testa. Dopo il suo secondo consolato, raggiunta la vecchiaia, si ritirò nel suo paese natale, dove morì. Cassio Dione pubblicò una "Storia romana" in ottanta libri, scritti in lingua greca, frutto delle sue ricerche e del lavoro di ventidue anni. Abbracciava un periodo di 983 anni, dall'arrivo di Enea in Italia e la successiva fondazione di Roma fino al 229. Fino al periodo di Giulio Cesare, egli dà solo un resoconto degli eventi. Dopo, invece, entra più nei particolari, e a partire dal periodo di Commodo è molto più attento e accurato. Ci sono rimasti frammenti dei primi trentasei libri: ma c'è una parte considerevole del trentacinquesimo libro, sulla guerra di Lucullo contro Mitridate e del trentaseiesimo, sulla guerra contro i pirati e la spedizione di Pompeo Magno contro il re del Ponto. I libri che seguono, fino al LIV compreso, sono quasi tutti completi: riguardano il periodo dal 65 a.C. al 12 a.C., o dalla campagna orientale di Pompeo e la morte di Mitridate alla morte di Marco Vipsanio Agrippa. Il libro LV presenta una considerevole lacuna. Dal cinquantasei al sessanta, entrambi inclusi, che comprendono il periodo dal 9 al 54, sono completi e contengono gli eventi dalla sconfitta di Varo in Germania alla morte di Claudio. Dei seguenti venti libri abbiamo soltanto frammenti ed un magro compendio di Giovanni Xifilino, un monaco dell'XI secolo. L'ottantesimo ed ultimo libro comprende il periodo da 222 al 229, durante il principato di Alessandro Severo. Il compendio di Xifilino conservato comincia con il trentacinquesimo e continua alla fine dell'ottantesimo libro. È molto mediocre e fu composto per ordine dell'imperatore Michele VII Parapinace. I frammenti dei primi trentasei libri, come sono ora raccolti, sono di quattro generi:
- Fragmenta Valesiana, come erano dispersi tra vari scrittori, scoliasti, grammatici e lessicografi, ecc. e che sono stati raccolti da Henri de Valois.
- Fragmenta Peiresciana, contenente grandi estratti, trovati nella sezione intitolata "Delle virtù e dei vizi," nella grande raccolta o biblioteca portatile compilata per ordine di Costantino VII Porfirogenito. Il manoscritto è appartenuto a Nicolas-Claude Fabri de Peiresc, uno studioso del XVII secolo.
- Frammenti dei primi del 34 libri, conservati nella seconda sezione dello stesso lavoro di Costantino, intitolati "Delle ambasciate." Questi sono conosciuti con il nome di Fragmenta Ursiniana, perché il manoscritto che le contiene fu trovato in Sicilia da Fulvio Orsini.
- Excerpta Vaticana, raccolti da Angelo Mai, che contengono frammenti dei libri dall'uno al trentacinque e dal sessantuno all'ottanta. A questi sono aggiunti i frammenti di un continuatore sconosciuto di Dione, che arriva fino al periodo di Costantino I. Altri frammenti di Dione, che appartengono principalmente ai primi trentacinque libri, sono stati trovati da Mai in due MSS Vaticani e contengono l'antologia di Planude. Gli annali di Giovanni Zonara contengono inoltre numerosi estratti da Cassio Dione. Cassio Dione ha preso Tucidide a suo modello, ma l'imitatore non è paragonabile con l'originale nella disposizione e nella distribuzione dei materiali o nella solidità della visione e nel ragionamento accurato. Il suo stile è generalmente chiaro, almeno dove non sembra che ci sia corruzione del testo, tuttavia pieno di latinismi. La sua diligenza è fuor di dubbio e grazie alle sue opportunità è ben informato delle circostanze dell'impero durante il periodo in cui è un contemporaneo.

Johannes Camers - Solin
[us], [Gaius] Juli[us]:
Polyhistor (Collectanea
rerum memorabilium)
cum enarrationibus,
Vienna 1520, da: https:/
38. Gaio Giulio Solino (in latino: Gaius Iulius Solinus; Italia, 210 circa - dopo il 258?) è stato uno scrittore romano vissuto fra la prima metà e la fine del III secolo. Di lui è pervenuta un'opera, i Collectanea rerum memorabilium ("raccolta di cose memorabili"). Nel medioevo questa stessa opera fu nota anche sotto i titoli di Polyhistor ("il curioso", "l'erudito") oppure, ma più raramente, di De mirabilibus mundi ("sulle meraviglie del mondo"). L'opera, scritta in un latino molto "manieristico", è meramente compilativa. Lo scrittore attinge, infatti, a piene mani dalla Naturalis historia di Plinio il Vecchio, dalla Chorographia di Pomponio Mela, dall'opera enciclopedia Roma di Svetonio e, con ogni probabilità, anche da quella di Marco Terenzio Varrone. Il Mommsen teorizza la possibilità che autori o opere non pervenutici altrimenti (per esempio Cornelio Bocco e l'enciclopedia Roma di Svetonio) siano tra le altre possibili fonti. Leggendo tali autori, Solino avrebbe annotato le cose più strane e meravigliose inerenti a popoli, usanze, animali e piante illustrandole all'interno di una cornice geografica. Il testo Collectanea rerum memorabilium è dedicato ad un certo Aventus, forse uno dei consoli per l'anno 258. Segue una trattazione sulla storia di Roma dalle origini al principato di Augusto. Sono poi di seguito esaminate l'Italia, la Grecia, le regioni intorno al Mar Nero, la Germania, la Gallia, la Britannia, la Spagna. Seguono, poi, le province dell'Africa e la descrizione continua con l'Arabia, l'Asia minore, l'India e l'impero dei Parti. Il testo fu oggetto di notevole rielaborazione, forse dallo stesso Solino, che in effetti, nella seconda epistola dedicatoria, definisce il proprio lavoro polyhistor. Nel medioevo il termine divenne anche sinonimo dell'autore stesso. Il tema meraviglioso del libro e la sua estensione molto ridotta rispetto alle opere di Plinio il Vecchio ne decretarono il successo nel medioevo, con alcuni rimaneggiamenti, di cui, in particolare, si ricordano quelli in esametri tradizionalmente attribuiti a Teodorico e a Pietro Diacono. Frutto dell'ammirazione per la sua opera nel Medioevo è anche il ruolo, parallelo a quello di Virgilio nella Divina Commedia, di accompagnatore del poeta Fazio degli Uberti nel suo “Dittamondo”.

Eusebio di Cesarea, da: https:
39. Eusebio di Cesarea (Cesarea in Palestina, 265 - Cesarea in Palestina, probabilmente 340) è stato uno storico e scrittore greco antico, vescovo e padre della Chiesa. Fu consigliere e biografo dell'imperatore romano Costantino I. Allievo di Panfilo alla scuola fondata da Origene a Cesarea, in collaborazione del quale redasse i primi cinque libri dell'Apologia ad Origene (Eusebio scriverà poi un sesto libro dopo la morte del maestro in seguito alla persecuzione), sfuggì alla persecuzione anticristiana di Diocleziano e nel 313 fu eletto vescovo di Cesarea. Abbracciò una concezione della Trinità, diffusa in Siria, secondo cui il Figlio era subordinato al Padre. Il suo approccio lo portò a simpatizzare con Ario, predicatore alessandrino di formazione antiochena che, nella sua dottrina, aveva accentuato la posizione subordinata del Figlio, sino a considerarlo non coeterno rispetto al Padre. Quando nel 318 Ario fu scomunicato dal patriarca Alessandro, Eusebio lo accolse presso di sé. La sua condotta fu condannata dal concilio di Antiochia nel 325. Tuttavia nello stesso anno Eusebio partecipò al Concilio di Nicea, convocato proprio per risolvere la controversia ariana, svolgendo un ruolo da protagonista. Al concilio l'imperatore Costantino sollecitò i convenuti a raggiungere un accordo su una concezione comune della natura di Cristo. Eusebio fu incaricato della stesura materiale di tale concezione. Nella formulazione del concilio, Cristo fu definito come “Dio da Dio, Luce da Luce, Vita da Vita”. A tale definizione furono aggiunte successivamente le attribuzioni “Dio vero da Dio vero” e “generato, non creato, della stessa sostanza del Padre”. Quest'ultima proposizione conteneva il concetto di homooùsuios (consustanziale). Il termine, non attestato nelle Sacre Scritture, presentava qualche difficoltà e non fu bene accolto dai fautori dell'arianesimo presenti al concilio. Le pressioni dell'imperatore sull'assemblea, tuttavia, portarono i vescovi, tra cui Eusebio, a firmare i decreti. Nonostante ciò, negli anni successivi Eusebio riprese ad operare a favore di Ario e dei suoi sostenitori; nel 335 fu fautore della condanna del massimo oppositore di Ario, Atanasio di Alessandria. Successivamente fu invitato alla corte dell'imperatore romano Costantino I, di cui divenne consigliere e biografo. Eusebio fu il vescovo più erudito della sua epoca: oratore, esegeta, apologista, teologo e storico, tipografo e bibliofilo. Va ricordata anche la sua attività di reperimento e collezione di fonti letterarie ed archivistiche. Della sua vastissima produzione letteraria si ricordano la "Cronaca" (Chronicon), che venne considerata un archetipo per tutte le opere cronologiche seguenti, e la "Storia ecclesiastica", che tratta dei primi secoli dello sviluppo del Cristianesimo, dalla costituzione della Chiesa sino alla vittoria di Costantino su Licinio del 324. Nella stesura della "Cronaca" utilizzò, per quanto riguarda la storia dell'Egitto, le opere di Manetone ora perdute. Eusebio mise a punto un sistema di dieci tavole-canoni, note come "Tavole canoniche" o "Tavole di concordanza", ove si raffrontano i passi uguali dei quattro vangeli: una tabella con l'episodio (es. il battesimo) indica il riferimento alla sezione interessata di ogni vangelo, con centinaia di sezioni indicate (oltre mille in area siriaca); in un foglio del Tetravangelo di Rossano è stata rinvenuta una lettera di Eusebio a Carpiano sull'uso delle tavole. Tra le sue opere vi è anche una biografia di Costantino, la "Vita Constantini".
Origene.
La dottrina - Da un punto di vista dogmatico, Eusebio assume pienamente la posizione di Origene. Origene, detto Adamanzio (in greco antico Ὠριγένης, Ōrigénēs, in latino Origenes Adamantius, «resistente come l'acciaio»; Alessandria d'Egitto, 185 - Tiro, 254), è stato un teologo e filosofo greco antico, noto anche come Origene di Alessandria. È considerato uno tra i principali scrittori e teologi cristiani dei primi tre secoli. Di famiglia greca, fu direttore della «scuola catechetica» di Alessandria (Didaskaleion). Interpretò la transizione dalla filosofia pagana al cristianesimo e fu l'ideatore del primo grande sistema di filosofia cristiana. Origene non dev'essere confuso con l'omonimo filosofo pagano. Come Origene, Eusebio parte dall'idea fondamentale dell'assoluta sovranità (monarchia) di Dio. Dio è il principio primo di tutti gli esseri, ma non è semplicemente una causa, perché in lui è contenuto ogni bene, da lui traggono origine tutte le forme di vita ed è la fonte di ogni virtù. Cristo possiede l'immagine di Dio ed è un raggio di luce eterna, ma la figura del raggio viene da Eusebio limitata al punto che egli esplicitamente enfatizza l'autoesistenza di Gesù. Eusebio si dedicò ad approfondire la differenza tra le persone della Trinità e a mantenere la subordinazione origenista del Figlio rispetto Padre, il primo dei quali non chiama mai o theós, ma theós, poiché Egli ha la divinità per partecipazione. Ma il Logos non è genetós (creato), cioè una creatura inferiore, ma gennetós (generato) in quanto ipostasi la cui generazione, per Eusebio, è avvenuta nell'eternità per opera del Padre ingenerato. Gesù è, nella sua attività, l'organo di Dio, il creatore della vita, il principio di ogni rivelazione di Dio, che nella sua assolutezza governa su tutto il mondo. Questo Logos divino ha assunto un corpo umano senza per questo aver subito alcuna alterazione del suo essere. Eusebio spiegava la relazione dello Spirito Santo con la Trinità in maniera simile a quella del Figlio con il Padre. Nessun punto della dottrina di Eusebio è originale, tutto è rintracciabile in Origene. La mancanza di originalità del suo pensiero si rivela nel fatto che egli non ha mai presentato i suoi pensieri in forma sistematica. Va tuttavia riconosciuta ad Eusebio la vera e propria “invenzione” della storia ecclesiastica. Eusebio fu perfettamente consapevole di scrivere un nuovo genere di storia. Ai suoi occhi i cristiani rappresentavano una nazione ed egli sapeva di scrivere una storia nazionale. Tuttavia gli era chiaro che tale nazione aveva origini trascendenti. Benché comparsa sulla terra al tempo di Augusto, era nata in Cielo “con il primo decreto concernente Cristo stesso” (I, 1, 8). Una simile nazione non combatteva guerre ordinarie: le sue battaglie erano persecuzioni ed eresie. Dietro la nazione cristiana vi era Cristo, così come vi era il demonio dietro i suoi nemici. La storia ecclesiastica inaugurata da Eusebio era necessariamente diversa dalla storia ordinaria, in quanto storia della lotta contro il demonio che tentava di corrompere la purezza della Chiesa garantita dalla successione apostolica. Eusebio trovò spunti per la sua storiografia nella storiografia ellenistico-giudaica di Flavio Giuseppe in cui già si trovano presenti l'enfasi sul passato, il tono apologetico, le digressioni dottrinali e l'esibizione di documenti. Una storia della Chiesa Cristiana basata sulla nozione di ortodossia e sulle sue relazioni con un potere persecutorio, necessariamente doveva risultare diversa dalle narrazioni storiche consuete. Il nuovo tipo di esposizione adottato da Eusebio dimostrò di essere adeguato al nuovo tipo di istituzione rappresentato dalla Chiesa Cristiana. Si basava sull'autorità e non sulla libertà del giudizio di cui andavano orgogliosi gli storici pagani.
I limiti - I limiti di Eusebio come fonte derivano dal fatto che fu il primo teologo cristiano al servizio della corte dell'imperatore romano Costantino I. Nonostante la grande influenza dei suoi lavori sugli altri, Eusebio non può essere considerato un grande storico. Il suo trattato sull'eresia, ad esempio, è inadeguato: Eusebio conosce molto poco della chiesa occidentale. I suoi lavori storici sono principalmente apologetici, ma, seguendo un costume piuttosto diffuso, fu spesso incline ad alterare la realtà ("tradendo" l'apologetica propriamente detta e passando così all'apologia). Nella sua Storia ecclesiastica (Volume 8, capitolo 2) afferma ad esempio: « Vi introdurremo a questa storia solo quegli eventi che potranno essere utili in primo luogo per voi in secondo luogo per i posteri ». Nella sua "Praeparatio evangelica" (XII, 31), Eusebio tratta in una sezione dell'uso delle menzogne (pseudos) come una "medicina" che sarebbe stato "legale ed appropriato" da utilizzare. Tenendo a mente tutto ciò, risulta difficile accertare le conclusioni e la veridicità di Eusebio, confrontandolo con i suoi predecessori e contemporanei. I testi degli scrittori precedenti di cronache, soprattutto Papia, che lui denigrava, ed Egesippo, sul quale invece si basava, non ci sono giunti e sopravvivono principalmente sotto forma di citazioni del loro lavoro scelte da Eusebio stesso, che può benissimo avere selezionato le parti adatte per supportare le sue tesi. Di Egesippo cita tra l'altro una versione in lingua latina del "Bellum Iudaicum", (in realtà l'opera è attribuibile ad un certo Ambrogio milanese) dove la figura di Gesù ha una rilevanza molto maggiore di quella della versione originale di Flavio Giuseppe: non si sa se l'interpolazione è stata aggiunta da Eusebio stesso oppure sia stata da lui trovata e accolta acriticamente. Per molti, i suoi testi sono basati su tradizioni provenienti da cronache tardive di Egesippo in libri che sono stati perduti, citati a sua volta da Eusebio nella sua storia ecclesiastica (Hist. Heccl. 3,11,1) che in questi ambiti non è attendibile: "Nelle narrazioni di Egesippo si notano frequenti incongruenze: è un racconto leggendario con qualche nucleo di verità storica" (Storia ecclesiastica e i martiri della Palestina, Eusebio di Cesarea ; testo greco con trad. e note di Giuseppe Del Ton. - Roma etc. : Desclee & C.i, 1964. con imprimatur cattolico - XXXVIII, pagina 135). Pensiamo al fatto che, secondo Egesippo, citato da Eusebio in Hist. Heccl. 2,23,6, a Giacomo, fratello di Gesù, era permesso entrare nel santuario del tempio in cui, secondo la legge di Mosè, poteva entrare solo il sommo sacerdote e una volta l'anno. Questo è storicamente impossibile. Questi e altri aspetti hanno suscitato controversie. Per esempio, Jacob Burckhardt ha liquidato Eusebio come "Il primo storico interamente disonesto dell'antichità". Burckhardt non è il solo a esprimere questo parere. Tuttavia, il professor Michael J. Hollerichis ritiene questa critica eccessiva. In un articolo in "Church History" (Vol. 59, 1990), egli afferma che a partire da Burckhardt, "Eusebio è stato un bersaglio invitante per gli studiosi dell'età costantiniana, che di volta in volta lo hanno caratterizzato come un propagandista politico, un fido uomo di corte, il furbo e preparato consigliere dell'imperatore Costantino I, il grande pubblicista del primo imperatore cristiano, il primo di una lunga serie di politici ecclesiastici, l'araldo del bizantinismo, un teologo politico, un metafisico politico e un cesaropapista. È ovvio che, per lo più, queste non sono descrizioni neutrali. Gran parte degli studiosi tradizionali, talvolta con sdegno a stento trattenuto, ha considerato Eusebio una persona che metteva a rischio la sua ortodossia e forse anche la sua persona per lo zelo nei confronti dell'ambiente costantiniano. Egli conclude che "è stata spesso esagerata l'importanza dei temi politici e dei motivi politici nella vita e negli scritti di Eusebio e non gli si è resa giustizia come uomo di chiesa e studioso". Molti hanno condiviso la valutazione di Burckhardt, ma altri, pur non esaltandone i meriti, hanno riconosciuto il valore indiscutibile dell'opera di Eusebio.
Dato lo stile di Eusebio, che cercava sempre lo scontro con i suoi avversari, non devono meravigliare le accuse nei suoi confronti: il vescovo Eustazio di Antiochia lo accusò ad esempio di manipolare in maniera criptoariana il credo di Nicea del 325.

40. La "Storia Augusta" (in latino: "Historia Augusta") è una raccolta di biografie di imperatori e usurpatori romani comprendente l'arco di tempo che va da Adriano (che regnò dal 117 al 138) a Numeriano, che regnò dal 283 al 284, quando venne ucciso da Arrio Apro, suo suocero e prefetto del pretorio. 
Moneta con effige di Numeriano.
Volto di Adriano.
Sia pur con alcune lacune, fra le quali quella relativa agli anni 244-253, essa è l'unica fonte letteraria continua per questo periodo, il cui contenuto coincide a volte con quello di epigrafi e di altro materiale documentario pervenutoci e quindi, pur con tutti i suoi limiti, è di interesse considerevole.
Autori o autore, destinatari ed epoca di composizione della "Historia Augusta". Pur sembrando che la "Historia Augusta" sia un insieme di vite redatta da sei scrittori differenti - rispondenti ai nomi di "Aelius Spartianus", "Iulius Capitolinus", "Vulcacius Gallicanus", "Aelius Lampridius", "Trebellius Pollio" e "Flavius Vopiscus" - indirizzata a cesari e imperatori dell'età dioclezianeo-costantiniana, come si evince dalle dediche, una serie di incongruenze, anacronismi, falsificazione di dati, termini tecnico-amministrativi e nomi di personaggi riconducibili e in auge in epoche più tarde, dà adito a una serie di perplessità e forti dubbi non soltanto sulla paternità dell'opera stessa, ma anche sull'attendibilità del suo contenuto, sui destinatari dell'opera e conseguentemente sulla data di composizione. A smontare le certezze su cui si reggeva il tradizionale impianto basato sulla convinzione che la H.A. fosse opera di sei autori vissuti nel sopraddetto periodo fu uno studio del 1889 di Hermann Dessau nel quale, per la prima volta, fu avanzata l'ipotesi che i nomi dei sei Scriptores fossero tutti fittizi e che il lavoro fosse stato composto da un singolo autore, all'epoca di Teodosio I. Una posizione intermedia veniva assunta da Mommsen, che faceva risalire le varie incongruenze, presenti nella H.A., all'opera di interpolatori che avrebbero modificato, nel V secolo, il contenuto della prima redazione dell'opera, risalente, a suo modo di vedere, al 330. Il XX secolo fu caratterizzato dalle prese di posizioni pro o contro le opposte tesi, e mentre per l'arco di tempo della composizione dell'opera le congetture oscillano tra il 392 il 423 (per quest'ultima datazione propende Johannes Straub, per il 420 Santo Mazzarino), per quanto riguarda l'autore o gli autori, si è sempre più diffusa fra gli studiosi la convinzione che a comporla fosse stato soltanto un biografo. Rimette tutto in discussione Arnaldo Momigliano con un invito alla comunità scientifica a riconsiderare l'insieme della problematica venutasi sempre più a stratificarsi attorno a ipotesi che, per quanto suggestive, privilegiano più spesso soluzioni di fantasia discostandosi dai dati reali dei singoli problemi. Per ciò che riguarda il problema della paternità dell'opera e l'epoca di composizione, studi recenti mostrano, uniformità di stile in buona parte dell'opera, orientando la quasi totalità degli eruditi contemporanei verso l'accettazione della teoria che a comporre l'opera sia stato un singolo autore, tardo e di identità sconosciuta, anche se l'analisi stilistica del lavoro, effettuata con l'ausilio del computer ha dato risultati incerti: alcuni elementi di stile, infatti, sono abbastanza uniformi in tutta l'opera, rendendo legittima l'ipotesi di un unico biografo, mentre altri variano in una direzione che ne suggerisce la molteplicità. In merito alla individuazione degli obbiettivi della Historia c'è da dire che le opinioni, fino al XX secolo, sono, nella loro non univocità, settoriali: per alcuni si tratta di un lavoro di pura evasione o di satira, concepito al solo scopo di intrattenere, per altri, invece, esso è un attacco di parte pagana contro il Cristianesimo che induce l'autore a celare la sua identità per motivi di sicurezza personale. Una lettura più attenta ha indirizzato però gli studiosi su una tematica decisiva, in quanto presente e costantemente portata avanti in ogni biografia.
Modelli a cui è ispirata - Che nell'opera si riscontrino queste caratteristiche messe assieme è cosa abbastanza evidente, tanto più che essa, nel complesso, si presenta come cronaca della vita, soprattutto privata, degli imperatori, aderendo, ma in modo esagerato, dichiaratamente, al modello svetoniano, a cui si era già ispirato Mario Massimo, discostandosene, però, quest'ultimo alquanto, per aver messo in netta preminenza, rispetto al dato storico a cui invece si atteneva Svetonio, il lato privato e domestico, il pettegolezzo di corte, fine a sé stesso, sino alla calunnia: in merito vedasi il trattamento, per aver tolto ai senatori il comando delle legioni affidandolo al ceto equestre, riservato a Gallieno, buon imperatore secondo altre fonti. Pertanto l'autore (o gli autori) della Historia Augusta pur prendendo le mosse da Svetonio, nello sviluppo delle argomentazioni fa riferimento, si basa e segue Mario Massimo, citato come fonte ben 18 volte e della cui opera non ci rimane altro. Di fondamentale importanza è la testimonianza dello storico Ammiano Marcellino, fra altre, il quale sostiene che l'opera di Mario Massimo dilettasse parecchio i suoi lettori: altro che Sallustio, Livio e Tacito, storici accurati e severi, all'epoca in cui fu scritta la Historia Augusta, e ancor prima, a tenere banco, tra gli aristocratici era proprio l'opera storica, o per meglio dire, romanzesca di Mario Massimo, unitamente alle satire di Giovenale, autore quest'ultimo quasi dimenticato, prima di questo periodo, e ritornato di gran moda in seguito, probabilmente, ai commenti che ne fece il grammatico Servio.
Il vero filo conduttore - Dall'incertezza generale, che tuttavia caratterizza l'intera opera, emerge un unico dato sicuro: essa è, senz'ombra di dubbio, espressione dell'opposizione senatoria all'istituto imperiale del quale si dà una rappresentazione ora banalizzata, con l'indugiare su particolari a volte esageratamente falsi e in ogni caso tendenziosi, che riguardano la vita privata dei singoli imperatori, ora un resoconto a fosche tinte con descrizioni aventi per oggetto la crudelitas, l'ebrietas e tutta la sequela delle umane aberrazioni: e ogni qual volta qualche notizia era estremamente esagerata fino all'inverosimile, se ne attribuiva la paternità a un certo Cordus, storico, si fa per dire, non altrimenti noto, sicuramente ad hoc inventato. La controprova che il filo conduttore dell'opera sia da ricercare nell'avversione all'istituto imperiale sta nel fatto che pochi imperatori, come Settimio Severo e Marco Aurelio Probo sono oggetto di lodi, lodi che danno agli autori (o all'autore) occasione di parlare di un ritorno dei vecchi tempi, sotto forma di laudatio temporis acti (rimpianto del tempo passato), di quella res publica romana dei tempi d'oro, quando a decidere delle sorti dello stato era la prestigiosa classe senatoria e non il capriccio o l'estrosità, come spesso è dato leggere in quest'opera, degli odiati imperatori: sotto i sopra detti imperatori, lodati per il loro comportamento deferente nei confronti del senato, persino i rigidi appartenenti alla gens Catoniana, dice l'autore della "Historia Augusta", sarebbero stati lieti di vivere. E, a ben considerare, l'atteggiamento ostile della classe senatoria nei confronti dell'istituto imperiale trovava una sua motivazione precisa, dovuta al fatto che in epoca repubblicana il ruolo di guida dello stato era esclusivamente nelle mani dell'aristocrazia senatoriale, e con esso tutta una serie di interessi che vedeva cointeressati alcuni clan di una ristretta oligarchia nella spartizione di incarichi, altamente remunerativi, sia in patria che soprattutto in territorio provinciale; i sudditi, paragonati a pecore da tosare a zero, erano spesso sottoposti a gravami e soprusi di ogni genere tali da generare malcontenti e da alimentare movimenti di ribellione: nella migliore delle ipotesi i provinciali avevano la possibilità di denunciare i governatori di province corrotti che, appartenendo alla classe aristocratica, venivano sistematicamente assolti da tribunali le cui giurie, se si eccettua qualche decennio, erano rigorosamente di estrazione aristocratica. Ma questo era solo uno degli aspetti: l'oligarchia senatoria dei tempi d'oro della repubblica aveva un potere illimitato e distribuiva cariche onori e incarichi avendo il delicato compito di condurre la direzione della politica sia interna che estera.
La svolta augustea, il declino e il risentimento dell'ordine senatorio - Con l'avvento dell'impero vennero meno al senato quasi tutte queste prerogative, pur se formalmente continuava a svolgere il proprio ruolo. Ma da Augusto in poi, il suo prestigio e soprattutto il suo potere decisionale subì un improvviso drastico ridimensionamento. Una serie di provvedimenti presi da Augusto in materia di governatorato delle province che gli garantivano il controllo degli eserciti, rese inoffensivo il consesso senatorio, ridotto a mite e mero strumento di approvazione della volontà del sovrano in ogni campo della vita pubblica. Stretto nella dura morsa tra l'imperatore da una parte e l'esercito, a questi fedelissimo, dall'altra, il senato perdette progressivamente il suo ruolo e dovette accontentarsi di svolgere compiti subordinati al volere e spesso al capriccio di imperatori non sempre illuminati. Costretta a subire, la classe senatoria trovò modo di sfogare tutto il suo risentimento in opere pseudo storiche quale quella di Mario Massimo che, prendendo le mosse da Svetonio, ma solo per ciò che riguardava l'aspetto della vita privata degli imperatori, ridicolizzava e colpevolizzava gli imperatori per i mali dai quali era affetto l'Impero, nell'approssimarsi del proprio declino. E a Mario Massimo, come già detto, molto deve la Historia Augusta soprattutto per ciò che di infamante, di ridicolo, di falso e anche di tragicamente vero nei confronti di taluni imperatori si potesse dire. E' indubbia la presenza, nella "Historia Augusta", di parecchie ed evidenti contraddizioni interne.

Eutropio.
41. Flavio Eutropio (in latino Eutropius; Italia, floruit, fiorì e cioè aveva 40 anni, nel 363-387; Bordeaux ... - dopo il 387) è stato un politico, storico, scrittore e un maestro di retorica romano. Era probabilmente di origine italica (così è citato nella Suda). Fu nipote e scolaro del retore Acacio di Cesarea. Secondo la Suda (la Suda o Suida è un lessico e un'enciclopedia storica del X secolo, scritta in greco bizantino, riguardante l'antico mondo mediterraneo) avrebbe scritto parecchio, ma ci rimane solo un "Breviarium ab urbe condita" dedicato a Valente, una specie di compendio della storia romana diviso in ordine cronologico e contenente notizia dei principali fatti d'arme e delle principali istituzioni civili e politiche, non escluso un breve accenno agli avvenimenti più importanti, relativi agl'imperatori. L'opera consta di 10 libri e va da Romolo fino all'imperatore Gioviano, morto nel 364. La narrazione eutropiana procede agile e svelta, a piccoli ma incisivi periodi, e il racconto è limitato alla parte puramente indispensabile. Ricoprì, in due riprese, importanti cariche pubbliche sotto vari imperatori e professava il Paganesimo. Lo troviamo in Antiochia dal 355 al 362, prese parte alla campagna sasanide dell'imperatore Giuliano nel 363 e successivamente ricoprì incarichi di estrema importanza a Costantinopoli, al servizio dell'imperatore Valente (dal 364 al 378), di cui fu segretario e storico (magister memoriae, epistolografo) e su richiesta del quale scrisse il "Breviarium ab Urbe condita" ("Breviario dalla fondazione di Roma"). Nel 371/372 fu proconsole (governatore) della provincia d'Asia; restaurò alcune costruzioni di Magnesia sul Menandro, e fu accusato di tradimento dal suo successore Festo, ma poi assolto. Sotto Teodosio I fu prefetto del pretorio dell'Illirico nel 380-381, e nel 387 fu console posterior. Un altro storico, Giorgio Codino, nel suo "De originibus Constantinopolitanis "("Sulle origini di Costantinopoli"), afferma che Eutropio fu segretario di Costantino I, ma non è chiaro se si tratta della stessa persona. Morì dopo il 387.
Il Breviarium - Il "Breviarium ab urbe condita", in dieci libri, è un compendio della storia romana, dalla fondazione della città fino alla morte di Gioviano, avvenuta nel 364. L'attenzione dell'autore è concentrata più agli avvenimenti di politica estera, alle campagne e alle guerre di conquista, che alla politica interna. Gli ultimi quattro libri, dedicati alle vicende imperiali, offrono, però, interessanti ritratti dei sovrani. Le fonti utilizzate da Eutropio sono varie: da Tito Livio e Svetonio, fino a cronache a noi non pervenute e ai ricordi personali dell'autore. Lo stile, generalmente imparziale, è semplice e chiaro, rendendo l'opera accessibile a tutti e contribuendo al suo enorme successo. Essa, infatti, non soltanto fu usata come testo di iniziazione al latino nelle scuole (come ancora oggi accade), ma suscitò tanto interesse che fu ampliata a più riprese (fino all'età di Giustiniano da Paolo Diacono e, successivamente, fino al tempo di Leone l'Armeno da Landolfo Sagace nella "Historia Miscella") e ne vennero eseguite traduzioni anche in greco (quella di Capitone Licio è perduta, mentre rimane pressoché completa quella di Peanio).

Carta dell'enclave di Tartesso,
descritta nell'"Ora Maritima".
42. Rufo Festo Avieno (in latino: Postumius Rufius Festus signo Avienio; Volsinii/Bolsena, floruit "fiorì", intendendo che avesse 40 anni, nella seconda metà del IV secolo) fu un uomo politico e un poeta romano di religione Pagana (CIL VI, 537). Nacque a Volsinii (Bolsena), e discendeva da una famiglia del luogo; tra i suoi antenati vi era Gaio Rufio Festo di Volsinii e i suoi figli Gaio Rufio Festo Lelio Firmo e Rufia Procula, oltre a Gaio Musonio Rufo, un filosofo stoico attivo sotto Nerone e Vespasiano. Aveva un parente di nome Avienio, probabilmente suo padre; sposò Placida, da cui ebbe molti figli e tra questi uno di nome Placido. È possibile che lo si debba identificare col Rullus Festus che fu corrector Lucaniae et Bruttiorum (CIL X, 212). Fu proconsole dell'Acaia e poi d'Africa. Di lui si sono conservate le seguenti opere:
- un'epistola di 31 esametri a Flaviano Mirmico, nella quale invita l'amico a inviargli delle melegrane, nella speranza che tali frutti lo guariscano dal suo mal di stomaco.
- varii poemetti minori ("de cantu sirenum" di 18 versi, "ad amicos de agro" di 9 versi, "de se ad deam Nortiam" di 12 versi)
- la "Descriptio Orbis Terrae" ("Descrizione del mondo"), nota anche con il titolo di "Periegesis seu Descriptio orbis terrarum": una traduzione lunga 1393 esametri dell'opera di Dionigi il Periegeta.
- l'opera "Ora Maritima" (Le coste marittime), dedicata a Sesto Claudio Petronio Probiano, incompleta e lacunosa ma interessante poiché tramanda la fonte più antica su Tartesso. Anche se è stato composta intorno al 400 d.C., nella sua opera il poeta utilizza come principale fonte un periplo, cioè una memoria scritta, del viaggio di un marinaio massaliota (di Marsiglia), che aveva percorso la costa atlantica europea dalle coste britanniche fino ad attraversare le colonne d'Ercole: l'"Euthymenes", scritto nel VI secolo a.C. e forse qualche altra fonte fenicia ancora più antica. Il documento cita la città di Tartesso che si trova tra le braccia della foce di un fiume che corrisponde all'attuale Guadalquivir. La lettura prosegue affermando che Tartesso ha governato su una vasta regione che si estende dalle regioni orientali, menzionando in particolare la città di Herma e la foce di un fiume, che potrebbe essere il Segura o il Vinalopó fino alla foce del Guadiana, nella metà meridionale del Portogallo. Avieno nomina anche diversi popoli stanziati a Tartesso, come i Cilbicenos, Etmaneos e Ileates, oltre che gli abitanti del regno di Selbyssena. Tuttavia, altri autori ci danno un'immagine minore dell'impero tartessico. Ecateo di Mileto, alla fine del VI secolo a.C., nel suo "Periegesís", separa le città dei domini di Tartesso da quelle che i Mastienos avrebbero occupato in gran parte dell'Andalusia orientale, menzionando come città dei Mastienos: Mainobora nei pressi dell'attuale fiume Velez, Sixo, l'attuale Almuñecar, o Sualis (Fuengirola). Ciò ridurrebbe l'ambito tartessico al sud-ovest della penisola. Ecateo menziona anche le città Tartessiche di Elibirge (si può pensare ad Andujar) o Ibila, probabilmente, entrambe situate nella valle del Guadalquivir. Erodoto di Heraclea nomina i tartessici congiunti ad altre popolazioni come Cineti, Gleti, Elbisini, Mastieni e Celciani, tutti situati sulle sponde dello stretto di Gibilterra, le antiche colonne d'Ercole.
- gli "Aratea" è lo scritto più ampio (1878 esametri), una traduzione dei "Fenomeni" di Arato di Soli (in greco antico: Áratos ho Soleús; Soli in Cilicia, 315 a.C. circa - 240 a.C. circa, un poeta greco antico del primo ellenismo), considerata da alcuni l'opera più importante di Avieno. Essa ha un valore intrinseco, dal momento che è l'unica traduzione latina dell'opera di Arato pervenutaci completa. Anche Cicerone ne aveva improntata una, ma a noi ne sono giunti soltanto 480 versi. La traduzione di Avieno non è letterale: oltre ad una generale prolissità, infatti, l'autore apporta all'originale personali aggiunte, che paiono mostrare il suo desiderio di rivaleggiare nella composizione poetica con Germanico, il primo traduttore di Arato.

43. Ammiano Marcellino (in latino: Ammianus Marcellinus; Antiochia di Siria, 330/332 circa - Roma, dopo il 397/400) è stato uno storico romano di età tardo-imperiale.
Carta delle sedi di papati e patriarcati cristiani,
 fra cui Antiochia.
Sebbene nato in Siria nel seno di una famiglia ellenofona, scrisse la sua opera interamente in latino. È il maggiore degli storici romani del IV secolo la cui opera sia stata preservata, seppure in parte. I suoi "Rerum gestarum libri XXXI", o semplicemente "Res gestae", descrivono gli anni che vanno dal 96 al 378, continuando l'opera del grande storico Cornelio Tacito. « Queste vicende, da ex militare e da greco, ho esposto secondo la misura delle mie forze, a partire dal principiato dell'imperatore Nerva, fino alla morte di Valente; mai - credo - scientemente ho osato corrompere con silenzi o menzogne la mia opera, che fa professione di verità. Il resto lo scriva chi di me è più bravo, nel fiore dell'età e della cultura. » (Ammiano Marcellino, Rerum gestarum libri, XXXI, 16, 9). Non si conosce né la sua data di nascita né quella di morte con precisione. Il suo luogo di nascita fu quasi certamente la città di Antiochia, in Siria, anche se alcuni storici, fra cui Charles W. Fornara, hanno recentemente avanzato dei dubbi a tale proposito. Tali dubbi si fondano sulla supposizione che le sue origini siano menzionate solo in una lettera inviatagli nel 392 dal suo concittadino Libanio che, secondo gli storici citati, non era probabilmente diretta ad Ammiano Marcellino bensì ad altro destinatario non ben identificato (anch'egli di nome Marcellino e originario di Antiochia). La missiva in questione, che si è sempre ritenuto indirizzata ad Ammiano, non è tuttavia l'unica prova del suo luogo di origine, come hanno messo in evidenza John Matthews e Guy Sabbah nel rispondere alle critiche cui si è fatto accenno.
Carriera militare - «Militare e greco», si autodefinì Ammiano nelle sue Storie, ma allo stesso tempo si sentì sempre e profondamente romano, convinto come pochi altri della missione civilizzatrice di Roma e del suo impero. Scrive di lui uno storico francese: «...Si forgiò un'anima tutta romana, costituendosi, in qualche modo, difensore di una civiltà che appariva tanto più preziosa quanto più si trovava minacciata...». La sua iscrizione fra l'élite dei protectores domestici mostra che era nobile di nascita. Entrò nell'esercito in giovane età, sotto l'imperatore Costanzo II, e venne distaccato alle dirette dipendenze di Ursicino, governatore di Nisibis nella Mesopotamia romana e magister militum. Fu inviato in Italia con Ursicino quando questi fu richiamato da Costanzo e lo accompagnò nella spedizione contro Claudio Silvano, che era stato spinto, per una ingiusta accusa dei suoi nemici, a proclamarsi imperatore in Gallia. Con Ursicino si recò per due volte nell'Oriente romano ed a malapena riuscì a fuggire, salvando la vita da Amida (la moderna Diyarbakir in Turchia) allorché fu espugnata dal re persiano Sapore II. Quando Ursicino perse, a seguito della caduta della città, il proprio incarico ed il favore di Costanzo, sembra che Ammiano ne abbia condiviso la caduta abbandonando l'esercito. Con l'ascesa al potere di Giuliano, che egli stesso aveva precedentemente conosciuto in Gallia nelle campagne contro gli Alamanni e che era succeduto a Costanzo come imperatore, riacquistò tuttavia i propri gradi e posizione. Prese parte al seguito di Giuliano, per il quale espresse profonda ammirazione, alla tentata conquista della Persia sasanide e, dopo la morte dell'imperatore, fu coinvolto nella ritirata di Gioviano fino ad Antiochia.
Gli anni romani - Lasciato definitivamente il servizio attivo nell'esercito risedette in questa e in altre città dell'Oriente romano (fra cui, per un breve periodo, anche ad Atene), fino a quando, attorno al 380, si trasferì a Roma. Quivi trascorse il resto della sua esistenza, occupandosi della redazione del proprio capolavoro (Res Gestae) e della diffusione dei suoi contenuti mediante letture pubbliche, il cui successo provocò l'ammirazione di Libanio che, nella già citata epistola del 392, inviata da Antiochia, ebbe parole di elogio per lo storico. Non si conosce con certezza né il luogo né l'anno della morte di Ammiano. Secondo alcune fonti Ammiano sarebbe stato ancora in vita nel 397, anno in cui, verosimilmente, terminò di scrivere le Res Gestae, secondo altre, non sarebbe probabilmente deceduto prima del 400.
Opera letteraria - I libri della sua storia giunti fino a noi riguardano gli anni 353 - 378 e costituiscono la fonte più affidabile ed importante del periodo in essa esaminato. Tale opera, nota sia con il titolo latino di "Res Gestae" (da non confondere tuttavia con le "Res Gestae Divi Augusti") sia con quello di "Storie", fu scritta dopo il trasferimento dello storico a Roma agli inizi degli anni ottanta del IV secolo e divulgata tramite letture pubbliche nel decennio successivo. In essa venivano prese in esame le vicende dell'impero romano dall'ascesa di Nerva (nel 96) alla morte di Valente nella Battaglia di Adrianopoli (nel 378). Tale "Storia", nelle intenzioni dell'autore, doveva costituire la continuazione del lavoro portato a termine circa tre secoli prima da Tacito. Le "Rerum Gestarum Libri XXXI" si articolavano originalmente, come appare evidente dal titolo, in trentuno libri, ma i primi tredici sono andati perduti. I rimanenti diciotto libri riguardano il periodo compreso dal 353 al 378. Nell'insieme è stata ed è tuttora considerata un'opera di eccezionale valore storico e documentario e un resoconto libero, completo ed imparziale degli eventi, scritti da un protagonista dotato di onestà intellettuale, preparazione militare, giudizio indipendente e ampie letture. Gli studi recenti hanno anche messo in luce la forza retorica della sua narrazione. Le "Storie" di Ammiano, dato il periodo preso in esame, possono essere anche viste come un lungo prologo alla narrazione della guerra contro i Goti, culminata, nel 378, con la disastrosa sconfitta militare di Adrianopoli subita dall'imperatore Valente, rimasto ucciso nel corso della battaglia, che causò una profonda impressione nell'autore e in tutto il mondo romano. Pochi decenni più tardi, dopo un'effimera ripresa prodottasi durante il regno di Teodosio I (379-395) e l'età di Stilicone (395-408), in Occidente sarebbe iniziato un processo di smembramento irreversibile che avrebbe portato alla piena indipendenza i vari stati indipendenti romano-germanici che si erano andati costituendo al suo interno e che saranno all'origine dell'Europa moderna, mentre in Oriente si sarebbe col tempo sviluppato un impero romano-greco o bizantino. Ammiano ci descrive una romanità ancora vigorosa e unitaria in cui egli stesso continuava a riporre le proprie speranze ma in cui si intravvedevano già i segni del futuro disfacimento: l'eccessiva pressione fiscale, la decadenza economica e finanziaria delle classi medie e, soprattutto, il declino progressivo dello spirito militare e patriotico di un esercito costituito in gran parte da barbari. Ammiano, profondo interprete dei suoi tempi, concentra la sua opera intorno alla figura dell'imperatore e degli alti dignitari intorno a lui: i funzionari, i generali, l'aristocrazia. Il popolo rimane sullo sfondo ed è guardato con disprezzo. L'autorità dei potenti è celebrata con venerazione quando si astiene dall'avversare i privilegi dell'aristocrazia. Si rispecchia qui una società avviata verso la scomparsa delle classi medie e con un popolo ridotto a servitù della gleba (struttura che sarà caratteristica dell'Alto Medioevo). La società rappresentata ha costumi barbarico-feudali, dove dominano ferocia, violenza, malafede, tradimenti, agguati, torture, delazione, sospetti, adulazioni e mormorazioni dei potenti cortigiani, denunce degli agentes in rebus ("agenti in missione", il servizio di spionaggio). In Ammiano gli uomini sono soggetti ad impulsi irrazionali e mutevoli e tutti gli eventi del mondo sono sotto il dominio dell'irrazionale, del magico, del demoniaco, della magia, dell'astrologia. Egli accoglie altresì nella sua opera dottrine che vanno dal fatalismo al neoplatonismo.
Critica moderna - Lo storico del XVIII secolo, Edward Gibbon, ha così giudicato Ammiano: « una guida esatta e degna di fede, che ha composto la storia del suo tempo senza indulgere nei pregiudizi e nelle passioni che affliggono solitamente la mente di un contemporaneo » (Edward Gibbon, The History of the Decline and Fall of the Roman Empire). Benché Ammiano fosse un pagano, nella sua opera scrive del Cristianesimo senza alcuna animosità. Particolarmente importante è la testimonianza che ci fornisce della persecuzione dei cattolici da parte dell'imperatore Costanzo, cristiano ma di confessione ariana, sia per i fatti narrati sia per il ruolo di assoluto rilievo ricoperto dal vescovo di Roma (all'epoca della persecuzione, papa Liberio). Il Papa veniva fin da allora percepito dallo storico e dai suoi contemporanei come la massima autorità ecclesiastica, sia nell'Occidente che nell'Oriente romano. Lo stile di Ammiano, molto elaborato, spesso ricercato, e non sempre di agevole interpretazione, presenta tuttavia, come si è già accennato, un notevole vigore retorico e una grande espressività. Dobbiamo a tale proposito ricordare che la sua opera era stata progettata per una pubblica lettura e che questa richiedeva spesso l'uso dei necessari abbellimenti retorici, anche a scapito, talvolta, della linearità narrativa. Alcune costruzioni e locuzioni utilizzate da Ammiano tradiscono inoltre lingua e formazione elleniche. Ammiano, benché militare di carriera, è riuscito ad analizzare con notevole spirito critico i problemi sociali ed economici che travagliavano il mondo romano del tempo. Il suo approccio verso le popolazioni non-Romane dell'impero è stato generalmente contraddistinto da una maggiore tolleranza e flessibilità di quello di altri storici che lo avevano preceduto. Di grande interesse risultano le sue digressioni sui vari paesi visitati, sia come militare che come privato cittadino, dopo aver lasciato, all'età di circa quarant'anni, il servizio attivo nell'esercito.

Prisciano e la grammatica,
formella del Campanile di
Giotto, opera di Luca della
Robbia, 1437-1439, Firenze,
44. Servio Mario Onorato, noto anche come Deuteroservio o Servio Danielino (in latino: Servius Marius Honoratus; fl. floruit, aveva 40 anni, alla fine del IV secolo; ... – ...), è stato un grammatico e commentatore romano. È noto anche come Deuteroservio o Servio Danielino, da Pierre Daniel che lo pubblicò nel 1600. Compare come uno degli interlocutori nell'opera "Saturnalia" di Macrobio. Alcune allusioni presenti negli scritti e in una lettera di Quinto Aurelio Simmaco indirizzata a Servio, confermano che era pagano. Le sue opere sono state: "Commentarii in Vergilii Aeneidos libros", "Commentarii in Vergilii Bucolica" e "Commentarii in Vergilii Georgica". Del commento alle opere di Virgilio esistono due tradizioni manoscritte. Il primo è un commento relativamente breve e conciso, attribuito a Servio Mario Onorato, ed è chiamato "Servius Minor". A una seconda classe di manoscritti, del X e XI secolo d.C., appartiene un altro commento, molto più esteso, infatti le aggiunte sono abbondanti e in contrasto con lo stile di Servio; l'autore è ignoto ma sicuramente cristiano. Questo secondo è chiamato "Servio Auctus" o "Servius Danielinus" da Pierre Daniel, che lo pubblicò nel 1600. Esiste una terza classe di manoscritti, composti in Italia, derivati dai primi due, a significare la diffusione di questi commenti. Per quanto riguarda il "Servius Minor" è in effetti l'unica edizione completa esistente di un autore classico scritto prima del crollo dell'Impero in Occidente. È una vasta critica al testo virgiliano, con critiche anche ai commentatori prima di lui (in un certo qual modo ci fornisce il modo di pensare dei secoli precedenti); non usa un linguaggio particolarmente elevato, ma è colorito e fantasioso qualora si tratti di etimologie. Oltre all'aspetto grammaticale, i commentari di Servio contengono abbondante materiale storico, mitologico, religioso e filosofico, la maggior parte del quale probabilmente è derivata da fonti di scrittori anteriori, con cui la poesia di Virgilio viene interpretata nei suoi molteplici aspetti, fra cui: Commentarius in artem Donati - Raccolta di note grammaticali di Elio Donato; De centum metris ad Albinum - Un trattato di diverse figure metriche, dedicato a Cecina Decio Albino; De finalibus ad Aquilinum - Un trattato di metrica sui finali; De metris Horatii ad Fortunatianum - Un trattato di metrica di Orazio; Vita Vergilii.

Carta dell'antica Asia minore con
indicata la Cappadocia-
45. Filostorgio (in latino: Philostorgius; Borissus, in Cappadocia, 368 - 439) fu un seguace dell'Arianesimo che compilò una Storia ecclesiastica, pervenuta nella Epitome di Fozio. Suo padre era un eunomiano che convertì l'intera famiglia. A vent'anni, durante il regno di Arcadio, si era recato a Costantinopoli per completare i suoi studi e, facendo molti viaggi, a Dakora, in Cappadocia, incontrò Eunomio, una conoscenza che lo influenzò enormemente. Filostorgio fu probabilmente lo scrittore più erudito della sua epoca, come dimostrano le tante e disparate digressioni nella sua opera. Tra il 425 e il 433 compilò la "Storia ecclesiastica" in dodici libri, dall'inizio dello scisma ariano al 425. L'opera è pervenuta nel riassunto (Epitome) di Fozio, patriarca di Costantinopoli dall'853, che accusò Filostorgio di essere ariano. Fozio tramanda diversi passi di Filostorgio, di cui lodava lo stile, pur ritenendolo di bassa reputazione; l'opera ebbe una grossa influenza anche sulla "Passio Artemii" che ne rielabora alcuni brani. Dall'opera appare che Filostorgio fosse in possesso di parecchi dettagli, in particolare di curiosità geografiche dei paesi più remoti, dell'Asia e dell'Africa. Incluse molti portenti, mostri, prodigi ed altre meraviglie; Fozio lo accusa di assurdità quando attribuisce miracoli a quelli che il patriarca ritiene eretici.

Paolo Orosio, miniatura
del codice di Saint-Epvre
dell'XI sec., da https://it.wi
46. Paolo Orosio (in latino: Paulus Orosius; Braga in Portogallo, 375 circa - 420 circa) è stato un presbitero, storico e apologeta romano. Discepolo e collaboratore di Agostino d'Ippona, su invito di questi redasse gli "Historiarum adversos paganos libri VII" ("Sette libri delle storie contro i pagani") che dovevano servire da complemento storiografico a "La città di Dio" (De civitate Dei) del suo maestro. Nato probabilmente a Bracara, ora Braga, in Portogallo, fra il 380 e il 390, il suo nomen Paulus è stato conosciuto soltanto dall'VIII secolo e alcuni studiosi contestano tale aggiunta. Essendosi presto consacrato al servizio di Dio, ordinato prete andò in Africa nel 413 o nel 414. Il motivo per cui lasciò il suo paese natale è sconosciuto, lui affermava di aver lasciato la sua terra natia "sine voluntate, sine necessitate, sine consensu" (Commonitorium, I). Si recò da Agostino a Ippona, per chiedergli dei chiarimenti su alcuni punti della dottrina cristiana relativi all'anima e alla sua origine, punti che venivano messi in discussione dai Priscilliani.
"Prisciliano insegnò che
i nomi dei Patriarchi
corrispondono alle parti
dell'anima, e parallelamente,
i segni dello Zodiaco
corrispondono alle parti
del corpo". Citazione di
Orosio, Communitorium de
errore Priscillianistarum
et Origenistarum. Da
Priscilliano d'Avila (Galizia, 340 - Treviri, 385) è stato un vescovo spagnolo, fondatore del Priscillianesimo ed è stato, insieme ad altri compagni, il primo eretico affidato dalla Chiesa cattolica all'autorità civile e in seguito giustiziato. Si pensa che sia nato nell'Hispania occidentale, probabilmente in Gallaecia da una famiglia di classe senatoria. Intorno all'anno 370 viaggiò a Burdigala (Bordeaux) per formarsi con il retore Delphidius. Nei dintorni di questa città fondò una comunità di tendenza rigorista insieme al suo mentore e alla moglie di questi, Eucrocia. Gli si attribuisce una relazione con loro figlia Procula, sebbene san Gerolamo menzioni una donna chiamata Gala come sua compagna ufficiale. Il suo principale avversario, Itacio di Ossonoba, attribuiva le sue conoscenze di astronomia e magia ad un certo Marco di Memphis, tuttavia questo nome pare rimandare ad un mago alessandrino del I secolo citato da sant'Ireneo nel suo “Adversus haereses”. Verso il 379, durante il consolato di Ausonio e di Olybrio tornò nel nord-ovest della penisola iberica e cominciò il suo periodo di predicazione. Le sue idee riscossero un gran successo, specialmente tra le donne e le classi popolari, per il suo rifiuto dell'unione fra la Chiesa e l'Impero e della corruzione e arricchimento delle gerarchie. Nel 414 Paolo Orosio preparò per Agostino un "Commonitorium de errore Priscillianistarum et Origenistarum" al quale Agostino replicò con il suo "Ad Orosium contra Priscillianistas et Origenistas". Per trovare una risposta a tali questioni riguardo all'anima e alla relativa origine Orosio, su consiglio di Agostino (Epist. CLXVI), andò in Palestina, da Girolamo.
Pelagio, da https://commo
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php?curid=3340151
Pelagio stava allora tentando di diffondere in Palestina le sue dottrine eretiche, e Orosio aiutò Girolamo e altri nella lotta contro questa eresia. Pelagio, nome ellenizzato e latinizzato di Morgan (ossia Marino) (Britannia, 360 - Palestina, 420), grande e corpulento, con ampie spalle, fronte prominente, collo taurino e andatura da tartaruga, almeno secondo le descrizioni di Girolamo e di Marius Mercator, visse a Roma verso il 384, dove strinse amicizia con l'avvocato Celestio, con il quale si rifugiò, in seguito al sacco di Roma del 410 da parte dei Visigoti, dapprima a Ippona, nel Nordafrica, conoscendo forse Agostino e poi a Cartagine. Qui con Celestio elaborò la dottrina detta appunto Pelagianesimo. Era un uomo di grande talento, oratore, scrittore ed esegeta molto apprezzato che rimase "dottore laico e indipendente". Suo scopo era quello di reagire contro una religione superficiale, quella dei pagani convertiti in massa al Cristianesimo. Pelagio era soprattutto un moralista severo e intransigente: predicava, infatti il distacco dalle ricchezze, la povertà e la castità. Combatté con forza qualunque rilassamento, insistendo sull'esistenza dell'inferno e del paradiso. Il monaco britannico Pelagio, con l'avvocato Celestio, il suo più eminente discepolo, predicavano come il peccato originale fosse attribuibile ai soli progenitori, non ai discendenti e tale peccato non macchiò la natura umana, che ne subì però le conseguenze. Quindi la volontà dell'essere umano è da sola in grado di scegliere ed attuare il bene, senza necessità della grazia divina. Il peccato di Adamo fu quello di portare un «cattivo esempio» alla sua progenie, ma le sue azioni non avrebbero avuto altra conseguenza sulla discendenza umana, oltre ai castighi elencati nella Genesi. Negavano dunque che occorrsse una ''redenzione'' al genere umano, così com'è sostenuto dalla religione ebraica. Le teorie pelagiane furono combattute in Africa dal vescovo Agostino d'Ippona e poi definitivamente condannate come eretiche nel Concilio di Efeso del 431. Nel 415 Giovanni, vescovo di Gerusalemme, che era favorevole agli insegnamenti di Origene e influenzato da Pelagio, radunò i preti in un concilio che si tenne a Gerusalemme. In questo concilio Orosio attaccò duramente gli insegnamenti di Pelagio, il quale però, ritenendo impossibile che l'uomo potesse diventare perfetto ed evitare di cadere in peccato senza l'aiuto di Dio, evitò che Giovanni lo condannasse, anzi, Giovanni decise che i suoi avversari avrebbero dovuto sostenere le loro tesi di fronte a Papa Innocenzo. In seguito alla sua opposizione a Pelagio, Orosio venne così in contrasto con il vescovo Giovanni, che lo accusava di aver sostenuto che non è possibile per l'uomo evitare il peccato nemmeno con la grazia di Dio. In risposta a questa accusa, Orosio scrisse il suo "Liber apologeticus contra Pelagium de Arbitrii libertate", in cui fa un resoconto dettagliato del Concilio di Diospolis del 415 e tratta in modo libero e corretto le due principali questioni “contra Pelagium”: la possibilità del libero arbitrio dell'uomo e la perfezione cristiana nel fare la volontà di Dio in terra. Nella primavera del 416 Orosio lasciò la Palestina per ritornare da Agostino in Africa e da lì a casa. Portò una lettera di Girolamo (Epist. cxxxiv) a Agostino, come pure le scritture dei due vescovi della Gallia, Hero e Lazaro, che in Palestina stavano combattendo contro il Pelagianesimo (cfr. Agostino, Epist. clxxv). Inoltre portò da Gerusalemme le reliquie da poco scoperte del protomartire Stefano e una lettera in latino del presbitero Luciano, che le aveva scoperte. Dopo un breve soggiorno presso Agostino a Ippona, Orosio cominciò il suo viaggio verso casa ma, raggiunta Minorca, e venuto a sapere delle guerre e delle devastazioni dei Vandali in Spagna, ritornò in Africa. Le reliquie di santo Stefano che aveva lasciato a Minorca, divennero oggetto di una venerazione che si diffuse in Gallia e in Spagna. Sulla conversione di ebrei attraverso queste reliquie, cfr. Severo, "De virtutibus ad conversionem Judaeorum in Minoricensi Insula factis", (Patrologia Latina, XLI, 821-32). Orosio ritornò in Africa e, spinto da Agostino, scrisse la prima storia universale cristiana: gli "Historiarum adversus paganos libri septem", pensati come un complemento a “La città di Dio” (De civitate Dei) del maestro, in particolare al terzo libro, nel quale Agostino dimostra che l'Impero romano soffriva di varie calamità tanto prima quanto dopo l'affermarsi del Cristianesimo come religione ufficiale, contro la tesi pagana secondo la quale l'aver abbandonato gli dei romani era stata la causa delle calamità. Agostino voleva che ciò fosse dimostrato in un'opera sé stante analizzando per intero la storia di tutte le popolazioni dell'antichità, con l'idea fondamentale che Dio determina i destini delle nazioni. In base alla sua teoria, due imperi principalmente avevano governato il mondo: Babilonia a est e Roma a ovest. Roma aveva ricevuto l'eredità di Babilonia tramite gli imperi Macedone e poi Cartaginese. Così sostiene che ci furono quattro grandi imperi nella storia: un'idea ampiamente accettata nel Medioevo. Il primo libro descrive brevemente il mondo e ne traccia la storia dal Diluvio alla fondazione di Roma; il secondo fornisce la storia di Roma fino al sacco della città a opera dei Galli, della Persia fino a Ciro II e della Grecia fino alla battaglia di Cunassa; il terzo si occupa principalmente dell'impero macedone sotto Alessandro Magno ed i suoi successori, così come la storia romana contemporanea; il quarto porta la storia di Roma fino alla distruzione di Cartagine; gli ultimi tre libri trattano solo la storia romana, dalla distruzione di Cartagine fino ai giorni dell'autore. Il lavoro, ultimato nel 418, mostra i segni di una certa fretta. Oltre alle Sacre Scritture e alla Cronica di Eusebio di Cesarea rivista da Girolamo, utilizzò come fonti Livio, Eutropio, Cesare, Svetonio, Floro e Giustino. Conformemente allo scopo apologetico, sono descritte tutte le calamità sofferte dalle varie popolazioni. Sebbene superficiale e frammentario, il lavoro è apprezzabile perché contiene informazioni contemporanee sul periodo dopo il 378. Dopo il 418, anno di ultimazione della sua opera, di Orosio non si hanno più notizie. Ampiamente utilizzata durante il Medioevo come compendio, l'opera di Orosio è stata tramandata da quasi 200 manoscritti.

La Tracia, provincia Romana, da: htt
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of_Illyricum%2C_Macedonia%2C_
Dacia%2C_Moesia%2C_Pannonia
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47. Prisco di Panion (Panio in Tracia, 420 circa - dopo il 471) è stato uno storico romano-orientale (bizantino), di lingua greca, che visse durante il regno di Teodosio II (408-450), e scrisse una "Storia", di notevole importanza e affidabilità, che descrive anche la sua esperienza come inviato presso la corte di Attila. Le fonti sulla vita di Prisco sono nell'enciclopedia bizantina Suda con i frammenti della sua stessa opera storica, la Storia. Alcune fonti antiche lo definiscono un retore, attribuendogli anche delle lettere e un'opera di Esercizi di retorica andate perdute. Prisco nacque a Panio (Panium), in Tracia, intorno al 420. Nel 448/449 partecipò all'ambasciata presso il re degli Unni Attila, nel seguito di un ufficiale suo amico, un certo Massimino; questa ambasciata e l'operato di Prisco costituiscono la parte maggiore di quanto resta della sua opera. Nel 450 era a Roma, assieme probabilmente a Massimino, forse latore della lettera di papa Leone I al clero di Costantinopoli. Assieme a Massimino si trovava a Damasco nel 451 o 452, dove testimonia delle trattative di pace tra il generale Ardaburio e i Saraceni. Successivamente si recò con Massimino a Tebe, in Egitto, per negoziare il trattato di pace concesso agli sconfitti Blemmi e Nubadi. Nel 453 Prisco si recò ad Alessandria d'Egitto, dove assistette alla rivolta popolare scoppiata a seguito dell'elezione del vescovo Proterio: Prisco ebbe una parte di rilievo nel sedare la rivolta, in quanto suggerì di continuare i giochi e di effettuare una donazione di viveri alla popolazione, che era riuscita ad annientare la guarnigione della città. L'ultimo evento che lo coinvolge è una ambasciata in Georgia occidentale condotta dal magister officiorum Eufemio, per cui visse almeno fino al 471, in quanto scrisse gli eventi di quel periodo nella sua opera. Malgrado la sua partecipazione a diverse missioni diplomatiche, non è possibile affermare che ricoprisse una carica ufficiale anche se sicuramente ha dimostrato di essere un buon giudice di uomini, e i pochi frammenti restanti permettono di affermare che non fu un semplice testimone dei fatti, ma ebbe una certa influenza e pur essendo una figura minore e si dimostrò attivo rispetto alle problematiche che si trovò ad affrontare. I frammenti dell'opera di Prisco pervenutici, sono contenuti in due opere compilate per volere e sotto la supervisione dell'imperatore Costantino VII Porfirogenito (913-959), che raccolsero le testimonianze delle ambasciate inviate dagli imperatori romani (Excerpta de legationibus Romanorum ad gentes, "Estratti delle ambasciate dei Romani presso gli stranieri") e di quelle ricevute (Excerpta de legationibus gentium ad Romanos, "Estratti delle ambasciate degli stranieri presso i Romani"). Viene anche citata nella Suda, che afferma fosse in otto libri. Il titolo, Storia, viene comunemente accettato dagli studiosi, ma è diversamente riportato dalle fonti: le opere di Costantino riportano sia Storia che Storia gotica, Suda tramanda Storia bizantina (che però è più una descrizione del contenuto) e Eventi del tempo di Attila. Data la frammentarietà dell'opera pervenuta, non è chiaro quale periodo coprisse. I frammenti databili pervenuti iniziano a parlare della salita al trono di Attila (433/434) e terminano con l'assassinio di Ardaburio Aspare (471). Poiché normalmente le storie terminavano con il regno di un imperatore, Prisco avrebbe potuto completare la propria "Storia" con gli eventi fino alla morte di Leone I (474); alternativamente, considerando che Fozio afferma come l'opera dello storico Malco iniziasse dal 473, è possibile che questi abbia ripreso la Storia di Prisco, terminata con l'anno 472. Il fatto che Prisco esprima un giudizio negativo su Basilisco (un parente di Leone salito al trono nel 475, deposto e ucciso l'anno successivo) suggerisce che l'opera sia stata composta dopo il 476, anno della caduta di questo personaggio; similmente, se il brano di Giovanni di Antiochia che critica il potente generale Onulfo è derivato da Prisco, la "Storia" potrebbe essere stata completata dopo il 479, anno in cui Onulfo era caduto in disgrazia. L'analisi dei frammenti della Storia e delle opere da esse influenzata suggerisce che Prisco fosse contrario alla politica di sovvenzionamenti dei Romani nei confronti degli Unni, e dunque critico con gli imperatori che la portarono avanti, come Teodosio II, e fosse invece favorevole a quelli che la rigettarono, come Marciano.
L'impero di Attila nel 450, da: https://it.wikipedia.org
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Tra le figure occidentali, Prisco critica il potente magister militum Ricimero. Sia alcune scelte stilistiche, che l'uso di episodi di Erodoto, mostrano l'influenza dello scrittore greco su Prisco; altra fonte riconosciuta, per lo meno di alcuni modelli narrativi, è Tucidide. Non sono state riconosciute altre fonti, né Prisco ne cita ulteriori, del resto mostra di aver viaggiato molto e di aver consultato testimoni oculari, oltre che di aver avuto la possibilità di consultare documenti ufficiali. L'opera di Prisco, che non è citata da Fozio, ebbe una notevole influenza sugli storici successivi. Giordane, storico del VI secolo deve alcuni brani della sua De origine actibusque Getarum ("Origine e gesta dei Goti") a Prisco; considerando che rielabora materiale della perduta storia dei Goti di Cassiodoro, è possibile che anche quest'ultimo avesse utilizzato l'opera di Prisco. Sempre nel VI operarono Procopio di Cesarea, che utilizzò Prisco come fonte per le sue Guerre, ed Eustazio di Epifania, la cui cronaca, perduta, potrebbe aver influenzato Evagrio Scolastico, autore della Storia ecclesiastica, e Giovanni di Antiochia, di cui sono giunti alcuni frammenti: tutti mostrano infatti influenze dei brani di Prisco.

Cassiodoro, da: https://com
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:Nuremberg_chronicles_f_14
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Nuremberg_chronicles_
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48. Flavio Magno Aurelio Cassiodoro Senatore (in latino: Flavius Magnus Aurelius Cassiodorus Senator; Scolacium, 485 circa - Scolacium, 580 circa) è stato un politico, letterato e storico romano, che visse sotto il regno romano-barbarico degli Ostrogoti e successivamente sotto l'Impero Romano d'Oriente.
Carta con l'ubicazione di Squillace
Lido, nei cui pressi sorgeva
l'antica Scolacium.
Visse un'importante carriera politica sotto il governo di Teodorico il Grande (493-526), ricoprendo ruoli tanto vicini al sovrano da far pensare in passato ad un effettivo contributo diretto al progetto del re ostrogoto. Al termine della guerra gotica si stabilì in via definitiva a Squillace, dove fondò il monastero di Vivario con la sua biblioteca. La fonte principale che ci permette di conoscere la famiglia di Cassiodoro è data dalla sua più vasta e importante opera, le "Variae". Nacque in una delle più stimate famiglie dei Bruttii, il nome della Calabria di allora, originaria dall'Oriente (probabilmente dalla Siria) e facente parte del patriziato. L'origine del nome Cassiodoro è da ricercarsi in un luogo di culto dedicato a Zeus, situato nei pressi di Antiochia. Da una lettera scritta da Cassiodoro per Teodorico abbiamo notizie sui suoi genitori, così come su un parente di nome Heliodorus, prefetto a Costantinopoli per diciotto anni nella seconda metà del V secolo. Dall'antica origine della famiglia si può comprendere la scelta dei Bruttii come nuova patria, essendo questa una zona della Magna Grecia culturalmente più vicina all'Oriente greco. Si hanno notizie inoltre del bisnonno di Cassiodoro, definito "vir illustris" e del nonno; quest'ultimo fu tribuno sotto Valentiniano III, e in qualità di ambasciatore conobbe il re degli Unni Attila. Al padre di Cassiodoro furono indirizzate alcune lettere delle "Variae", il che ci offre più dati su di lui; ricoprì il ruolo di comes rerum privatarum e successivamente di comes sacrarum largitionum nel governo di Odoacre, mantenne la propria posizione di funzionario d'amministrazione anche sotto Teodorico, tanto da diventare governatore provinciale. Attorno al 490 lo si ritrova governatore della Sicilia, e dopo essere entrato nelle grazie di Teodorico, governatore della Calabria fino al 507, quando si ritirerà a vita privata. Così come per i suoi familiari, ricaviamo notizie sulla vita di Cassiodoro solo dalle sue opere. Le date di nascita e morte sono quelle indicate dal Tritemio (Johannes von Trittenheim, 1462-1516) nel suo "De scriptoribus ecclesiasticis" (Basilea 1494): Cassiodoro morì nel 575 "a più di 95 anni d'età", ed il menologio benedettino lo ricorda il 25 settembre. Da ciò si deduce che l'anno di nascita è il 480; conclusione cui era giunto, indipendentemente dal Tritemio, anche Carlo Tanzi nel suo studio sulle "Variae". Per quelli che, come Theodor Mommsen, non ritengono attendibili i dati del Tritemio, le date di nascita e morte di Cassiodoro rimangono ipotizzate, principalmente grazie a quelle note dei suoi incarichi amministrativi; nonostante ciò molte cronache tendono a confondere alcuni dati della vita di Cassiodoro con eventi vissuti dal padre, attribuendo una grande longevità al letterato di Squillace. Proprio per quanto riguarda Squillace, non è certo che Cassiodoro vi nacque; molto più probabilmente vi passò l'infanzia, ricevendo dalla propria famiglia una prima educazione e seguendo degli studi. Ancora giovane fu avviato dal padre alla carriera pubblica, per la quale ricoprì anzitutto il ruolo di consiliarius, per poi diventare quaestor sacri palatii nel 507, forse perché Teodorico apprezzò particolarmente un panegirico che egli aveva composto. Poco tempo dopo ricevette il governatorato di Lucania e Bruttii, notizia che si può apprendere da una lettera inviata al cancellarius Vitaliano; seguendo differenti interpretazioni storiche, questa congettura è stata però di recente messa in dubbio. Al 514 risale la designazione a console, per la quale la data è certa; nonostante si trattasse ormai di una carica onorifica manteneva una certa importanza, permettendo a Cassiodoro di ricoprire il ruolo di eponimo. Dei dieci anni successivi non si conosce nulla, salvo la pubblicazione della "Chronica" del 519. Successivamente, nel 523, fu nominato magister officiorum del re, succedendo nella carica a Boezio; il ruolo era di grande prestigio, e Cassiodoro rappresentò con esso il capo dell'amministrazione pubblica, degli officia e delle scholae palatinae. Alla morte del sovrano, avvenuta nel 526, si aprì una complessa fase di successione; divenne ministro di Amalasunta, la figlia di Teoderico (493-526), succedutagli sul trono come reggente per il figlio Atalarico. Presumibilmente Cassiodoro perdette parte della sua influenza nei primi anni di tali mutamenti politici, ma seppe poi riproporsi e, con un lettera di Atalarico del 533, guadagnò il titolo di Prefetto del pretorio per l'Italia. Non ricoprì questo ruolo politico per molto tempo; Atalarico morì nel 534 e ai consueti problemi di successione si aggiunse la malvolenza di Giustiniano verso gli Ostrogoti, insofferenza che culminò poi con la guerra gotica. Cassiodoro resse nuovamente la prefettura tra il 535 e il 537, sotto i re Teodato e Vitige, per poi abbandonare definitivamente la carriera pubblica nel 538; nelle "Variae" si possono trovare le ultime lettere scritte per conto di Vitige, anche se non viene detto nulla sul concludersi della sua funzione politica né si sa alcunché dei suoi successori. Di fronte all'avanzata bizantina, Cassiodoro rimase dapprima in ritiro a Ravenna, luogo che offriva ancora una certa sicurezza; nel 540 la città fu conquistata dalle truppe imperiali di Costantinopoli e da quel momento, per dieci anni, si perdono le sue tracce. Potrebbe essere tornato a Squillace, dove però avrebbe avuto scarse possibilità di movimento oppure essere rimasto a Ravenna. Nel 550 lo si ritrova nel seguito di papa Vigilio a Costantinopoli, città nella quale potrebbe anche essersi spostato, secondo una terza ipotesi, in un periodo precedente alla data conosciuta. Rientrò nei Bruttii solo dopo la fine della guerra, attorno al 554; ritiratosi definitivamente dalla scena politica, fondò il monastero di Vivario presso Squillace, in un periodo non meglio precisato. Si hanno anche per questa parte della sua vita pochissimi dati, non si conoscono quindi le motivazioni che lo portarono alla creazione di questa comunità monastica né particolari sulla contemporanea situazione politica della penisola italica; per quanto riguarda la sua situazione personale, si può ipotizzare che non ebbe moglie né eredi diretti. Al Vivarium trascorse il resto dei suoi anni, dedicandosi allo studio e alla scrittura di opere didattiche per il clero. Qui istituì uno scriptorium per la raccolta e la riproduzione di manoscritti, che fu il modello a cui successivamente si ispirarono i monasteri medievali, come quelli Benedettini. Attorno ai novant'anni Cassiodoro scriverà la sua ultima opera, il "De ortographia"; la sua data di morte non è conosciuta, anche se viene generalmente datata attorno al 580.
Il pensiero politico - L'obiettivo principale del progetto politico-culturale di Cassiodoro fu quello di accreditare il regno teodericiano come una restaurazione del Principato, ossia quella forma di governo che aveva garantito la collaborazione, formalmente quasi paritaria, tra l'imperatore e la classe senatoria. Questa autorappresentazione del governo goto serviva in primo luogo come legittimazione del regno nei confronti dell'Impero costantinopolitano. Sostanzialmente, essendosi conformato il regime ostrogoto al modello imperiale, il primato dell'imperatore orientale era fondato esclusivamente su un piano carismatico (pulcherrimum decus). Al tempo stesso, tale «imitazione» da parte di Teoderico poneva l'Amalo (gli Amali erano una delle dinastie nobili dei Goti, considerati come i più valorosi tra i guerrieri e i sovrani gotici. Stando ad una loro leggenda, gli Amali discenderebbero da un antico eroe le cui gesta gli valsero il titolo di Amala, ossia "potente"), in una posizione di superiorità nei confronti degli altri regni barbarici attraverso: « ...un principio politico-carismatico, basato su una gerarchia di due livelli (l'impero e il regno di Teoderico, gli altri regni), con un vertice binario e leggermente asimmetrico. Tra tutti gli altri dominantes, Teoderico era il solo che, per volontà divina, aveva saputo dare al suo regno gli stessi fondamenti etici e legali dell’imperium: il suo regno era una replica perfetta del modello imitato e a sua volta un modello. » (Andrea Giardina). La prospettiva di Cassiodoro, infatti, non è più l'impero universale, bensì quella "nazionale" dell'Italia romano-ostrogota, autonoma nei confronti di Costantinopoli ed egemone rispetto agli altri regni occidentali, sebbene siano state avanzate riserve circa la reale ambizione di Teoderico di assumere l'eredità del decaduto Impero romano d'Occidente. Il monastero di Vivario nacque con uno scopo differente dal celebre Ora et labora: l'obiettivo principale del nucleo monastico fu infatti la copiatura, la conservazione, scrittura e studio dei volumi contenenti testi dei classici e della patristica occidentale. La caratteristica di Vivarium era quindi la sua forma di scriptorium, con le annesse problematiche di rifornimento materiali, studio delle tecniche di scrittura e fatiche economiche; i codici e manoscritti prodotti nel monastero raggiunsero una certa popolarità e furono molto richiesti. Le forme entro cui si espresse invece l'organizzazione monastica dal punto di vista religioso sono ben poco chiare, né aiuta l'assenza di riferimenti alla vicina esperienza di Benedetto da Norcia; forse Cassiodoro non ne conobbe neppure l'esistenza, o potrebbe averne parlato in opere non giunteci. Alcuni storici avanzano l'ipotesi che la Regula magistri, su cui si basa la Regola benedettina, sia addirittura opera dello stesso Cassiodoro; questo presunto rapporto tra i due è però generalmente rigettato dagli studiosi, anche alla luce di alcune citazioni provenienti dalle Institutiones che chiariscono le norme monastiche adottate da Vivarium: « Voi tutti che vivete rinchiusi entro le mura del monastero osservate, pertanto, sia le regole dei Padri sia gli ordini del vostro superiore e portate a compimento volentieri i comandi che vi vengono dati per la vostra salvezza... Prima di tutto accogliete i pellegrini, fate l'elemosina, vestite gli ignudi, spezzate il pane agli affamati, poiché si può dire veramente consolato colui che consola i miseri. » (Cassiodoro, "Institutiones"). Questa citazione mostra come Vivarium seguisse quindi le più comuni regole monastiche contemporanee, mentre altri passaggi delle Institutiones ci suggeriscono un ruolo laico per Cassiodoro, forse esterno alla vita monastica e puramente patronale. Il vero centro vitale di Vivarium era, particolare che segna la differenza con ogni altro centro monastico, la biblioteca; Cassiodoro distingue inoltre i libri del monastero da quelli personali, differenza poi scomparsa in un periodo successivo. « Era la biblioteca, infatti, come centro di cultura di tutto il monastero, la novità del suo programma, una biblioteca nata ed accresciuta secondo le intenzioni del fondatore che dei suoi libri conosceva non solo la sistemazione, perché l'aveva curata personalmente, ma anche i testi, perché li aveva studiati, annotati, arricchiti di segni critici, riuniti insieme secondo la materia in essi trattata e persino abbelliti esteriormente. » (Mauro Donnini nella prefazione alle Institutiones). Il monastero prendeva nome da una serie di vivai di pesci fatti preparare dallo stesso Cassiodoro; la loro presenza rappresentava un forte valore simbolico, legato al concetto di Cristo come Ichthys. Non lontano dal centro si trovava una zona per anacoreti, riservata a monaci con pregresse esperienze di vita cenobitica. Vivarium sorgeva, secondo gli studi ad oggi compiuti, nella contrada San Martino di Copanello, nei pressi del fiume Alessi; in quella zona fu ritrovato un sarcofago datato VI secolo, associato a graffiti devozionali e subito considerato la sepoltura originale di Cassiodoro, ipotesi che non convince fino in fondo gli studiosi. Per ciò che riguarda la ripartizione del lavoro, i monaci inadatti a seguire la biblioteca con annessi oneri intellettuali erano destinati alla coltivazioni di orti e campi, mentre i letterati si occupavano dello studio delle Sacre Scritture e delle sette arti liberali; quest'ultimi erano divisi in notarii, rilegatori e traduttori. Le opere di carità erano espressamente raccomandate dal fondatore, e legati a queste fiorivano gli studi di medicina. Importanti furono gli studi sulle opere sacre: Cassiodoro fece preparare tre edizioni differenti della Bibbia e si occupò di copiature e riscritture di molti altri testi della cristianità, considerando tutto ciò una vera e propria opera di predicazione. Non mancano però nella biblioteca di Vivarium i testi profani: tra gli altri furono salvati grazie all'opera di Cassiodoro le Antiquitates di Flavio Giuseppe e l'Historia tripartita.
Opere - Le opere di Cassiodoro del periodo di Teodorico, quelle da noi conosciute, sono tre: le "Laudes", la "Chronica" e l'"Historia Gothorum". Tra la produzione di Cassiodoro occupano un posto speciale le "Variae", raccolta di documenti ufficiali scritti tra il 537 ed il 540, i quali ci offrono quindi informazioni su differenti periodi della vita dell'autore e sulla storia dei Goti; a queste si può aggiungere il "De Anima", opera per la prima volta lontana da interessi politici e invece basata su temi della spiritualità. Il terreno religioso è battuto anche dalla successiva "Expositio Psalmorum", commento ai salmi di particolare importanza poiché unico esempio pervenutoci dal mondo tardo antico. Al periodo di Vivarium appartengono tra le opere a noi giunte, le "Institutiones", le "Complexiones in epistolas Beati Pauli" e le "Complexiones in epistolas catholicas", le "Complexiones actuum apostolorum et in Apocalypsi" e il "De ortographia".
Chronica - Uno scritto di chiari intenti politici è la "Chronica", una sorta di storia universale scritta nel 519 su richiesta per celebrare il consolato di Eutarico Cillica (diviso con l'Imperatore Giustino), genero di Teodorico e designato al trono. Il sovrano d'Italia non aveva eredi maschi mentre Eutarico, sposandone la figlia Amalasunta, era riuscito a donargli un nipote, Atalarico. Alla luce di questa nuova dinastia, la scelta di offrire il ruolo di console a Eutarico rappresentava quindi un importante evento politico: si trattava della celebrata unione tra i Romani ed i Goti, progetto che poi fallirà tragicamente. L'opera, che come comprensibile dal titolo ha chiari fini storici, propone una successione dei grandi poteri politici succedutisi nella storia, passando da Adamo sino ad approdare al 519 con Eutarico. È basata su numerose fonti che Cassiodoro spesso cita quali Eusebio, Gerolamo, Livio, Aufidio Basso, Vittorio Aquitano e Prospero d'Aquitania; per la trattazione successiva al 496 invece l'autore è autonomo. L'elemento dell'opera che maggiormente colpisce è il suo carattere spiccatamente filo-gotico: Cassiodoro arriva a manipolare alcuni eventi storici o a farne addirittura scomparire altri, al fine di non far apparire i Goti sotto un'oscura luce.
Historia Gothorum - Una delle sue opere più importanti fu il "De origine actibusque Getarum" (più noto come "Historia Gothorum") in 12 libri, nel quale la sua ideologia filo-gotica era tracciata e sviluppata in maniera più organica. Si considera l'opera contemporanea o poco successiva alla "Chronica", anche se più studiosi tendono a ritenerla più recente, forse composta tra il 526 e il 533. Certamente la stesura fu caldeggiata da Teoderico, per essere infine pubblicata sotto Atalarico; nonostante ciò essa ci è pervenuta solo nella versione ridotta dello storico Giordane, i "Getica". Prima storia nazionale di un popolo barbarico, la "Historia Gothorum" era tesa a glorificare la dinastia degli Amali, la stirpe regnante, attraverso una ricostruzione della storia dei Goti dalle origini ai tempi presenti. Il tentativo più ardito dell'opera fu - come emerge dal titolo stesso - l'identificazione dei Goti con i Geti, popolazione già nota a Erodoto e maggiormente conosciuta dal mondo romano. Il racconto narra eventi storici sino all'anno 551 e come scopo ha inoltre quello di celebrare l'unione tra Goti e Romani, qui comprovata dal matrimonio tra il romano Germano Giustino e l'amala Matasunta. Il fine ultimo dell'opera lo svela, per bocca di Atalarico, Cassiodoro stesso: « Questi [Cassiodoro] ha sottratto i re dei Goti al lungo oblio in cui li aveva nascosti l'antichità. Questi ha ridato agli Amali la gloria della loro stirpe, dimostrando chiaramente che noi siamo stirpe regale da diciassette generazioni. L'origine dei Goti egli ha reso storia romana, quasi raccogliendo in una corona fiori prima sparsi qua e là nel campo dei libri. » (Cassiodoro, "Variae".)

49. Procopio di Cesarea (in greco antico Prokópios ho-Kaisaréus; Cesarea marittima, 490 circa - Costantinopoli, 560 circa) è stato uno storico Romano-orientale (o bizantino). 
Carta con Caesarea marittima.
Cesarea marittima era la città portuale fondata da Erode il Grande, tra il 25 e il 13 a.C., sulla costa mediterranea del regno di Giudea durante il protettorato romano, chiamata Cesarea in onore di Cesare Ottaviano Augusto, come molte altre città dell'era romana, tra cui Cesarea di Filippo sulle alture del Golan e Cesarea Mazaca in Cappadocia; la città era un emporio commerciale dall'epoca dei Fenici. Storico, militare e politico, l'ottica e la tecnica storiografica di Procopio risultano di matrice fondamentalmente pagana, utilizzando i modelli greci e latini (Erodoto, Tucidide, Livio, Tacito) che la storiografia cristiana-europea riscoprirà solo nel Quattro e Cinquecento con gli umanisti. Le sue opere, scritte in greco, raccontano il periodo dell'imperatore bizantino Giustiniano I, le sue guerre contro i Vandali, i Persiani e gli Ostrogoti d'Italia (Guerra gotica), la cronaca della vita politica alla corte di Costantinopoli e le descrizioni delle opere edilizie effettuate da Giustiniano.
In gioventù Procopio studiò retorica, filosofia e diritto a Gaza e successivamente si trasferì a Costantinopoli sotto il regno di Anastasio, esercitando la professione di avvocato. Nel 527, quando il generale Belisario divenne comandante delle truppe di Dara contro i Persiani, Procopio venne nominato suo consigliere. In quanto consigliere e segretario del celebre generale, prese parte alla guerra iberica (526-532) contro i Sasanidi e alla guerra vandalica (533-534) contro i Vandali.
Nel 534, in seguito alla conquista dell'Africa, Procopio non seguì Belisario a Costantinopoli ma restò in Africa alle dipendenze del magister militum e prefetto del pretorio Salomone. Quando scoppiò una rivolta dell'esercito africano, Salomone e Procopio furono costretti a fuggire in Sicilia, da dove chiesero aiuto a Belisario, che aveva poco prima preso l'isola ai Goti. Belisario, pur infliggendo una sconfitta ai ribelli, non aveva ottenuto una vittoria definitiva su di loro e ben presto fu costretto a ritornare in Sicilia. Procopio lo seguì divenendo di nuovo suo segretario, e partecipando alle campagne condotte contro i Goti (535-540). Ritornato a Costantinopoli con Belisario nel 540, fu testimone oculare dell'epidemia di peste che flagellò la capitale nel 542.
Nel 551 scrisse una "Storia delle guerre" in sette libri che narra delle guerre di cui è stato per molti fatti testimone diretto; un ottavo libro dell'opera, un aggiornamento, uscì nel 553. L'opera di Procopio si rifà a Tucidide, contiene vari aneddoti, presagi e digressioni sui luoghi in cui si combattevano le guerre. Ebbe successo e sarà continuata da Agazia Scolastico (che narrerà gli anni dal 552 al 559) e da Menandro Protettore (dal 559 al 582). Nel libro I Procopio narra anche la rivolta di Nika e la caduta in disgrazia di Giovanni di Cappadocia, nonostante i primi due libri (La Guerra Persiana) riguardassero le guerre romane contro la Persia Sasanide dal 502 al 551e le guerre precedenti a partire dal 395. I Libri III e IV narrano invece le guerre vandaliche combattute in Africa contro i Vandali e i Mauri. I primi capitoli del Libro III narrano le guerre precedenti al regno di Giustiniano, quindi la conquista vandalica dell'Africa ad opera di Genserico, il regno dei suoi successori e i tentativi dei due imperi d'Occidente e d'Oriente di riconquistare l'Africa. Si passa poi a narrare la conquista bizantina dell'Africa ad opera di Belisario e le guerre dei Bizantini contro i Mauri, le popolazioni del deserto. I Libri V, VI e VII riguardano invece la guerra gotica, la guerra di Giustiniano condotta contro gli Ostrogoti che occupavano l'Italia e la Dalmazia. I primi capitoli narrano brevemente sullo stato dell'Italia prima della guerra gotica mentre si passa poi a narrare la guerra gotica di Giustiniano. Importante è la descrizione molto dettagliata di Procopio, testimone oculare, dell'assedio di Roma ad opera dei Goti nel 537-538. Il libro VII narra gli avvenimenti della guerra gotica dal 540 al 551. Nel libro VIII, scritto solo nel 553, i primi capitoli sono dedicati alla guerra lazica (combattuta tra l'Impero romano d'Oriente e i Sasanidi per il controllo della regione della Lazica, corrispondente all'odierna Georgia) dal 551 al 553 mentre quelli conclusivi parlano della vittoriosa campagna di Narsete contro i Goti, grazie alla quale l'Italia sarà annessa all'Impero. È stato osservato che i libri che trattano gli eventi fino al 540 non contengono molte critiche al governo di Giustiniano mentre invece quelli che trattano eventi successivi contengono molte critiche celate al suo governo (per esempio le iniquità di Bessa, Giovanni Tzibo e Alessandro Forficula). Presumibilmente, secondo JB Bury, i libri che parlano delle guerre prima del 540 furono scritti man mano che Procopio viveva, in qualità di segretario di Belisario, quegli avvenimenti, quando lo scrittore aveva ancora un giudizio abbastanza positivo sul governo di Giustiniano; successivamente Procopio avrebbe cambiato idea, forse in seguito a una mancata promozione o alle sconfitte subite contro Cosroe e Totila, vedendo in Giustiniano la causa di tutti i mali dell'Impero; questo si sarebbe riflettuto nelle parti dell'opera che Procopio doveva ancora scrivere.
Su richiesta dell'Imperatore, Procopio scrisse anche "Sugli Edifici", uno scritto encomiastico relativo alle opere edilizie sorte per iniziativa di Giustiniano. Il libro I descrive gli edifici fatti costruire da Giustiniano e Teodora nella capitale, come la Chiesa di S. Sofia, le altre chiese, il palazzo, le cisterne, il convento dove vennero recluse le prostitute costrette da Giustiniano e Teodora a far penitenza per i loro passati peccati ecc.. Il libro II descrive le fortificazioni fatte edificare o rinforzare da Giustiniano in Oriente, come ad esempio la fortezza di Dara. Il libro III descrive le fortificazioni fatte edificare o rinforzare in Armenia. Il libro IV descrive le fortificazioni fatte edificare o rinforzare in Europa. Il libro V descrive le fortificazioni fatte edificare o rinforzare in Cilicia e in Palestina. Il libro VI descrive le fortificazioni fatte edificare o rinforzare in Africa. L'anno della composizione non è certo: alcuni datano l'opera al 554, altri al 560. Una cosa degna di nota è che Procopio sembra cambiare di nuovo idea su Giustiniano: se nelle opere passate infatti lo criticava aspramente, giungendo persino al libello, in questa opera lo loda come imperatore giusto e caritatevole, sempre disposto a soddisfare le esigenze dei sudditi. L'opera potrebbe essere stata commissionata da Giustiniano, con il risultato che Procopio sarebbe stato "costretto" a parlar bene di lui, oppure la sua opinione su quel principe potrebbe essere effettivamente cambiata in seguito a una promozione o a un favore.
Frontespizio della
Storia segreta (1623),
da: QUI.
Procopio è stato autore inoltre di una "Storia segreta" (in greco "Anékdota" e in latino "Arcana Historia"), un libello astioso contro Giustiniano e Teodora venuto alla luce molti secoli dopo la morte dell'autore. È un libello contro Giustiniano, Teodora, Belisario e Antonina. Nella prefazione l'autore sostiene di averlo scritto per riferire di alcuni fatti su cui dovette tacere nelle opere precedenti per paura di essere assassinato da sicari di Giustiniano e Teodora e per tramandare alle generazioni future le crudeltà commesse dai suddetti. Era inteso per non essere pubblicato e infatti si venne a conoscenza dell'esistenza di questa opera solo alcuni secoli dopo la sua redazione. L'anno della scrittura dovrebbe essere il 550. L'attendibilità dell'opera è stata messa in dubbio da molti studiosi e Voltaire considerava l'opera una satira dettata dall'odio che Procopio provava per l'Imperatore. Il racconto, in vari episodi, pare deformato ed esagerato dall'astio che lo scrittore provava per Giustiniano quantunque serbi un fondo di verità, infatti in molti punti la narrazione è confermata da altre fonti primarie. In varie parti dell'opera Procopio promette che avrebbe parlato successivamente delle iniquità di Giustiniano contro la Chiesa romana ma dato che non se ne trova traccia nell'opera, forse aveva intenzione di scrivere una storia ecclesiastica che per un motivo o per l'altro non poté scrivere.

Interno di Santa Sofia a
Costantinopoli (oggi Istanbul)
50. Stefano di Bisanzio, conosciuto anche come Stefano Bizantino (Costantinopoli, VI secolo - ...) è stato un geografo romano-orientale (o bizantino), autore di un importante dizionario geografico intitolato "Etnica" (in greco antico Ἐθνικά) in 50 o 60 volumi. Di Stefano si ignorano i dati biografici, comunque con tutta probabilità era un grammatico costantinopolitano vissuto nel VI secolo. Stefano utilizza come fonti principali i geografi dell'antichità, quali Tolomeo, Strabone e Pausania, i grammatici e i commentari a Omero. La sua conoscenza della geografia è nondimeno approssimativa e le sue etimologie sono confuse. Il suo lavoro è di enorme valore per le informazioni di carattere geografico, mitologico e religioso che fornisce sull'antica Grecia. Del dizionario sopravvivono scarsi frammenti ma ne esiste un'epitome compilata da un certo Ermolao. Ermolao dedica la sua epitome a Giustiniano; se sia il primo o il secondo imperatore di questo nome è incerto, ma sembra probabile che Stefano visse nella prima parte del VI secolo sotto Giustiniano I. I frammenti iniziali rimasti dell'opera originale (alcuni dei quali contengono lunghe citazione di autori classici e molti interessanti dettagli storici e topografici) sono contenuti nel "De administrando imperio" di Costantino Porfirogenito, capitolo 23 (la voce Ίβηρίαι δύο) e nel "De thematibus", II.10 (un rapporto sulla Sicilia); gli ultimi includono un passaggio del poeta comico Alessi sulle Sette maggiori isole. Un altro frammento importante, che va dalla voce Δύμη alla fine del Δ, è in un manoscritto della biblioteca Seguerian. Costantino Porfirogenito fu comunque l'ultimo a consultare l'opera completa, mentre la Suda e Eustazio di Tessalonica usano già il compendio. La versione moderna standard è quella di Augustus Meineke (1849). Per convenzione, i riferimenti si riferiscono sempre alle pagine dell'edizione Meineke. La prima edizione moderna fu pubblicata dalla stamperia aldina nel 1502.

Un libro di Giordane
stampato recentemente.
51. Giordane o Giordano o Jordanes (in latino: Iordanes; Impero Romano,  floruit "fiorì", intendendo che avesse 40 anni, nel 550 circa) è stato uno storico romano-orientale (bizantino) di lingua latina del VI secolo. Di probabile origine gotica (o alana, quindi sarmatica) e comunque associatosi ai Goti, fu notarius (segretario) del goto Guntige, un alto funzionario della corte di Costantinopoli. Seguì Guntige in Italia durante la Guerra gotica, e potrebbe essere identificato con l'omonimo vescovo di Crotone. Ad ogni modo, le notizie sulla sua vita sono assai scarse, ricavabili unicamente da pochi passi delle sue opere.
Opere - Scrisse verso il 552 il "De origine actibusque Getarum", un riassunto della perduta  "Storia dei Goti" di Cassiodoro in dodici libri, noto anche come "Getica", la cui prima edizione critica fu pubblicata da Theodor Mommsen nei "Monumenta Germaniae Historica". La maggiore differenza tra l'opera di Giordane e quella di Cassiodoro sta nel fatto che il secondo scrisse per glorificare Teodorico e la sua stirpe, mentre il primo, mostrando la tradizione e la forza dei Goti, per accrescere la fama delle gesta di Giustiniano I (527-565), loro vincitore. Altra opera di Giordane è il "De summa temporum vel origine actibusque gentis Romanorum", più noto come "Romana" (anch'essi editi dal Mommsen), una storia universale, dalle origini (Adamo) al tempo presente (547), con particolare attenzione al popolo romano. Come esplicitato dall'autore, l'opera vuole essere, nella tradizione di Agostino, una storia dei dolori umani, al fine di spingere alla conversione. Molti storici romeni e americani hanno sollevato diversi dubbi sull'attribuzione da parte di Giordane delle notizie contenute nella sua opera sui Goti. Secondo questi studiosi lo storico goto avrebbe attribuito ai Goti notizie invece riferite ai Geti. Numerosi dati storici relativi ai Geti, oltreché ai Daci, sarebbero stati erroneamente attribuiti ai Goti.

I regni dei Franchi nel 561, con
Neustria, Austrasia e Burgundia. Da:
http://www.lionspalermodeivespri.it/
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52. Fredegario (Burgundia, fine del VII secolo d.C. - inizio dell'VIII secolo d.C.) è stato uno scrivano Franco, di origine burgunda. È ricordato come autore della raccolta di scritti storici che porta il suo nome, "La Cronaca di Fredegario" (in francese, Chronique de Frédégaire), considerata la più importante fonte per la storia del territorio gallico (relativamente ad Austrasia e Neustria) nell'Alto Medioevo. L'opera ripercorre la storia dei Franchi in Austrasia e contiene notizie sui popoli dei territori limitrofi (Ostrogoti e Longobardi in Italia, Vandali e Goti in Francia e in Spagna), e porta notazioni anche sul mondo romano-orientale (bizantino). Il resoconto dei fatti cessa con l'avvento di Carlo Magno e Carlomanno I. Sotto il nome "La Cronaca di Fredegario", introdotto dallo Scaligero (Agen, 5 agosto 1540 - Leida, 21 gennaio 1609), è conosciuta una compilazione che il codice latino 10.310 della Nazionale di Parigi conserva con il nome di Lucerio e un cronogramma letto da alcuni 678, da altri 715 e la cui edizione più recente si trova in Monumenta Germaniae Historica, Scriptores rerum Merovingicarum.
Il testo riporta in successione cinque cronache:
1) il "Liber generationis" di Ippolito di Roma;
2) il "Cronaca" di San Jérôme;
3) il "Cronache" di Idazio e di Isidoro di Siviglia;
4) un compendio dei primi libri (sei su dieci) della "Historia Francorum" di Gregorio di Tours in latino volgare, (che inizia il resoconto con la Creazione e termina con i fatti del 584, anno dell'assassinio di Childerico I avvenuto nel mese di settembre); a margine di questi compaiono alcune altre informazioni come un elenco dei re e dei papi e alcune leggende galliche precedenti a Gregorio di Tours;
5) la parte specifica della raccolta che registra i fatti, anno per anno, a partire dal 584. La prima parte si interrompe bruscamente dopo gli avvenimenti del 641 (quarto anno del regno di Clodoveo II), poi, successivi ai fatti del 642, quelli riportati dagli scritti di anonimo su istruzioni del conte Childebrando, fratellastro di Carlo Martello, e di suo figlio Nibelungo: "Liber historiae francorum". Le cronache riguardano gli avvenimenti che si succedettero sotto la dinastia Merovingia ed esprimono il punto di vista della Neustria. Sono annotati i fatti fino al 736, poi fino al 751, e infine gli avvenimenti sotto il governo di Pipino il Breve, figlio di Carlo Martello e padre di Carlo Magno. Pipino aveva ereditato dal padre la carica di maggiordomo di palazzo di Austrasia in cui, di fatto, esercitava il potere e divenne re solo nel 751, dopo aver deposto Childerico III l'idiota, (714 - 755), con l'approvazione di papa Zaccaria. Le cronache cessano nell'anno della morte di Pipino il Breve, nel 768.

Paolo diacono: da: http://commons.
wikimedia.org/wiki/File:Paulus_
Diaconusjpg#mediaviewer/File:
Paulus_Diaconus.jpg
53. Paolo Diacono (in latino Paulus Diaconus, pseudonimo di Paul Warnefried o anche Paolo di Varnefrido; Cividale del Friuli, 720 - Montecassino, 799) è stato un monaco, storico, poeta e scrittore longobardo di espressione latina.
Carta con l'ubicazione di Cividale
nel Friuli.
Era discendente di Leupichi, che affiancava re Alboino nel passaggio dei Longobardi dalla Pannonia all'Italia. Da Cividale del Friuli, dove nacque nel 720 (o forse nel 730), raggiunse Pavia in giovane età per seguire gli studi in quella che allora era la capitale longobarda. Si formò alla corte del re Rachis allievo di Flaviano ed alla scuola del monastero di San Pietro in Ciel d'Oro, dove conseguì la carica di docente. Restò alla corte con i successivi re Astolfo e Desiderio. Divenne anche il precettore di Adelperga, figlia di Desiderio, che seguì quando ella si sposò con il duca Arechi II di Benevento. Nel 774 visse il crollo del regno longobardo e dal 782 al 787 fu attivo presso la corte di Carlo Magno, presso la quale si recò per chiedere la liberazione dei suoi parenti prigionieri, in particolare del fratello Arichis, catturato e condotto in Francia nel 776, dopo la sua partecipazione ad una rivolta del Friuli contro i nuovi occupanti, che alla fine fu liberato. Là acquistò una certa notorietà e prestigio come maestro di grammatica. Nel 787, una volta che il fratello venne liberato, Paolo Diacono scappò e si fece monaco nel monastero di Montecassino, dove fra l'altro scrisse l'"Historia Langobardorum", la sua opera più famosa in cui narra, fra mito e storia, le vicende del suo popolo dalla partenza dalla Scandinavia all'arrivo in Italia. La scrittura del testo impegnò Paolo Diacono per due anni, dal 787 al 789.
Le sue opere - La sua prima opera fu un "Carmen" sulle sette età del mondo (A principio saeculorum) scritto per il matrimonio di Adelperga, figlia del re Desiderio, sposata da Arechi II nel 763, di cui Paolo Diacono era precettore. Lo stile che usò fu quello dei tetrametri trocaici ritmici. Unendo le lettere iniziali delle dodici terzine si ha "Adelperga pia". Ad uso della sua allieva scrisse, verso il 770, l'"Historia Romana", in 16 libri, rielaborando il "Breviarium ab Urbe condita" di Eutropio con integrazioni da San Girolamo, Paolo Orosio, Giordane e dall'"Origo gentis Romanae", una breve compilazione letteraria di carattere storiografico narrante le origini più remote, a cavallo tra storia e mitologia, del popolo romano, partendo da Saturno e finendo con Romolo. Paolo Diacono conclude la sua storia al tempo di Giustiniano, morto nel 565, ovvero al tempo dell'invasione longobarda in Italia. Rielaborato a sua volta da Landolfo Sagace, divenne un apprezzato manuale scolastico in uso nelle scuole medievali. La "Historia Langobardorum" in sei libri, è un'opera scritta nello stile del latino monacale ma nei contenuti è passionalmente longobarda, dove giustifica ogni azione ed ogni forma di conquista come prestabilite dal fato. La strutturò come ideale continuazione della sua "Historia Romana" dai tempi di Giustiniano, imperatore dal 527, che si ferma a Liutprando, morto nel 744. cristallizzata al massimo splendore  della cultura langobarda ed omettendone la decadenza. È un libro molto importante anche per lo studio della storia degli sloveni poiché risulta la fonte storiografica più antica che documenti l'arrivo delle popolazioni slave nella pianura friulana attorno al 670. Per ottenere la liberazione del fratello, scrisse in onore di Carlo Magno un'epistola metrica: "Ad regem". Ottenne ciò che chiedeva, ma come condizione dovette entrare a corte ad Aquisgrana, dove fu fra i protagonisti della "rinascita Carolingia" con Alcuino, monaco inglese. Sempre in Francia visitò molti monasteri, compose le "Gesta episcoporum Mettensium" per il vescovo Angilramno di Metz nell'abbazia di San Martino, un codice con lettere di Gregorio Magno per Adalardo di Corbie, oltre a molte altre opere minori. Al ritorno a Montecassino scrisse la "Vita beati Gregorii papae". Su richiesta di Carlo Magno raccolse le prediche più celebri del suo tempo, 244 testi, un libro liturgico, "Homiliarium", diviso in due stagioni: l'estate e l'inverno. La sua opera arrivò con poche modifiche fino al Concilio Vaticano II. Involontariamente fu stimolò di uno dei progressi più importanti nella storia della musica, infatti nell'XI secolo, Guido d'Arezzo ricavò le note musicali dalla prima strofa di un suo inno dedicato a San Giovanni Battista, ricavandole dal mezzo verso:
UT queant laxis
REsonare fibris
MIra gestorum
FAmuli tuorum,
SOLve polluti
LAbii reatum, Sancte Iohannes.
Le sei note dell'esacordo: ut, re, mi, fa, sol, la.

Edizione moderna
della Suda.
54. La Suda o Suida è un lessico e un'enciclopedia storica del X secolo scritta in greco bizantino riguardante l'antico mondo mediterraneo. Contiene 30.000 voci, tratte da molte fonti antiche oggi andate perdute, ordinate alfabeticamente e attinenti a molte discipline: geografia, storia, letteratura, filosofia, scienze, grammatica, usi e costumi. La denominazione Suda potrebbe derivare dal greco suda, che significa "fortezza". Secondo numerosi studiosi, tuttavia, la forma Suda sarebbe una corruzione di Suidas, ovvero il nome dell'autore dell'enciclopedia, che peraltro ricorre nella prefazione. Sebbene l'opera sia stata molto interpolata e il valore delle voci sia molto vario, contiene molte informazioni sulla storia e la vita antiche che sarebbero andate altrimenti perse. Il documento contiene la prima menzione dei romeni (valacchi) a nord del Danubio, sotto l'etnonimo de "i Daci". Non si sa molto della compilazione di quest'opera, a parte il fatto che deve essere stata terminata prima di Eustazio di Tessalonica (XII secolo), che l'ha adoperata frequentemente. Sembra che la compilazione sia da far risalire alla parte finale del X secolo: sotto la voce "Adamo", l'autore dell'enciclopedia dà una breve cronologia del mondo, che termina con la morte dell'imperatore Giovanni I Zimisce (morto nel 976), mentre sotto la voce "Costantinopoli" appaiono i suoi successori Basilio II e Costantino VIII (asceso nel 1025). I passaggi che si riferiscono a Michele Psello (XI secolo) sembrano interpolazioni posteriori. Fonte importantissima per la conoscenza dell'antica storia letteraria greca, conserva preziose notizie su opere andate perdute o conservate parzialmente. Tra le sue fonti sono poeti antichi (Omero, Sofocle, Aristofane ecc.), ed eruditi (Esichio di Mileto, Arpocrazione, Costantino Porfirogenito ecc.), attinti attraverso commenti e antologie. La parte che tratta della storia della letteratura classica è spesso l'unica fonte a nostra disposizione sugli autori e le opere del tempo. Con i Deipnosophistai, la compilazione di Dionigi di Alicarnasso, le opere di Plutarco e Diogene, il Marmor Parium e la Biblioteca di Fozio costituisce la spina dorsale degli studi sull'universo dei classici greci.


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