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domenica 14 dicembre 2014

Grande Storia dell'Europa - 2° - Dal 1.200 p.e.v. (a.C.) al 90 e.v. (d.C.)

Dal 1.200 a.C.
 - Si sviluppa in Europa un'Età del Ferro i cui maggiori centri sono Halstatt, Huttenberg e Cnosso.

- Mario Liverani in "Mutamenti climatici nell’antichità vicino-orientale e mediterranea", Torino 17-18 maggio 2012 scaricabile in formato pdf da http://www.accademia
dellescienze.it/media/986"I dati climatici (in particolare le sequenze dendrocronologiche e polliniche) mostrano un episodio di brusca aridità, breve ma intensa, intorno al 1200 a.C. seguita poi da una fase di prolungata instabilità e aridità fino alla metà del IX secolo. I dati archeologici mostrano una serie di distruzioni dei centri urbani e palatini in Grecia (è il collasso della civiltà micenea), in Anatolia e nel Levante siropalestinese all’inizio del XII secolo, e poi una prolungata fase di localismo, dimensione di villaggio e campi pastorali per tutta la prima età del Ferro, fino appunto alla metà del IX secolo. E i testi documentano bene sia la carestia alla fine del XIII secolo, sia la famosa invasione dei cosiddetti “Popoli del Mare” - genti di provenienza balcanica che si riversano dapprima nell’Egeo (è quella che le tradizioni classiche definivano l’invasione dorica) e poi in Anatolia e nel Levante - nel 1190 a.C., con il crollo dell’impero hittita e il restringimento di quello egiziano...".

- Il periodo che va dal 1.200 a.C. al 1.000 a.C. è perciò abbastanza oscuro, ma ci si sta convincendo che la carestia e le catastrofi naturali del 1.200 p.e.v. (o a.C.) siano stati gli eventi scatenanti il riassetto del quadro politico mediterraneo e mediorientale, con conseguenti  migrazioni di popoli: da oriente giunse l'ultima ondata di tribù indoeuropee che, con lo sviluppo del fenomeno celtico, completò l'opera di mutamento culturale destinato a modificare per sempre il volto dell'Europa, in cui l'economia era ridotta a pastorizia e agricoltura.

Dal 1.190 al 1.180 a.C. - Si combatte la guerra di Troia (o Ilio) cantata da Omero nell'Iliade, che durerà nove o dieci anni, evento rappresentativo dell'esaurimento della civiltà Micenea.
Carta con le antiche Micene,Troia,
 Sparta e l'isola di Chio.
La data della fine di questo conflitto è importante poiché è diventata un punto di riferimento per datare gli eventi, come lo è stata la data del 776 a.C., anno della prima olimpiade dei Greci. Fonti letterarie greche parlano di una distruzione di Troia, ad opera greca, da collocarsi nel XII secolo a.C.. Tucidide parla di Agamennone e della guerra di Troia nel "II libro delle Storie" (par.9), ma la datazione della fine del conflitto è ricavabile dal passo del libro V della sua "Guerra del Peloponneso", il cosiddetto "dialogo dei Meli", gli abitanti dell'isola di Milo.
Carta con l'antica Troade.
Nel dialogo con gli Ateniesi, i Meli sottolineano di essere di tradizione dorica, essendo stati colonizzati dagli Spartani, nel contesto dell'invasione dorica della Grecia, da settecento anni. Siccome l'avvenimento è del 416 a.C. e passano ottant'anni tra la fine della guerra di Troia e la colonizzazione dorica (definita il "ritorno degli Eraclidi"), si può calcolare la data della caduta di Troia sia il 1.196 a.C..
Carta con la Grecia antica e i territori
occupati dai Dori, fra cui è
evidenziata l'isola di Milo.
Eratostene di Cirene è autore della datazione che, dal III secolo a.C., riscuoterà maggior successo, ma non essendoci giunte opere complete di questo autore, la sua datazione possiamo riscontrarla solo in Dionisio di Alicarnasso, nelle "Antichità romane", in un passo collegato all'arrivo di Enea in Italia e alla fondazione di Lavinio.
Hippos fenicia, da cui l'errata
traduzione "cavallo di Troia", da QUI.
Dionisio riporta la data esatta, in termini antichi, della caduta di Troia, che corrisponderebbe all'11 giugno 1.184 - 1.182 a.C. L'ultima conferma sembra venire dalla "Piccola Cosmologia" di Democrito di Abdera, filosofo del V secolo a.C. e contemporaneo di Erodoto. Egli dice di aver composto quest'opera 730 anni dopo la distruzione di Troia; essendo vissuto intorno al 450 a.C., la data in questione risulta essere il 1.180 a.C.. La mitica città di Troia ricevette il nome dall'altrettanto mitico re "Trōs" (in greco "Têukros"). La città e la guerra portata contro di essa da una coalizione di popoli greci nel XII secolo a.C., sono state immortalate da Omero nell'Iliade. La Troia della saga omerica sarebbe stata fondata da Dardano, figlio di Zeus ed Elettra, il quale, giunto nella Troade, ebbe dal re Teucro in dono il territorio su cui fece innalzare l'acropoli che chiamò Dardania.
Genealogia degli dei dell'Olimpo
nei poemi omerici.
I suoi successori ottennero che le mura di Troia fossero costruite da Apollo e Poseidone. Purtroppo Laomedonte non volle pagare la ricompensa pattuita alle divinità. Quindi Poseidone per punizione mandò nella città un mostro marino, che fu poi scacciato da Eracle.
Il viaggio di Odisseo (Ulisse)
al ritorno dalla guerra di Troia verso
 Itaca, immortalato nell'Odissea.
Ancora una volta Laomedonte rifiutò di pagare la giusta ricompensa ad Eracle, che scatenò così una guerra contro la città distruggendola, la famiglia reale fu sterminata tranne l'ultimogenito di Laomedonte, Priamo che ne divenne re. Questi sposò prima Arisbe, da cui ebbe un figlio, poi Ecuba, con la quale generò diciannove figli tra maschi e femmine, e Laotoe, che gli dette due maschi; ebbe altri figli dalle varie concubine. Paride, figlio di Priamo e di Ecuba, rapì Elena, sposa di Menelao re di Sparta, provocando una nuova guerra contro Troia, terminata con la conquista e l'incendio della rocca dopo dieci anni di assedio.
Il viaggio di Enea da Troia al Lazio
immortalato da Virgilio nell'Eneide.
Dopo la caduta della città i superstiti fuggirono in Italia: parte con Enea, che giunse nel Lazio, (tema trattato nell'Eneide dell'etrusco Virgilio Marone) parte con Antenore, destinato a fondare Padova.
Sicilia arcaica con Elimi, Sicani, Siculi.
Da altre fonti (fra cui Tucidide) pare che un altro gruppo di  Troiani  scampati su navi e alla caccia di Achei, sarebbero approdati nelle coste occidentali della Sicilia e stabilita la loro sede ai confini con i Sicani, sarebbero stati tutti compresi sotto il nome di Elimi, e le loro città sarebbero state chiamate Erice e Segesta.
Inoltre si sarebbero stanziati presso di loro anche un gruppo di greci originari della Focide, reduci anch'essi da Troia. Nell'Odissea, il secondo racconto della saga omerica, si descrive il decennale viaggio di Ulisse, ideatore del cavallo di Troia e re di Itaca, al ritorno del conflitto troiano. Intorno al 1.190-1.180 a.C. quindi, gli Elladi-Micenei si aprirono la strada verso il Mar Nero con una spedizione militare contro la città di Troia, di cui non si è certi ne da che etnie fu abitata, ne che lingua si parlasse. Il processo della decadenza micenea parrebbe iniziare proprio con la guerra di Troia, l'invasione dorica del 1.100 a.C., quasi un secolo circa più tarda, invece, ne sarebbe stato il colpo di grazia.

L'antica Grecia con le invasioni di
 Ioni e Achei dal 2000 a.C. e dei Dori
dal 1200 a.C. I monti: Olimpo,
Parnaso, Elicona, Taigeto.
- Nel XII secolo a.C. due nuove ondate migratorie, una dal nord, i cosiddetti Popoli del Mare e una dai Balcani, i Dori, una
popolazione indoeuropea, pongono fine all'egemonia Elladico-Micenea, causando un periodo di decadenza.

- La scomparsa della civiltà micenea determina ad Atene la nascita di un nuovo ordine sociale di tipo oligarchico e l'avvento nelle magistrature dei rappresentanti delle quattro tribù emergenti in Attica (la regione di Atene) a loro volta suddivise in fratrie (unione di più clan), che divennero un'importante espressione della vita sociale e religiosa ateniese.

- La civiltà Elladica-Micenea, probabilmente già avviata verso il declinio, fu travolta dall'invasione della popolazione dei Dori. La migrazione del nuovo popolo guerriero, i Dori, provvisti di armi e armature in ferro, destabilizzò l'ordine politico e militare Elladico-Miceneo nella penisola greca, che era rimasto nell'Età del Bronzo, o verosimilmente era già avviato verso la decadenza. Le genti doriche, che fecero del loro dio eponimo Doro (il quarto figlio di Elleno), il capostipite degli Elleni, abitavano originariamente la regione danubiana per poi passare nella valle del Vardar.
La Grecia dei primordi, con gli
stanziamenti di Ioni, Eoli e Dori.
I Dori del nord sono distinti
dagli altri. Sono distinti gli
Arcadi, discendenti dei Pelasgi.
Penetrarono in Grecia parte attraverso l'Epiro e l'Illiria e parte attraverso la Macedonia Occidentale e la Tessaglia. Raggiunsero il Peloponneso mescolandosi agli abitanti di Micene e Tirinto e le conquistarono gradualmente. Nella tradizione antica questa migrazione è rappresentata dalla leggenda del ritorno degli Eraclidi, i discendenti dell'eroe semi-dio Heracle, o Eracle, l'Ercole dei Latini, e alcuni studiosi hanno individuato in questo episodio mitologico una prova della cosiddetta "invasione dorica", ultima responsabile della decadenza della civiltà micenea. Gli Eraclidi, nella mitologia greca, sono sia i figli di Eracle, in particolare di Eracle e Deianira, sia i loro discendenti, e vengono definiti Eraclidi anche i 50 figli che Eracle ebbe dalle figlie di Tespio, chiamati poi Tespiadi, mentre soggiornava presso di lui. Secondo la testimonianza di Erodoto e Tucidide i Dori, discendenti di Eracle, si sarebbero spinti nel Peloponneso, in Laconia, dal nome di Lacedemone che vi aveva fondato Sparta, il nome di sua moglie, e nella Messenia. Sotto la spinta dell'invasione dorica, le popolazioni che erano stanziate nell'area Elladica diedero luogo alla  prima  migrazione  colonizzatrice dei greci, soprattutto verso est, sud-est e sud.
L'antica Grecia con l'invasione dei
Dori del 1200 a. C. e i conseguenti
spostamenti a est di Ioni ed Eoli.
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Comunità di Ioni, i fondatori di Atene, migrarono dal continente verso le coste dell'Asia minore, in quella che fu poi chiamata Ionia, dove più tardi diedero vita ad una confederazione religiosa di dodici città, incentrata sul santuario di Poseidone a Panionion, presso Mycale. Comunità di Eoli migrarono verso oriente, stabilendosi nell'isola di Lesbo e poi sulle coste anatoliche in Eolide, che da loro prese il nome. Secondo la tradizione tale migrazione fu capeggiata da Oreste e sarebbe avvenuta sotto la spinta dei Dori, che soggiogarono la civiltà micenea ormai decaduta. Con il declino della civiltà Micenea ha inizio un periodo di decadenza, denominato dagli storici con il nome di "Medioevo greco" che durerà tre secoli, a partire dal XII secolo a.C. Il Medioevo ellenico sarà caratterizzato da una commistione dei tratti peculiari della precedente cultura micenea e delle innovazioni doriche, quali l'uso del ferro, l'incinerazione dei morti e la costruzione dei primi templi.

- Atene riesce in qualche modo a sfuggire alle invasioni doriche e durante il cosiddetto medioevo ellenico inizia a svilupparsi.

Il Tempio dorico di Era (o Hera),
detto anche Tempio di Poseidon o
Tempio di Nettuno, eretto a Paestum,
l'antica Poseidonia, intorno alla metà
del V secolo a.C.
Alcune città doriche, Corinto e Megara in particolare, ma anche Sparta e altre, presero parte poi al grande movimento colonizzatore che a partire dall'VIII secolo a.C. si sviluppò in tutto il bacino del Mediterraneo. Colonie doriche furono fondate in Asia Minore, a Cipro, in Africa settentrionale ed in Italia (Magna Grecia). A partire dal XII secolo, l'insieme dei popoli della Grecia continentale, della costa ionica dell'Asia Minore e delle isole acquisisce progressivamente un'unica identità culturale per lingua (anche se i dialetti rimasero i linguaggi locali), religione, costumi, e si ha anche l'unica denominazione di Elleni. Le genti che abitano e hanno abitato la Grecia sono state chiamate, lungo il corso dei secoli, in diversi modi. Essi stessi si definiscono Elleni, dal nome dell'eroe Elleno, ritenuto il capostipite delle popolazioni greche degli Ioni, Eoli, Achei e Dori che, dal II millennio a.C., invasero la Grecia sottomettendo le popolazioni ivi residenti, fra cui i Pelasgi, stanziativisi prima di loro.
Regioni, isole, città e dialetti dell'antica
Grecia o Ellade. I dialetti parlati: Nord
occidentale, Acheo, Arcado cipriota,
Dorico, Ionico, Eolico, Attico.
I Macedoni hanno esportato la cultura ellenica e il termine Hellenes  (Έλληνες) è stato conosciuto in tutto il mondo, mentre i Romani hanno utilizzato la parola Greci, per riferirsi a queste genti, poiché i colonizzatori di Cuma in Campania, la più antica colonia greca della penisola italica e della Sicilia, fondata nel 750 a.C. dai Calcidesi e dagli abitanti di Cuma, piccolo centro dell'isola Eubea, si autodefinivano Graikòi, nome distintivo di alcune genti marittime della Beozia e della costa dell'Eubea, nome che i Romani erroneamente recepirono come appellativo di tutte le genti elleniche, trasmettendolo fino a noi come Graeci. Le lingue europee, quindi, usano tale appellativo; in Oriente invece si usano nomi derivati da Ioni. Conseguentemente all'invasione dorica compariranno gradualmente le póleis, le città-Stato. La conformazione del territorio, principalmente montuosa, contribuirà in modo determinante ad ostacolare l'unificazione dei villaggi e a favorire la nascita di piccole città-Stato indipendenti. Le città-Stato passarono inizialmente da regimi monarchici a tirannidi. Ciascuna città aveva divinità protettrici e leggi proprie (ogni città era strenuamente attaccata alle proprie tradizioni: arrivavano al punto da avere ciascuna un proprio calendario). Tuttavia, frequenti erano le anfizionie, alleanze tra città limitrofe, non necessariamente di carattere militare. L'Arcadia, nel Peloponneso, in cui si parlava il dialetto arcado-cipriota, rimase un territorio abitato dai discendenti dei Pelasgi, i primi a stabilirsi in Grecia. Alcuni studiosi Albanesi sostengono che dai Pelasgi sono derivati Tirreni ed Etruschi oltre a Illiri e Albanesi, e che i linguaggi di questi popoli sono quindi affini. Seguono alcuni elementi su cui basano le loro ipotesi. Pausania (Arcadia, Libro VIII, 1,4,6) scrive: “Gli Arcadi dicono che Pelago fu il primo a nascere nella terra dell’Arcadia. Dato che Pelago divenne re, il paese si chiamò Pelasgia in suo onore”. Pindaro (Carminia, Fragmenta Selecta, I, 240) scrive: “Portando un bel dono, la Terra fece nascere per primo l’essere umano nell’Arcadia, il Divino Pelasgo, molto prima della luna”.

Carta del 700 a.C. con gl'insediamenti
 e limiti dell'influenza di Tartesso
segnalati in verde brillante,
le colonie greche in blu,
le colonie fenicie in verde-oliva.
Da: QUI.
- Intorno al XII secolo a.C., i Tirreni, o Tirseni, Tyrseni, Raseni, Turuscha, forse uno dei Popoli del Mare o discendenti dei Pelasgi e sicuramente gli antenati degli Etruschi italici, che chiamavano se stessi "Rasenna", giungono dall'Asia Minore e fondano una colonia nei territori della mitica Tartesso, nell'attuale Spagna, su un'isola tra la foce del Guadalquivir (l'antico Betis) e l'oceano. Da Tartesso inizia l'invasione dei Tirreni e la sottomissione della zona, gestita fino ad allora da Liguri, Iberici e coloni orientali, ma presumibilmente era Ligure (come indica il toponimo Lago Ligur, il Lagus Ligustinus per i Romani) il substrato predominante nella zonaGli invasori approntarono una fiorente oligarchia commerciale e militare la cui capitale fu Tartesso stessa. Nel regno furono stabiliti due principali centri: presso la foce del Guadalquivir, Tartesso stessa, e l'antica Olba, (nei pressi dell'attuale Huelva, sul fiume Tinto, nel nord ovest del territorio di Tartesso, vicino all'attuale frontiera col Portogallo), che doveva fungere da deposito di Tartesso dei minerali di rame provenienti dalle miniere del Rio Tinto, Aznacòllar e Linares. Vedi anche QUI,  QUIQUI e QUI.

- Gli Umbri furono un popolo giunto dal nord in Italia nel XII secolo a.C., che si sovrappose e si sostituì a quelli presenti (in Umbria la presenza dell'uomo è attestata sin dal primo Paleolitico).
I dialetti centro-Italici nel 400 a.C.
Parlavano una lingua indoeuropea del gruppo osco-umbro, l'umbro, scritta con alfabeto proprio di derivazione greco-occidentale, non molto dissimile dagli altri alfabeti italici. Occuparono un'area che in epoca classica si estendeva dall'alta e media valle del Tevere fino al mar Adriatico, comprendendo anche l'odierna Romagna: delimitata dal Tevere ad ovest e dall'Adriatico ad est. Inizialmente gli Umbri avevano occupato anche i territori dell'odierna Toscana e della Valle Padana, solo successivamente conquistati da Etruschi e Galli (questo territorio viene chiamato "Grande Umbria"). L'espansione di Celti ed Etruschi li confinò quindi nella zona ad est del medio corso del Tevere, mentre ad ovest del fiume fioriva la potenza etrusca. Non è noto se gli Umbri indicassero se stessi con un endoetnonimo, né quale forma avesse. Il termine "Umbri" è l'etnonimo con il quale il popolo era indicato dai vicini Latini e dai Greci (greco Ὄμβροι o Ὀμβρικόι). L'ingresso dei popoli osco-umbri in Italia, provenienti dall'Europa centro-orientale dove si cristallizzarono come gruppo linguistico autonomo all'interno della famiglia indoeuropea, è generalmente collocato intorno al XII secolo a.C. L'arrivo degli Osco-umbri in Italia è stato posto da alcuni studiosi in correlazione allo sviluppo della cultura protovillanoviana, cronologicamente compatibile; tale ipotesi è rafforzata dal fatto che gli insediamenti storici degli Umbri, soprattutto nella fase della "Grande Umbria", coincidono sostanzialmente con l'area villanoviana.

Ubicazione della cultura proto-
celtica di Canegrate e di quella
celtico- lepontica di Golasecca,
nordovest italico. Sono indicate
 le varie tribù di Liguri, Celto-
-Liguri e Celti insediati o che
si insediarono in quei territori.
- Nel XII secolo a.C., nel territorio compreso fra  lo spartiacque alpino a nord, il Po a sud, il Serio ad est e il Sesia ad ovest, si sviluppa la cosiddetta Cultura di Golasecca. Tale civiltà prende il nome dalla località di Golasecca (provincia di Varese, sulle rive del fiume Ticino), in cui si svilupparono i primi segni della cultura celtica. Nell'area Golasecchiana, si può presumere che la struttura sociale fosse articolata gerarchicamente e che la popolazione si sia divisa fra i villaggi situati nei pressi delle necropoli ritrovate. Il territorio su cui si estendeva la popolazione golasecchiana era molto ampio, anche se non uniforme, comprendente le pianure tra i fiumi Sesia ed Oglio ed estendendosi a su fino al Po e a nord fino ai contrafforti alpini dei passi che conducono verso le vallate del Rodano e del Reno. Gli insediamenti golasecchiani erano quindi di grande importanza strategica, dato che si trovavano lungo itinerari che collegavano, tramite i valichi del San Bernardino, San Gottardo e Sempione, la penisola  italica e il centro Europa. Era praticata l'agricoltura, la tessitura e l'allevamento che permetteva di produrre carne e formaggio. L’ampia circolazione di manufatti golasecchiani a nord delle Alpi è in stretto rapporto con l’espandersi e l’aumentare del volume dei commerci nell’Etruria Padana, e non solo: dal ritrovamento di vari suppellettili si deduce che i Golasecchiani commerciavano non solo con i Liguri, ma anche con Etruschi, Greci, con i popoli dell'Italia Centro Meridionale ed insulare, fungendo anche da intermediari con i Celti del nord (culture di Hallstatt e di La Tène). La rete di scambi comprendeva la Cornovaglia, la Bretagna e la Galizia, regioni da cui proveniva lo stagno necessario alla produzione del bronzo; dalle regioni baltiche proveniva, invece, l'ambra. Il popolo detto della cultura di Golasecca risalente all’età del ferro era quindi inequivocabilmente di origine celtica, ben antecedente alla storica invasione del IV secolo a.C. Le sue origini risalgono addirittura alla seconda metà del II millennio all’interno della cultura locale dell’età del bronzo, detta di Canegrate; infatti sono molti gli studiosi che vedono un continuo evolutivo tra le facies di Canegrate del XIII secolo a.C. e quelle successive di Golasecca del VII secolo a.C. Un fattore importante da tenere in considerazione è che alcuni reperti risalenti a Canegrate sono diversi da quelli comuni nell’ambito locale, ma ben conosciuti nella regione a sud della Germania dove si sviluppò la cultura dei campi d’urne, unanimemente considerata antenata dei Celti dell’età del ferro. Che la popolazione golasecchiana fosse celtica e conseguentemente quella di Canegrate protoceltica, si evince anche dai ritrovamenti nella necropoli di Ascona e del ripostiglio dei bronzi di Malpensa, reperti che comprendono gambiere in lamina di bronzo decorate a sbalzo, decorazioni a ruote solari associate ad uccelli acquatici stilizzati; reperti trovati non solo in Italia settentrionale ma anche in gran parte dell’Europa, dalla conca carpatica fino ai dintorni di Parigi, il che indica una piena integrazione dell’area golasecchiana con il resto dell’Europa. Vedi anche QUI.

Antica rappresentazione di Eingana.
Il ricordo degli Euganei si conserva
nelle leggende e nelle favole delle
eingane o anguane/angane/aivane...
Gli antichi Euganei abitavano palafitte
lungo laghi e fiumi e le Anguane sono
la loro mitica rappresentazione che ne
determina il nome nelle varianti
etnonimiche: in retico Anauni, in
ligure Ingauni. Clicca sull'immagine
per ingrandirla.
Dal 1.150 - Gli Euganei erano un popolo insediatosi originariamente nella regione compresa fra il Mare Adriatico e le Alpi Retiche. Successivamente essi furono scacciati dai popoli Veneti in un territorio compreso tra il fiume Adige ed il Lago di Como, dove prosperava la civiltà Golasecchiana, e lì rimasero fino alla prima età imperiale romana. Catone il Censore, nel libro perduto delle Origines, annoverava tra le maggiori tribù euganee i Triumplini della Val Trompia ed i Camuni della Val Camonica.
Carta con gli insediamenti degli Euganei, Carni, Veneti
(Venetici), Reti, Camuni e Celti Leponzi e Cenomani.
Si trattava probabilmente di un popolo preindoeuropeo di stirpe affine a quella dei Liguri Ingauni, come testimoniato dall'analogia dei nomi che avevano in comune. Appartengono alla stessa stirpe degli Euganei, secondo Plinio il Vecchio, anche gli Stoni in Trentino. Quando i Veneti raggiunsero il loro territorio fra il XII e l'XI secolo avanti Cristo, provenienti da un'imprecisata regione dell'Europa orientale, in parte spostarono verso Ovest gli Euganei ed in parte li assorbirono fondendosi con loro.

Reitia, divinità dei Veneti
(e dei Reti) dell'Italia
 nord-orientale.
- Il nome "Veneti" ricorre frequentemente nelle fonti classiche. Erodoto ricorda gli Eneti tra le tribù illiriche, probabilmente i nostri Veneti italici; nell'Europa centrale Tacito localizza i Veneti, o Venedi e Venedae, (gli Slavi Venedi-Sclavini) distinguendoli dai Sàrmati; Pomponio Mela cita il lago di Costanza come Venetus lacus; ci sono poi i Venetulani, un popolo laziale scomparso citato da Plinio. Vi sono inoltre i Veneti Celti, della Bretagna francese, battuti poi da Giulio Cesare.
Europa e Mediterraneo nell'XI sec. a.C.
con le Culture delle Tombe a fossa, la
Germanica nord occidentale, quella
Catalana dei campi d'urne, le Culture
Villanoviana, Adriatica, Laziale, di
Hallstat, Atestina o d'Este, quella di
Golasecca e quella Cultura Apula.
La frequenza di questo etnonimo in diverse aree europee non va però spiegata con ipotetici legami storici e linguistici tra i diversi popoli che ne hanno fatto uso, quanto piuttosto da un'uguale derivazione, più volte ripetuta in modo indipendente, dalla medesima radice indoeuropea “wen” (amare). I Veneti (wenetoi) sarebbero pertanto gli "amati", o forse gli "amabili", gli "amichevoli". Agli antichi Veneti del nord-est italico ci si riferisce talvolta con "Paleoveneti", "Veneti adriatici" o "Venetici" per distinguere il popolo dell'antichità dagli attuali abitanti della regione italiana del Veneto. Nel periodo antico vi erano rapporti culturali fra i nostri Venetici e la Civiltà villanoviana, l'Egeo, l'Oriente e successivamente anche con gli Etruschi. Nelle pianure del Veneto meridionale fra il 1150 e il 900 a. C. sorse il grande centro pre-urbano di Frattesina, crocevia di traffici fra Baltico, Alpi Orientali e Cipro, con sistema socio-economico fortemente gerarchizzato; si svilupparono poi Villamarzana e quindi Montagnana.

Per eventuali approfondimenti vedi "Storia dell'Europa n.13: dal 1.200 al 1.150 p.e.v. (a.C.)" QUI.

Le 12 tribù d'Israele
e la migrazione
in Arcadia di quella
di Beniamino.
Da "Il Santo Graal"
 di Baigent,
Leigh e Lincoln.
Vedi anche QUI
Dal 1.140 a.C. - Da: "Il Santo Graal" di Michael Baigent, Richard Leigh, Henri Lincoln - 1982 Arnoldo Mondadori Editore: "Tra le genealogie incluse nei Dossiers segreti, c'erano numerose annotazioni. Molte si riferivano specificatamente ad una delle dodici tribù di Israele, la tribù di Beniamino. Uno di questi riferimenti cita con notevole rilievo tre passi biblici: Deuteronomio 33, Giosué 18 e Giudici 20 e 21. Il terzo passo biblico citato dai Dossiers, (Giudici 21:1-3. Il Libro dei Giudici è stato probabilmente scritto tra il 1.045 e il 1.000 a.C. e i versi 17-21, che sono un’appendice e che non si collegano ai capitoli precedenti, si riferiscono al tempo in cui “non c’era nessun re in Israele”, databile quindi prima del 1.027 a.C., data di inizio del regno di Saul, N.d.R.) riguarda una successione di eventi piuttosto complessa. Un Levita, mentre attraversa il territorio dei Beniaminiti, viene aggredito, e la sua concubina viene violentata da adoratori di Belial, una variante della Dea Madre dei Sumeri, chiamata Ishtar dai Babilonesi e Astarte dai Fenici. Il Levita convoca i rappresentanti delle dodici tribù e chiede vendetta... ...i Beniaminiti prendono le armi per proteggere i « figli di Belial ». II risultato è una guerra accanita e cruenta fra i Beniaminiti e le altre undici tribù... ...Di fronte al pericolo d'estinzione che minaccia un'intera tribù, gli anziani si affrettano a trovare una soluzione. Ai Beniaminiti superstiti viene detto di recarsi a Shiloh e di tendere un'imboscata nelle vigne. Quando le donne della città si raduneranno per danzare, i Beniaminiti dovranno rapirle e prenderle in moglie e nonostante le devastazioni causate dalla guerra, recuperano in fretta almeno il prestigio, se non la consistenza numerica, al punto da dare a Israele il suo primo re, Saul (vissuto nel periodo 1047-1007 a.C. e re dal 1.027 a.C., N.d.R.).
Rembrandt: Re Saul e
David che suona l'arpa.
Nonostante la rinascita dei Beniaminiti, i Dossiers fanno capire che la guerra contro i seguaci di Belial segnò una svolta decisiva e sembrerebbe che in seguito al conflitto molti Beniaminiti fossero andati in esilio. A quanto pare si trasferirono in Grecia, nel Peloponneso centrale: in Arcadia, dove si sarebbero imparentati con la locale famiglia regnante. Verso l'inizio dell'era cristiana, avrebbero risalito il Danubio e il Reno, imparentandosi per matrimonio con certe tribù teutoniche e generando i Franchi Sicambri: gli antenati dei Merovingi... Vi sono indizi, al di fuori della mitologia, che fanno pensare a una migrazione ebrea in Arcadia. Nei tempi classici, l'Arcadia era dominata dal potente Stato militarista di Sparta. Gli Spartani assimilarono in gran parte la più antica cultura degli Arcadi; anzi il leggendario arcade Liceo può essere identificato con Licurgo, il legislatore spartano. Quando diventavano adulti, gli Spartani, come i Merovingi, attribuivano uno speciale significato magico alle loro chiome, che erano egualmente lunghissime (così come quelle del biblico Sansone e degli altri nazirei, N.d.R.). Secondo un autore, « la lunghezza dei capelli denotava il loro vigore fisico ed era un simbolo sacro ». E c'è di più: i due libri dei Maccabei, nella Bibbia, sottolineano il legame tra gli Spartani e gli Ebrei. Maccabei 2 parla di certi Ebrei che « si erano recati presso Spartani, nella speranza di trovarvi protezione in nome della comunanza di stirpe ». E Maccabei 1 afferma esplicitamente: « Si è trovato in una scrittura, riguardante gli Spartani e i Giudei, che essi sono fratelli e che discendono dalla stirpe di Abramo »."

Dal 1.100 a.C. - Le culture kurganiche indoeuropee, che allevavano cavalli fin dal 4.000 a.C., sia per mangiarli che come animali da soma, verso il 2.100-2.000 a.C. avevano imparato ad usarli per trainare agili carri da caccia, corsa e guerra e a cavalcarli in maniera incontrollata (con nasiere e senza sella o sottopancia) e finalmente, dopo circa un millennio di tentativi e di selezioni del cavallo, riuscirono a montarlo in maniera utile per poterlo impiegare in battaglia, controllandolo quindi con una mano o con le gambe e contemporaneamente poter brandire un'arma. La scoperta della cavalcabilità del cavallo (tra il 1100 e il 1000 a.C.) sarà una rivoluzione che metterà in moto le steppe occidentali mentre forse ad est degli Altaj, con l'addomesticazione della renna, si era verificato un fenomeno analogo.

Cartina della Fenicia intorno al
1000 a.C. con Biblo, Sidone e Tiro.
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La stele di Nora,
vicino a Cagliari,
con antiche iscrizioni 
in alfabeto fenicio
IX - VIII sec. a.C.
- Nell'XI secolo a.C. i Fenici colonizzano il Mar Mediterraneo, fondando basi  sulle coste mediterranee e della Sardegna. In seguito monopolizzeranno le navigazioni nel Mediterraneo Occidentale, sostituendosi ai proto-Liguri nei commerci atlantici, fino agli anni delle guerre Puniche contro Roma. I Fenici avevano il monopolio della produzione del rosso porpora, un pigmento ottenuto dalla lavorazione di molluschi marini (murex), molto apprezzato e richiesto nei mercati dell'antichità, oltre alla produzione del vetro, con tutti i manufatti connessi ad esso. Ancora oggi i produttori di vetro di Murano, a Venezia, sanno riprodurre quelle piccole sfere forate, usate come perline, che riconoscono come di derivazione fenicia (le chiamano "rosette"), e che hanno ispirato loro le murrine, barre di vetro di cui la sezione mantiene gli stessi disegni e colori per tutta la lunghezza.
Alfabeto Fenicio arcaico e gli alfabeti
derivati dal Fenicio: Greco orientale e
occidentale: dal Greco occidentale
 deriveranno l'Etrusco e il Latino.
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I Fenici sono stati i primi ad adottare la scrittura con un alfabeto fonetico, anche se senza vocali. Da tale alfabeto deriveranno tutti gli alfabeti europei: Greco, Greco Occidentale da cui deriveranno gli alfabeti Etrusco e Latino, che designerà la grafica della scrittura che usiamo ancora oggi nella maggior parte del mondo.

Dal 1.080 - A seguito degli accordi fra le popolazioni italiche di origine indoeuropea (definiti Aborigeni dagli storici antichi), con gli Umbri in prima fila, e i Pelasgi, dopo le campagne vittoriose contro i Liguri (chiamati Siculi), avvenute orientativamente alla fine dell'età del bronzo, gli Italici avrebbero concesso ai Pelasgi il popolamento dell'Etruria, che era stata dei Liguri, dove si sarebbero insediati e da cui sarebbe scaturita la civiltà Etrusca. Complessivamente, si è attribuita ai Pelasgi una vocazione migratoria e, in particolare, marinara: Eusebio, nel "Chronicon", considerava quella dei Pelasgi una "talassocrazia" che potrebbe essere stata la protagonista dell'avvicendamento al governo della Tartesso iberica, appannaggio dei liguri arcaici, che passerà poi sotto il controllo dei Cartaginesi nell'VIII secolo a.C., e gli riconosceva il dominio del Mar Mediterraneo, in un periodo che sarebbe iniziato novantanove anni dopo la caduta di Troia (quindi intorno al 1080 a.C.) e sarebbe durato altri ottantacinque, quindi fino al 995 a.C. circa (secondo la cronologia di Eratostene di Cirene, tra il 1082 e il 997 a.C.). Non a caso l'alfabeto adottato a Tartesso ha ispirato i 5 alfabeti nord-italici del V secolo, che vennero invece attribuiti a nuove adozioni dell'alfabeto etrusco: se i Pelasgi, considerati "Tirreni", avevano sottomesso Tartesso intorno al 1200 a.C. e da loro erano derivati gli Etruschi italici, il cerchio si chiude. Vedi anche QUI.

Carta delle Popolazioni italiche
nel 1000 a.C.
Nel 1.050 a.C. - Nella penisola italica, la Civiltà Villanoviana è al culmine. Fra il X e l'VIII secolo a.C., l'età del ferro trova la sua massima espressione nella civiltà Villanoviana (preceduta nel bronzo recente dalla cultura protovillanoviana), che ha preso il nome da Villanova (una frazione di Castenaso, in provincia di Bologna), un insediamento di grande interesse archeologico, dove sono state trovate lance, spade, pettini e gioielli di ogni tipo. Questa è una dimostrazione dei progressi che erano stati fatti nell'estrazione e nella lavorazione dei metalli, di cui era particolarmente ricco il sottosuolo della regione.

Atene, Areopago visto dall'Acropoli.
- Tra il 1038 a.C. e il 753 a.C. il governo di Atene è affidato a nove arconti, magistrati inizialmente eletti a vita per poi con carica decennale fino al 682 a.C. quando diventerà annuale. I tre arconti più in vista, oltre ai sei tesmoteti, erano: l'arconte eponimo, l'arconte re (capo religioso) e l'arconte polemarco (capo militare); gli altri arconti (i tesmoteti) tramandavano le leggi a voce cercando di conquistare sempre più potere. L'Areopago è una delle colline di Atene situata tra l'agorà e l'acropoli e nel periodo monarchico vi si riuniva il collegio delle supreme magistrature dello Stato (governo dei 9 arconti) presiedute dal re. Secondo le leggi arcaiche dell'arcontato, i membri che ne facevano parte erano eletti a vita, senza possibilità di rinnovo del consiglio. La principale funzione di tale assemblea era quella di occuparsi della custodia delle leggi contro ogni violazione e della giurisdizione sui delitti di sangue. Il suo orientamento era del tutto conservatore e la sua composizione, formata da membri provenienti dall'aristocrazia eletti per anzianità o per principi ereditari, accentuava il suo indirizzo moderato e sanciva il suo ruolo decisivo nella custodia delle leggi, della pubblica moralità e dei culti cittadini. Al re rimaneva da svolgere le funzioni religiose e di presiedere all'areopago, il comando militare passò ad un arconte, mentre gli incarichi civili e giudiziari erano presieduti da un arconte affiancato da tesmoteti.

Area degli insediamenti degli
Sciti dal 1.000 a.C.
Dal 1.000 a.C. - Provenienti dalla Siberia meridionale, nell'area compresa tra il Mar Caspio e i Monti Altai, gli Sciti si insediarono nella vasta area compresa tra il Don e il Danubio nel X secolo a.C.. Vinti e assoggettati i Cimmeri, gli Sciti dilagheranno, nel corso del VI secolo a.C., verso l'area balcanica e la Pannonia, nel bacino settentrionale del Mar Nero, per poi toccare la Germania orientale e con i Traci l'Italia settentrionale.

Area in cui erano stanziate le tribù
germaniche durante il I millennio a.C.
- Nei primi secoli del I millennio a C., i Germani si diffusero fino a occupare un'ampia area dell'Europa centro-settentrionale, dalla Scandinavia all'alto corso del Danubio e dal Reno alla Vistola.

- Come si desume dai ritrovamenti archeologici, a partire dal X secolo a.C., fra le genti che formavano quella che noi chiamiamo Cultura di Golasecca, viene a crearsi la necessità di avere una élite guerriera ben equipaggiata, come testimoniato dall’armamentario ritrovato all’interno delle tombe della necropoli di Morta in provincia di Como. Tale necessità è motivata dalla ricchezza che si viene a produrre in queste zone, ricchezza dovuta all’ubicazione geografica che consentì il controllo delle vie commerciali tra il versante nord e sud delle Alpi. Tutto ciò consentì lo sviluppo, in una zona omogenea, di una società diversificata rispetto ai vicini, nonché la nascita di una delle più antiche città europee al di fuori della zona mediterranea. Al periodo di benessere appena descritto segue per tutto il IX sec. e metà del l’VIII sec. un calo, probabilmente dovuto a mutazioni climatiche che portarono un periodo di forte piovosità, come dimostrato dai livelli dei laghi svizzeri sulle cui sponde, da secoli, sorgevano abitazioni abbandonate in seguito all’innalzamento del livello dell’acqua. E’ presumibile che tali innalzamenti dovuti alle copiose precipitazioni abbiano influenzato anche la vita ed i commerci in pianura padana, rendendo difficile l’utilizzo delle vie d’acqua. La situazione migliorerà verso la fine dell’ VIII secolo.

La situla Benvenuti della
cultura d'Este, o Atestina.
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Alfabeto
Venetico
d'Este.
La civiltà o cultura Atestina o d'Este è una testimonianza dell'antica popolazione dei Venetici (Veneti) nell'Italia protostorica, diffusa nell'attuale territorio del Veneto e sviluppatasi tra la fine dell'età del bronzo (X-IX secolo a.C.) e l'età romana (I secolo a.C.) e derivata dalla precedente e più estesa cultura protovillanoviana. Prende il nome da Este in provincia di Padova, che ne fu il centro principale, ed è detta anche "civiltà delle situle", dal nome degli oggetti tipici della sua produzione, o civiltà paleo-veneta. L'economia era fondata sull'agricoltura, l'allevamento delle pecore, la pesca in acqua dolce. Si praticavano scambi con la regione villanoviana e l'Etruria, la Slovenia, il Tirolo e la regione hallstattiana. La situla Benvenuti è uno dei migliori esempi della produzione di questa cultura, con ornamenti animali (reali o fantastici), vegetali e geometrici, che dimostrano un'influenza orientale. Vi sono raffigurate anche scene con personaggi, dove si scorgono i primi intenti narrativi, con temi tipicamente locali come scene di commercio, di lotta, di vita rurale e di guerra. Le situle sono diffuse su un ampio raggio, forse a opera di artigiani itineranti in contatto con civiltà orientali più progredite, probabilmente tramite la mediazione dell'Etruria o delle colonie adriatiche della Magna Grecia o della penisola balcanica.

- Fin da circa il 1.000 a.C. la regione corrispondente all'attuale Portogallo è abitata dalla popolazione iberica dei Lusitani.

- Nel 1.000 a.C. circa, il linguaggio delle popolazioni celtiche si distingue in quattro sub-famiglie. Le lingue celtiche sono idiomi che derivano dal proto-celtico o celtico comune, una branca della grande famiglia linguistica indoeuropea. Durante il I millennio a.C., queste venivano parlate in tutta l'Europa, dal Golfo di Guascogna al Mar del Nord, lungo il Reno ed il Danubio fino al Mar Nero e al centro della penisola anatolica (Galazia). Oggi le lingue celtiche sono limitate a poche zone ristrette in Gran Bretagna, nell'Isola di Man, in Irlanda, in Bretagna (in Francia) e persistono nei dialetti dell'Italia settentrionale, Venezie escluse. Il proto-celtico si divide apparentemente in quattro sub-famiglie: il gallico ed i suoi parenti più stretti, il lepontico, il norico ed il galato. Queste lingue venivano parlate in un vasto spazio che andava dalla Francia fino alla Turchia, dal Belgio fino all'Italia settentrionale, dove sopravvive nei dialetti di Lombardia, Emilia-Romagna, Piemonte e Liguria; il celtiberico, anticamente parlato nella penisola iberica: nell'area del Portogallo centro-meridionale e in Spagna nella Galizia, nelle Asturie, in Cantabria, in Aragona e nel León; il goidelico, che include l'irlandese, il gaelico scozzese, il mannese; il brittonico che include il gallese, il bretone, il cornico, il cumbrico, l'ipotetico ivernico e forse il pittico. Alcuni studiosi distinguono un celtico continentale da un celtico insulare, argomentando che le differenze tra le lingue goideliche e quelle brittoniche si sono originate dopo la separazione fra lingue continentali e insulari. Le lingue celtiche continentali sono quelle lingue celtiche che non sono né goideliche né brittoniche (celtico insulare). Sebbene sia verosimile che i Celti abbiano parlato dozzine di lingue e dialetti diversi attraverso l'Europa in tempi pre-romani, solo quattro di queste lingue sono realmente attestate e sopravvivono nei dialetti locali: Lingua leponzia (dal VII al III secolo a.C.) generalmente considerata una variante del Gallico; Lingua gallica (dal III secolo a.C. al II secolo d. C.); Lingua galata (dal III secolo a.C. al IV secolo d. C.) generalmente considerata una variante del Gallico; Lingua celtiberica (intorno al I secolo a.C.). Molti ricercatori concordano sul fatto che il celtico insulare sia un ramo distinto del celtico, avendo subìto innovazioni linguistiche. Le lingue celtiche insulari sono le lingue celtiche parlate ancora oggi in Gran Bretagna, Irlanda, Isola di Man, Bretagna e sulla costa atlantica della Francia, che si contrappongono alle lingue celtiche continentali. Complessivamente si stima che le lingue celtiche insulari siano parlate da circa 900.000 persone. La più diffusa è la lingua gallese, con 526.000 locutori censiti nel Regno Unito nel 2011. Segue la lingua bretone, che contava 206.000 locutori nel 2007. La lingua gaelica irlandese, o semplicemente lingua irlandese, è parlata da 106.210 persone, di cui 72.000 censite nel 2006 nella Repubblica d'Irlanda. Per la lingua gaelica scozzese si stimano 63.130 locutori. La lingua cornica e la lingua mannese, un tempo considerate estinte, al censimento del Regno Unito del 2011 risultavano essere la lingua principale, rispettivamente, di 557 e 33 persone. La lingua gaelica iberno-scozzese era diffusa in Irlanda e Scozia, ma è ritenuta estinta dal XVIII secolo. Secondo Ethnologue, la classificazione delle lingue celtiche insulari è la seguente: Lingue brittoniche: lingua bretone [codice ISO 639-3 bre], lingua cornica [cor], lingua gallese [cym]. Lingue goideliche o gaeliche: lingua gaelica iberno-scozzese [ghc], lingua gaelica irlandese [gle], lingua gaelica scozzese [gla], lingua mannese [glv]. Altri studiosi distinguono invece un celtico-Q da un celtico-P, a seconda dello sviluppo della consonante indoeuropea . La lingua bretone è brittonica, non gallica. Quando gli anglo-sassoni si trasferirono in Gran Bretagna, alcuni dei nativi gallesi (welsh, dalla parola germanica Welschen che designa gli "stranieri", parola che deriva dal nome della tribù celtica dei Volci Tectosagi che erano appunto confinanti e talvolta in guerra con tribù germaniche e pertanto stranieri per questi ultimi) attraversarono la Manica e si stabilirono in Bretagna, portandosi la loro lingua madre che diventò in seguito il bretone, che rimane ancora oggi parzialmente intelligibile con il gallese moderno ed il cornico. Per tutte, il sistema di scrittura è l'alfabeto latino.


Particolare del sarcofago degli Sposi
opera etrusca del VI sec. a.C.
Nel 950 a.C. - L'Italia era divisa al tempo essenzialmente tra: Liguri (nel nord-ovest), Celto-Liguri (a nord), Veneti (nel nord-est), Villanoviani e, prima di essi, Proto-villanoviani (nel centro-nord), la propaggine dei Pelasgi a Spina e Adria con numerose città conquistate ai Liguri nel centro italico in alleanza con gli Umbri, che li avevano chiamati in soccorso e più a sud Oschi, Latini, Sanniti, Campani e Dauni, Iapigi, Messapi, Lucani e Bruzi (centro e centro-sud), Siculi, Sicani ed Elimi (in Sicilia), Sardi e Corsi (in Sardegna e Corsica). Tra essi i Villanoviani erano senza dubbio i popoli più evoluti per quanto riguardava le tecniche agricole e si contendevano con la cultura di Golasecca il primato per quelle legate alla lavorazione dei metalli (bronzo e ferro). I popoli stranieri insediati nella penisola italiana erano principalmente i Fenici, i Greci e gli Etruschi, oltre ai Celti che si stavano fondendo con la cultura ligure a nord. I primi due si insediarono principalmente nelle isole e nel sud Italia, dove fondarono sia empori commerciali sia (alle volte) vere e proprie colonie di popolamento, rimanendo tutto sommato ai margini rispetto alle popolazioni già presenti nella penisola, sulle quali ebbero inizialmente un'influenza abbastanza contenuta.
Cartina dei territori
abitati dagli Etruschi
 800 a.C.- 500 a.C. e
delle loro espansioni,
nelle colorazioni più
 tenui, con indicate
le città Etrusche e le
 popolazioni italiche
 nell'Italia preromana:
Liguri, Reti, Veneti,
 Celti, Piceni, Umbri, Sabini,
Latini, Volsci, Sanniti,
 Lucani e Sardi.
Gli Etruschi invece, la cui civiltà ha iniziato a farsi strada a partire dal IX secolo a.C. nelle aree più centrali della penisola italiana (Emilia e Toscana), seppero mescolarsi molto di più con le popolazioni italiche originarie, influenzandole più direttamente e determinandone un notevole progresso sia culturale e tecnico che sociale, stimolando tra l'altro la nascita delle prime città-stato italiche. Si deve inoltre sottolineare come la civiltà etrusca, pur essendo considerata di matrice orientale, abbia rivelato aspetti tipici di una civiltà autoctona sul suolo italico. Fra i "Popoli del Mare" annoverati nella "Grande iscrizione di Karnak", che invasero l'Egitto nel 1208 a.C., vi sono i  Tereš o Turša o Twrs (Twrshna, o Tursha), e possono essere identificati con con le genti chiamate dai greci Turs-anòi (in dorico), Tyrs-enòi (in ionico), Tyrrh-enoi (in attico), cioè Tirreni, da cui prende appunto il nome il Mar Tirreno, mentre dagli italici erano chiamati Tus-ci (da Turs-ci) ed E-trus-ci dai Romani. Nelle lingue antiche la "c" e la "g" erano dure, come in cane e gallo, per cui Tusci si pronuncia "tuschi" ed Etrusci si pronuncia "etruschi". Gli Etruschi sono stati chiamati con diversi nomi derivanti dalla radice "Turs". Le terre abitate da questi popoli furono quindi chiamate Tyrrhenia, Tuscia (che prevalse nei tempi imperiali e a cui si ricollega il nome moderno della Toscana) ed Etruria (largamente usato prima del nome Tuscia). Va detto comunque che gli Etruschi chiamavano se stessi Rasenna. I Tirreni secondo Erodoto (Storie, I, 94, 5 - 7) erano una colonia dei Lidi condotta in Italia nel XII sec. a.C., poco dopo la guerra di Troia, mentre Dionisio o Dionigi d'Alicarnasso, storico e insegnante di retorica, che visse nel periodo augusteo (60 a. C. - 7 d.C.) sosteneva che gli Etruschi fossero autoctoni. Recenti studi sul DNA mitocondriale (il mitocondrio è un corpuscolo intracito-plasmatico della cellula che rimane pertanto immutato di generazione in generazione, non entrando nella combinazione del DNA maschile e femminile) sembrerebbero confermare tale ipotesi e smentire la versione erodotea ma nonostante ciò va detto che il DNA mitocondriale del 2% dei Toscani sarebbe diverso da quello delle altre popolazioni italiane ed europee ed in parte simile a quello delle popolazioni dell'Asia Minore e dell'isola di Lemno. La teoria che appare più lineare è quella proposta da quegli studiosi che sono convinti della discendenza degli Etruschi (o Tirreni) dalla prima popolazione indoeuropea che, venuta da oriente, si era stanziata in Grecia: i Pelasgi. Nel 1885 fu trovata, nell'isola greca di Lemnos, in località Kaminia, la stele di Lemnos, una doppia iscrizione incorporata nella colonna di una chiesa. Tale iscrizione sembra testimoniare una lingua pre-ellenica in tutto simile a quella degli Etruschi (per l'iscrizione di Lemnos vedi nel 530 a.C., N.d.R.). Secondo il massimo storico greco Tucidide, l'isola di Lemnos sarebbe stata abitata da gruppi di Τυρσηνοί ("Tirreni", il nome greco degli Etruschi), e il ritrovamento ha fornito la prova sicura che in quell'isola del Mare Egeo, ancora nel VI secolo a.C., era parlata una lingua strettamente affine all'etrusco, per cui si rafforza l'ipotesi che gli Etruschi (i Tirreni) fossero discendessero dai Pelasgi, il popolo di guerrieri che aveva annesso e colonizzato tutte le regioni della Grecia, da Dodona a Creta alla Troade fino in Italia, dove i loro insediamenti erano ben riconoscibili ancora nel tempo degli Elleni. Ma non solo, gli avvenimenti intorno ai secoli XIII/XIV  a.C. in centro Italia possono svelare un movente convincente di questa ipotesi.
Ubicazione dell'isola di Lemnos
 e luoghi in cui sorgevano
i principali santuari della
Grecia antica, con indicata la
divinità specifica che vi si venerava
Nel XIV e XIII sec. a.C. una frazione di Liguri denominati Siculi, si era stabilita nel Lazio, proprio nell'area dove verrà poi fondata  Roma. Presumibilmente tribù di Liguri avevano avuto il controllo, oltre che del settentrione italico, della Toscana, Umbria e delle Marche, in cui avevano fondato Numana e Ancona. Questi Liguri denominati  Siculi potrebbero essere stati i  Šekeleš, uno dei popoli del Mare. Dionigi di Alicarnasso nella sua storia delle antichità romane parla dei Siculi come della prima popolazione che avesse abitato la zona di Albalonga, nei cui pressi sorse Roma. Siculo (o Sikelòs o Siculos), è il presunto re che avrebbe dato il nome al popolo dei Siculi e alla Sicilia (Sikelia) ma dei Siculi si fa menzione a proposito dell'arrivo dei Pelasgi in Italia. Così tramanda Dionigi di Alicarnasso a proposito di un oracolo a Dodona rivolto ai Pelasgi: “Affrettatevi a raggiungere la Saturnia terra dei Siculi, Cotila, città degli Aborigeni, là dove ondeggia un'isola; fondetevi con quei popoli, ed inviate a Febo la decima e le teste al Cronide, ed al padre inviate un uomo.”. I Pelasgi accolto l'ordine di navigare alla volta dell'Italia, e di raggiungere Cotila nel Lazio vetus, allestirono numerose navi e si diressero come prima tappa verso le coste meridionali dell'Italia, che erano le più prossime. Lo schema narrativo seguito da Dionigi è identico a quello che Varrone aveva prodotto prima di lui, per cui ci si aspetterebbe che i Pelasgi, obbedendo all'oracolo che ingiungeva loro di recarsi a Cotila, andassero a sbarcare sulle coste del mar Tirreno dove lo stesso Varrone li aveva fatti approdare. “Ma”, dice Dionigi, “per il vento di Mezzogiorno, e per la imperizia dei luoghi, andarono a finire in una delle bocche del fiume Po, chiamata Spina. Qui lasciarono le navi, fondarono la città di Spina, si diressero verso l'interno e, superati gli Appennini, vennero a trovarsi sul versante occidentale della penisola italica nella regione dove a quel tempo abitavano gli Umbri.”. Ai Siculi, dice poi Dionigi, i Pelasgi tolsero  Cere, Pisa, Saturnia, Alsio, Faleri, Fescennio ed altre città che nel tempo saranno degli Etruschi, probabili discendenti dei Pelasgi stessi. In Dionigi di Alicarnasso leggiamo che i primi aggressori dei Siculi (o Liguri-Siculi), quando essi ancora si trovavano in Italia peninsulare furono i cosiddetti Aborigini che avevano chiamato in loro aiuto i Pelasgi. Questi non riuscirono a sconfiggere totalmente i Liguri-Siculi, i quali però, secondo quanto ci riferisce Ellanico Lesbio in Dionigi, infine, stanchi delle aggressioni o non potendo resistere ad esse, avrebbero lasciato il territorio e sarebbero migrati, passando per l'Italia Meridionale, in Sicilia. Secondo Dionigi di Alicarnasso la città di Roma avrebbe avuto come primi abitatori indigeni dei barbari siculi successivamente espulsi dagli Aborigeni con l'aiuto dei Pelasgi. I Siculi, respinti, si sarebbero rifugiati in Sicilia e gli Aborigeni si sarebbero estesi sino al fiume Liris assumendo il nome di Latini, dal re che li avrebbe domati al tempo della guerra troiana. Tracce di nomi Etruschi appaiono in alcuni nomi di località dell'Egeo, di Creta e dell'Asia Minore: uno dei molti esempi è Μύρινα (affine al nome gentilizio etrusco Murina di Tarquinia e Chiusi) nome di città a Creta, nella stessa Lemno, in Misia. Questi dati vengono interpretati da alcuni studiosi come indizio dell'origine orientale degli Etruschi, passati alla fine età del bronzo, dal Mediterraneo occidentale a quello  orientale.
Cartina dell'espansione
degli Etruschi dal 750 a.C.
al 500 a.C. con i nomi delle
 loro città appartenenti
 alla Lega (dodecapoli) e
 altri insediamenti.
Queste scoperte hanno convinto Nermin Vlora Falaski, studioso albanese, sulla derivazione degli Etruschi dai Pelasgi, le prime popolazioni indoeuropeee a raggiungere il Mediterraneo e l'Europa, anche se le iscrizioni in geroglifico del tempio funerario del faraone Ramses III (1193-1155 a.C.) di Medinet Habu, potrebbero contenere un chiaro riferimento, forse l'unico, archeologicamente documentato, dell'esistenza reale del popolo dei Pelasgi. L’iscrizione descrive un attacco effettuato nell’8º anno di regno del faraone (il 1186 a.C.) da un’alleanza di cinque popoli stretta dopo aver distrutto la città di Ugarit (in Siria): tra costoro compaiono i Peleset (i Pelasgi). Nermin Vlora Falaski, nel suo libro "Patrimonio linguistico e genetico" (scritto anche in lingua italiana), ha decifrato iscrizioni Etrusche e Pelasgiche con la lingua odierna Albanese. Questo proverebbe che gli Albanesi (discendenti degli Illiri) siano gli odierni discendenti dei Pelasgi, una delle più antiche stirpi che popolò l’Europa: http://www.thelosttruth.altervista.org/SitoItalian/CasoPelasgico.html.
Alfabeto fenicio arcaico da cui
derivano gli alfabeti greci.
Dall'alfabeto greco di Calcide
 portato a Cuma dai coloni greci,
 gli Etruschi  trarranno i loro alfabeti,
e da loro i Latini.
L'Etruria era una regione antica dell'Italia centrale che comprendeva i territori attualmente spezzini a sud del fiume Magra, la Toscana, parte dell'Umbria occidentale fino al fiume Tevere e parte del Lazio settentrionale. La civiltà Etrusca fu il frutto dell’innesto di elementi stranieri (attorno ai quali non si hanno notizie certe) sulla preesistente cultura villanoviana, nell’area compresa tra l’Arno e il Tevere. Essenzialmente urbana, si organizzò in città-stato (Volterra, Fiesole, Arezzo, Cortona, Perugia, Chiusi, Todi, Orvieto, Veio, Tarquinia, ecc.) che, a scopi religiosi ed economici, diedero vita a una Lega formata da dodici città (dodecapoli). Ogni città era retta da re (detti lucumoni) e magistrati eletti tra i membri della casta aristocratica. Una fonte storica greca assai autorevole, Strabone, ricorda come gli Etruschi estendessero il loro dominio anche in Campania sino all'Agro Picentino, nel Salernitano, e vi fondassero ben dodici città, replicando il modello della dodecapoli già conosciuto nell'Etruria propriamente detta. Fra tutte (Nola, Nocera, Ercolano, Pompei, Sorrento, Marcina, Velcha, Velsu, Irnthi, Uri, Hyria) Capua avrebbe rivestito un ruolo di particolare rilievo. La nascita di Capua antica (in neoetrusco Capua e forse, in origine, Velthurna) come fondazione etrusca nella seconda metà del IX secolo a.C. trova riscontro proprio nei corredi funerari dalle sue necropoli di orizzonte villanoviano.
Particolare della Tomba dei Leopardi
a Tarquinia
Una prima fase espansiva (sec. VIII-VI a.C.) portò gli etruschi a contendere a greci e cartaginesi il controllo delle rotte tirreniche e adriatiche e a estendere il proprio dominio dalla pianura padana alla Campania, fondando centri come Fèlsina (Bologna), Misa (Marzabotto, in provincia di Bologna), Mantova, Piacenza, Pesaro, Rimini, Ravenna, arrivando fino a Roma, che la tradizione vuole governata da re etruschi dal 616 al 509 a.C.
Tomba Etrusca dei Leopardi del 480
a.C. che sorge, insieme ad altre, nei
pressi di Tarquinia. Clicca
sull'immagine per ingrandirla.
Oltre alle preesistenti popolazioni locali, nell'occupazione della Campania gli Etruschi si affiancavano ai Greci, i quali si erano precedentemente stanziati sull'isola di Ischia e in seguito sulla terraferma a Cuma intorno alla metà dell'VIII secolo a.C.
Tomba dei Tori del 530 a.C., nella
necropoli di Monterozzi, a Tarquinia.
In epoca orientalizzante e arcaica (VII-VI secolo a.C.), proprio allorquando Capua doveva rappresentare la più importante città della dodecapoli etrusca, la sua fioritura toccò una fase apogeica sul piano culturale ed economico, anche grazie ai precoci contatti con il mondo greco, irraggiando la propria influenza anche sui centri vicini.
Gli Etruschi scrivevano con un loro alfabeto, derivato dall'alfabeto greco definito poi "greco occidentale", adottato dagli Eubei di Calcide e introdotto in Italia centrale nell'VIII secolo a.C dai coloni greci di Cuma.
Particolare della Tomba dei Tori:
il toro in alto a sinistra, durante uno
strano rapporto etero-sessuale a tre,
guarda altrove, disinteressato.
Particolare della Tomba dei Tori: il
toro a destra invece, attacca due
praticanti un rapporto omosessuale,
in cui quello dietro è stranamente
voltato indietro e guarda altrove.
Nelle iscrizioni più antiche la scrittura etrusca è bustrofedica, non ha cioè una direzione "fissa" da sinistra a destra o da destra a sinistra, ma procede in un senso fino al margine scrittorio e prosegue poi a ritroso nel senso opposto, secondo un procedimento "a nastro", senza "andate a capo" ma con un andamento che ricorda quello dei solchi tracciati dall'aratro in un campo. L'etimologia della parola "bustofedica" ricorda infatti l'andamento di un bue durante l'aratura, mentre le scritture classiche hanno l'andamento da destra verso sinistra, come nel punico. Poche iscrizioni seguono l'andamento da sinistra a destra, e in tal caso i caratteri etruschi sono riflessi; per separare le parole poi, si scriveva un puntino.
Tarquinia: particolare dell'immagine
che dà il nome alla Tomba della
 Fustigazione, del 490 a.C.
L’autonomia di Roma e quindi la crescita della sua potenza si intrecciarono con la decadenza etrusca, acceleratasi dopo la sconfitta patita a Cuma nel 474 a.C. a opera dei greci di Siracusa. La Campania fu persa di lì a poco per opera dei sanniti e contemporaneamente i Galli dilagarono nella pianura padana. A partire dalla distruzione di Veio (395 a.C.), entro il sec. III a.C. Roma si impossessò di tutta l’Etruria. La scarsità di notizie precise attorno agli etruschi deriva dal fatto che non hanno lasciato una letteratura, ma solo testi brevissimi, perlopiù iscrizioni sepolcrali, e la loro lingua non è stata completamente decifrata.
Particolare della Tomba dei Tori: sfere con croci. Da
http://www2.fci.unibo.it/~baccolin/tombat/tomba-tori.htm:
"Penso, prima di tutto, che i simboli della sfera sormontati
con una croce non siano certamente motivi ornamentali ne
simboli della fertilità ne il cosiddetto segno di Venere, ma
rappresentino il simbolo dell'Omphalos, la pietra Ovale o
quasi sferica con incisa sulla punta , a volte, una croce,
come nel Museo di Marzabotto."
La centralità del culto dei  morti presso gli Etruschi è attestata dalle numerose necropoli e tombe  isolate disseminate in Toscana e nel Lazio; convinti che il defunto conservasse l’individualità congiunta alle proprie spoglie mortali, concepirono il sepolcro come un’abitazione sotterranea, arredata con letti, tavoli, utensili e affrescata da vivaci pitture. La società etrusca era formata da nobili, discendenti dei primi dominatori, e servi, discendenti delle popolazioni preesistenti all'occupazione etrusca. Vi erano schiavi adibiti ai lavori più pesanti, ma anche schiavi semiliberi che, per i loro meriti, potevano condurre vita migliore e anche elevarsi socialmente.
Velia Velcha, dalla Tomba
dell'Orco di Tarquinia. 
Da http://spazioinwind.libero.it/popoli_antichi/Etruschi/velia.html: E' nota in tutto il mondo come la Fanciulla Velca. Il suo squisito ritratto è considerato uno dei capolavori dell’arte antica ed è il frammento più “classico” di tutta la pittura funeraria etrusca. Si chiamava Velia, Velia Spurinna. Era nipote di Velthur il Grande, che aveva comandato due eserciti etruschi all’assedio di Siracusa e di Ravnthu Thefrinai: era sorella di Avle, l’eroe Tarquiniese che affrontò Roma in campo aperto e la vinse. Sposò Arnth Velcha, appartenente ad un’aristocratica famiglia di magistrati di rango così alto che avevano il diritto di essere scortati dai littori con i fasci di verghe e l’ascia bipenne che, prima a Tarquinia e poi a Roma, furono il simbolo del massimo potere. Dei Velcha conosciamo anche l’aspetto perché molti furono dipinti nelle pareti della loro grande Tomba degli Scudi, che prende il nome dalle armi raffigurate in uno dei suoi affreschi. Qui tra gli altri, appaiono anche i genitori di Arnth che, adagiati sul letto conviviale davanti ad una tavola imbandita, si scambiano l’uovo dell’eterna fertilità mentre una giovane ancella muove per loro un ventaglio di foglie e di piume. Arnth e suo fratello Vel, avvolti in caldi mantelli, stanno invece in piedi vicino ad una porta. Velia, sposandosi, assunse dai Velcha il nome con il quale è nota in tutto il mondo, pur portando impresse in  sè la grazia e la dignità degli Spurinna, che straziati dalla sua morte forse precoce, la vollero dipinta nella loro Tomba dell’Orco.

Dal IX al VII sec. a.C. si verificarono importanti migrazioni di alcune tribù Slave dalla regione dell'alta Vistola verso l'alto Bug, la Volinia.

Ricostruzione di Septimontium.
Dall' 850 a.C. - Da Andrea Carandini in https://www.youtube.com/watch?v=mfxvEHr842Q: "Lo storico antiquario Marco Terenzio Varrone (116 a.C. - 27 a.C.) tramanda la conoscenza di un grande centro protourbano non centralizzato chiamato Septimontium, poco più piccolo di quella che sarebbe stata Roma, almeno un secolo prima della sua fondazione. Con i suoi 290 ettari, la prima Roma era più estesa di Veio, la maggiore città etrusca e proprio agli etruschi, che furono fra i primi fondatori di città, si rivolse Romolo per conoscere i riti e le liturgie augurali delle fondazioni.".

Per eventuali approfondimenti vedi "Storia dell'Europa n.14: dal 1.150 all' 850 p.e.v. (a.C.)" QUI.

Carta del Mediterraneo e sud Europa
con le vie commerciali dei Fenici.
Nell' 813 a.C. - Nella regione africana che oggi chiamiamo Tunisia, i Fenici della città di Tiro fondano Cartagine: "Carthadash" nella loro lingua, che significa "la città nuova".

Cartina di Europa e Mediterraneo
nell'VIII sec. a.C. con i territori di 
alcune popolazioni.
Dall' 800 a.C. - Gli Sciti si  diffondono in Mesopotamia (dando luogo alla cultura caldea e in seguito a quella assira), Anatolia (in cui erano già presenti Frigi, Lidi e Pontini), Grecia, Italia (dove, dal 900 a.C., erano presenti gli Etruschi e ancora prima i Liguri e gli Italici) e in generale nell'Europa centrale.
Cartina geografica
della penisola Italica
  con l'Italia preromana,
 intorno all' 800 a.C.,
 abitata da Liguri,
Reti, Veneti, Celti,
Etruschi, Piceni, Umbri,
 Sabini, Latini,
  Volsci, Sanniti, Aurunci,
Osci, Iapigi,
  Messapi, Bruzi, Siculi,
 Sardi, Greci
e Cartaginesi, oltre
 ad altre etnìe.
Gli indoeuropei che sarebbero divenuti i Celti, oltre ad avere società patriarcali e culti di divinità maschili-solari, come gli Sciti, avevano con essi molte altre usanze comuni: l'uso delle tombe tumulo  (kurgan), l'allevamento del cavallo, ritenuto sacro, il rito di tagliare e conservare la testa del nemico a protezione della propria capanna, la suddivisione in tre classi sociali (guerrieri, sacerdoti e lavoratori) in cui gli aristocratici possedevano più cavalli.

La Grecia arcaica, nel VII-VI sec.a.C.
- Le póleis greche si moltiplicarono a partire dall'VIII secolo a.C.. La rapida crescita della popolazione e la scarsità delle risorse spinsero i Greci a esportare questo modello di organizzazione anche nelle colonie, che fondarono un po' in tutto il Mediterraneo. Al centro della pólis, circondata da case e botteghe, si trovava l'agorà, la piazza del mercato e delle pubbliche assemblee; la parte più alta della città costituiva l'acropoli con i templi. La più celebre acropoli della Grecia è quella di Atene, dove sorgevano i templi in onore delle divinità e si celebravano le feste Panatenee, con solenni processioni religiose e manifestazioni sportive. Nelle sculture dell'età arcaica e classica, gli artisti della Grecia antica cercarono di produrre delle opere ideali, in grado di non sfigurare al cospetto delle divinità. Questo risultato fu raggiunto, specialmente nella scultura a tutto tondo, attraverso un lungo e ininterrotto processo di perfezionamento formale. Le prime testimonianze appartengono all'età arcaica (tra il VII e il VI secolo a.C.), in cui i soggetti rappresentati sono giovani nudi o fanciulle vestite, caratterizzati dalla fissità dell'espressione.

Insediamenti Greci nell'VIII sec. a.C.,
con in verde le loro colonie nel Mar
Mediterraneo e nel Mar Nero fondate
dall'VIII al VI sec. a.C. Nel riquadro
la Magna Grecia (Grande Grecia)
italica. 
- Dall' VIII al VI secolo a.C. i Greci avviano la seconda colonizzazione, sia verso occidente (Sicilia e coste meridionali italiane, la Magna Grecia) che verso oriente (coste settentrionali e meridionali del Mar Nero), motivata oltre che da difficoltà economiche, anche da contrasti sociali. Cuma, in Campania, fu fondata nel 780 - 750 a. C. dai Calcidesi e dagli abitanti di Cuma, piccolo centro dell'isola Eubea, e fu la più antica colonia greca della penisola italica e della Sicilia.
Cartina dell'antica Grecia nell'VIII
 sec. a.C., delle sue pòleis (città),
e delle colonie fondate da tali città
 successivamente. Sono inoltre
indicati i territori Fenicio-cartaginesi
 mediterranei nel VII e
VI sec. a.C. 
Alcune città doriche, Corinto e Megara in particolare, ma anche Sparta ed altre, presero parte al grande movimento colonizzatore che si sviluppò in tutto il bacino del Mediterraneo. Colonie doriche furono fondate in Asia Minore, a Cipro, in Africa settentrionale ed in Italia (Magna Grecia e Sicilia). Fra queste ultime va segnalata Siracusa, fondata da Corinto, che a sua volta poi fondò Ancona (il cui epiteto è appunto "la città dorica") ed Adria. Sparta fondò Taranto nella penisola italica. La stessa Taranto, con Agrigento e Siracusa in Sicilia, furono le più popolose e ricche città greche d'Italia prima della conquista romana. Le città fondate mantenevano con la città-madre soltanto legami culturali e linguistici. Si ha anche l'avvento di due nuove figure politichelegislatori e tiranni.

- Nell'VIII secolo a.C. alcuni coloni greci che parlavano un dialetto ionico, provenienti dalla Focide, da Eretria e da Teos,  fondano Focea nella Ionia, la parte occidentale dell'attuale Turchia.

Ubicazione dell'antica Teos.
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Passo delle Termopili e a sud
l'antica Focide con le sue
città. Clicca sull'immagine
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Ubicazione dell'antica
 Eretria, nell'isola Eubea.
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Focea (greco antico: Φωκαία, Phōkaia; latino: Phocaea) fu fondata sul sito della odierna città di Foça (o Eskifoça) in Turchia, a circa 60 Km a Nord Ovest di Izmir (Smirne) ed era la città più settentrionale della Ionia.
Focea (Phocaea), Cuma Eolica
(Cyme) e Smirne (Smyrna).
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Sorgeva alla foce del fiume Ermo (oggi Gediz) sulla penisola che separa a nord il Golfo di Cyme (Cyme è l'antica Cuma degli Eoli) e a sud il Golfo di Smirne. Il suo nome proviene dalla parola “foca”, che fu il simbolo della città, o più probabilmente, dalla Focide, regione della Grecia centrale da cui proveniva parte dei coloni. Secondo Pausania, i Focei, sotto la guida ateniese, si stabilirono su un territorio ceduto da Cuma Eolica (Cyme) e furono ammessi nella Lega Ionica dopo aver riconosciuto i re della linea di Codro. A Focea, la presenza di due porti naturali permise lo sviluppo della flotta navale e del commercio marino. Secondo Erodoto, i Focei furono i primi greci ad intraprendere lunghi viaggi marittimi e a scoprire il Mar Adriatico, la Thyrrenia e l'Iberia a bordo di agili penteconteri.
Antica pentecontera greca.
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La pentecontera era una nave a propulsione mista essendo sospinta sia dalla vela che da remi e fu la prima imbarcazione adatta alle lunghe navigazioni. Il suo nome deriva proprio dai cinquanta vogatori disposti, venticinque per lato e in un unico ordine, sui due fianchi della nave. L'esemplare più famoso appartiene al mito: la nave Argo e i suoi (circa) cinquanta Argonauti. In seguito il termine andò a designare un'intera classe di navi, anche più potenti, sia a un ordine (monere) che a due (diere), dotate anche di più di 50 rematori. Si trattava sostanzialmente di una nave da guerra, a fondo piatto e dotata di un rostro per le manovre di speronamento. Le sue dimensioni sono stimate in circa 38 metri di lunghezza per 5 metri di larghezza. L'iniziale destinazione bellica non le impedì tuttavia di essere largamente utilizzata dai Focei della Ionia per percorrere rotte mercantili e coloniali.
Carta della Grecia o Ellade arcaica,
VII-VI sec. a.C., con i nomi in latino.
In grassetto Focea (Phocea), l'ormai
distrutta Micene (Mycenae) e
Tirinto (Tirynthius).
Ci informa infatti Erodoto che, proprio utilizzando pentecontere, anziché navi mercantili dallo scafo rotondo, i Focei furono i primi a compiere lunghi tragitti, aprendo nuove rotte commerciali a ovest e si spinsero molto lontano, fin sull'Oceano Atlantico, presso Tartesso. Giunti a Tartesso, (presso l'attuale Siviglia, in Spagna), strinsero amicizia col re Argantonio (letteralmente: uomo d'argento) che li invitò a trasferirsi nel suo paese. I Focei declinarono la proposta. Allora, avuta notizia della potenza e della bellicosità dei Medi, loro vicini, Argantonio inviò loro una grande somma d'argento per costruire le mura difensive della città. I loro viaggi marittimi erano estesi: a sud commerciavano con la colonia greca di Naucrati, in Egitto e a nord aiutarono l'insediamento delle colonie di Amiso e Lampsaco.
La concezione del mondo dei tempi
omerici: un disco circolare piatto
circondato completamente dalle
acque del fiume Oceano, che rimase
radicata nel mondo antico greco,
anche dopo che molti filosofi e
studiosi avevano accettato la
nozione della sfericità della Terra,
enunciata dai Pitagorici e da altri e
confermata, con prove teoretiche,
da Aristotele. Secondo la vecchia
concezione, subito al di sotto della
superficie si trovava la dimora
dell'Ade, il regno della Morte e
ancora al di sotto il Tartaro, il
regno dell'eterna oscurità.
All'esterno del fiume Oceano
si elevava la volta cristallina
(cioè solida) celeste. Da:
L' importante porto commerciale di Focea fondò colonie nel Mediterraneo occidentale: Massalia, (attuale Marsiglia) in Francia, Alalia in Corsica, Elea in Magna Grecia, Emporion e Rhoda in Spagna. Anche i Fenici di Cartagine adottarono le pentecontere. Annone, nell'incipit del suo periplo, ci informa ad esempio che il suo tentativo di periplo dell'Africa, voluto dai cartaginesi a fini coloniali, si svolse con sessanta pentecontere, caricate di viveri e provviste e una folla di donne e uomini. La necessità di utilizzare navi da guerra può essere spiegato con gli attriti che nascevano dai traffici commerciali tra Greci, Fenicio-Cartaginesi ed Etruschi nel Mediterraneo occidentale e nell'Atlantico. In ogni caso spetta alle pentecontere il merito di aver supportato le antiche colonizzazioni greche e fenicie nel mediterraneo. Le pentecontere furono per molti anni la spina dorsale della marina bellica greca.
Carta del mediterraneo nell'VIII sec.
con la Grecia e le sue pòleis (città), le
colonie e città fondate da esse
successivamente. In rosso scuro i
territori Fenicio-cartaginesi. Sono
sottolineate in rosso: Focea,
 Lampsaco più a nord, Amiso sul
Mar Nero, Naucrati in Egitto e
a ovest Massalia (Marsiglia),
Alalia, Cuma, Elea, Reggio.
Si resero protagoniste di un importante scontro navale tra i profughi Focei stanziatisi ad Alalia e una coalizione di cartaginesi ed etruschi: fu la battaglia di Alalia ed ebbe come teatro il Mar Tirreno, tra la Corsica e la Sardegna. Lo scontro navale si concluse con la vittoria dei Focei ma si rivelò subito dagli esiti incerti (Erodoto la definisce una vittoria cadmea). Essa segnò di fatto il primo momento di arresto dell'espansione coloniale e mercantile dei Greci di Focea nel mediterraneo occidentale, fino ad allora incontrastata. L'utilizzo promiscuo e le lunghe rotte percorse ci informano che la nave doveva essere dotata di notevoli capacità di carico. In effetti lo stesso Erodoto aggiunge che le pentecontere furono utilizzate per l'evacuazione di Focea, caricandole di tutti gli abitanti e i beni, con l'eccezione delle pitture e delle statue di bronzo. Dopo la battaglia di Alalia, furono protagoniste della successiva peregrinazione dei profughi focei che, stipati sulle venti navi superstiti, andranno a fondare Elea (Velia), in Magna Grecia, nell'attuale Campania.

Carta della Grecia antica con i monti Olimpo e
Parnaso, Tebe e Atene in Attica, Olimpia e
Sparta nel Peloponneso, e Creta a sud.
Nel 776 a.C. - Anno della prima Olimpiade in Grecia:  questa data servirà anche ai Greci come riferimento per datare il tempo. I Giochi panellenici furono un potente elemento coesivo di tutta l'Ellade grazie alla sospensione delle guerre durante i Giochi: giochi olimpici, istmici, pitici, nemei, secondo la città di svolgimento. Gli olimpici (ogni quattro anni, a Olimpia) divennero così importanti da computare il tempo su di essi, per cui la 2° olimpiade corrispondeva al 772 a.C., la 3° al 768 a.C. e così via.

Carta con sottolineate le città
Calcide, Cuma Eolica e Focea.
Dal 775 a.C. - Genti originarie di Calcide, città della greca isola Eubea, (dove si parlava un dialetto ionico), nel 775 a.C. fondarono in Italia una colonia che chiamarono Pithecusa, sull'isola di Ischia. Gli stessi co-fondarono poi, nel 760 a.C., Kyme (Cuma), nome greco che significa "onda", forse anche facendo riferimento alla forma della penisola sulla quale è ubicata, nel continente di fronte all'isola di Ischia, insieme a coloni provenienti da un'altra Cuma (è dibattuto se fosse Cuma euboica o di Cuma eolica, probabilmente la prima).
Percorso via mare dall'isola Eubea
all'isola di Ischia.
Secondo la leggenda, i fondatori di Cuma, sotto la guida di Ippocle di Cuma (probabilmente euboica) e Megastene di Calcide, scelsero di approdare in quel punto della costa perché attratti dal volo di una colomba o secondo altri da un fragore di cembali. Cuma fu la prima colonia greca fondata sul territorio continentale italico (nella seconda fase di colonizzazione greca) da genti che si definivano "Graikòi" nel loro dialetto, che era il nome distintivo delle genti marittime della costa dell'isola Eubea e della limitrofa costa della Beozia. Nome che i Romani erroneamente recepirono come appellativo di tutte le genti elleniche, trasmettendolo fino a noi come "Graeci", motivo per cui in Occidente l'Ellade è chiamata Grecia.
Tabella con l'alfabeto fenicio, gli alfabeti greci derivati,
l'alfabeto greco occidentale di Calcide usato dai coloni
di Cuma in Campania, gli alfabeti etruschi e il latino derivati.
I fondatori della nuova colonia trovarono un terreno particolarmente fertile ai margini della pianura campana e pur continuando le loro tradizioni marinare e commerciali, rafforzarono il loro potere politico ed economico proprio sullo sfruttamento della terra ed estesero il loro territorio, nonostante le mire dei popoli confinanti. Cuma fu la colonia che diffuse in Italia la cultura greca, diffondendo l'alfabeto calcidese, che assimilato e fatto proprio dagli Etruschi e dai Latini, divenne l’alfabeto della lingua e della letteratura di Roma e poi di tutta la cultura occidentale. Tante furono le battaglie che i Cumani combatterono per difendere la propria terra dagli attacchi degli Etruschi di Capua, degli Aurunci e dalle popolazioni interne della Campania. Intimamente legato a Cuma è il mito della Sibilla Cumana. Già dal terzo libro dell'Eneide è scritto che Enea, se vorrà finalmente trovare la terra destinata al suo popolo dagli dei, dovrà recarsi ad interrogare l'oracolo di Cuma (Eneide, III, 440-452). Oggi Cuma (Cumae in latino) è un sito archeologico della città metropolitana di Napoli, nel territorio dei comuni di Bacoli e di Pozzuoli, localizzato nell'area vulcanica dei Campi Flegrei e  l'antro della Sibilla costituisce un'attrazione turistica di notevole interesse. Tra il 756 a.C. ed 743 a.C., coloni che provenivano dalla stessa città euboica di Calcide, fondarono le due città di Zancle (Messina) e Rhegion (Reggio), rispettivamente sulla sponda siciliana e quella calabrese dello stretto che separa le due terre.

Nel 755 a.C. - Secondo il mito delle origini di Roma che ha tramandato Virgilio, gli Etruschi, guidati dal re Mezenzio, alleato con il re Turno dei Rutuli, attaccano i Latini e gli esuli troiani, guidati dal re Latino ed Enea. Latini e Troiani uscirono dallo scontro vittoriosi, anche se Enea venne ucciso in battaglia. La pace venne, quindi, conclusa stabilendo che il fiume Tevere sarebbe risultato il confine naturale fra Etruschi e Latini.

Mappa del luogo in cui fu edificata
Roma. Sono indicati il Tevere, i
colli, il Foro centrale comune,
dedicato alla vita sociale e, fuori
dall'area urbana, il campo Marzio,
"di Marte", dove si poteva circolare
con le armi, contrariamente
che all'interno dell'urbe.
E' intorno alla metà dell'VIII secolo avanti Cristo (la tradizione riporta il 753 a.C.) che, nel luogo in cui vi era già un'insediamento protourbano abitato da varie tribù italiche in cui erano preponderanti i Latini e i Sabini (o Sabelli), oltre alla presenza di Etruschi, i primi a fondare città-stato sul suolo italico, viene fondata Roma il cui nome magico segreto è Flora, "che fiorisce". Dagli Etruschi sono stati trasmessi al mitico Romolo gli insegnamenti dei cerimoniali per la fondazione della città. Caratteristica fondamentale della nuova città è l'idea di un potere politico condiviso. Romolo, Re in quanto fondatore della città, co-regna con Tito Tazio, re Sabino mentre i successivi re sono eletti, per reggere e governare la città, dal Senato, l'assemblea dei patrizi (i patres), i capifamiglia delle gentes costituenti le tre tribù originarie, suddivise a loro volta in assemblee di uomini (curie) che tramite i Comizi Curiati  ratificano le emanazioni del re. Le tre antiche tribù di Roma erano quindi caratterizzate dall'appartenenza gentilizia dei loro membri, cioè la gens a cui appartenevano, gens costituita da diverse familiae imparentate tra loro. In epoca regia le gentes costituivano anche suddivisioni territoriali. Secondo la tradizione, le prime tribù di Roma erano tre:
- i Ramnes (da Romulus, di origine latina), gens autoctone di Latini stanziate nelle zone pianeggianti;
- i Tities (o Titienses da Titus Tatius il re sabino), cioè le famiglie sabine venute al seguito di Tito Tazio;
- i Luceres (da Lucumon o Lygmon di origine etrusca), che sarebbero stati di origine etrusca, condotti da un Lucumone ("re" in etrusco), dal quale avrebbero preso il nome.
Carta dell'antica Roma di Romolo.
La cinta muraria esterna fu iniziata
da Tarquinio Prisco e ultimata da
Servio Tullio.
A Roma verrà istituito inoltre un foro (forum, cioè fuori dai centri abitati) per legiferare in uno spazio comune affrancato da signoraggi vari e viene decretato uno stato di diritto (ius, da iusiurandum = giuramento) che stabilisca i patti e i rapporti fra le varie istituzioni. Mentre le dispotìe orientali erano caratterizzate da urbanizzazioni in cui solo i templi e il palazzo del re, unico detentore del potere, avessero un rilievo, nell'antica Roma si edificarono le "curie", le sedi per le assemblee cittadine (i comizi curiati) in cui si riuniva anche il Senato, l'assemblea aristocratica dei 'padri' delle varie gentes, e si ripartirono così compiti  istituzionali fra le varie componenti del nuovo ordinamento civico. Romolo, oltre che essere Re eletto, era anche Rex-Sacrorum (il pontefice al quale erano affidate le funzioni religiose), veste nella quale istituì il calendario di 10 mesi, (che andava da Marzo (dedicato a Marte) a Dicembre, di cui i nomi da Settembre a Dicembre sono utilizzati tuttora. Era , calendario luni-solare con mesi lunari, in cui le "calende" corrispondevano al primo giorno del mese, quando si verificava il novilunio, le "none" al primo quarto di luna e le "idi" nel plenilunio). 

I 7 colli di Roma, da ht
tps://it.wikipedia.org/w
iki/Campidoglio#/m
edia/File:7Colli
Schizzo.jpg
.
Il 29-10-2006 Andrea Carandini, archeologo che ha realizzato numerosi scavi nel centro di Roma, racconta alla cittadinanza gli eventi della fondazione di Roma del 21 aprile del 753 a.C., data più simbolica che vera. File solo audio ma preciso, esauriente, completo e intelligente nell'analisi della nascita di una nuova politica, che contraddistinguerà la cultura di tutto l'Occidente; per ascoltarlo, clicca QUI. Con i suoi 290 ettari, la prima Roma era più estesa di Veio, la maggiore città etrusca, e proprio agli etruschi, che erano stati fra i primi fondatori di città sul suolo italico, si rivolse Romolo per conoscere i riti e le liturgie augurali nelle fondazioni di nuove città. Alla fondazione della città sono legate le tre imprese di Romolo e Tito Tazio1) la prima impresa è stata la benedizione del  Palatino del 21 aprile (l'augurium) come cuore dell'abitato, con la cittadella del re sul Palatino stesso. 2) La seconda impresa è stata l'istituzione del Foro, del Campidoglio e dell'Arce, centro politico-sacrale della città-stato, in territorio neutro, super-partes. Nelle città romane, a partire dal IV secolo a.C., l’arce era sede di edifici di culto o di rilievo politico. Nota è a Roma l’Arx Capitolina, con il tempio di Giunone Moneta (“ammonitrice”, del 344 a.C.) e la Zecca (III secolo a.C.). Era la sommità est del colle a sella, Arx et Capitolium, posto tra l’area dei fori e il Campo Marzio e valicato dal sentiero passante per l’Asylum; dal foro salivano sul colle anche le Scalae Gemoniae e il Gradus Monetae. Il sito, leso da incendi storici (83 a.C., 60 e 80 d.C.) e dall’assetto del Foro di Traiano, fu gravemente compromesso nel 1885, con la costruzione del Vittoriano.
Schema dell'organizzazione
 sociale nella prima Roma
monarchica.
 3) La terza impresa fu l'istituzione di tre ordinamenti correlati fra di loro: l'ordinamento del tempo con il calendario; l'ordinamento nello spazio con il confine (il sacro pomerium) della città; l'ordinamento fra le genti, tre tribù ripartite in trenta assemblee, le curie.
Carta dell'Italia nell'VIII sec. a.C. con
indicate le zone in cui erano stanziati
i Cartaginesi, gli Umbri-Sabelli-Latini,
i Greci, gli Etruschi, la Cultura di
Golasecca. Sono indicati inoltre i
centri di Spina, Fèlsina, (Bologna)
Ravenna, Chiusi e Tarquinia in
territorio Etrusco. Inoltre Cuma,
Taranto, Reggio, Messina e Siracusa.
In Sicilia i Sicani, iberici scacciati
dai Liguri, e i Siculi d'origine ligure,
gli unici autoctoni pre-indoeuropei.
La prima organizzazione politica della Roma monarchica è quindi  contraddistinta da tre istituzioni:
1) un monarca elettivo, con pieni poteri, spesso forestiero onde evitare favoritismi di parte;
2) il senato, consiglio degli anziani (seniores) capifamiglia delle varie gentes, che sarà il fulcro del corpo civico, con compiti di reggenza negli interregni, fra un re e l'altro. Scriverà Sesto Pompeo Festo (Narbona, II secolo d.C. - ...): «Il mos è l'usanza dei patres (padri, da cui i termini patria e patrizi), ossia la memoria degli antichi relativa soprattutto a riti e cerimonie dell'antichità.» I mores, dal periodo regio all'età imperiale, rappresenteranno il corpo di principî e valori, non scritti, esemplari per la comunità;
3) i Quirites, il corpo civico cittadino, formato dalle 3 tribù delle etnìe (Latini, Sabini ed Etruschi) costituenti la popolazione. Le tribù esprimevano a loro volta 10 curie ciascuna (curia da "co-viria"), le assemblee di maschi adulti, che votavano nei comizi curiati, le prime assemblee popolari. 

Denario con gli dèi Quirino e Ceres. Immagine
di Classical Numismatic Group, Inc. http://www.
cngcoins.com
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Molte emanazioni degli ordinamenti dell'epoca monarchica sono firmati "Populus Romanus Quirites", intendendo per Populus il potenziale militare (nel latino arcaico il verbo "populare" significava "devastare") che ai quei tempi era stimato in 3.000 fanti e 300 cavalieri, e per Quirites, l'insieme del corpo civico, le individualità componenti la massa dei cittadini Romani, protetti da Quirino, il dio romano delle curie, passato poi alla protezione delle pacifiche attività degli uomini liberi. Quiriti era il termine endoetnonimo che i Romani utilizzavano per designare se stessi, nella loro qualità di cittadini dell'Urbe fondata da Romolodivinizzato alla sua morte nel dio Quirino stesso. Assieme a Marte e a Giove, Quirino, identificato quindi con Romolo, faceva parte della cosiddetta "Triade arcaica" delle divinità maggiori che in seguito, su influsso della cultura etrusca, sarà invece costituita da Giove, Giunone e Minerva. Quirino e Giano saranno gli unici dèi romani a non essere assimilati a divinità ellenistiche. La festività tradizionale di Quirino, denominata Quirinalia, cadeva il 17 febbraio ed era celebrata dal sacerdote flamen quirinalis. Il più antico santuario di Quirino era la rupe più alta del colle Quirinale; in seguito gli fu costruito un tempio presso la porta Quirinale e poi un altro, nel 293 a.C., dedicato da Lucio Papirio Cursore, nel quale era conservato il trattato fra Roma e Gabi, scritto su una pelle di bue che copriva uno scudo. Gabi era una città del Latium vetus posta al XII miglio della via Prenestina, che collegava Roma a Præneste, che secondo Dionigi di Alicarnasso faceva parte della Lega Latina. Oggi è un sito archeologico nella città metropolitana di Roma Capitale. Le sue cave fornivano un'eccellente pietra da costruzione.

Secondo la tradizione fu quindi Romolo a creare il primo esercito della città di Roma, costituito da un'unica legione (dal latino legio, derivato del verbo legere, "raccogliere o legare insieme"), cosicché esercito e legione erano concetti sinonimi. La legione unica era composta da 3.000 fanti (pedites) schierati in battaglia sull'esempio della falange greca e da 300 cavalieri (equites), tutti arruolati di leva fra i cittadini delle tre tribù che formavano la primitiva popolazione di Roma, i Tities, i Ramnes e i Luceres. 

Nella disposizione tattica della legione, la fanteria si disponeva su tre file, nella tipica formazione a  falange, con la cavalleria ai lati, le alae, i cui squadroni erano alle dipendenze di un tribunus celerum, sotto il diretto comando dello stesso Rex, il comandante supremo, a cui spettava anche il compito di sciogliere  l'esercito al termine della campagna militare dell'anno, per permettere ai cittadini l'accudimento ai propri mestieri. A lui erano subordinati anche tre tribuni militum (i generali) della fanteria, ciascuno dei quali era a capo dei 1.000 fanti di ognuna delle tre tribù. 

La funzione tattica della cavalleria legionaria di epoca regia e di inizio Repubblica, si basava sulla mobilità e aveva quindi compiti di avanguardia ed esplorazione, di scorta, azioni di disturbo o di  inseguimento al termine della battaglia o veniva infine utilizzata per spostarsi rapidamente sul campo di battaglia e prestare soccorso a reparti di fanteria in difficoltà. I cavalieri usavano briglie e morsi, ma le staffe e la sella erano sconosciuti e non era quindi ipotizzabile a quei tempi una cavalleria "d'urto". A Roma, in epoca monarchica e repubblicana, la sella (ephippia) dei rari cavalieri romani e dei più numerosi cavalieri alleati Italici, era probabilmente costituita da una semplice coperta o gualdrappa (tapetum) o da una protezione in cuoio (ephippium) di derivazione greca. Pare comunque che, secondo la considerazione comune, la gualdrappa, più o meno imbottita, fosse  inappropriata per un uomo armato.

Tutti i militari appartenenti all'esercito dovevano sostenere le spese per i loro armamenti, visto che  combattevano sia per tutelare gli interessi comuni che quelli personali. Nella ripartizione degli incarichi e delle gerarchie della fanteria si privilegiava la nobiltà di nascita mentre la cavalleria era sostanzialmente appannaggio della sola aristocrazia.

In generale, i cavalieri ostentavano l'abbigliamento e i distintivi del loro incarico, cioè 
- l’anello d’oro, 
- le borchie d’argento del cavallo, 
- la trabea o mantello da cavaliere col bordo rosso, 
- la scarpa rossa detta calceus patricius 
- e il bordo rosso (clavus) alla toga e alla tunica: tutti distintivi che adotteranno poi i patrizi romani. 
La la più antica nobiltà di Roma derivava infatti i propri costumi dalla cavalleria d'età regia, per cui si desume che a Roma la cavalleria fosse appannaggio della sola aristocrazia, così come nell'antica Grecia. 

Romolo costituì inoltre una guardia privata del re costituita da ulteriori trecento cavalieri chiamati  Celeres (eliminata poi da Numa Pompilio ma reintrodotta e raddoppiata da Tarquinio Prisco), similmente a quanto fece oltre settecento anni più tardi Augusto, con la creazione della guardia  pretoriana, designata alla tutela del Princeps.

I cosiddetti Celeres (cioè i veloci) le guardie preposte alla tutela del re, furono in seguito impiegate per mantenere l'ordine pubblico urbano, ottenendo così che il loro cavallo, chiamato equus publicus, (cavallo pubblico), fosse acquistato e mantenuto dallo Stato ed i Celeres stessi venivano indicati come gli Equites Romani Equo Publico.

Fra i cavalieri c'erano quindi gli "Equites Romani Equo Publico" e i semplici "Equites". Solo un numero ristretto di cavalieri, un quarto circa del totale, riusciva ad entrare nell'arruolamento di ordine pubblico, col privilegio del cavallo fornito e mantenuto dallo Stato, mentre i semplici Equites dovevano comprarlo e mantenerlo a proprie spese; ma soprattutto gli "Equites Romani Equo Publico" avevano il vantaggio di poter ottenere delle cariche pubbliche, sia giuridiche che senatoriali, che agli equites ordinari erano precluse.

Fin dai tempi dei Equites Romani Equo Publico quindi, con l'espressione "cavaliere" ci si poteva riferire sia ad una qualifica militare che ad una appartenenza politico-sociale


Per rendere pubblico il casato di appartenenza degli Equites Romani Equo Publico (e in seguito, di  tutti gli altri cittadini), venne istituito il nomen della gens di appartenenza da far seguire al prenomen, il nome proprio
Il nomen era il nome gentilizio e indicava i componenti di una gens, cioè i discendenti dagli stessi antenati. Era espresso con un aggettivo terminante in -ius, che indicava l’appartenenza a una stirpe, per cui Marcus Iulius significava “Marco degli Iulii” (discendenti da Iulo, leggendario figlio di Enea). Il nomen individuava quindi la stirpe di appartenenza ed era portato anche dalle famiglie plebee. 
Il cognomen invece era aggiunto al nomen gentilizio; inizialmente era individuale e poteva essere un nomignolo popolare come Lentulus (da lenticchia), Cicerone (da cece), Lepidus (da scherzoso) ma in seguito divenne ereditario per distinguere la familia di appartenenza nel contesto della stessa gens, come ad esempio i Cornelii Cathegi distinti dai Cornelii Scipiones, distinti dai Cornelii Balbi, distinti dai Cornelii Lentuli. 
Infine c’erano i cognomina trionfali, conferiti ai vincitori, per cui Scipione divenne "Africanus" dopo la vittoria su Cartagine, così come Nerone Claudio Druso (conosciuto come Druso maggiore) e i suoi discendenti portavano come cognome "Germanicus" per le vittorie di questi sui Germani. Gli schiavi avevano soltanto il nomen ma se venivano liberati, divenendo liberti, assumevano il cognomen e spesso anche il praenomen del loro ex padrone.

Il successore di Romolo introdurrà un Collegio di cinque Pontefici: il Rex-Sacrorumi, tre Flamini maggiori (Dialis, Martialis e Quirinalis) il Pontefice massimo (pontifex maximus), che pur essendo il quinto nella gerarchia, era presidente e rappresentante del Collegio dei sacerdoti, per cui il suo potere diventerà tale da subordinare, di fatto, quello del rex sacrorum e da consentirgli una giurisdizione sui Flamini e sulle Vestali. Il termine Pontifex (da pontem facere) significa in latino "costruttore di ponti", così come nell'antica Grecia vi erano i gephyraei, visto che in epoca antica, in Tessaglia, le immagini degli dèi da venerare venivano poste sopra il ponte del fiume Peneus e comunque in epoca latino-arcaica il primo ponte di Roma, il Sublicius, era mantenuto efficiente ed eventualmente restaurato a cura del collegio pontificale, così come fino al medioevo la cura dei ponti era affidata ai monasteri limitrofi. Probabilmente l'arte della costruzione di ponti, sottintendeva il collegamento di dimensioni opposte, l'umana e la divina, mediate da un pontefice (sacerdote) che sovrintendeva all'emulazione, nella società civile, dell'odine celeste, per ottenerne la benignità. A Roma il Pontifex aveva il compito di indicare e suggerire, alle autorità e ai privati, il modo più opportuno per adempiere agli obblighi religiosi affinché fosse salvaguardata la pax deorum, la concordia tra la comunità e le divinità, una responsabilità di tanto rilievo che conferiva al Pontefice un’altissima autorità ed un immenso prestigio. Nella fase primitiva della Roma monarchica, l’organizzazione giuridica era permeata di ispirazione religiosa, al punto da creare una quasi totale mescolanza tra i due ambiti; i pontefici avevano il pieno controllo del culto pubblico e privato, e di conseguenza anche il controllo dell’intera vita pubblica. Il pontefice era quindi anche l'unico interprete dell'ordinamento giuridico in quanto depositario della sapienza giuridica ed in particolare dei formulari del diritto. Non era solo un ermeneuta, decifratore dei segni divini, ma fungeva da mediatore tra l'ordinamento giuridico esistente e la società. Le delibere dei pontefici non avevano valore di generalità e astrattezza, ma si pronunciavano sul punto di diritto del caso concreto, alla fattispecie contingente (interpretatio pontificum). Quindi tra i compiti del pontefice vi era anche quello di regolare il Calendario e di scrivere gli Annali di Roma. Gli Annales Pontificum rappresentavano il catalogo ufficiale di tutti gli avvenimenti dell'anno, redatti in ordine cronologico; venivano compilati su Tabulae dealbatae (tavole bianche, o sbiancate) e venivano esposti davanti alla casa del pontefice massimo. In un secondo tempo, gli Annali vennero raccolti in 80 libri, detti Annales Maximi. Con tali attribuzioni, il pontefice, di fatto se non di diritto, rappresentava una figura limitativa del potere e dell’autorità del re (che inizialmente era un re-sacerdote, mediatore fra gli dèi e i suoi sudditi), il quale doveva riconoscergli il ruolo preminente di depositario della sapienza giuridica

- Gli abitanti dell'etrusca Fidene, ritenendo Roma ormai troppo vicina e potente, decisero di attaccarla, senza attendere che diventasse troppo forte ma senza successo. I successivi scontri tra Romani ed Etruschi vennero causati dalla vicinanza e dall'espansionismo con l'antica città rivale di Veio, città ricca che, posta a soli 20 km da Roma su un altopiano facilmente difendibile, controllava un attraversamento del Tevere e dominava tutto il territorio posto sulla sua riva destra. Il fiume costituiva il confine naturale fra il territorio etrusco e quello delle popolazioni latine, ma soprattutto, era la principale via di traffico dal mare verso l'interno e costituiva il miglior collegamento fra il sud dell'area etrusca tradizionale e il primo avamposto etrusco nel meridione italico, che era Capua, quasi incastrata fra Latini e l'incombente marea colonizzatrice dei Greci che risalivano la penisola italica.

Per eventuali approfondimenti vedi "Storia dell'Europa n.15: dall' 850 al 753 p.e.v. (a.C.)" QUI.

Carta del Peloponneso con le sue
regioni e città (Messenia e Sparta).
Dal 750 a. C. - Per quanto fin dalla sua fondazione, nel 1.200 a.C., Sparta eccellesse per le proprie produzioni artistiche e, ad esempio, per i propri cori religiosi, probabilmente a causa della migrazione in Arcadia di molti esponenti della tribù di Beniamino (vedi eventi del 1.140 a.C.), nel 750 a.C. aveva rinunciato a produrre arte, poesia, artigianato in bronzo e ceramica, vanto del centro religioso che era stato e decise di occupare la Messenia (di un'estensione di 8.000 Kmq.) assoggettando la sua società e le sue grandi risorse agricole e di ferro; si dovette così concentrare a dominare una popolazione di 250.000 uomini con 10.000 guerrieri. Per organizzarsi a questo scopo, Sparta si era trasformata in una società militarista egualitaria: ogni cittadino-guerriero spartiato aveva la stessa quantità di terre degli altri, non disponeva di denaro e non poteva vestirsi in maniera diversa dalla moltitudine. Gli Spartani, vivevano nel continuo timore di una rivolta dei propri sudditi, gli iloti, che trattavano con una durezza senza confronti nel mondo greco.
Prospetto della Costituzione di Sparta.
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Pertanto, non potendo contare su una sottomissione e una fedeltà spontanee, dovevano organizzarsi, nella propria terra, come un esercito accampato in una regione straniera.
Opliti Spartiati. Clicca sull'immagine
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I maschi adulti passavano l'intera vita sotto le armi, mentre la giovinezza era solo una breve preparazione alla vita militare.
Gli Spartani fondavano la propria sicurezza interamente sull'affidabilità del proprio esercito, al punto che non vollero mai proteggere con mura la propria città pur essendo, alla lettera, circondati da nemici. In questo modo essi si guadagnarono la fama di essere grandi combattenti e Sparta veniva considerata la maggiore potenza militare della Grecia: rappresentava per i greci antichi un modello di virtù.

- A metà dell'VIII secolo a.C., popolazioni di Germani risultano attestate lungo l'intera fascia litoranea che va dall'Olanda alla foce della Vistola. La pressione verso i territori interni si manifesterà nei secoli successivi, non come un movimento unitario e unidirezionale ma come un intricato processo di avanzamenti, retrocessioni e infiltrazioni in regioni abitate anche da altri popoli, soprattutto Celti. Reperti archeologici confermano l'esistenza, dal 700 a.C., di popolazioni di cultura germanica detta di "Jastorf", collocata tra la Scandinavia del sud, le coste del Baltico, lo Jutland danese e lungo il corso del fiume Elba. Da quell'epoca iniziano le prime grandi migrazioni di popolazioni germaniche verso sud e sud-ovest. Secondo lo storico romano Tacito, nella sua opera "De origine et situ Germanorum", comunemente conosciuta come "Germania", l'unica opera a carattere etnografico su un popolo straniero pervenutaci dell'antichità e pubblicata nel 98, il progenitore comune dei nordici era Mannus o anche Manu, figlio del «Dio nato dalla terra» da cui deriverebbe l'espressione "umanità". In quei tempi erano tutti amalgamati, quasi un unico popolo, ma si distinsero in varie tribù, con alcune analogie negli usi e costumi e nelle loro arcaiche istituzioni, anche molto differenziate. Si suddivisero così in Germani, Danesi, Svedesi, e in seguito ancora in Franchi, Angli (da cui gli inglesi), Sassoni o Suebi (Svevi). La loro divisione diventerà quasi netta, chi dai IV-III secoli a.C. e chi dopo, fino ai III-IV secoli d.C., quando scenderanno a sud, prima per fare razzie e poi per stabilirsi in vari territori, Italia compresa. Tacito, sulla base dei resoconti fatti dai soldati romani di ritorno dai territori in cui erano stanziati i Germani, le cui tribù incontrate erano state 40 e più, riporta che le grandi migrazioni delle popolazioni germaniche dalla Scandinavia verso sud e sud-ovest fossero composte da tre stirpi principali, a loro volta composte da varie tribù: 1) gli Ingevoni (che daranno vita al gruppo friso-sassone) e gli Istevoni (che daranno vita al gruppo franco), che provenivano dall'Oceanus Germanicus, nome che i Romani antichi assegnavano al Mare del Nord; 2) un altro ceppo proveniva dal Suevicum, il Mar Baltico; 3) la terza stirpe proveniva dal Cimbrico (lo Jutland danese) che, come gli Erminoni, si stanziarono sull'Elba, al centro del territorio della Germania odierna, fino al Danubio, loro  confine naturale. I popoli germanici erano chiamati dai Romani "Germani" poiché una delle prime tribù che conobbero e sconfissero si chiamava Jerman e proveniva dal Cimbrico (lo Jutland), scesa verso il Danubio superiore, ai confini dell'Impero romano, assieme a Suebi, Marcomanni, Cimbri, Ambroni e Teutoni.

- Mentre le popolazioni germaniche iniziano la loro calata verso sud, soggiogando e "germanizzando" le popolazioni celtiche che in precedenza abitavano l'Europa centro-orientale, le popolazioni celtiche della cultura di Hallstatt e di La Tène si diffondono in gran parte dell'Europa occidentale ed orientale influenzando, oltre all'area germanica, l'illirica, l'italica e l'ispanica. Il popolo dei Salassi,  appartenente alla cultura di La Tène, a seguito della loro espansione verso sud i Salassi giunsero nella valle della Dora Baltea e nel Canavese, zone scarsamente antropizzate, colonizzando l'intero territorio e fondando Eporedia (l'attuale Ivrea). La loro lingua ha lasciato tracce nel patois valdostano e nel canavesano di oggi e nei toponimi di Valle d'Aosta e Canavese. Si tratta soprattutto di espressioni legate alle attività quotidiane, come « Bletsé » (mungere), « Modze » (giovenca), « Barma » (riparo naturale sotto una roccia) e « Brèn » (crusca), che risalgono all'epoca precedente all'invasione romana. Allo stesso modo, molte parole che indicano elementi della natura si sono conservate come nel caso di « Brènva » (larice), « Daille » (pino silvestre), « Bèrrio » (grande roccia o grossa pietra). Molti toponimi hanno conservato la denominazione originale come per « Dora » (per la Dora Baltea, ma anche per il Buthier, due parole che risalgono alla stessa radice « dor »), « Bar », da cui Bard, Barbania, Bardonecchia (villaggio fortificato) e « Ussel » (altura). La religione dei Salassi era fondata sulla natura e sui suoi ritmi, era un popolo animista perché conduceva una vita in armonia con gli elementi naturali. Avevano un pantheon molto articolato che potrebbe essere interpretato come appartenente a una religione politeista. Al contrario i Salassi avevano un concetto del divino basato su tutti gli eventi naturali e sovrannaturali. In particolare sul Gran San Bernardo era venerato il dio Penn poi trasformato dai Romani in Giove Pennino. Penn è il nome di una divinità venerata dalle popolazioni liguri e dai Salassi. Si fa risalire il suo nome dal Monte Penna, situato nell'appennino ligure e compreso nel parco naturale regionale dell'Aveto, considerato dai Liguri come sede del dio. Penn significava altura, monte, da qui il nome di Appennini e Alpi Pennine. Ciò dimostra come sia stata tangibile la fusione delle culture di Celti e Liguri nella Gallia Cisalpina, visto anche che nell’antico dominio dei Liguri in Italia, Francia e Catalogna, i termini Balma/Alma o Bauma/Arma significano "grotta" e "riparo sotto-roccia".

- A seguito delle conquiste greche e romane la lingua greca e latina verranno parlate in tutta l'area del Mediterraneo ed oltre.

Ubicazione della Cultura celtica di Golasecca
con le varie genti Liguri, Celto-Liguri e 
Celtiche stanziate in quei territori.
Nel 700 a.C. - Per gli abitanti della Cultura celtica  di Golasecca, rispetto ai secoli precedenti, la situazione climatica era piuttosto migliorata, e a testimonianza di ciò apparvero complessi abitativi e necropoli lungo le due sponde del Ticino, allo sbocco nel lago Maggiore. Si suppone che quelle genti  controllassero la zona strategica che va dai passi alpini  che conducono dalle alte valli del Rodano e del Reno, seguendo le vie fluviali verso sud, fino al  Po. Tra gli scavi effettuati a Golasecca, Castelletto Ticino e Sesto Calende, spiccano due tombe a incinerazione databili al VII secolo a.C., la cui ricchezza principesca fuga ogni dubbio sul rango che dovevano detenere i guerrieri  all’interno della cultura di Golasecca. Infatti al loro interno sono stati ritrovati un carro a due ruote, un elmo e gambiere di bronzo, una spada e una lunga lancia di ferro con l’asta munita di tallone e situla di bronzo istoriata, un servizio da bevande, il cui bacile (il calderone dei Celti) spicca per importanza in quanto è decorato con una tecnica molto diversa da quelle utilizzate dai contemporanei etruschi e italici o veneti e differisce perfino dallo stile celtico hallstattiano; ciò  significa che tale opera va attribuita ad una produzione autoctona, in seguito esportata anche oltralpe. Non ci sfugge il fatto che nella cultura celtica, il secchio o calderone è uno dei 4 oggetti sacri della ruota celtica che indicano le direzioni, ed è stato rappresentato e riprodotto in squisite fatture, come il famoso calderone di Gandestrup. La principale caratteristica della decorazione del bacile di Golasecca, sta nel fatto che mentre nelle altre zone italiche si iniziava ad eseguire decorazioni in rilievo, mediante tratti continui, al fine di dare maggior contorno e realismo all’immagine, tecnica che caratterizzerà anche l’arte celtica lateniana, a Golasecca si utilizzava invece una tecnica che derivava direttamente dalla fine dell’età del bronzo, ovvero si rappresentavano  figure volutamente non realiste, mediante una serie di punti sbalzati dal rovescio.
Bacile in bronzo ritrovato a
Castelletto Ticino.
La volontà di non rappresentare figure simili alla realtà traspare anche dal fatto che tutte le rappresentazioni figurative sono in stile antropomorfo e questo non per incapacità o mancanza di originalità, ma per una precisa volontà. Un esempio per tutti è il bacile bronzeo ornato con leoni e persone alate ritrovato a Castelletto Ticino.
Stele di Bormio.
Esiste comunque una raffigurazione che consente di identificare l’aspetto dei celti di Golasecca, si tratta di una stele ritrovata a Bormio, (vedi figura "stele di Bormio") in Valtellina, estremamente importante sia perché è l'unico ritrovamento del suo genere, sia per la rappresentazione che fornisce e che si ricollega all'aspetto guerriero golasecchiano, dandoci possibili indizi sul perché sono state ritrovate solo due tombe del livello sopra descritto. In questa raffigurazione spicca un personaggio di faccia, coperto da un grande scudo e con in testa un elmo, che tiene in mano un’insegna militare, tale insegna è parallela ad una lancia che sta dietro un piccolo scudo rotondo e che potrebbe trattarsi di un trofeo. Tale personaggio potrebbe essere sia un capo militare, sia il Dio protettore del popolo, messo in una posizione che dà l’impressione di assistere ad una parata militare preceduta da trombettieri. Questa raffigurazione unita ai ritrovamenti nelle due famose tombe, possono significare che in alcuni momenti della loro storia, i Celti di Golasecca hanno avuto la necessità di formare un apparato militare; il carro a due ruote  (trainato quindi da cavalli) è un segno di questa urgenza, in quanto è databile al VII secolo a.C. mentre nel resto d’Europa si diffuse nel V secolo a.C. Una cosa è certa, nonostante in Italia la cultura di Golasecca sia ignorata, è stata invece un elemento fondamentale della cultura europea, ne ha  influenzato le mode e lo stile artistico. Lungo le vie commerciali che collegavano le due sponde delle Alpi, le creazioni golasecchiane si sono diffuse un po’ ovunque nel resto dell’Europa: Francia, Belgio, Renania e Boemia, soprattutto oggettistica di bronzo prodotta grazie sia alle materie prime che transitavano sul territorio golasecchiano (come lo stagno proveniente dalla Boemia e dalla Gran Bretagna), sia dalle materie prime estratte nelle Alpi, come il rame. La produzione bronzea era svariata, comprendeva recipienti, pendenti, oggetti ornamentali, porta fortuna e tutto ciò che col bronzo si poteva fare, oggettistica che si troverà frequentemente nelle tombe dei principi transalpini, insieme al carro a quattro ruote utilizzato per il trasporto del defunto, servizi per bevande con contenitori (calderoni) esageratamente grossi, fino alla capacità di 1.100 litri, come quello ritrovato a Vix.
Un’altro prodotto tipicamente golasecchiano è il Kline, un grosso letto in bronzo su cui veniva deposto il defunto, all’interno della tomba, tipo il famoso kline della tomba principesca di Hochdorf a Stoccarda.

La croce celtica con i 4 oggetti affini alle
direzioni cardinali (fra cui il calderone) e
gli alberi consacrati alle direzioni
intermedie.
I prodotti golasecchiani in bronzo non sono gli unici reperti che si possono trovare nelle tombe principesche transalpine, infatti parecchie ceramiche riferibili a Golasecca sono state trovate in importanti tombe in area francese, svizzera e tedesca, come ad esempio un caratteristico bicchiere decorato con motivi orizzontali rossi e neri.
Senza voler attribuire, in mancanza di prove concrete, la paternità della croce celtica a Golasecca, va detto però che una tipica decorazione della ceramica golasecchiana  consisteva nel stampigliare una croce inscritta in un cerchio, decorazione che nel VI secolo a.C. valicò le Alpi per diffondersi in Europa, dove i ritrovamenti di questo vasellame vanno dall’est della Francia fino alla valle del Danubio.
Dracma Padana. Le dracme d'argento padane furono coniate
dai Celti Cenomani della pianura padana, e il loro prototipo
fu la moneta di Marsiglia (l'antica Massalia fondata dai greci
di Focea), portata in Italia dai Celti che passarono le Alpi nel
 IV sec. a.C.: la cosiddetta "dracma pesante" di Marsiglia, in
argento (peso medio 3,74 grammi), che recava al diritto la testa
di Artemide, protettrice della loro città, e al rovescio un leone
che avanza ruggendo. Questa dracma, emessa nel 390-386 a.C.,
 ha in una faccia la rappresentazione di un gambero di fiume, e
sembra derivare dalle monete in argento dello stesso periodo
 della città greca di Elea/Velia, in Magna Grecia (a sud di
Poseidonia/Paestum), fondata anch'essa dai Focei, forse per
il pagamento dei mercenari celti, reclutati nell'entroterra di
Marsiglia o nell'Italia settentrionale, al servizio della stessa
Massalia. Al loro ritorno in Italia i mercenari celti avrebbero
portato con sé le dracme del loro compenso.
Non solo l’oggettistica golasecchiana si diffonde in Europa, ma anche le tecniche stilistiche, come nel caso dei vasi stampigliati ritrovati in Armonica (la Bretagna francese) nel VI secolo, luogo in cui non vi sono dei precedenti, che al contrario abbondano in nord Italia.
Ciò può spiegare come l’oggettistica sia arrivata in quelle zone tramite i movimenti commerciali fatti dai golasecchiani, i quali dovevano procurarsi lo stagno proveniente dal nord, commercio che porterà tre secoli più tardi al ritrovamento di dracme padane in Cornovaglia  (per le dracme padane vedi il 390 a.C.).
Che questo tipo di oggetti fossero il motivo trainate di questi commerci e delle conseguenti esportazioni stilistiche, si evince dal fatto che contemporaneamente alla stampigliatura armoricana, compare in Boemia la ceramica decorata a traslucido, una novità per il posto ma già ben conosciuta e diffusa a Golasecca; e la Boemia è un’altra zona stannifera, di vitale importanza per la produzione del bronzo.
La ceramica stampigliata influenzerà nel V secolo a.C. la cultura lateniana, dove tale tecnica verrà adottata diventandone un fattore tipico. Le stesse decorazioni: esse, cerchi, croci e più raramente motivi vegetali e animali, la loro posizione ed i punzoni utilizzate non lasciano dubbio che la matrice originaria era Golasecca. Dal Blog "Sanremo Mediterranea": per il post "Dal Ligure al Celtico, dagli antichi alfabeti dell'Italia Settentrionale al Runico" clicca QUI, per il post "Antichi Liguri: dai Primordi ai Megaliti" clicca QUI, per il post "Antichi Liguri: Alleanza e fusione con i Celti", clicca QUI. Vedi anche: http://culturaprogress.blogspot.it/2014/12/la-cultura-di-golasecca.html.

Le prime culture celtiche apparse in Europa:
Golasecca nel XII sec. a.C., Hallstatt dal VII sec.
a.C. e La Tène, dalla metà del V sec. a.C.

- In Europa centrale, nella zona del Salzkammergut (Salisburgo e Carinzia, nell'odierna Austria) dal 700 a.C. fino al 450 a.C., si sviluppò la Cultura Celtica di Hallstatt, resa fiorente dal commercio del sale e dalla produzione e commercializzazione di oggetti in ferro. La Cultura Celtica si basava prevalentemente su tre classi sociali:
Ogham su pietra, da
Carn Enoch, Galles, UK.
1) la sacerdotale (druidica), che conservava e tramandava solo oralmente, la memoria collettiva; 2) l'aristocrazia guerriera dedita alle armi e alla caccia;
OGHAM, l'alfabeto celtico. Ogni OGHA, simbolo-lettera,
è l'iniziale di un albero-pianta, un uccello e un colore, con
i nomi in gaelico: inoltre qui indichiamo la corrispondenza
con il calendario arboricolo proposto da John King.
3) la terza, il popolo, dedito  alla lavorazione dei metalli e all'allevamento di cavalli e suini. L’incontro dei Celti con i Greci ebbe poi un grande valore culturale, perché diffuse nell’Europa celtica la scrittura alfabetica, anche se i Celti avevano un loro sistema di scrittura, l'ogham, l'alfabeto celtico, che veniva usato esclusivamente dai druidi e solo nei rituali sacri. Fra i Celti, la conoscenza veniva tramandata nella classe sacerdotale solo oralmente, affinché non si perdesse la memoria, che veniva esercitata nella conoscenza mnemonica delle Triadi Bardiche. Per "Celti: storia e cultura" clicca QUI, per "Croce Celtica" clicca QUI, per "Ogham: la scrittura rituale degli antichi Celti" clicca QUI.

In Europa compaiono le prime monete. Secondo Erodoto, i Lidi furono il primo popolo ad introdurre l'uso di monete d'oro e d'argento e il primo a stabilire negozi per la vendita al minuto in località permanenti.
Cartina dell'antica Lidia nel 700 a.C.
Non è chiaro, tuttavia, se Erodoto volesse significare che i lidi fossero stati i primi a introdurre monete di oro e argento puro o in generale le prime monete in metallo prezioso. Nonostante l'ambiguità, questa asserzione di Erodoto vale come attestazione spesso citata a favore del fatto che i lidi avessero inventato la monetazione, almeno in occidente, anche se le prime monete non erano soltanto d'oro o d'argento, ma costituite da una lega dei due metalli.
Antiche monete della Lidia.
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La datazione di queste prime monete coniate è uno degli argomenti dell'antica numismatica dibattuti più frequentemente, con date che vanno dal 700 a.C. al 550 a.C., ma la considerazione tenuta più comunemente è che esse fossero state coniate all'inizio (o quasi) del regno di re Aliatte (talvolta riferito in modo non corretto come Aliatte II), che governò la Lidia tra il 610 e il 550 a.C.. Il figlio di Aliatte fu Creso, che divenne sinonimo di ricchezza, e la città in cui risiedeva era Sardi, rinomata come bellissima città. Intorno al 550 a.C., all'inizio del suo regno, Creso finanziò la costruzione del tempio di Artemide  (l'Artemision) a Efeso,  che divenne una delle Sette meraviglie del mondo antico. Creso venne sconfitto in battaglia da Ciro II di Persia nel 546 a.C., per cui il regno lidio perdette la sua autonomia diventando una satrapia persiana, di cui il capoluogo era Sardi.
Scultura che ben rappresenta
lo stato d'animo della schiavitù.
Busto noto come Pseudo Seneca,
 uno dei tanti custoditi nel museo
archeologico di Napoli, parte di
una serie di ritratti immaginari, a
volte identificati con Lucrezio,
raffiguranti il poeta Esìodo.
Fondamentale per la datazione delle prime monete, è stato il ritrovamento di due depositi monetali durante gli scavi condotti all'inizio del secolo scorso nell'Artemision di Efeso, il tempio fatto costruire da Creso. Il loro occultamento viene oggi messo in relazione con lavori di ristrutturazione del santuario, effettuati nel 560 a. C. L'introduzione delle monete in elettro sembra pertanto da porsi agli inizi del VI secolo a. C. Datazioni più alte, propongono, invece, l'ultimo terzo del VII a.C. Nel mondo greco il ricorso all'oro per la coniazione di monete è piuttosto raro. Il primo utilizzo di questo metallo, sotto forma di una lega di oro e d'argento, chiamata "elettro" o "oro bianco", coincide, però, con l'introduzione della moneta stessa in Occidente, in una zona geograficamente prossima al regno di Lidia. La monetazione in elettro, battuta essenzialmente secondo uno standard "lidio-milesio", comprende lo statere (di circa 14,1 grammi, anche se le più grandi di queste monete sono comunemente riferite come 1/3 di statere, trite, del peso di circa 4,7 grammi, e nessuno statere intero di questo tipo sia mai stato trovato ) e alcune sue frazioni, fino a 1/96. Gli esemplari possono avere entrambi i lati lisci, oppure striature su una delle facce, o anche raffigurazioni di animali o di protomi su un lato e il marchio di uno o due punzoni, il cosiddetto "quadrato incuso", sull'altro. Le monete della Lidia venivano stampate con una testa di leone decorata con ciò che è probabilmente un raggio di sole, simbolo del re.
Carta con parte dell'antica Ionia
con Sardi, Efeso e l'isola di Chio.
L'assegnazione a zecche specifiche risulta spesso problematica. L'alto valore delle diverse denominazioni indica un loro uso nel corso di transazioni economiche di livello piuttosto elevato. L'introduzione del denaro favorì il commercio di schiavi. L'antica Grecia diventò perciò la prima società schiavistica della storia, dove nacque una forma di schiavitù in cui gli uomini erano beni mobili, ridotti al rango di merce: comprati, venduti e trattati come bestie. L'invenzione della schiavitù-merce si deve a Chio, città di un'isola posta a ridosso della costa occidentale dell'attuale Turchia, nell'arcipelago delle Sporadi. Lo storico Teopompo, nativo dell'isola, afferma infatti: "Gli abitanti di Chio furono i primi tra i greci, dopo i Tessali e i Lacedemoni, a servirsi di schiavi. Ma essi non se li procuravano allo stesso modo di questi ultimi, perché i Lacedemoni e i Tessali hanno tratto i loro schiavi dai Greci che precedentemente abitavano il territorio che essi conquistarono, e li chiamarono rispettivamente iloti e penesti, mentre gli abitanti di Chio possedevano schiavi barbari che avevano acquistato.

Alfabeto di
Lugano o
Lepontico.
Lepontii erano una delle diverse tribù celtiche indigene delle Alpi, distinta da quei Galli (come i Boi) che invasero la pianura padana in tempi storici. La lingua leponzia (o più recentemente anche lepontico) era la loro lingua, ora estinta, parlata fra il 700 a.C. e il 400 a.C. La lingua è conosciuta solo attraverso alcune iscrizioni che furono redatte nell'alfabeto di Lugano, da alcuni chiamato anche alfabeto Etrusco settentrionale, una delle cinque principali varietà di alfabeto italico settentrionale. Queste iscrizioni furono scoperte nell'area intorno a Lugano, comprendente anche il Lago di Como e il Lago Maggiore. Il raggruppamento di tutte queste iscrizioni in una singola lingua definita "celtica" è discusso: alcune (specialmente le più antiche) vengono considerate scritte in una lingua non-celtica affine al ligure (Whatmough 1933, Pisani 1964). Scritture simili furono usate per il retico, il venetico e le rune germaniche, che probabilmente derivano da una scrittura appartenente al gruppo degli alfabeti nord-italici. Da QUI:

Stele di Prestino con iscrizione nei caratteri dell'alfabeto di Lugano.
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Il Lepontico apparterrebbe quindi ad uno strato linguistico proto-celtico e pre-gallico, ovvero anteriore all'invasione gallica del 388 a.C. e dalle recenti ricerche individuato come una componente del ligure, che viene così a perdere il carattere sostanzialmente indoeuropeo a lungo attribuitogli: Ligure Leponzio  farebbero parte di un area linguistica caratteristica dell'Italia nord-occidentale da inserire nel più vasto quadro della famiglia delle lingue proto-celtiche.
Alfabeto
Etrusco
Settentrionale.
A sostegno di questa ipotesi, la migliore testimonianza ci è data dalla famosa stele di Prestino, sede dell'antica Comum (Como), in cui si legge: “UVAMOKOZIS PLIALE U UVLTIAUIOPOS ARIUONEPOS SITES TETU”. 
Alfabeto tartessico,
dell'antica Tartesso.
Interpretando queste frasi con la fonetica del linguaggio ligürü = lingua o gergo degli antichi Liguri, (i Liguri si esprimevano in una lingua comune risalente al proto-iberico centrale, e sia la fonetica che la scrittura erano espresse dall'alfabeto di Tartesso, sulla foce del Guadalquivir in Spagna, nei pressi dell'attuale Siviglia) si potrebbe dedurre, capire od interpretare due degli etimologhi come nomi di dei o divinità: UVLTIAUIOPOS e ARIUONEPOS. Si deve pensare che il settentrione italico era abitato da popolazioni di ceppo ligure, come gli Euganei, gli Stoni, i Trumplini e i Camuni, e si ipotizza che le lingue dei popoli retici, avessero una base comune non indoeuropea ma, come nel caso dei Leponti, Ligure, sulla quale si è innestato un ceppo di derivazione etrusca. L'antico linguaggio dei Liguri, che è stato la matrice di quello dei Baschi, ha forgiato anche il proto-celtico dell'Italia settentrionale, fra cui il lepontico, e in tempi successivi la langue d'oc, il catalano e il provenzale. Vedi anche QUI e QUI.

Gli Stoni o Stoeni, in letteratura detti anche Stini o Steoni, furono un popolo dell'Italia antica, sottoclasse degli Euganei (che erano Liguri Ingauni), stanziato nel sud delle Alpi, nell'area geografica della Valle del Chiese, Valli Giudicarie in Trentino e della Val Sabbia e Val Vestino in provincia di Brescia. Il loro villaggio-capitale era Stonos che per alcuni ricercatori, tra questi Federico Odorici e Scipione Maffei, corrisponderebbe all'attuale Vestone, mentre per altri a Storo o a Stenico. Dal nome del popolo degli Stoni deriva lo stesso toponimo di Vestone, ma anche Bostone, monte Stino e Val Vestino.

Carta con gli insediamenti degli Euganei, Carni, Veneti
(Venetici), Reti, Camuni, Leponzi e Cenomani.
I Camuni erano una popolazione che abitava l’attuale Val Camonica, sottomessa dai Romani nel 16 a.C. con la spedizione militare di Publio Silio contro le popolazioni alpine. Il loro nome appare per secondo, subito dopo quello dei Trumplini, tra le "gentes Alpinae devictae" nell’iscrizione del Tropaeum Augusti a La Turbie, presso il principato di Monaco, il cui testo è riportato integralmente da Plinio il Vecchio (Nat. hist., III, 134). I "Camunni" erano considerati, insieme ai "Trumplini" e agli "Stoeni", questi ultimi abitanti delle Giudicarie, “gentes Euganee” da parte di Plinio poiché così era stato riportato da Catone (Nat. hist., III, 133-34), mentre Strabone (IV, 206) li considera di stirpe retica. Dal punto di vista archeologico, la Val Camonica appare durante la seconda età del Ferro (V-I sec. a.C.) al centro di un’area culturale, comprendente anche la Valtellina, la Val Trompia, la Val Sabbia e le Giudicarie, caratterizzata dalla ceramica tipo Breno-Dos dell’Arca, il cui tipo più significativo è una foggia di boccale a base svasata e con parete piatta o rientrante dalla parte dell’ansa, e da iscrizioni su ceramica e pietra in alfabeto di Sondrio, il significato delle quali rimane ancora oggi del tutto oscuro.
Alfabeto
camuno, o
di Sondrio.
Con l’alfabeto retico di Bolzano, quello di Sondrio o Camuno condivide l’assenza della vocale o, come nell'Etrusco. Pur presentando aspetti comuni o affini, in questo periodo il territorio della cultura tipo Breno-Dos dell’Arca si differenzia in maniera precisa dall’area culturale di Fritzens- Sanzeno, che certamente corrisponde al Paese dei Reti. È probabile quindi che la notizia di Plinio sia quella giusta e che la cultura tipo Breno-Dos dell’Arca debba essere attribuita agli Euganei. Per quanto riguarda la prima età del Ferro, l’estrema lacunosità delle fonti non consente di delineare un quadro culturale preciso. Gli oggetti sporadici, per lo più di bronzo, mostrano affinità con i tipi diffusi nell’ambiente alpino centro-orientale, in particolare nell’area culturale di Luco e Meluno. I riti funerari sono scarsamente conosciuti. I pochi documenti, come la piccola necropoli di Breno del V-IV sec. a.C., alcune tombe di Castione della Presolana e due tombe di Capo di Ponte del I sec. a.C. - I sec. d.C. attestano il rito dell’inumazione. La documentazione più importante per conoscere la civiltà dei Camuni dell’età del Ferro è senza dubbio l’arte rupestre della Val Camonica. Il IV stile copre tutto l’arco cronologico dell’età del Ferro e si può suddividere in cinque fasi: IV-1, caratterizzata da uno stile geometrico-lineare e databile all’VIII sec. a.C.; IV-2 o stile protonaturalistico, databile al VII-VI sec. a.C.; IV-3 o stile naturalistico (V-IV sec. a.C.); IV-4 (IVIII sec. a.C.) e IV-5 o stile decadente, databile al II-I sec. a.C. I principali soggetti raffigurati sono scene di caccia al cervo da parte di cavalieri armati di lancia e con l’ausilio dei cani, scene di duello, scene di parate militari con esibizione delle armi e della virilità e inoltre raggruppamenti di capanne, scene di attività artigianali (fabbro, tessitura), composizioni di armi, motivi simbolici (impronte di piedi, figure di palette, labirinti, la “rosa camuna”), iscrizioni. Dopo la conquista romana, la tribù dei Camuni fu attribuita probabilmente a Brescia. Il capoluogo della valle prese il nome di Civitas Camunnorum, centro che gradualmente assimilò il modello urbano romano, con un’area pubblica destinata ad accogliere terme, teatro e anfiteatro, quest’ultimo scoperto nel 1984-85. Nella vicina Breno, nel corso del 1986, è stato scoperto un santuario dedicato a Minerva, che ha restituito una statua della dea in marmo di Carrara. A seguito della conquista romana, i Camuni ne adottarono gli usi anche nel campo dei riti funerari e si diffuse quindi la cremazione, come rilevato nelle necropoli di Breno, Cividate Camuno e Borno.

Carta con i territori dei Leponzi, Trumplini, Tridentini, Stoni,
Euganei, Reti, Vindelici, il Norico; le Alpi centrali e orientali
con i territori limitrofi. Clicca sull'immagine per ingrandirla.
Reti, antica popolazione stanziata nelle Alpi centro-orientali, erano inseriti nel contesto culturale di Fritzens-Sanzeno, che aveva come epicentro il Trentino e il Tirolo, sviluppandosi fino all'Engadina, nel Canton Grigioni, in Svizzera. Secondo lo storico romano Plinio il vecchio essi erano divisi in vari gruppi, riconducibili però a una unica entità etnico-culturale di origine etrusca; la molteplicità delle comunità pone serie difficoltà agli studiosi nel delineare con precisione l'area da loro occupata. A seguito della conquista dell'arco alpino effettuata sotto l'imperatore Augusto tra il 15 e il 16 a.C. i popoli retici furono sottomessi a Roma, e successivamente inseriti nella provincia di Rezia. Dal VI secolo a.C. si segnala anche una significativa influenza etrusca nel nord-Italia, ponendosi di fatto come cultura mediatrice tra le popolazioni mediterranee e quelle transalpine. Il territorio della valle dell'Adige si presentava come la via più breve per giungere oltralpe, attraverso i due passi della Resia e del Brennero. Tra la fine del V e l'inizio del IV secolo popolazioni celtiche si insediano nella pianura Padana; tra i vari gruppi quello dei Celti Cenomani s'inserisce tra il fiume Oglio ed Adige, sostituendo gli etruschi nei traffici con i Reti.
Alfabeti retici di
Magrè e Bolzano.
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Nelle antiche descrizioni i Reti appaiono come un popolo selvaggio portato alla guerra, che non perdeva occasione per effettuare scorrerie ed attacchi verso i fondovalle già romanizzati. D'altro lato essi stessi erano visti come un ostacolo al transito tra i versanti nord e sud delle Alpi, in quanto obbligavano al pagamento di pedaggi e assalivano convogli. Si suppone che queste descrizioni siano state volutamente enfatizzate per giustificare la conquista delle Alpi da parte dei romani. I siti archeologici più importanti sono Sanzeno e Mechel in val di Non, il Doss Castel, il castelliere sul Col de Pigui nei pressi di Mazzin, e Laives: per tali insediamenti è possibile parlare di strutture protourbane. Si definisce Cultura di Fritzens-Sanzeno la cultura materiale retica, che prende il nome da queste due località (l'una nella valle dell'Inn e l'altra in Val di Non), che andò a sovrapporsi alle precedenti Cultura di Luco-Meluno e cultura di Hallstatt. La scrittura retica, la cui comparsa è collocata attorno al 500 a.C., presenta un forte influsso etrusco, se non una vera e propria derivazione. Analizzando numerose iscrizioni rinvenute nel territorio retico, sono state distinte quattro varianti grafiche: gli alfabeti di Lugano, Sondrio-Valcamonica, Bolzano-Sanzeno e Magrè. Nel caso dell'alfabeto di Lugano è stata notata una parentela con il celtico. Per l'alfabeto di Bolzano-Sanzeno e Magré è importante notare, come nell'Etrusco, l'assenza della vocale "o". I Reti, sebbene con modalità diverse e più articolate, condivisero con i Venetici l'adozione dell'alfabeto etrusco. Un'ipotesi è che le lingue dei popoli retici, avessero una base comune non indoeuropea ma, come nel caso dei Leponti, Ligure, sulla quale si è innestato un ceppo di derivazione etrusca.
Statuetta della dea Reitia.
Nel 1960 Osmund Menghin ha avanzato l'ipotesi che i Reti non fossero una popolazione, quanto invece un "gruppo di culto", a cui si associa, per assonanza, il culto della divinità Reitia. A proposito delle divinità dei Reti è immediato il riferimento innanzitutto alla dea Reitia che veniva venerata nel santuario di Baratela a Este, nei pressi di Padova, un centro della cultura venetica. Nato alla fine del VII secolo a.C., sotto l'influsso religioso etrusco, fu frequentato fino al II-III secolo d.C. Si presume che Reitia non fosse il nome proprio della divinità, ma un attributo caratteristico di una dea, che presenta molti tratti in comune con la dea greca Artemide-Diana e che sarebbe concepibile come dea madre della fertilità, della guarigione e dell'al di là. Difficile dire se le figure femminili stilizzate, le cui braccia terminano con una testina di cavallo o di uccello, rappresentino la dea Reitia. Altrettanto problematico è appurare se le popolazioni alpine siano state denominate Reti proprio in base alla loro venerazione per la dea Reitia. In ogni caso nell'età Romana è epigraficamente documentata in Valpolicella la presenza di un sacerdote che presiedeva ai "riti Reitiae" (riti della dea Rezia). A Sesto alcune iscrizioni menzionano la divinità Ierisna, simile ad Era o ad una dea delle stagioni e dei prodotti della terra.

Alfabeto d'Este
o Venetico.
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Cavallo dei Veneti.
- I Veneti antichi, o Venetici,  per scrivere la loro lingua avevano adottato l'alfabeto chiamato d'Este. La civiltà o cultura Atestina o d'Este è una testimonianza dell'antica popolazione dei Venetici (Veneti) nell'Italia protostorica, diffusa nell'attuale territorio del Veneto e sviluppatasi tra la fine dell'età del bronzo (X-IX secolo a.C.) e l'età romana (I secolo a.C.) e derivata dalla precedente e più estesa cultura protovillanoviana. L'economia era fondata sull'agricoltura, l'allevamento delle pecore, la pesca in acqua dolce. Si praticavano scambi con la regione villanoviana e l'Etruria, la Slovenia, il Tirolo e la regione hallstattiana.
Il cavallo, chiamato Ekvo dai Veneti antichi, animale-totem della protostoria dell'Europa, giocò nella loro cultura un ruolo di prim'ordine. Questi animali erano allevati per la loro valenza economica e come simbolo di predominio aristocratico e militare. I cavalli dei Veneti erano noti per la loro abilità nella corsa ed erano spesso riprodotti negli ex voto, nelle aree più sacre. Centinaia di bronzetti a forma di cavallo o di cavaliere su cavallo provengono dai luoghi di culto dei Veneti. Al cavallo erano riservati appositi spazi di sepoltura nelle necropoli, e compare in vari manufatti come immagine simbolica o elemento decorativo.

Pallade Atena, la Dea Vergine,
con lancia e l'"Egida", l'elmo.
Dal 683 a.C. - Inizia in Grecia l'età dei tiranni (700 - 500 a.C. circa). Alcuni tiranni furono buoni governanti, come Periandro a Corinto, Gelone a Siracusa e Policrate a Samo. Fiorisce la cultura grazie all'introduzione della scrittura, e vengono fissati per iscritto i poemi di Omero e di Esiodo. Probabilmente Omero non era un solo poeta, ma un gruppo o una scuola di cantori che conservavano la memoria storica della cultura greca antica. Analizzando la costruzione di Iliade e Odissea, composta molto tempo dopo, ci si rende conto che non possono essere state scritte dalla/e stessa/e persona/e e nella stessa epoca. Nasce la filosofia nella Ionia (Talete, Anassimandro, Anassimene), si affermano poeti lirici (Archiloco, Tirteo, Alceo) e il Santuario di Delfi acquisisce rinomanza universale. Dall' VIII al VI secolo Atene e Sparta si affermano come i centri più importanti, ciascuna riunisce diverse città vicine in lega, Atene con modalità persuasive, Sparta con modalità coercitive. A Sparta vige un regime oligarchico: due re e un consiglio consultivo, la Gherusia, di 28 anziani.
Ad Atene la monarchia è abolita dall'inizio del VII secolo e vi si instaura un regime tirannico che trova riscontro anche in altre città greche, come Corinto. Il governo è affidato a nove arconti con carica annuale, coadiuvati dall'areopago, consiglio di ex arconti. Nella mitologia greca la Dea Atena, figlia di Zeus, era la dea della sapienza, della saggezza, della tessitura, delle arti e degli aspetti più nobili della guerra. Con Atena è presente un gufo o una civetta, indossa una corazza d'oro ed ha uno scudo rivestito di magica pelle di capra chiamata Egida, (la capra che l'ha allattata). Spesso è accompagnata dalla dea della vittoria: Nike. Quasi sempre viene rappresentata mentre porta un elmo ed uno scudo con appesa la testa della Gorgone Medusa, dono votivo di Perseo.
Carta del Caucaso secondo le
 fonti letterarie greco-romane.
 Le Amazzoni sono state poste
 nella parte più settentrionale
 della Sarmazia asiatica. La carta
 mostra anche l'ubicazione
dell'Albania caucasica, della
 Scizia e della Palude Meote:
 tutti luoghi variamente citati
dagli autori classici come
patria delle Amazzoni.
Non ebbe mai alcun marito od amante, e per questo era conosciuta come Athena Parthenos (La vergine Atena), da cui il nome del più famoso tempio a lei dedicato, il Partenone sull’acropoli di Atene. Dato il suo ruolo di protettrice di questa città, è stata venerata in tutto il mondo greco anche come Athena Polis (Atena della città). Il suo rapporto con Atene era davvero speciale.
Franz von Stuck: "Amazzone ferita"
(1903)
Narra la leggenda che Poseidone propose agli ateniesi l'invincibilità in guerra, in terra e in mare, se gli avessero intitolato la città, e invece Atena, donando l'ulivo, promise la saggezza in cambio di una dedica a lei: gli ateniesi la scelsero. Donne guerriere ed eroiche sono sempre apparse nei miti antichi, fin dalle Amazzoni (nella Scizia) e la loro regina Pentesilea, che sfidò Achille e ne fu sconfitta. Per non essere da meno dei Greci, i Latini cantarono nell’Eneide virgiliana le gesta di Camilla, un’altra eroina che ebbe la sfortuna di trovarsi dalla parte sbagliata.

Carta del 100 a.C. con la Scizia
 e Sarmazia oltre alla Partia.
- I Sàrmati (Sarmăti, Sauromăti) furono una popolazione di schiatta iranica affine agli Sciti. Erodoto conosce i Sauromati abitanti la Russia meridionale a oriente del Don. La leggenda greca li considerava nati da Sciti e da Amazzoni, e in tal modo spiegava l'affinità con gli Sciti e le abitudini guerriere delle donne. La tribù più importante e forse più ellenizzata sembra essere stata quella degli Iazamati, già ricordata in Ecateo. Dalla seconda metà del sec. IV a. C. si hanno le prime tracce dei Sàrmati, che diventano però chiare solo nel sec. II a. C.: Polibio testimonia un regno di Sàrmati per il 179 a. C. fra il Don e il Dnepr. Aperti alla cultura e alla religione persiana, si dividevano probabilmente in quattro tribù: IazigiRoxolani (o Rossolani), Aorsi e Alani. Essi in origine abitavano le steppe lungo il Volga, le regioni pedemontane degli Urali meridionali e la steppa del Kazakistan occidentale. Nei loro territori d'origine essi si scontrarono con i Battriani, i Parti e i Sogdiani. In diversi periodi e a diverse ondate essi si spinsero verso occidente.

Nel 682 a.C. - In Grecia, Terpandro inizia l'arte del canto con l'accompagnamento musicale. 
Ad Atene gli incarichi dei 9 arconti, tutti di estrazione nobiliare, diventano annuali. I tre arconti più in vista, oltre ai sei tesmoteti, erano: l'arconte eponimo, l'arconte re (capo religioso) e l'arconte polemarco (capo militare).

Verso la metà del VII secolo a. C. i greci di Cuma fondarono Partenope (Παρθενόπη), sull'isoletta di
Megaride (oggi Castel dell'Ovo) e sul promontorio di Pizzofalcone.

Carta del Mediterraneo nel 650 a.C.
con i nomi latini dei vari territori;
è evidenziato l'Illirycum.
Nel 650 a.C. - Fra il VII e VI sec. a.C. si forma la struttura politica degli Illiri. Artigiani eccellenti del metallo e guerrieri feroci, gli Illiri hanno basato i loro regni sulla guerra ed hanno combattuto fra di loro per la maggior parte della loro storia. Hanno generato e sviluppato la loro cultura, lingua e caratteristiche antropologiche nella zona occidentale dei Balcani, come menzionano scrittori antichi . Le regioni che gli Illiri hanno abitato includono l'intera penisola balcanica occidentale, il nord ed Europa centrale, il sud fino al golfo di Ambracian (Preveza, Grecia) e l'est intorno al lago Lyhnid (lago Ohrid). Altre tribù di Illiri, inoltre, migrarono e si sono stabilirono in Italia, nell'attuale Puglia; fra di loro vi erano i Messapii e gli Iapigi. Il nome “Illiria„ è menzionato dal quinto secolo a.C. mentre alcuni nomi di tribù risalenti al dodicesimo secolo a.C. sono citate da Omero. La formazione etnica degli Illiri ha luogo entro il quindicesimo secolo a.C., da metà dell'eta del Bronzo, ed avevano ereditato le loro caratteristiche antropologiche e lingua dall'età Neolitica. Dall'età del ferro, gli Illiri erano completamente caratterizzati. Alcuni studiosi Albanesi sostengono che dai Pelasgi sono derivati Tirreni ed Etruschi oltre a Illiri e Albanesi, e che i linguaggi di questi popoli sono quindi affini: Pausania (Arcadia, Libro VIII, 1,4,6) scrive: “Gli Arcadi dicono che Pelago fu il primo a nascere nella terra dell’Arcadia. Dato che Pelago divenne re, il paese si chiamò Pelasgia in suo onore”. Pindaro (Carminia, Fragmenta Selecta, I, 240) scrive: “Portando un bel dono, la Terra fece nascere per primo l’essere umano nell’Arcadia, il Divino Pelasgo, molto prima della luna”. I discendenti dei Pelasgi chiamarono ILIRIA (ILLYRIA per i Romani) la loro nuova patria: LIRI (LIR=libero), col senso di “Il Paese del popolo libero”, paese che si estendeva dal Mediterraneo fino al Danubio.

- Durante il VII secolo a.C., ad Atene, le liti e le divisioni interne agli arconti spingono l'arconte Dracone ad assumere i pieni poteri, così da poter varare una serie di leggi durissime per garantire l'ordine sociale ad Atene.

Per eventuali approfondimenti vedi "Storia dell'Europa n.16: dal 753 al 650 p.e.v. (a.C.)" QUI.

Dal 624 a.C. - Ad Atene il termine Aeropago è utilizzato col nuovo significato di assemblea degli anziani, che sostituisce il governo monarchico dei 9 arconti. L'Areopago è una delle colline di Atene situata tra l'agorà e l'acropoli e nel periodo monarchico vi si riuniva il collegio delle supreme magistrature dello Stato presiedute dal re (governo dei 9 arconti), mentre intorno al 624 a.C. tale termine venne utilizzato per indicare l'assemblea degli anziani. L'Areopago perse lentamente il controllo della vita pubblica col sorgere delle prime forme di democrazia, che si affermarono rispetto alle leggi arcaiche dell'arcontato, i cui membri erano addirittura eletti a vita, senza possibilità di rinnovo del consiglio.

Nel 621 a.C. - Ad Atene il legislatore Dracone pubblica il primo codice che limita il potere giudiziario dei nobili. Nato intorno al 650 a.C., Dracone è noto per aver inserito nel mondo greco il primo codice penale della storia in cui la durezza e la severità delle leggi hanno dato origine ad espressioni in cui il termine draconiano viene utilizzato come aggettivo, come ad esempio leggi draconiane o punizione draconiana. Il codice di Dracone verrà sostituito, proprio per la sua severità, da quello di Solone nella prima parte del VI secolo a.C., d'altra parte Dracone, pur essendo il primo a codificare le leggi ateniesi, non ne era stato il creatore, bensì cercava di uniformare i metri di giudizio e ridurre gli abusi commessi dai giudici nell'applicazione di quelle leggi. Nel 621 a.C. Dracone trascrisse una legge sull'omicidio che segnò la nascita del diritto penale. In questa legge si distingueva per la prima volta nel diritto il grado di responsabilità personale: chi aveva commesso l'omicidio involontariamente, si pensi ad esempio al progettista di una casa che poi era crollata uccidendone gli abitanti, era condannato all'esilio. Il tribunale che se ne occupava era formato da cinquantun efeti, magistrati incaricati di giudicare le cause di omicidio scelti tra i membri delle famiglie nobili e aventi almeno cinquant'anni. Chi aveva commesso l'omicidio volontariamente era condannato a morte dall'areopago. Con questo decreto Dracone poneva fine alle sanguinose vendette dei parenti delle vittime, poiché il reato doveva essere riconosciuto da un apposito tribunale. Il legislatore dovette però concedere un'eccezione, che riguardava l'"omicidio giusto". Infatti, in caso di illegittima relazione carnale della moglie, della figlia, della sorella, della madre o della concubina, al cittadino ateniese era consentito ucciderla, se colta in flagranza di reato. Tale principio legale è stato accolto nel diritto di molti Paesi, resistendo pressoché inalterato nei secoli. In Italia, ad esempio, è sopravvissuta una norma fino al 1981 che mitigava la pena in caso di omicidio definito come "delitto d'onore". Il codice di leggi di Dracone è ricordato per la sua particolare severità: la pena di morte era la punizione anche per piccole infrazioni. Ogni debitore, il cui stato sociale fosse inferiore a quello del suo creditore, ne diventava automaticamente schiavo, mentre la punizione era più lieve per chi avesse debiti nei confronti di una persona di classe inferiore. Dracone morì nel 600 a.C. circa in maniera bizzarra: mentre era in visita sull'isola di Egina, nel corso di un evento teatrale una grande folla lo riverì coprendolo di così tanti cappucci e mantelli, preparati in suo onore, da esserne soffocato a morte.

Dal 616 a.C. - L'etrusco Tarquinio Prisco diventa il quinto re di Roma mentre i principali centri etruschi dell'Etruria e della Campania vivono una stagione prospera per gli scambi commerciali con le popolazioni dell'Egeo (dalle coste fino all'entroterra dell'Asia minore) e i Cartaginesi. L'elemento etrusco, già incorporato nel tessuto sociale di Capua, della quale occupava una zona residenziale perciò detta "vicus Tuscus", improntò politicamente la storia della stessa Roma con la dinastia dei Tarquinii. A Tarquinio Prisco (616-578 a.C.) si deve, fra l'altro, la costruzione della cinta muraria di Roma (murus lapideus), poi completata sotto Servio Tullio. I Romani, durante la dominazione degli ultimi loro tre re, gli etruschi Tarquini, dal 616 a.C. al 509 a.C., appresero dagli Etruschi le modalità e l'arte del combattimento. Fu solo dopo la fine della monarchia e la cacciata dei re etruschi, e la successiva conquista dei territori dell'Italia meridionale (a cominciare dal Latium vetus), in seguito ad una serie interminabile di guerre contro Sabini, Volsci, Equi, Ernici, Latini e Sanniti, che la costante evoluzione di tecnica, tattica e strategia permise ai Romani di superare i loro antichi maestri etruschi. Il risultato finale fu la sottomissione degli antichi territori dell'Etruria. «[...] dai Tirreni [i Romani presero] l'arte di fare la guerra, facendo avanzare l'intero esercito in formazione di falange chiusa [...]» (Ateneo di Naucrati, I Deipnosofisti, VI, 106.). Considerata la loro organizzazione federale di città-stato, in caso di guerra gli eserciti etruschi erano reclutati su base cittadina e richiamando alle armi i cittadini secondo ricchezza e posizione sociale: di conseguenza composizione, equipaggiamento e aspetto degli eserciti doveva variare molto. Le formazioni armate comprendevano corpi di opliti, soldati in servizio permanente sottoposti a costante addestramento, che sostenevano il maggior peso del combattimento. Combattevano compatti ed erano armati di lancia, spada, difesi da scudo, elmo e corazza o un piccolo pettorale al centro del petto. Al loro fianco si trovavano reparti di truppe leggere, che comprendevano fanti armati alla leggera e tiratori scelti (arcieri o frombolieri), con il compito di provocare il nemico, disturbarlo e disorganizzarlo prima dell'urto degli opliti. La cavalleria, sia quella etrusca che quella romana si basava sulla mobilità e aveva quindi solo compiti di avanguardia ed esplorazione, di ricognizione, scorta ed eventuale inseguimento al termine della battaglia; all'epoca fra l'altro non si usavano selle e staffe.

Dal 600 a.C. - Nel corso del VI secolo a.C., gli Sciti dilagano verso l'area balcanica e la Pannonia, nel bacino settentrionale del Mar Nero, per poi toccare la Germania orientale e, con i Traci, l'Italia settentrionale.

In rosso gli insediamenti dei Celti Elvezi, Volsci, Insubri e Leponzi
dall'età del bronzo. In verde scuro le espansioni delle tribù dei
Britanni, Goideli, Trinovanti, Senoni, Boi, Celtiberi, Sequani e
Celtoliguri nei vasti territori dei Liguri, nei sec. VI e V a.C..
In verde più chiaro le successive espansioni di Norici,
Senoni, Scordisci Traci e Galati.
Le popolazioni Celtiche in Europa si suddividono in varie tribù. 

- In Grecia nasce il pensiero filosofico-scientifico occidentale. Nelle trattazioni sulla storia del pensiero scientifico degli inizi, figura in genere la Scuola di Mileto, detta anche Scuola Ionica, i cui esponenti più importanti, Talete, Anassimandro e Anassimene diressero le loro indagini scientifiche  principalmente verso interessi di ordine filosofico ma anche astronomico  e cosmolo­gico (a quell'epoca non esisteva una differenziazione delle discipline scientifiche). L’importanza della Scuola Ionica risiede nel fatto che lo studio si manifestò con una certa connotazione di vera e propria indagine scientifica per la qualità delle domande che gli studiosi si posero. In particolare si domandarono quale fosse il principio unicoarché, (sostanza fon­damentale e causa prima che dava origine a tutta la materia). Ogni componente della Scuola diede una propria definizione di ciò che riteneva essere questo elemento fondamentale.
Talete di Mileto, 626 - 548 a.C.
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Talete di Mileto (ca. 626 - 548 a.C.) è ritenuto il fondatore della Scuola di Mileto. Ciò che si sa della sua vita è po­chissimo e avvolto nella leggenda. Si dice (da Proclo) che abbia viaggiato in Mesopotamia ed Egitto acquisendo numerose conoscenze. Erodoto dice che previde l’eclissi totale di Sole del 585 a.C., ma gli studiosi moderni danno poco credito a questa affermazione, o per lo meno, si tende a pensare che, avuta conoscenza del periodo delle eclissi di 18 anni, oggi detto saros, Talete abbia dato la previsione di una eclisse generica. Diogene Laerzio, scrivendo nel II secolo d.C. dice che Geronimo, discepolo di Aristotele, afferma che Talete calcolò l’altezza di una piramide egizia misurando la lunghezza dell'ombra della piramide, proprio nell’istante in cui l’ombra proiettata da Talete aveva lunghezza eguale alla sua altezza. Anche Plinio fa un’affermazione simile. E’ considerato da Plutarco il primo dei Sette Saggi. In molti libri di testo moderni di geometria, diversi assiomi sono attribuiti a Talete, ma nessuna sua opera ci è pervenuta. Talete pensava che la Terra fosse un disco galleggiante sul fiume Oceano, e che tutta la materia derivasse dall’acqua. Per lui dunque la sostanza fondamentale era l’acqua.  Aristotele riferisce che Talete utilizzò le sue conoscenze per predire una straordinaria raccolta di olive per la stagione futura. Ciò lo indusse ad acquistare tutti i frantoi disponibili e fu così in grado di guada­gnare un grande ammontare di denaro quando effettivamente l’eccezionale raccolto di olive si verificò. Platone invece racconta che durante una notte scura, Talete, completamente assorto nella contemplazione del cielo stellato, cadde in una buca profonda, osservando che pretendeva di capire le cose del cielo e non era capace di fare attenzione a dove metteva i piedi in terra.

Cartina degli Abruzzi con Capestrano.
- Il Guerriero di Capestrano risale a questo periodo storico. Nel 1934, in un vigneto di Capestrano, nell'attuale provincia di L'Aquila, negli Abruzzi, viene rinvenuto un antico monumento dell'arte degli antichi Italici.
Il Guerriero di
Capestrano.
Si tratta di un monumento scultoreo, alto 235 cm, destinato ad avere risonanza mondiale, tanto da essere definito il “Guerriero Italico” per  antonomasia. Si ritiene che rappresenti un'antico sovrano italico, dotato di armatura a protezione del cuore, elmo e armi, con le forme adottate ai quei tempi come canoni di rappresentazione condivisi. Non se ne conosce bene la provenienza: probabilmente sabina. Persino l'epigrafe incisa su un lato, dal basso all'alto, è scritta utilizzando un alfabeto difficile da decifrare, contribuendo così ad incrementare il mistero del "Guerriero", conservato a Chieti nel Museo Archeologico.

Solone, copia romana,
90 d.C. di un originale
greco del 110 a.C. 
conservata al Museo
Archeologico, Napoli
(inv. 6143) da QUI.
Nel 594 a.C. - Ad Atene l'arconte (uno dei magistrati supremi) Solone riforma il codice draconiano inviso per l'eccessiva durezza, salvo che in materia di omicidio, con una nuova costituzione democratica, in cui vengono ridotti i poteri dell'areopago, l'assemblea degli anziani (ex arconti). L'Areopago è una delle colline di Atene situata tra l'agorà e l'acropoli e nel periodo monarchico vi si riuniva il collegio delle supreme magistrature dello Stato presiedute dal re (il governo dei 9 arconti). La principale funzione dell'assemblea era stata quella di occuparsi della custodia delle leggi contro ogni violazione e della giurisdizione sui delitti di sangue. Il suo orientamento fu del tutto conservatore e la sua composizione, formata da membri provenienti dall'aristocrazia eletti per anzianità o per principi ereditari, accentuava il suo indirizzo moderato e sanciva il suo ruolo decisivo nella custodia delle leggi, della pubblica moralità e dei culti cittadini. Solone cerca di risolvere l'impasse politica derivante dal fatto che l'intera vita pubblica era nelle mani delle contrapposte stirpi aristocratiche le quali, a loro volta, costituivano quattro tribù, Opleti, Argadei, Geleonti ed Egicorei che eleggevano ciascuna cento membri della "Boulé dei Quattrocento". La Bulé era uno degli organi principali della politica ateniese, aveva il compito di organizzare l'Ecclesia (l'assemblea del popolo che votava le leggi scritte dalla Boulé stessa) e di controllare il lavoro dei magistrati (i funzionari investiti delle funzioni di giudice) e dei nove arconti, i magistrati supremi che formavano l'esecutivo dell'Areopago, che un tempo era presieduto dal re. Solone, pertanto, nell'intento di creare forme di mobilità sociale e di offrire i diritti politici a tutti i cittadini, sostituì alle quattro tribù gentilizie quattro nuove tribù in cui distribuì la cittadinanza in base al censo, ricavato dalle rendite dei poderi posseduti: 1) i Pentacosiomedimni, che ogni anno ricavavano più di 500 medimni di grano dai loro campi; 2) i Cavalieri (o Triacosiomedimni), coloro che potevano mantenere un cavallo o ricavavano tra 500 e 300 medimni di grano; 3) gli Zeugiti, coloro che ricavavano tra 300 e 200 medimni di grano e 4) i Teti: la maggioranza, i lavoranti dei campi, coloro che guadagnando meno di 200 medimni di grano non esercitavano alcuna magistratura esecutiva ma potevano partecipare alle assemblee e ai tribunali. Con la suddivisione in quattro classi, all'areopago si affianca la bulé, consiglio di 400 estratti a sorte dalle prime tre classi. Solone, disponendo l'equiparazione tra i medimni (unità di misura per il grano) e i metreti (unità di misura per i liquidi, principalmente olio e vino) avvantaggiò non poco i ceti medi ed i piccoli proprietari, infatti, poiché olio e vino necessitavano di molto meno spazio rispetto alla coltivazione cerealicola, Solone permise anche ai meno abbienti, che possedevano meno terre, di avere uguali diritti di coloro che ne possedevano di più, a condizione che coltivassero il loro piccolo appezzamento con olio e vino in maniera intensiva. Solone riformò inoltre il diritto di cittadinanza sancendone la concessione solo agli esiliati permanentemente dalla patria e a chi giungesse ad Atene per esercitare un mestiere.

Dal 588 a.C. - Roma si espande in direzione nord-ovest, venendo in conflitto con gli Etruschi di Veio, dopo la scadenza del trattato concluso nella precedente guerra mentre l'espansione etrusca verso il meridione d'Italia porta anche all'occupazione di territori di Roma e quindi i re, seppur etruschi, Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo reagiranno. Tarquinio Prisco ottiene un trionfo sugli Etruschi (il 1º aprile del 588/587 a.C.); Floro racconta che Tarquinio Prisco sottomise, dopo frequenti scontri, tutti i dodici popoli etruschi (vale a dire le città di Arezzo, Caere, Chiusi, Cortona, Perugia, Roselle, Tarquinia, Veio, Vetulonia, Volsinii, Volterra e Vulci). Anche Servio Tullio ottiene un triplice trionfo (il primo il 25 novembre del 571/570 a.C., il secondo il 25 maggio del 567/566 a.C. e un terzo in una data non leggibile). L'ultimo re di Roma, Tarquinio il Superbo, otterrà il rinnovo del trattato di pace con gli Etruschi, ma alla fine sarà rovesciato nel contesto di una più ampia esautorazione del potere etrusco nell'area dell'antico Latium vetus, e Roma, i cui possedimenti non si estendevano oltre le 15 miglia dalla città, si darà un assetto repubblicano, una forma di governo basata sulla rappresentatività popolare in contrasto con la precedente autocrazia monarchica.

Ecumene di Anassimandro, carta
del mondo conosciuto nel 580 a.C.
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- In GreciaAnassimandro disegna la prima carta del mondo conosciuto. Anassimandro (610 - 547 a.C. ca.) è ritenuto il primo discepolo di Talete.
Della sua vita si conosce pochissimo, si dice che abbia capeggiato una spedizione nel Mar Nero per fondare la città di Apollonia. Le notizie che di lui abbiamo ci vengono da Aristotele, Teofrasto e Diogene Laerzio, a loro volta citati da autori posteriori. E’ considerato il primo autore di un’opera a carattere filosofico, dal titolo "Della Natura". Di questo libro solo un frammento ci è pervenuto attraverso una citazione di Simplicio (che a sua volta cita Teofrasto). Si tratta di un brano che ha provocato accese discussioni tra i commentatori. Anassimandro identifica l'ar­ché nell’apeiron, l'”infinito” (più precisamente, nell’ente “privo di limiti”). Naturalmente esiste una grande indeterminatezza su cosa intendesse esattamente Anassimandro con quella definizione. Ma Anassimandro è importante anche per l’astronomia. C’è una sola testimonianza di una osservazione astronomica eseguita da Anassimandro, e riguarda la data in cui avviene il tramonto eliaco mattutino delle Pleiadi. Al contrario, si hanno citazioni di sue osservazioni astronomiche di carattere speculativo. Tra queste, citiamo quella secondo cui i corpi celesti eseguono percorsi circolari, e l’altra, importantissima, secondo cui la Terra galleggia nello spazio senza bisogno di alcun sostegno, affermazione grandemente innovativa (perché fino ad allora il concetto di qualcosa di solido che sostenesse la Terra era saldamente radicata presso tutte le culture) che segna veramente l’inizio dello studio del cosmo su basi scientifiche. Si dice che Anassimandro abbia introdotto in Grecia l’uso dello gnomone (apprendendolo probabilmente dai Babilonesi). Ad Anassimandro si fanno risalire le prime idee sulla convessità della superficie terrestre. Egli pensava che la Terra avesse forma cilindrica, con l’asse orientato nel senso levante-po­nente. Si dice anche che egli abbia eseguito per primo una misurazione dell’obliquità dell’eclittica (affermazione fortemente dubitata oggi). Altra affermazione tradizionale su Anassimandro è quella secondo cui egli abbia disegnato una carta geografica del mondo allora conosciuto, carta che doveva limitarsi a una rappresentazione del Mediterraneo circondato dal fiume Oceano. 

Cartina dell'antica Roma nel
600 a.C. con le mura serviane.
Nel 578 a.C. - Servio Tullio diventa sesto re di Roma. Considerato il secondo fondatore, Servio Tullio fu l'autore della più importante modifica dell'esercito dell'epoca pre-repubblicana, dividendo la popolazione in classi e centurie. Si rese conto, infatti, che per assicurare a Roma una forza militare sufficiente a mantenere le proprie conquiste era necessario un esercito più numeroso di quello che possedeva (un'unica legione di circa 3.000 fanti e 300 cavalieri, detto esercito romuleo). Introdusse quindi il "Census", il censimento della popolazione maschile che si teneva ogni 5 anni. Tale occasione si inaugurava con il "Lustrum" che consisteva in una "Lustrazio": tre animali sacri, prima di essere sacrificati, giravano attorno all'esercito in armi schierato nel Campo Marzio per rendere splendore e sacralità all'evento. Lustro è rimasto nel nostro linguaggio come periodo di 5 anni. In relazione al patrimonio posseduto, ognuno apparteneva ad una classe di centurie militari. Secondo la tradizione, fu Servio Tullio a compiere una prima riforma timocratica (la timocrazia è un tipo di governo in cui diritti e doveri del cittadino sono stabiliti secondo classi censitarie, cioè in base alle ricchezze possedute) dei cittadini romani atti a prestare il servizio militare (obbligati ad armarsi a proprie spese e perciò chiamati adsidui), suddividendoli in cinque classi (sei comprendendo quella dei proletarii) sulla base del censo, a loro volta ordinati in ulteriori quattro categorie: i seniores (maggiori di 46 anni, i veterani) e gli iuniores (tra 17 e 46 anni, i giovani), ovvero coloro che rientravano nelle liste degli abili a combattere mentre i pueri (di età inferiore ai 17 anni, i fanciulli) e gli infantes (di età inferiore agli 8 anni, i bambini) non erano in età per prestare il servizio militare. In questo nuovo sistema la prima classe, la più facoltosa, poteva permettersi l'equipaggiamento completo da legionario (lo schieramento corazzato oplitico adottato dalla fanteria, i "pedites", prevedeva dispositivi difensivi come corazze elmi e scudi, oltre alle armi offensive, spade e lance) mentre quelle inferiori avevano armamenti via via più leggeri e le prime tre costituivano la fanteria pesante mentre le ultime due quella leggera. Dopo aver così organizzato la fanteria, Servio Tullio passò alla cavalleria, dove reclutò altre 12 centurie di equites dal fiore dell'aristocrazia cittadina, oltre alle 6 già formate da Tarquinio Prisco (i sex suffragia) per un totale di 18 centurie. I più ricchi erano proprio gli "equites", i cavalieri, che potevano possedere e mantenere un cavallo, e disporre di protezioni oltre alle armi offensive (elmi e corazze), anche se la cavalleria romana si basava sulla mobilità e aveva quindi solo compiti di avanguardia ed esplorazione, di ricognizione, scorta ed eventuale inseguimento al termine della battaglia; all'epoca fra l'altro non si  usavano  selle e staffe. Secondo il De Francisci, la cavalleria venne organizzata non più in centuriae, ma in turmae. In sostanza l'esercito serviano contava 1.800 cavalieri e 17.000 fanti potenzialmente atti alle armi (suddivisi in 5 classi ed in 170 centurie) oltre a 2 compagini legionarie, una utilizzata per difendere la città e l'altra per compiere campagne militari esterne per un totale di 193 centurie. Al di sotto di un certo patrimonio (come i  proletarii) non si poteva far parte delle classi delle centurie.
Lazio nel 600 a.C..
La monetazione a Roma venne introdotta alla fine del IV, inizi del III secolo a.C., per cui i capitali erano misurati in "pecunia" (dalla parola latina per "pecora") non numerata e cioè metallo pesato. Questo favorì comunque il reclutamento degli strati inferiori della società, fino ad allora esclusi dal servizio militare, segnando così il primo passo verso il riconoscimento politico di quella che solo grazie a questa riforma prenderà a chiamarsi plebe. L'inclusione della plebe nell'esercito portò ovviamente i re etruschi ad un primo contrasto con lo strato superiore della società romana, i patrizi, che vedevano minacciati i propri privilegi. Servio Tullio modificò la tradizionale ripartizione in tribù del popolo romano, che non tenne più conto dell'origine etnica delle genti, ma che considerava come criterio di appartenenza il luogo di residenza. Vennero così create quattro tribù urbane (Suburana, Palatina, Esquilina, Collina); in questo modo, oltre a omogenizzare i cittadini romani, si poteva anche valutare il patrimonio dei singoli cittadini e quindi fissarne il tributo che questi dovevano versare alle casse dello stato, oltre che il censo, che ne determinava la classe militare di appartenenza. Primo fra i Romani, condusse quindi  il primo censimento generale (dividendo i cittadini per patrimonio, dignità, età mestieri e funzioni), contando 80.000-83.000 cittadini romani, insieme a quelli delle campagne circostanti. Il nuovo corpo civico era quindi composto dai Comizi Curiati, le assemblee dei maschi adulti che formavano le nuove tribù territoriali e i  Comizi Centuriati che erano le assemblee degli appartenenti all'esercito in armi, (populus inteso come esercito) e che perciò non si potevano svolgere in città, in cui era proibito portare armi, ma nel Campo Marzio.
Statuetta romana
di Mater Matuta.
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Servio Tullio ampliò il pomerium (il perimetro di Roma) ed aggiunse alla città di Roma i colli Quirinale, Viminale e Esquilino, scavando poi tutto intorno al nuovo tratto di mura un ampio fossato. Fece quindi costruire sull'Aventino, insieme agli alleati latini, il tempio di Diana, che corrisponde alla dea greca Artemide, il cui tempio si trovava ad Efeso, trasferendo da Ariccia il culto latino di Diana Nemorensis. Come per i Greci, per i quali il tempio di Artemide rappresentava una federazione di città, con il tempio di Diana, costruito intorno al 540 a.C., i Romani miravano a porsi come centro politico e religioso delle popolazioni del Lazio e forse anche dell'Etruria meridionale. E sempre a Servio si ascrive anche la decisione di costruire il Tempio di Mater Matuta ed il Tempio della Dea Fortuna, entrambi al Foro Boario. Il primo nome dell'insediamento urbano di Sanremo è stato "Villa Matuta", probabilmente dal nome della dea.
Roma continuò comunque la sua politica di espansione territoriale, sia a danno dei vicini Sabini, sia delle città etrusche di Veio, Cere e Tarquinia le quali, non accettando la sovranità di Servio Tullio, considerato un usurpatore, non volevano più rispettare gli accordi di tregua stipulati con Tarquinio; dopo alterne vicende i Romani ebbero la meglio su queste città e ingrandirono il loro territorio verso nord. Per i post "Cultura degli antichi Romani" clicca QUI e per i post "Politica nell'antica Roma" clicca QUI.

Piantina dell'antica Mileto,
colonia Ionica in Asia
Minore, che mostra una
 concezione democratica
dell'urbanistica. A parte
l'area centrale, destinata
agli uffici pubblici, le zone
residenziali appaiono
fortemente omogenee,
conformemente all'ideale
di uguaglianza fra cittadini
della città-stato
democratica.
Nel 575 a.C. - Secondo il ritrovamento di un'antica iscrizione a Chio, città di un'isola dell'arcipelago delle Sporadi posta a ridosso della costa occidentale dell'Anatolia, viene convocato un consiglio popolare che offre la prima testimonianza di istituzioni democratiche e leggi o decreti del dèmos, il governo dei molti, mentre nelle grandi monarchie prima dei Greci non c'erano uomini liberi, nel senso in cui l'Occidente è giunto ad interpretare questo concetto.
Isola di Chio.

D'altra parte, secondo le informazioni in nostro possesso, Chio fu la prima città in cui si acquistavano e vendevano schiavi. Nelle città greche nelle quali la libertà individuale raggiungeva le sue più alte espressioni (e in particolare Atene), fioriva  il  commercio di schiavi come beni mobili; i Greci scoprirono contemporaneamente l'idea della libertà individuale e della struttura istituzionale al cui interno poteva essere realizzata, e l'idea di far mercato della schiavitù, in cui gli uomini erano beni mobili, ridotti al rango di merce: comprati, venduti e trattati come bestie. L'antica Grecia fu perciò la prima società schiavistica della storia. Lo storico Teopompo, nativo dell'isola di Chio, afferma infatti: "Gli abitanti di Chio furono i primi tra i greci, dopo i Tessali e i Lacedemoni, a servirsi di schiavi. Ma essi non se li procuravano allo stesso modo di questi ultimi, perché i Lacedemoni e i Tessali avevano tratto i loro schiavi dai Greci che precedentemente abitavano il territorio che avevano conquistato e li avevano chiamati rispettivamente iloti e penesti, mentre gli abitanti di Chio possedevano schiavi barbari che avevano acquistato. Per quanto riguarda la monetazione nel mondo greco, il ricorso all'oro per la coniazione di monete è piuttosto raro. In Occidente il primo utilizzo di monete, in una lega di oro e d'argento chiamata "elettro" o "oro bianco" avviene in una zona geograficamente prossima al regno di Lidia.

Moneta di Focea in elettro di 1/6 di
statere raffigurante la foca marina,
simbolo di Focea, con sotto la lettera
Φ, iniziale di Focea e coniata nel
600-550 a.C.; conservata al British
Museum di Londra. Clicca
sull'immagine per ingrandirla.
- Nella seconda metà del VI secolo a.C. Focea perse l'indipendenza assieme alle altre città della Ionia. Prima passò a Creso, re di Lidia, e subito dopo, con la sconfitta di Creso nel 546 a.C., a Ciro il Grande, re di Persia. I Focei si rifugiarono a Chio con l'intenzione di acquistare e stabilirsi sulle isole Enusse, ma, respinta l'offerta, si diressero verso le loro colonie nel Mediterraneo occidentale, e molte furono quelle che fondarono. Focea, importante porto commerciale, nel Mediterraneo occidentale fondò: Massalia, (l'attuale Marsiglia) in Francia, Alalia in Corsica, Elea in Magna Grecia, Emporion e Rhoda in Spagna. Ci informa infatti Erodoto che, utilizzando pentecontere anziché navi mercantili dallo scafo rotondo, i Focei furono i primi a compiere lunghi tragitti, e, aprendo nuove rotte commerciali a ovest, si erano spinti molto lontano, fin sull'Oceano Atlantico, presso Tartesso.
Carta del 700 a.C. con insediamenti e
limiti di Tartesso segnalati in verde,
le colonie greche in blu, le fenicie in
verde-oliva. Si vedono il Lago
Ligustico, Asta Regia (Jerez de la
Frontera) e Gadir (Cadiz), da QUI.
Giunti a Tartesso, in Spagna, i Focei strinsero amicizia col re Argantonio (che significa "uomo d'argento") che li invitò a trasferirsi nel suo paese. I Focei declinarono la proposta e quindi, avendo avuto notizia dell'espansionismo dei Medi, Argantonio assegnò loro una grande somma d'argento per costruire mura difensive nella loro città.

- Numerosi sono miti e leggende associate a Tartesso, impero fondato da genti Liguri, dal toponimo Lago Ligur, oggi nome del distretto a sud-ovest di Siviglia in cui il lago si è interrato, ma di cui rimangono i toponimi in due località, Isla Mayor e Isla Minima. Fonti  antiche testimoniano Tartesso, fra le nebbie del tempo.
Bacino dell'antico Lago Ligur, con
Isla Mayor e Isla Minima.
Anche se sono stati rinvenuti un alfabeto e una scrittura tartessica, nonostante gli sforzi di molti studiosi, non sono stati ancora decifrati e quindi abbiamo a disposizione solo  scritti su Tartesso da parte di Greci, Fenici, Egizi, Semiti (anche sulla Torah) e Romani. Fra le fonti più antiche su Tartesso, una è nel poema "Ora Maritima" di Rufo Festo Avieno (Volsinii o Bolsena, fl.= floruit, aveva 40 anni nella seconda metà del IV secolo). Pur componendolo intorno all'anno 400 d.C., il poeta utilizza come principale fonte storica la memoria scritta del viaggio di un marinaio massaliota (di Marsiglia), l'"Euthymenes", scritto nel VI secolo a.C. e forse qualche fonte fenicia ancora più antica. Il documento cita la città di Tartesso che si trova tra le braccia della foce di un fiume che corrisponde all'attuale Guadalquivir. La lettura prosegue affermando che Tartesso ha governato su una vasta regione che si estende dalle regioni orientali, menzionando in particolare la città di Herma e la foce di un fiume, che potrebbe essere il Segura o il Vinalopó fino alla foce del Guadiana, nella metà meridionale del Portogallo. Avieno nomina anche diversi popoli stanziati a Tartesso, come i Cilbicenos, Etmaneos e Ileates, oltre che gli abitanti del regno di Selbyssena. Tuttavia, altri autori ci danno un'immagine minore dell'impero tartessico. Ecateo di Mileto, alla fine del VI secolo a.C., nel suo Periegesís, separa le città dei domini di Tartesso da quelle che i Mastienos avrebbero occupato in gran parte dell'Andalusia orientale, menzionando come città dei Mastienos: Mainobora nei pressi dell'attuale fiume Velez, Sixo, l'attuale Almuñecar, o Sualis (Fuengirola). Ciò ridurrebbe l'ambito tartessico al sud-ovest della penisola. Ecateo menziona anche le città Tartessiche di Elibirge (si può pensare ad Andujar) o Ibila, probabilmente, entrambe situate nella valle del Guadalquivir. Erodoto di Heraclea, e nel V secolo a.C. nomina i tartessici congiunti ad altre popolazioni come Cineti, Gleti, Elbisini, Mastieni e Celciani, tutti situati sulle sponde delle Colonne d'Ercole.

Carta dell'impero dei Medi, della Lidia,
 dell'impero Caldeo e dell'Egitto nel
612 a.C. 
I Medi furono un antico popolo iranico che occupò gran parte dell'odierno Iran centrale e occidentale, a sud del Mar Caspio. Nel VI secolo a.C. fondarono un impero che si estendeva dall'attuale Azerbaigian all'Asia Centrale e che fu rivale dei regni di Lidia e Babilonia. Secondo le Storie di Erodoto, i Medi erano  anticamente  chiamati "Ariani" (da Harià = Signore) ma da quando Medea da Atene giunse in Colchide (nella Georgia occidentale), cambiarono il loro nome in suo onore. I Medi vengono menzionati per la prima volta in un'iscrizione assira che risalirebbe all'835 a.C. insieme ai Persiani, ma è grazie all'archeologia che possiamo collocare il loro arrivo nell'altopiano iranico alla metà del II millennio a.C. A quel tempo essi formavano un raggruppamento di tribù seminomadi, ma di notevole forza militare, i cui re dimoravano dentro fortezze (siti di Godin Tepe, Nush-i Jân). Ciassare organizzò un potente esercito, sottomise i Persiani e confederò le popolazioni iraniche per muovere guerra agli Assiri. L'alleanza con i Babilonesi consentì ai Medi, dopo la distruzione di Ninive (612 a.C.), di estendersi in Armenia e in Cappadocia fino alla Lidia, con la quale fu stabilito, dopo un conflitto e con la mediazione dei Babilonesi, un confine lungo il fiume Halys. L'impero dei Medidurato poco più di cinquanta anni, non ebbe caratteristiche culturali originali, ma imitò gli Elamiti, Urartu, la civiltà del Luristan e ovviamente le civiltà mesopotamiche. La sua forza risiedeva nell'esercito, che fu organizzato secondo criteri innovativi, cioè con la creazione di reparti di unità specializzate (arcieri, lancieri, cavalleria) manovrate secondo criteri tattici: l'epoca del combattimento eroico, individuale,  signorile con i carri fu definitivamente superato in quest'area. Lo stesso sovrano doveva il suo potere al sostegno del ceto militare e all'ascendente che aveva sulle truppe, anche se formalmente era basato su principi religiosi.

Pisistrato, da QUI.
Dal 561 a.C. - Pisistrato (560 - 527 a.C.) del demo di Filaide, imparentato con Solone da parte di madre, è tiranno di Atene dal 561/560 al 556/555 e dal 546 (o 544) al 528/527 a.C.. In veste di polemarco, il giovane Pisistrato acquistò fama vincendo i megaresi contro i quali Atene era in guerra, sottraendogli così definitivamente l'isola di Salamina e il porto saronico di Nisea. Questi successi militari gli valsero un prestigio e un credito tali da renderlo un attore di primo piano della politica dell'epoca. Inizialmente, ottenne anche il sostegno del popolo, che poi, però, si trasformò in timore. Atene all'epoca era travagliata da una convulsa lotta politica, con partiti e fazioni capeggiate dalle famiglie aristocratiche. La polis era allora divisa tra la fazione legata alla zona costiera (i cosiddetti paralii, dal greco paralia, costa), capeggiati dall'alcmeonide Megacle, e la fazione legata all'entroterra (i cosiddetti pediaci, dal greco pedion, pianura), capeggiati da Licurgo di Atene. Pisistrato, forte dei crediti guadagnati, inutilmente ostacolato da Solone, si inserì efficacemente nella lotta politica mettendosi a capo della popolazione della zona montuosa (i cosiddetti diacrii, dal greco ákra, montagna). Per ottenere l'appoggio popolare, Pisistrato ricorse a uno stratagemma: si procurò delle ferite per mostrarle in pubblico quale prova di un'aggressione subita da parte dei propri rivali. Il popolo decretò per lui l'istituzione di una guardia del corpo di 300 mercenari con la quale Pisistrato occupò l'Acropoli, senza resistenza da parte degli opliti, nel 561/560 a.C., ottenendo il potere assoluto. La presa del potere provocò una compattazione del fronte dell'opposizione: un'alleanza tra Licurgo e Megacle sortì l'effetto di costringerlo all'esilio. Pisistrato, in seguito, si alleò con Megacle e, approfittando del clima propizio, riuscì a ritornare ad Atene, facendosi precedere da una nuova simulazione: fece vestire una fanciulla di altissima statura (del demo di Peania o, secondo altri, una donna della Tracia di nome Fia) con gli abiti tradizionali della dea Atena per sfilare in processione per la città su un carro, a diffondere la voce che la dea stessa consigliava agli Ateniesi di richiamarlo in città. Con questo spregiudicato accordo con Megacle, Pisistrato scacciò Licurgo e, dopo aver sposato la figlia di Megacle, fu da questi appoggiato quale tiranno di Atene. Pisistrato aveva già una prole legittima dal primo matrimonio (oltre che una illegittima da una concubina Argiva) e non sembrava volerne dalla nuova moglie perché, stando a Erodoto, non voleva figli dalla stirpe sacrilega degli Alcmeonidi. Quando Megacle si spazientì delle sue inadempienze coniugali, che vanificavano i suoi disegni, ruppe l'alleanza e lo scacciò da Atene (556 a.C.). In questo frangente, entrambi gli attori politici avrebbero mostrato quindi di avere in mente un progetto politico di consolidamento del potere (o di ottenimento, nel caso di Megacle) da perseguire per via dinastica. Nuovamente esiliato, il tiranno strinse amicizia con molti potentati greci e nel 545 a.C. sbarcò a Maratona (regione a lui fedele) con un esercito fornito da Eretria, Tebe e Nasso con altri mercenari che pagava con l'argento delle sue miniere in Tracia. Con un forte esercito sconfisse gli opliti ateniesi nei pressi del tempio di Atena Pallenide: con questo atto di forza riprese il potere sulla città. Sotto il suo ultimo periodo di tirannide iniziò la prima coniazione di monete ad Atene, che erano in argento. A lui sono attribuite diverse riforme e miglioramenti: incentivò infatti la piccola proprietà terriera a discapito dei latifondi, incrementò il commercio, favorendo così la crescita della classe mercantile, e favorì i ceti meno abbienti con l'esecuzione di un vasto piano di opere pubbliche, come la costruzione del tempio di Atena nell'acropoli. Inoltre, il suo governo segnò una tappa notevole nella storia edilizia della città e nello sviluppo dell'arte greca. Infatti è da ricordare la trascrizione su papiro dell'Iliade e dell'Odissea, per cui probabilmente è grazie al tiranno ateniese che i due poemi sono giunti fino a noi. Inoltre vennero istituite nuove feste religiose: le Dionisie, in onore del dio Dioniso, e le Panatenee.

Carta del mediterraneo nell'VIII sec.
con la Grecia e le sue pòleis (città), le
colonie e città fondate da esse
successivamente. In rosso scuro
i territori Fenicio-cartaginesi.
Sono sottolineate in rosso:
Focea, Lampsaco più a nord,
Amiso sul Mar Nero, Naucrati
in Egitto, Massalia (Marsiglia),
Alalia, Cuma, Elea, Reggio.
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- I  viaggi marittimi dei focei erano estesi: a sud commerciavano probabilmente con la colonia greca di Naucrati, in Egitto e a nord aiutarono probabilmente l'insediamento delle colonie di Amiso e Lampsaco. (Vedi cartina a fianco). A proposito della fondazione di Massalia, si narra che Focei  (vedi QUI) e Samioti aprirono relazioni commerciali con gli abitanti delle coste dell'Iberia orientale e della Gallia meridionale, che erano quasi tutti Iberi e Liguri.
Figura maschile di
Ligure, fine del VI
sec.a.C., con
copricapo a forma
di testa di cigno.
Parigi, Museo
del Louvre
Nella particolareggiata leggenda di Massalia (Marsiglia), si racconta  come i primi coloni Focei, Simos e Protis, provenienti da Efeso, incontrando il sovrano ligure Nannu, sarebbero stati invitati, in una lingua incomprensibile, a partecipare ad un banchetto al quale, a loro insaputa, la figlia di Nannu, Gyptis, avrebbe scelto il suo sposo tra gli astanti. Gyptis avrebbe espresso la sua preferenza per il foceo Protis, generando la comunione tra i loro popoli. La terra su cui avrebbero edificato la loro città, infatti, sarebbe stata proprio Massalia. Questo episodio ci fa intendere che Massalia non può essere considerata una colonia esclusivamente greca, ma più probabilmente il luogo di un'intesa greco-ligure come accesso al Mediterraneo dei commerci continentali europei e viceversa (sale, metalli, ambra, vino, manufatti ecc.). Da quando i Focei si stabilirono ad Alalia, in Corsica, per cinque anni costruirono templi e saccheggiarono i paesi circostanti, fino a quando Etruschi e Cartaginesi li affrontarono nella battaglia navale di Alalia (535 a.C.).
Carta dell'antico mar Tirreno
con la zona della battaglia
di Alalia del 535 a.C.
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Le flotte etrusca e cartaginese furono sconfitte nella prima battaglia navale di cui abbiamo notizia nella storia del Mediterraneo, anticipando di 60 anni le guerre Persiane. I Focei vinsero, ma riportarono danni così gravi alle loro navi che preferirono trasferirsi a Rhegion (l'attuale Reggio Calabria) e da lì risalire la costa per fondare Elea. Tra i fondatori della colonia figurava anche il  filosofo  Senofane di Colofone. Elea vedrà poi la fioritura della scuola filosofica Eleatica, con Parmenide e Zenone.

Dal 550 a.C. - Intorno al 550 a.C. popolazioni di Germani raggiunsero l'area del Reno, imponendosi sulle preesistenti popolazioni Celtiche e in parte mescolandosi a esse (è considerato misto il popolo di confine dei Belgi). Dal V al I secolo a.C., i Germani premettero costantemente verso sud, venendo a contatto (e spesso in conflitto) con i Celti e, in seguito, con i Romani. Lo spostamento verso sud fu probabilmente influenzato da un peggioramento delle condizioni climatiche in Scandinavia tra il 600 a.C. e il 300 a.C. circa. Il clima mite e secco della Scandinavia meridionale (una temperatura di due-tre gradi più elevata di quella attuale) peggiorò considerevolmente, il che non solo modificò drammaticamente la vegetazione, ma spinse le popolazioni a cambiare modi di vivere e ad abbandonare gli insediamenti. Intorno a tale periodo questa cultura scoprì come estrarre il "ferro di palude" (limonite) dal minerale nelle paludi di torba. Il possesso della tecnologia adatta ad ottenere minerale di ferro dalle fonti locali può aver favorito l'espansione in nuovi territori. Nell'area di contatto con i Celti, lungo il Reno, i due popoli entrarono in conflitto. Sebbene portatori di una civiltà più articolata, i Galli subirono l'insediamento di avamposti germanici nel loro territorio, che diedero origine a processi di sovrapposizione tra i due popoli: insediamenti appartenenti all'uno o all'altro ceppo si alternavano e penetravano, anche profondamente, nelle rispettive aree d'origine. Sul lungo periodo, a uscire vincitori dal confronto furono i Germani, che qualche secolo più tardi sarebbero dilagati a occidente del Reno. Identico processo si sarebbe verificato, a sud, lungo l'altro argine naturale alla loro espansione, il Danubio.

Nel 540 a.C. circa - Si combatte la battaglia del Mar Sardo, ricordata da Erodoto (I, 166), fra Etruschi  e Cartaginesi alleati contro i Focei. Il quadro storico nel quale si svolsero le vicende che videro la fondazione e il popolamento dell’insediamento sul colle di Castello a Genova, appare il risultato di un più sistematico riassetto degli equilibri di forze nel settore del Tirreno settentrionale, determinato dal dispiegarsi di interessi contrastanti di varie potenze in crescita. Fin dall’VIII secolo a.C. Greci e Fenici  avevano iniziato a fondare colonie (la prima fu Pythekoussai nell’isola di Ischia ad opera di Eubei) sulle coste del mar Tirreno, in Italia meridionale e in Sicilia. Nel 600 a.C. un gruppo di coloni di Focea, città della Ionia, in Asia Minore, aveva fondato, con il consenso delle popolazioni Liguri locali, Massalia (Marsiglia), alle bocche del Rodano. In poco tempo Marsiglia aveva assunto il controllo dei traffici marittimi del Mediterraneo nord occidentale, svolgendo anche un fondamentale ruolo di mediazione con le popolazioni celtiche che gestivano lo smercio del prezioso stagno delle isole Cassiteridi, in Cornovaglia, rarissimo altrove (ne esistevano solo limitati giacimenti in Etruria) ed indispensabile per realizzare la lega di bronzo. Altre colonie focesi erano state ben presto fondate da Marsiglia ad Emporion (odierna Ampurias) in Spagna e da coloni provenienti dalla madrepatria a Kyrnos, in Corsica, nel luogo dove più tardi sorse la romana Aleria, verso il 565 a.C.. Il porto di Marsiglia era un importante scalo commerciale frequentato anche dagli Etruschi, che, dalla fine del VII secolo a.C., raggiungevano con le loro imbarcazioni le coste della Francia per smerciare i loro prodotti, in particolare vino, che era molto apprezzato dai Celti e dai Liguri, e ceramiche. Anche i Greci scambiavano vino, olio, profumi e ceramiche decorate con lo stagno, l’ambra e schiavi. La conquista delle città greche della Ionia da parte dei Persiani verso il 546 a.C. aveva costretto alla fuga i Greci. Nel 545 a.C. un gruppo di Focei, corrispondente a circa la metà della popolazione, lasciò la città occupata dai Persiani comandati da Arpago, generale di Ciro, per fondare altrove una nuova patria. Dopo alcuni tentativi falliti, gli esuli risolsero di raggiungere i compatrioti in Corsica. L’intraprendenza commerciale dimostrata dai nuovi venuti, accusati anche di pirateria nei confronti dei vicini, turbò la stabilità politica che aveva consentito fino a quel momento il pacifico sviluppo dei commerci marittimi ed ebbe come conseguenza la battaglia del Mar Sardo (circa 540 a.C.) ricordata da Erodoto (I, 166), che fu combattuta fra Etruschi e Cartaginesi alleati contro i Focei, forse con la partecipazione di Marsiglia. I Focei risultarono vittoriosi nello scontro, ma con perdite così elevate che i superstiti abbandonarono Kyrnos facendo vela verso la Calabria ed in seguito fondarono Elea (Velia) sulle coste della Campania, mentre gli Etruschi rioccuparono la Corsica. La battaglia del Mar Sardo ebbe come conseguenza la spartizione del Tirreno in sfere di influenza tra le grandi potenze che avevano partecipato al conflitto, con la definizione dei rispettivi confini politici e commerciali ed il consolidamento del sistema di porti e approdi a cui faceva capo la navigazione lungo le rotte settentrionali, perfezionato, dalla fine del VI secolo, anche mediante accordi e trattati commerciali, come il primo trattato stipulato nel 509 a.C., con giuramento, tra Roma e  Cartagine. Nel testo, tramandato da Polibio (3,22 e 3,26), che aveva avuto occasione di leggerlo personalmente molti secoli dopo, sono spartiti gli spazi del Mediterraneo e introdotto il concetto di “acque territoriali”. Le ricerche archeologiche dimostrano che ogni potenza marittima si attivò per consolidare la propria autorità commerciale e politica: Marsiglia riorganizzò il settore fra Antibes e Nizza e iniziò a fabbricare anfore per commerciare il proprio vinoCartagine operò un radicale riassetto delle colonie fondate dai fenici in Sardegna e nella Spagna meridionale. Gli Etruschi, non più soli padroni del Tirreno, diversificarono le loro attività, creando fondaci (il fondaco, pron. fóndaco, dal greco e attraverso l'arabo funduq, significa letteralmente "casa-magazzino", un edificio o un complesso di edifici che nelle città di mare svolgeva funzioni di magazzino e, spesso, anche di alloggio per i mercanti stranieri) all’interno di insediamenti indigeni in Linguadoca, come a Lattarci (odierna Lattes) e dando vita ad una rete di controllo e gestione delle più importanti vie di penetrazione commerciale marittima, fluviale e terrestre, mediante la fondazione o il potenziamento di centri ubicati in punti strategici, sia costieri, sul Tirreno, a Genova e ad Aleria in Corsica, sull’Adriatico a Spina, sia nell’entroterra padano, dove massicci spostamenti di coloni ripopolarono il fiorente centro di Felsina (Bologna) e edificarono nuove città a Marzabotto e al Forcello di Bagnolo San Vito a pochi chilometri da Mantova. Questo fenomeno di riorganizzazione, ad opera di Etruschi e Umbri, accompagnato da una capillare occupazione delle fertili campagne con fattorie e insediamenti produttivi, si protrasse a lungo, imprimendo un nuovo impulso ai commerci nell’area padana. Attraverso le comode vie d’acqua dell’asse Po-Mincio le barche cariche di merci pregiate, anfore di vino e olio, raffinate ceramiche  dipinte e profumi dalla Grecia, vasellame da simposio, figurine di bronzo e gioielli dall’Etruria, ambre  intagliate, incenso dall’Arabia, raggiungevano l’abitato del Forcello, vero caposaldo commerciale per il tragitto verso i territori della cultura di Golasecca, le cui popolazioni esercitavano il controllo dei valichi alpini e degli itinerari verso le regioni dell’Europa centrale abitate dai Celti. Altre vie di terra mantenevano in contatto l’Etruria padana con il Tirreno, garantendo l’approvvigionamento dei metalli attraverso i valichi appenninici che congiungevano la Romagna con la Garfagnana in direzione di Populonia e collegavano i mercati golasecchiani con la Liguria centrale lungo il percorso della Val Polcevera, poi ricalcato dalla via Postumia, che raggiungeva il porto di Genova attraversando i territori del Piemonte occupati dai Liguri dell'interno. Come testimonia Scilace (Ps.Skil. 5), nel VI secolo a.C. la costa ligure era posta sotto l’influenza etrusca con un limite ad Antion (Antibes). La realizzazione di un centro stabile a Genova  sembra rispondere, come diremmo in linguaggio moderno, ad un’esigenza di mercato. La convergenza sul porto di una rete di percorsi di crinale e di fondovalle in corrispondenza di valichi, che collegavano, con il tragitto più breve in Liguria, la città ai territori padani, e la posizione costiera in un punto di tappa quasi obbligato, giustificano la nascita di un santuario emporico e la fortuna del centro, posto in una zona di cerniera tra EtruschiGreci di Marsiglia, Celti e le popolazioni della Padana occidentaleLiguri dell’interno e Golasecchiani, che da tempo si affacciavano sulla costa ligure per i loro scambi. Come dimostrano le scoperte del Portofranco, al momento della fondazione dell’abitato sulla sommità della collina di Castello esisteva già a Genova una comunità attiva, che gestiva lo scalo e praticava scambi con merci di importazione, e i nuovi arrivati si indirizzarono perciò verso un luogo sicuro e ospitale, già noto per precedenti frequentazioni commerciali. Nelle acque di Alalia-Corsica o di Albia si scontrarono infine le tre potenze allora padrone dell’occidente: Greci (Alalioti e Massalioti) da una parte e dall’altra Etruschi (in maggioranza Ceretani) e Cartaginesi. A questi ultimi toccò la vittoria nella battaglia del mare Sardonio, dove il mondo antico subì un totale cambiamento. La talassocrazia greco-focese dovette cedere a quella degli Etruschi che ebbero mano libera nel Tirreno sino a Lipari e alle coste della Sicilia. I cartaginesi fondarono un impero nei mari dell’occidente, calando la saracinesca contro chiunque volesse violarli.

Senofane di Colofone.
- Dal 540 a.C. fiorisce il pensiero di Senofane di Colofone (565 - 470 a.C.). Le poche notizie sulla sua vita sono fornite da Diogene Laerzio: "Senofane di Colofone, figlio di Dexio o di Ortomeno... lasciata la patria, dimorò a Zancle (l’odierna Messina) di Sicilia e poi prese parte alla colonia diretta a Elea e qui insegnò; abitò anche a Catania. Visse fino a tardissima età... cantò anche "La fondazione di Colofone" e "La deduzione di colonia a Elea" in duemila versi. Fiorì nella 60ª olimpiade (540 - 537). Demetrio Falereo in "Sulla vecchiaia" e lo stoico Panezio in "Sulla tranquillità dell’animo" dicono che abbia sepolto i figli con le sue mani, come Anassagora. Diceva Senofane: "Omero ed Esiodo hanno attribuito agli dei tutto quello che per gli uomini è oggetto di vergogna e di biasimo: rubare, fare adulterio e ingannarsi...i mortali credono che gli dei siano nati e che abbiano abito, linguaggio e aspetto come loro...gli Etiopi credono che (gli dei) siano camusi e neri, i Traci, che abbiano occhi azzurri e capelli rossi ...ma se buoi, cavalli e leoni avessero le mani e sapessero disegnare...i cavalli disegnerebbero gli dei simili a cavalli e i buoi gli dei simili a buoi ...". In realtà, "uno, dio, tra gli dei e tra gli uomini il più grande, non simile agli uomini né per aspetto né per intelligenza...tutto intero vede, tutto intero pensa, tutto intero sente...senza fatica tutto scuote con la forza del pensiero...sempre nell’identico luogo permane senza muoversi, né gli si addice recarsi qui o là.". Da tutto questo si ricava la concezione di un dio-universo e nient’altro si può dire della sua concezione della divinità e dell’essere, diversamente da tarde interpretazioni che vogliono fare di Senofane un precursore della scuola eleatica e il maestro di Parmenide. Egli è legato alla scuola ionica di Mileto, quella di Talete, Anassimandro e Anassimene, a cui egli aggiunge uno spirito, che si potrebbe definire laico, di critica alle concezioni religiose correnti. Oltre a schierarsi contro i valori propri del mito e della epopea omerica, affermò contrariamente ai valori in voga tra i contemporanei, la netta superiorità dei valori spirituali quali la virtù, l'intelligenza e la sapienza, sui valori puramente vitali, come la forza e il vigore fisico degli atleti.

Per eventuali approfondimenti vedi "Storia dell'Europa n.17: dal 650 al 540 p.e.v. (a.C.)" QUI.

Pitagora.
Nel 530 a.C. - Pitagora inizia il suo insegnamento. Pitagora, secondo alcuni, verso i vent'anni di età ebbe dei contatti con Talete ed Anassimandro. La sua nascita viene collocata a Samo, sulla costa ionica dell’Asia Minore, intorno al 570 a.C. E’ considerato il primo matematico puro della storia. A differenza di altri matematici greci, dei quali sono noti sia i titoli delle opere che i contenuti, di Pitagora non ci è giunto alcuna opera scritta (e nemmeno eventuali titoli). Sembra addirittura che tutto il suo insegnamento abbia avuto un carattere completamente orale. La Scuola Pitagorica, comunità scientifico-religiosa che egli guidò, mantenne uno standard di segretezza elevato, tale da far considerare i suoi membri come componenti di una vera e propria setta, con connotazioni talmente elitarie da suscitare persecuzioni. Nella sua scuola si riscontra un evidente influsso di credenze e filosofie orientali. Oltre che di matematica, egli si occupò intensamente di magia, di astrologia-astronomia, di filosofia, di musica, di riti occulti e pare anche di medicina, tutte cose che danno credito all'affermazione di suoi viaggi in Oriente. Aristotele scrive: “... I Pitagorici ... pensavano che tutte le cose sono numeri ... e che l’universo è un regolo e un numero...”. Questo fascino per i numeri da parte di Pitagora si ritiene dovuto alle sue osservazioni su certi aspetti che legavano matematicamusica e astronomia. Egli aveva notato che le corde vibranti producevano tonalità armoniche se esisteva una certa legge tra lunghezza delle corde e nu­mero delle vibrazioni. In effetti le scoperte dei pitagorici sulla teoria musicale costituirono un notevole contributo allo sviluppo della teoria della musica. Il legame di queste osservazioni con l'astronomia era dato dal fatto che i pitagorici avevano sviluppato una teoria delle sfere armoniche, per la quale i pianeti emettevano dei suoni dipendenti dalla velocità con cui ruotavano intorno alla Terra. Naturalmente oggi il nome di Pitagora è ordinariamente associato al teorema che porta il suo nome e del quale non si dispone di notizie che lo rendano a lui sicuramente attribuibile. Molti scrittori moderni attribuiscono a lui (o per lo meno alla sua Scuola), la scoperta di altre importanti nozioni matematiche. Tra queste, notevole, è quella dei numeri irrazionali e si ritiene che questa scoperta sia dovuta non a lui ma a qualche suo discepolo, perché si tratta di una scoperta che contrastava con la vi­sione di Pitagora secondo cui “tutte le cose sono numero” (è noto che per “numero” i pitagorici intendevano il rapporto tra due interi, e quindi non potevano concepire che potesse esistere qualcosa che si sottraesse a que­sta regola). Si usa dire che i pitagorici si “imbatterono” nei numeri irrazionali ma rifiutarono di accettarli. Una leggenda dice che trovandosi alcuni pitagorici in viaggio su una nave, uno di loro, Ippaso da Metaponto, dimostrò ai compagni che, quale conseguenza del teorema scoperto, si aveva che il rapporto tra la diagonale di un quadrato e uno dei lati conduceva a un valore (radice quadrata di 2, un numero irrazionale) che non rientrava nella loro concezione di numero (cioè intero, senza virgola). La leggenda dice i pitagorici furono talmente sconvolti da questa affermazione da scaraventare in mare il malcapitato collega. I Pitagorici, come già i Babilonesi, ritenevano che alcuni numeri fossero sacri. Il più perfetto era il 10. Anche altri numeri possedevano un loro magico significato. Ad esempio, l'1 era considerato il numero della ragione ed il “generatore di tutti i numeri”. Il 2 era il numero “femminile” per eccellenza. Il 3, all’opposto, era il numero “maschile”. Il 4 il “portatore di giustizia”. Il 5 era il numero dello “sposalizio”, perché formato dalla unione del 2 con il 3. In astronomia è attribuita a Pitagora l’affermazione secondo cui la Terra ha forma sferica, e che anche l’orbita della Luna era inclinata rispetto all’equatore celeste. Nel 460 a.C. si ebbe un violento episodio di persecuzione contro i Pitagorici a Crotone. Molti loro luoghi di riunione vennero assaltati e dati alle fiamme. Si cita in particolare la “casa di Milo”, a Crotone, dove una cinquantina di Pitagorici furono assassinati. I sopravvissuti trovarono rifugio a Tebe e in altre città.

In rosso, l'ubicazione dell'isola
di Lemnos,  in Grecia.
- In questo periodo viene scolpita da stele a Lemnos, con scritta etrusco-arcaica, che secondo alcuni è pelasgico. Alcuni studiosi hanno attribuito ai Pelasgi caratteristiche culturali e linguistiche non-indoeuropee, e la scritta pelasgica meglio conservata proviene dalla stele di Lemnos, ed è affine all'etrusco. Partendo dal nome di una tribù, sia gli storici classici che gli attuali archeologi hanno preso l'abitudine di chiamare Pelasgi tutti gli abitanti delle terre intorno al Mar Egeo ed i loro discendenti prima dell'arrivo delle ondate di invasori che parlavano greco durante il II millennio a.C.
Stele di Lemnos, VI sec.a.C.
La raffigurazione di guerriero con iscrizioni sulla Stele di Lemnos è databile agli ultimi decenni del VI secolo a.C., e le scritte utilizzano una versione dell'alfabeto greco occidentale simile a quello delle iscrizioni etrusche.  La lingua, secondo le più recenti teorie, è etrusco arcaico con alcuni adattamenti locali. Non è però ancora chiaro se il rinvenimento nell’isola di Lemnos significhi che ci sia stata una fase linguistica comune dell’area mediterranea (di cui Etruria e Lemnos sarebbero due testimonianze di una derivazione degli Etruschi dall’Asia Minore) o se nell’isola fosse vissuto un gruppo di Etruschi che l’avesse colonizzata, magari quei pirati del mare Tirreno che lo scrittore greco Tucidide ricorda essere stati presenti a Lemnos prima della sua conquista da parte di Atene. Nella stele è rappresentata la testa di un guerriero e riporta delle scritte, con incisioni piuttosto approssimative, che ne descrivono la vita e la probabile provenienza. Sul lato A: holaies naphos siasi // marasm av śialchveis avis eviśtho seronaith sivai // aker tavarsio vanalaśial seronai morinail. Traduzione del lato A: “Di Colaie nipote legittimo // e magistrato eponimo, di 60 anni, nel distretto di Efestia visse // Aker Tavarsie (figlio) della Vanalasi nel territorio di Myrina. Sul lato B: holaiesi fokasiale seronaith evistho toverona [ ] rom haralio sivai eptesio arai tis foke sivai avis sialchis maras avis aomai. Traduzione del lato B: “Sotto Colaie il Focese nel territorio di Efestia ambasciatore [..] visse, a sette anni giunse da Focea, visse anni 60, fu magistrato eponimo”.

Nel 527 a.C. - Ad Atene Pisistrato muore trasmettendo il potere al figlio Ippia accompagnato dal fratello Ipparco. Mentre Pisistrato aveva accentuato i caratteri democratici dell'ordinamento ateniese, anche se in chiave populistica, i suoi figli Ippia e Ipparco si riveleranno più dispotici del padre. Si inaugura così una dinastia tirannica che avrebbe segnato una nuova fase politica con il ruolo di incubatrice per i fermenti che porteranno ad una svolta democratica.

Carta con evidenziate Capua,
Cuma e Napoli.
Dal 525 a.C. - Le colonie greche e la dodecapoli etrusca in Campania (Nola, Nocera, Ercolano, Pompei, Sorrento, Marcina, Velcha, Velsu, Irnthi, Uri, Hyria e Capua) convivevano commerciando da tempo, ma già nel 525 - 524 a. C. si era giunti ad uno scontro terrestre tra la greca Cuma e l'etrusca Capua, in quella che divenne nota come prima battaglia di Cuma. L'esercito etrusco con gli alleati Umbri, Dauni e Messapi forte di 500.000 uomini (esagerazione degli storici, in questo caso di Dionigi di Alicarnasso) fu gravemente sconfitto dalla falange e dalla cavalleria greche. I rapporti divennero ancora più conflittuali in seguito, quando il commercio via terra tra l’Etruria e la Campania attraverso il Lazio fu interrotto dai Latini, dopo la caduta della monarchia della dinastia etrusca a Roma; per questo motivo la via marittima diventava sempre più strategica per gli Etruschi, che vedevano proprio nella greca Cuma, con il suo porto ben organizzato, una seria minaccia per la loro navigazione.

Il logo della Repubblica di Roma:
Senatus PopolusQue Romanus.
Nel 509 a.C. - A Roma viene cacciato l'Etrusco Tarquinio il Superbo, ultimo re di Roma, e viene proclamata la  Repubblica, che adotta come epigrafe S.P.Q.R., Senatus PopolusQue Romanus, Senato e Popolo Romano. Nel latino arcaico, per popolus si intendeva la forza militare. L'ultimo re di Roma, Tarquinio il Superbo, pur avendo ottenuto il rinnovo del trattato di pace con gli Etruschi, alla fine è rovesciato, nel contesto di una più ampia esautorazione del potere etrusco nell'area dell'antico Latium vetus, e Roma, i cui possedimenti non si estendevano oltre le 15 miglia dalla città, si dà un assetto repubblicano, una forma di governo basata sulla rappresentatività popolare in contrasto con la precedente autocrazia monarchica. Nel 509 a.C., il re deposto, Tarquinio il Superbo, la cui famiglia si narra fosse originaria di Tarquinia in Etruria, ottenuto il sostegno delle città di Veio e Tarquinia, in rivalsa alle sconfitte subite in passato dai Romani, tenta di riconquistare Roma, ma i due consoli romani, Publio Valerio Publicola e Lucio Giunio Bruto, avanzano con le forze romane contro di loro e l'ultimo giorno del mese di febbraio si combatte la sanguinosa battaglia della Selva Arsia durante la quale cadono moltissimi uomini, sia da una parte che dall'altra; tra questi anche il console Bruto. Lo scontro è interrotto da una violenta e improvvisa tempesta quando l'esito della battaglia è ancora incerto e tanti sono i morti che giacciono sul campo di battaglia. Entrambe le parti reclamano la vittoria, finché «....Numeratisi poscia i cadaveri, trovati furono undicimila e trecento quelli dei nemici, e altrettanti, meno uno, quei dei Romani» (Plutarco, La vita di Publicola). La Roma repubblicana adotta un proprio alfabeto, il Latino, derivato da quello dei Greci di Cuma mentre la sua struttura economica è basata prevalentemente sulla pastorizia (il termine stesso per il denaro, "pecunia", deriva da "pecora") e sull'agricoltura, tanto che l'esercito è formato prevalentemente da allevatori e proprietari terrieri, ritenuti gli unici ad avere la motivazione per gestire la politica difensiva e/o espansionistica con le armi, i quali sono arruolati con una di leva obbligatoria: ogni membro dell'esercito deve inoltre provvedere a proprie spese al proprio equipaggiamento, generalmente composto da spada e lancia per i "pedites", i fanti, fra cui i più benestanti potranno permettersi anche le protezioni di scudo e armatura. La formazione di combattimento per quest'ultimi è la falange. I più ricchi sono gli "equites", i cavalieri, che possono mantenersi il cavallo, e dispongono di protezioni oltre alle armi offensive (elmi e corazze). Era consuetudine poi, assegnare appezzamenti dei territori conquistati ai militari congedati, nella misura proporzionale al loro grado.
Lucio Giunio Bruto.
Narra la leggenda che una violenza perpetrata a Lucrezia da parte di un figlio di Tarquinio il superbo, fu l'ultimo misfatto dei Tarquini, che determinò una sollevazione generale contro la monarchia. Il padre di Lucrezia, il marito Collatino ed il suo grande amico Lucio Giunio Bruto decisero di vendicarla, provocando e guidando una sommossa popolare che cacciò via i Tarquini da Roma e li costrinse a rifugiarsi in Etruria. Nacque così la res publica romana, i cui primi due consoli furono proprio Lucio Tarquinio Collatino Lucio Giunio Bruto artefici della sollevazione contro quello che poi divenne l'ultimo re di Roma. Roma nel periodo repubblicano (510 a.C. - 30 a.C.) diede vita ad una democrazia equilibrata. I cittadini ebbero la possibilità di esprimere la propria volontà mediante il voto sia per eleggere i propri governanti (potere esecutivo) sia per approvare le leggi dello Stato (potere legislativo), sia per giudicare dei reati (potere giudiziario). Esistevano tre differenti metodi elettorali: i comitia curiata tenevano conto della famiglia, i comitia tributa della residenza, i comitia centuriata del reddito e dell'età. Il Senato era costituito da coloro che avevano ricoperto cariche pubbliche e quindi era eletto indirettamente dal popolo quando eleggeva i governanti. I tribuni della plebe erano a protezione di tutti i cittadini a qualunque classe appartenessero, ed avevano il compito fondamentale di proteggere dagli abusi e dai soprusi delle autorità. Le cariche erano a tempo (in genere un anno, solo i senatori erano a vita) e ripartite tra più persone (2 consoli, 2 censori, 10 tribuni, 6 pretori, 8 questori, ecc.), in modo da evitare la concentrazione del potere.
Consoli della Repubblica
di Roma.
Non esistevano blocchi per l'accesso alle cariche. Anche homines novi potevano raggiungere i più alti gradi dell'amministrazione pubblica. Un sottile gioco di equilibrio impediva ad ogni autorità di agire indiscriminatamente. I censori potevano espellere i senatori anche se erano a vita, i tribuni potevano bloccare gli atti delle autorità, i senatori potevano preparare le leggi, ma non potevano approvarle, le assemblee popolari potevano approvare o respingere le leggi, ma non potevano proporle, ecc. Ogni magistrato poteva essere chiamato a rispondere in giudizio del proprio operato al termine della carica. Attraverso secoli di riforme Roma era riuscita a realizzare una repubblica veramente res publica, "cosa di tutti". Il cittadino romano era orgoglioso di essere civis romanus. Il cittadino romano era impegnato per molta parte del suo tempo nella attività politica. Circa la metà dei giorni dell'anno erano qualificati dal calendario romano come dies comitiales, giorni nei quali era possibile tenere comitia, ossia assemblee pubbliche. Il cittadino partecipava alle assemblee per: 1) eleggere direttamente i responsabili della pubblica amministrazione: dai presidenti del consiglio (almeno 2), ai ministri, ai prefetti, ai questori, ai giudici, ai procuratori, ecc., 2) approvare le leggi 3) giudicare alcuni casi di rilevante importanza. Potevano partecipare alle assemblee i cittadini maschi maggiorenni (di età superiore a 16 anni). Erano esclusi gli stranieri, anche se residenti, gli schiavi, le donne. Esistevano tre assemblee: 1) i comitia curiata, dove i cittadini partecipavano divisi in 30 curie, raggruppamenti di diverse gentes, a loro volta raggruppamenti di famiglie; 2) i comitia tributa, dove i cittadini partecipavano divisi in 35 tribù, raggruppamenti su base territoriale; 3) i comitia centuriata, dove i cittadini partecipavano divisi in 193 centuriae, raggruppamenti sulla base del censo e dell'età. All'interno dei raggruppamenti, una sorta di circoscrizioni elettorali, vigeva il principio una testa un voto. I raggruppamenti non erano omogenei numericamente. Ad esempio metà delle centuriae era di giovani (dai 17 ai 46 anni) e metà di anziani (superiori ai 46 anni). In tal modo si teneva conto della maggiore esperienza degli anziani. I risultati delle votazioni erano a maggioranza su base circoscrizionale (una circoscrizione un voto). Venne assicurata la segretezza del voto per evitare brogli elettorali. Il Senato fu costituito per gran parte del periodo repubblicano da 300 membri a vita. I senatori erano ex amministratori pubblici che venivano inseriti di diritto nelle liste senatoriali. Ma poiché gli amministratori erano eletti dal popolo, non poteva entrare in senato se non chi era stato eletto dal popolo. Il Senato non poteva legiferare, ma solo preparare le leggi che poi i comitia avrebbero approvato o respinto. Il popolo poteva anche approvare delle leggi nei comitia tributa senza l'intervento del Senato. Nella Roma repubblicana esisteva sostanzialmente una forma di democrazia diretta, senza l'intermediazione dei politici di professione tipica delle odierne democrazie. I tribuni della plebe non appartenevano alla schiera degli amministratori, ma venivano eletti per proteggere i cittadini dagli abusi degli amministratori e ad essi i cittadini (patrizi o plebei) potevano ricorrere contro il potere costituito. L'esercito repubblicano, come quelli precedenti, non fu costituito da forze militari professionali; al contrario si provvedeva ad una leva annuale, attraverso il meccanismo della coscrizione obbligatoria, come richiesto per ogni campagna miliare stagionale, per poi congedare tutti al termine della stessa (sebbene in alcuni casi alcune unità potevano essere mantenute durante l'inverno, e anche per alcuni anni consecutivi, durante le maggiori guerre). Per far parte dell’esercito romano si doveva avere un reddito (censo) che permettesse di pagarsi gli armamenti e i più numerosi componenti delle milizie erano pastori e piccoli proprietari terrieri.

Nel 509/508 a.C. - Primo trattato fra Cartagine e Roma, citato da Polibio. Roma e i suoi alleati si impegnano a non navigare oltre Capo Bello (promontorium Pulchrum, nei pressi di Cartagine) se non a causa di una tempesta o forzati dai nemici; in ogni caso potranno comperare solo quanto serva per effettuare riparazioni urgenti o per partecipare a cerimonie sacre, e dovranno comunque ripartire entro cinque giorni. I commercianti possono operare in Sardegna e in Africa solo sotto controllo di banditori a garanzia del venditore. Però i Romani, nella Sicilia cartaginese, hanno gli stessi diritti dei Cartaginesi. Cartagine considera territori di sua pertinenza la Sardegna e l'Africa, mentre per la Sicilia il trattato, naturalmente, regolamenta solo il territorio non greco. La contropartita di queste limitazioni era di riconoscere a Roma la sostanziale egemonia sul Lazio, oltre a prometterle protezione militare e copertura navale, che Cartagine poteva dare contro eventuali attacchi di Cuma o di altre pòleis della Magna Grecia, vere avversarie della città africana a quel tempo. La repubblica era appena nata e impegnata nelle guerre contro le popolazioni italiche e gli Etruschi, che con Porsenna cercavano di riportare al potere i Tarquini. La città, all'epoca, non aveva interessi espansionistici a sud del Lazio e, in ogni caso, la marina commerciale romana era pressoché inesistente, al pari di quella militare che sembra sia stata costituita solo nel 311 a.C.. Questo trattato definiva così le rispettive aree di influenza, testimoniando bene la situazione politica e commerciale di Cartagine nell'Occidente mediterraneo. Cartagine poteva quindi evitare di operare militarmente nel Lazio, impegnata com'era nelle guerre contro i Greci. La città punica era maggiormente interessata a tutelare i traffici commerciali e marittimi nella propria sfera d'influenza, che era il Mediterraneo occidentale. Massimo Pallottino aggiunge che il testo del trattato riportato da Polibio, rivela una preminenza di fatto della posizione di Cartagine sul teatro delle rispettive interferenze con Roma. A parte le limitazioni commerciali imposte alla navigazione ed alle attività commerciali romane, gli accordi riguardanti Roma sembrano mostrare un carattere difensivo rispetto alle iniziative cartaginesi. Questi divieti rispecchierebbero una situazione di parziale dominio di Roma sul Lazio, che corrisponderebbe a quanto descritto per il regno di Tarquinio il Superbo. Si evidenzia, quindi, una palese inferiorità del contraente romano-latino nei confronti di quello cartaginese, non molto dissimile da quanto esisteva già nei confronti dell'alleato etrusco. Possiamo osservare come Cartagine non rinunciasse ad altro che ad azioni belliche entro un piccolo territorio (il Lazio), dove comunque non aveva interessi, e mantenesse le mani libere per le azioni contro i Greci, concorrenti commerciali e militari ben più noti, potenti e pericolosi. Non dimentichiamo poi che con gli alleati Etruschi, Cartagine si era già in precedenza divisa il Tirreno per aree di influenza: agli Etruschi era stata attribuita l'area che dalle Alpi giungeva in Campania, mentre ai Cartaginesi, l'arco che chiudeva a sud-est la zona dell'occupazione greca, ora che la via di Corsica e Sardegna era stata chiusa all'espansione politica e commerciale dei Greci pur avendo Massalia (Marsiglia) una notevole influenza marinara nel Mediterraneo nord-occidentale. Fin dalle sue origini Genova appare legata alle vicende del porto, creato in uno degli approdi più favorevoli e protetti dell’arco costiero ligure, lungo le rotte battute dalle navi mercantili, etrusche e greche, in direzione dei mercati della Francia meridionale.

Nel 508 a.C. - Tarquinio il Superbo, non essendo riuscito a riconquistare il trono insieme agli alleati Etruschi delle città-stato di Tarquinia e Veio, cerca aiuto in Lars Porsenna, lucumone della potente città etrusca di Chiusi, (nel 508 a.C., durante il consolato di Tito Lucrezio Tricipitino e Publio Valerio Publicola). Il Senato romano, venuto a sapere che l'esercito di Porsenna si stava avvicinando, temendo che il popolo di Roma potesse, per la paura, accogliere di nuovo il re Tarquinio in città, prese una serie di provvedimenti che rafforzassero la voglia da parte della plebe di resistere di fronte all'imminente assedio. Si provvedette, pertanto, ad avere cura, prima di tutto, dell'annona, inviando emissari tanto ai Volsci quanto a Cuma con l'obiettivo di procurare frumento; il commercio del sale, il cui prezzo era ormai aumentato alle stelle, fu sottratto ai privati e divenne monopolio di stato; la plebe venne esentata da dazi e tributi mentre le classi abbienti dovettero sostituirsi fiscalmente ai plebei nella misura in cui fossero in grado di farlo. Queste misure ebbero successo, tanto che la popolazione di Roma prese animo, pronta a combattere contro il nemico. Secondo la leggenda, Porsenna assediò Roma, ma pieno di ammirazione per gli atti di valore di Orazio Coclite, Muzio Scevola e Clelia, desistette dal conquistarla, facendo ritorno a Chiusi. Questo secondo quanto raccontano gli storici favorevoli alla tradizione romana come Tito Livio o Floro, probabilmente per nascondere una possibile disfatta romana. Secondo la versione di Dionigi di Alicarnasso, dopo la partenza di Porsenna il senato romano inviò al re etrusco un trono d'avorio, uno scettro, una corona d'oro e una veste trionfale, che rappresentava l'insegna dei re.

Clistene, da QUI.
Nel 508/507 a.C. - Ad Atene Clistene avvia una rivoluzione democratica. Clistene (Atene, 565 a.C. - Atene, 492 a.C.) ha portato avanti l'opera di Solone e sarà, insieme a questi, uno dei padri della democrazia ateniese. Clistene era figlio di Megacle, l'alleato di Pisistrato (della famiglia degli Alcmeonidi) e di Agariste, figlia del tiranno Clistene di Sicione, ricoprì il titolo di arconte nel 525-524 a.C. e in seguito fu esiliato per ordine del tiranno Ippia, figlio di Pisistrato. Nel 510 a.C., Clistene, insieme ad Isagora, esponente della frangia più conservatrice dell'aristocrazia ateniese, fu responsabile dell'abbattimento della tirannide di Ippia. Non dopo molto tempo, nacquero dei contrasti tra Clistene ed Isagora e quest'ultimo, volendo sbarazzarsi dell'avversario, dietro il pretesto della maledizione degli Alcmeonidi (derivante dall'aver commesso sacrilegio al tempo del fallito colpo di Stato di Cilone), richiese ed ottenne l'aiuto spartano, per cui Clistene fu nuovamente costretto all'esilio. Il potere di Isagora tuttavia, non durò a lungo, difatti il tentativo di sciogliere la Boulé fallì sia per l'opposizione dei suoi stessi membri sia perché il popolo, non desiderando il ritorno ad un regime oligarchico, costrinse Isagora ed i suoi sostenitori a rinchiudersi nell'Acropoli e poi a lasciare Atene e successivamente richiamò Clistene. Una volta assunto saldamente il potere, Clistene in un primo momento si limitò a ripristinare integralmente la costituzione di Solone, poi però, ottenendo il supporto popolare necessario, attuò diverse riforme al fine di consolidare le ancor traballanti istituzioni ateniesi. In primo luogo, conscio che la rivalità tra le quattro tribù, basate sul censo familiare, era stata una delle cause maggiori del fallimento della costituzione di Solone e della instaurazione della tirannide, Clistene le abolì per sostituirle con dieci tribù, ognuna delle quali, a sua volta, era costituita da diversi demi, che a loro volta si suddividevano in gruppi di tre, comprendendo sia una regione costiera, sia una pianeggiante sia una collinare. Inoltre, per aumentare il senso di coesione territoriale e scardinare quello familiare, Clistene abolì i patronimici e li sostituì con il nome del demo di residenza o nascita. Il demo (in greco antico dêmos) era una suddivisione del territorio dell'Attica, la regione della città di Atene, entrata in vigore sotto l'acme ("apice, il punto più alto" in lingua greca) di Clistene. Dopo aver attuato la riforma delle tribù, Clistene sostituì il consiglio dei 400 di Solone con la Boulé, un consiglio di 500 membri, 50 per tribù, scelti non mediante elezione bensì per sorteggio in modo da garantire la massima partecipazione possibile e inoltre sancì che ogni membro del consiglio, all'assunzione della carica dovesse giurare "di consigliare, nell'osservanza delle leggi, ciò che è meglio per il popolo". La Bulé era uno degli organi principali della politica ateniese e aveva il compito di organizzare l'Ecclesia (l'assemblea del popolo che votava le leggi scritte dalla Boulé stessa) e di controllare il lavoro dei magistrati (i funzionari investiti delle funzioni di giudice) e dei nove arconti, i magistrati supremi. Sulla stessa base, riformò il sistema giudiziario, istituendo un sistema di giurie, composte da 201 fino a 5001 giurati, sorteggiati da un campione posto da ogni singola tribù e dispose che l'iniziativa legislativa spettasse alla Boulé e che poi l'assemblea di tutti i cittadini aventi diritto di voto si dovesse convocare quaranta volte l'anno per discutere, approvare, emendare o respingere le proposte della Boulé. Infine, Clistene, onde prevenire per sempre il fenomeno della tirannide, introdusse l'ostracismo (usato per la prima volta nel 487 a.C.) mediante il quale un voto qualificato di almeno 6.001 cittadini avrebbe potuto esiliare per dieci anni un cittadino che fosse ritenuto una minaccia per la democrazia (senza che però le sue proprietà fossero confiscate). Tale sistema, tuttavia, ben presto generò abusi, visto che ogni uomo politico poteva essere soggetto a tale misura, dal momento che non era necessario provare l'effettiva e concreta pericolosità per la democrazia del soggetto che avrebbe dovuto subire l'esilio. Clistene, infine, definì tali riforme isonomia, termine traducibile come "uguaglianza di fronte alla legge". Quanto a Clistene, alcuni storici riportano che fu il primo a subire l'ostracismo. Clistene fu lo zio di Agariste, moglie dell'ammiraglio Santippo e madre di Pericle. Non è nota la data della sua morte.

Nel 507/506 a.C. - Sul finire del VI secolo a.C. si arresta l'espansionismo etrusco. Prima Roma si era liberata dalla supremazia dei Tarquini, poi si liberarono dagli Etruschi i Latini che, sostenuti dal greco Aristodemo di Cuma, ad Ariccia nel 507/506 a.C. li sconfissero in battaglia. Livio racconta che, abbandonata la guerra contro Roma, Porsenna, per evitare di subire critiche al suo ritorno, inviò il proprio figlio Arrunte ad assediare Aricia con parte dell'esercito. Inizialmente sembra che l'attacco colse gli abitanti alla sprovvista, poi ricevuti i rinforzi dalle vicine città latine e dai Greci di Cuma, ebbero la meglio sulle truppe etrusche. I pochissimi superstiti, privi del loro comandante, riuscirono a raggiungere Roma. Qui, supplici, vennero accolti benignamente e ospitati dai Romani. Alcuni più tardi fecero ritorno alle loro abitazioni, molti invece rimasero a Roma, per l'affetto che ormai li legava alla città. Il quartiere che venne loro assegnato prese il nome di "Vicus Tuscus". La sconfitta etrusca ad Aricia poneva, in definitiva, gli avamposti degli Etruschi in Campania isolati. Più tardi, dopo la successiva sconfitta navale ad opera sempre di Cuma nel 474 a.C. (v. battaglia di Cuma), andarono via via perduti, tanto che a partire dal 423 a.C. la stessa Capua venne occupata dagli Osci.

Nel 505/504 a.C. - Scoppia una nuova guerra tra Roma e i Sabini e benché Livio non faccia alcuna menzione del coinvolgimento degli Etruschi, i Fasti triumphales registrano che il console Publio Valerio Publicola celebrò un trionfo sia sui Sabini che sui Veienti nel maggio del 504 a.C..

Dal 504 a.C. - La pacifica convivenza in Campania  degli Etruschi di Capua con i Greci di Cuma si era interrotta nel 525 - 524 a.C. nella prima battaglia di Cuma. Nel 505 - 504 a.C. i Latini si allearono con i Greci di Cuma e sconfissero gli Etruschi nella battaglia di Ariccia, anche se proprio a Cuma trovò rifugio l'etrusco Tarquinio il Superbo, cacciati da Roma.

I linguaggi nell'Italia del 500 a.C.:
Leponzio, Gallico, Retico, Venetico,
Ligure, Etrusco, Nord-Piceno,
Umbro, Sud-Piceno, Falisco,
Sabino, Latino, Osco, Messpico,
MagnoGreco, Elimo, Sicano,
Siculo (dal Ligure) e Sardo.
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Nel 503 a.C. Menenio Agrippa convince i plebei a tornare in città dall’Aventino, colle su cui si erano ritirati per protesta, abbandonando le proprie mansioni.. Vissuto tra il VI e il V sec., Menenio Agrippa fu console romano; vinse i Sabini nel 494 a.C. Una tradizione dai contorni leggendari narra che, durante la ribellione del popolo contro i soprusi dei patrizi, Agrippa venne mandato sull’Aventino per convincere i plebei a tornare in città. Egli narrò loro un apologo sulla necessità che le membra (la plebe), cooperassero con lo stomaco (i patrizi), per evitare di arrecare danno a tutto il corpo: “Una volta, disse, le braccia, le gambe, la bocca e i denti decisero di non lavorare più per lo stomaco, che si nutriva e restava in ozio godendo il frutto delle loro fatiche. Lo stomaco, privo di alimenti, soffriva, ma contemporaneamente soffrivano anche tutte le altre membra mentre tutto l’organismo deperiva. Allora le membra compresero che anche lo stomaco lavorava, anzi era proprio lui a dare loro forza e vita restituendo, in forma di sangue, quel cibo che esse gli avevano procurato con fatica. Così nello Stato: i patrizi sono come lo stomaco, i plebei le membra. La rovina di una classe è la rovina di tutto lo Stato”. I plebei si lasciarono persuadere a ritornare in città, ma ottennero decisive leggi a loro favorevoli; tra cui quella di eleggere i loro rappresentanti detti “tribuni della plebe” per la difesa dei loro diritti.

Cartina della locazione di Capua,
da cui il territorio "Campania",
città etrusca del IX sec. a.C., detta
 più bella e ricca di Roma dagli
stessi romani. Indicate Cuma e le
altre città greche edificate
successivamente, le strade romane
realizzate nel III sec. a.C. In verde
 la valle del Sangro con Pompei.
Clicca sull'immagine per ingrandirla.
Va precisato che in quest'epoca storica, mentre il versante tirrenico è ricco, sia culturalmente, materialmente, sia di città, fra cui primeggiano Capua Roma, il versante appenninico e adriatico della penisola italica, intesa al sud dei fiumi Magra e Rubicone, è abitato da popolazioni che praticano la pastorizia. Queste popolazioni si definiscono "Safinim", e si sono distinte fra Sabelli, Sabini, Sanniti, e una moltitudine di nomi, ma sono popolazioni dello stesso ceppo, e perlopiù parlano dialetti in osco. La transumanza delle greggi, che praticano annualmente, impedisce loro un quotidiano urbano, per cui non edificano città, ma accentramenti a tema nelle campagne: i luoghi dei templi e dei teatri in cui agivano le istituzioni: quello del mercato, il foro della politica, quello dei tribunali e delle pubbliche assemblee.
Foro rurale ad Altilia, presso
l'antica Sepino, in Molise.
La lana, che vendono alle genti della Campania e del Lazio, insieme ai prodotti caseari, favorirà in quelle regioni una prospera attività manufatturiera di produzione di tessuti di lana nelle "folloniche", officine artigianali ricavate dalle abitazioni che possano attingere acqua, e tali produzioni saranno oggetto di consumo nazionale ed estero. Dopo la romanizzazione dell'area, saranno i Romani a costruire micro città, con mura, porte e fori lasticati.

La massima espansione del commercio
fenicio nel  Mediterraneo, nel 500 a.C.
Carta geografica tratta dalla rivista
"Ecco i Fenici", supplemento a
"La Stampa" n.48 del 3 marzo 1988,
pg.64.  Sono evidenziate le principali
vie del commercio nell'antichità,
aventi come protagonisti i mercanti
e gli esploratori fenici
Nel 500 a.C. - Si ha la massima espansione del commercio Fenicio.

- Dal V° secolo a.C. Tartesso, citata più volte nelle scritture ebraiche ('Tarshish', conosciuta anche come 'Tarsis' o 'Tarsisch'), non esisterà più: non ci è noto il motivo, se naturale o per assoggettamento da parte dei Cartaginesi. Nella Bibbia Tartesso è citata in ventuno paragrafi, undici volte nei libri dei Profeti e sei volte in altri libri. Sembra quindi che la parola Tartesso sia di origine semitica, e potrebbe significare "fine della terra". E' singolare il continuo rimando biblico alle cosiddette "navi di Tarsis", in cui si portavano enormi tesori e che riuscivano a fare viaggi lunghi e difficili. Ezechiele 27, 12 dice:
Nave da guerra assira di produzione
fenicia, VII secolo a.C., da Ninive,
Palazzo Sud-Ovest, stanza VII,
pannello 11 (Londra, British
Museum) da QUIAssyrianWarship
.jpgCC BY-SA 3.0, QUI.
"Tarschisch commerciava con te (Tiro), a causa della moltitudine di mercanzie di cui disponeva: argento, ferro, stagno e piombo." Tartesso, indicata come Tarsis (o Tarshish, o Tarsish) nei testi biblici:
- "I re di Tarsis e delle isole deve offrire i loro doni ..." - Bibbia, Libro Secondo dei Salmi, 72,10.
- "Tutti i calici di re Salomone erano d'oro (...) Non c'era argento, nessun caso ha fatto nulla di tutto questo nei giorni di Salomone, quando il re aveva in mare le navi di Tarsis con Hiram e ogni tre anni venivano le navi di Tarsis portando oro, argento, avorio, scimmie e pavoni." E segue: "Hiram, re di Tiro (969-936 a.C.) di potenza fenicia, successore di Sidone. Questo re aveva stabilito accordi con il re Davide, durante la costruzione del Palazzo Reale e il Tempio di Gerusalemme, e poi con Salomone." - Bibbia, I Re, 10, 21-22.
- "Perché gli dèi delle nazioni sono vane: un albero del bosco, il lavoro delle mani del maestro con l'ascia lo interruppe con argento e oro impreziosisce, provenienti da Tarsis laminato argento, oro di Ofir e maestro lavorazione mani orafo, di blu e porpora e di scarlatto è il suo vestito, tutti sono il lavoro degli artigiani. Con il martello e chiodi che tengono in modo che non si muova.
Carta geografica del sud dell'Iberia
(Spagna) nella fine del  I° secolo a.C.:
risulta che all'epoca romana (regno
 di Augusto) di Tartesso già non c'è
più traccia, ma il golfo che attualmente
 prende il nome dalla città di Cadiz
(Cadice, antica Gadira o Gades) si
 chiamava allora Tartessius Sinus
(golfo di Tartesso).
Sono come spaventapasseri nei campi, che non parlano. Bisogna portarli, perché non possono camminare. Non abbiate paura di loro, perché non fanno nulla di buono o cattivo." - Bibbia, in Geremia, (nato nel 645 a.C.) 10, 3.
- "(Descrizione di Tiro e di ricchezza). Tarsis commerciava con te in abbondanza tutti i tipi di prodotti: argento, ferro, stagno e piombo per la vostra merce (...) Le navi di Tarsis erano le tue carovane che portano merci. Così si diventa ricchi e ricchi nel cuore dei mari." - Bibbia, Ezechiele, (inizio sec. VI a.C.) 27, 12.
- "Giona si levò per fuggire a Tarsis, lontano dal Signore, scese a Giaffa, dove trovò una nave che doveva andare a Tarsis. Ha pagato il prezzo della corsa e scese in essa per andare con loro in Tarsis dal Signore." - Bibbia, Giona, (IV sec. a.C.) 1, 3. Dal Blog "Sanremo Mediterranea": per il post "Tartesso: l'Economia", clicca QUI; per il post "Tartesso: prima i Liguri, poi Fenici e Greci", clicca QUI; per il post "Ercole e altri miti a Tartesso", clicca QUI; per il post "Il Lago Ligure nella mitica Tartesso", clicca QUI

Carta delle popolazioni Celtiche in Europa.
Verso il 500 a.C. i Galli Cenomani, insediati stabilmente nell'attuale bassa Lombardia orientale e nel basso Veneto occidentale, ossia nel territorio compreso tra il fiume Adige e l'Adda, risalirono alla conquista delle valli alpine  combattendo contro le popolazioni indigene. A loro si opposero fieramente gli Stoni. Ne deve essere seguita una convivenza inizialmente difficile, che portò lentamente a una popolazione abbastanza omogenea, tanto che i Romani li identificano  con l’unica denominazione di Reti.

- Dal V al I secolo a.C., i Germani premettero costantemente verso sud, venendo a contatto (e spesso in conflitto) con i Celti e, in seguito, con i Romani. Lo spostamento verso sud fu probabilmente influenzato da un peggioramento delle condizioni climatiche in Scandinavia tra il 600 a.C. e il 300 a.C. circa. Il clima mite e secco della Scandinavia meridionale (una temperatura di due-tre gradi più elevata di quella attuale) peggiorò considerevolmente, il che non solo modificò drammaticamente la vegetazione, ma spinse le popolazioni a cambiare modi di vivere e ad abbandonare gli insediamenti. Intorno a tale periodo questa cultura scoprì come estrarre il "ferro di palude" (limonite) dal minerale nelle paludi di torba. Il possesso della tecnologia adatta ad ottenere minerale di ferro dalle fonti locali può aver favorito l'espansione in nuovi territori. Nell'area di contatto con i Celti, lungo il Reno, i due popoli entrarono in conflitto. Sebbene portatori di una civiltà più articolata, i Galli subirono l'insediamento di avamposti germanici nel loro territorio, che diedero origine a processi di sovrapposizione tra i due popoli: insediamenti appartenenti all'uno o all'altro ceppo si alternavano e penetravano, anche profondamente, nelle rispettive aree d'origine. Sul lungo periodo, a uscire vincitori dal confronto furono i Germani, che qualche secolo più tardi sarebbero dilagati a occidente del Reno. Identico processo si sarebbe verificato, a sud, lungo l'altro argine naturale alla loro espansione, il Danubio. Dal Blog "Sanremo Mediterranea": Per il post "Dal Ligure al Celtico, dagli antichi alfabeti dell'Italia Settentrionale al Runico", clicca QUI.

Carta della Venetia, X Regio
 della Roma Imperiale.
- Nel V secolo a.C. i Veneti vennero a contatto, ad occidente con i Galli: ad ovest si stanziarono i Galli Cenomani (con cui si sarebbero alleati, insieme ai Romani), a sud i Boi (con cui invece furono sovente in guerra) e a nord-est i Carni. A ad est e a sud-est rimasero prevalentemente in contatto con le popolazioni illiriche. Anche all'interno del Veneto vi fu qualche stanziamento di Galli, anche se in minima entità, probabilmente non sempre di tipo pacifico.
L'influsso culturale celtico diventò comunque via via importante, e la cultura veneta lentamente mutò e si adeguò ai tempi; sempre importante si mantenne il rapporto con le popolazioni balcaniche di oltre Adriatico come quelle illiriche, con cui i Veneti venivano facilmente confusi dagli storici greci e che furono considerati parenti stretti dei Veneti fino al primo Novecento. Successivamente divenne decisivo il contatto con la civiltà romana, anche per i reiterati rapporti di alleanza che legarono i Veneti ai Romani e per la tradizionale ipotesi di parentela tra Veneti e Latini. La cultura veneta venne assimilata in quella romana già in età tardo repubblicana, anche se alcune specificità venete rimasero, presumibilmente, nelle zone marginali anche in tarda età imperiale.
Cavallo degli antichi Veneti o Venetici.
Il cavallo, chiamato Ekvo dai Veneti antichi, animale-totem della protostoria dell'Europa, giocò nella loro cultura un ruolo di prim'ordine. Questi animali erano allevati per la loro valenza economica e come simbolo di predominio aristocratico e militare. I cavalli dei Veneti erano noti per la loro abilità nella corsa ed erano spesso riprodotti negli ex voto, nelle aree più sacre. Centinaia di bronzetti a forma di cavallo o di cavaliere su cavallo provengono dai luoghi di culto dei Veneti. Al cavallo erano riservati appositi spazi di sepoltura nelle necropoli. Il cavallo compare in vari manufatti come immagine simbolica o elemento decorativo.

- In Grecia, le due città greche più importanti, Atene e Sparta, erano divise quasi su tutto: avevano diversi interessi, diversi rapporti fra le classi, diversa concezione della vita e della cultura. E anche, naturalmente, una diversa concezione della guerra.
Opliti Spartiati
Per quanto fin dalla sua fondazione, nel 1.200 a.C., Sparta eccellesse per le proprie produzioni artistiche e, ad esempio, per i propri cori religiosi, probabilmente a causa della migrazione in Arcadia di molti esponenti della tribù di Beniamino (vedi eventi del 1.140 a.C.), nel 750 a.C. aveva rinunciato a produrre arte, poesia, artigianato in bronzo e ceramica, vanto del centro religioso che era stato e decise di occupare la Messenia (di un'estensione di 8.000 Kmq.) assoggettando la sua società e le sue grandi risorse agricole e di ferro; si dovette così concentrare a dominare una popolazione di 250.000 uomini con 10.000 guerrieri. Per organizzarsi a questo scopo, Sparta si era trasformata in una società militarista egualitaria: ogni cittadino-guerriero spartiato aveva la stessa quantità di terre degli altri, non disponeva di denaro e non poteva vestirsi in maniera diversa dalla moltitudine. Gli Spartani, vivevano nel continuo timore di una rivolta dei propri sudditi, gli iloti, che essi trattavano con una durezza senza confronti nel mondo greco.
Costituzione di Sparta
Pertanto, non potendo contare su una sottomissione e una fedeltà spontanee, dovevano organizzarsi, nella propria terra, come un esercito accampato in una regione straniera. I maschi adulti passavano l'intera vita sotto le armi, mentre la giovinezza era solo una breve preparazione alla vita militare. Gli Spartani fondavano la propria sicurezza interamente sull'affidabilità del loro esercito, al punto che non vollero mai proteggere con mura la propria città pur essendo, alla lettera, circondati da nemici. In questo modo essi si guadagnarono la fama di essere grandi combattenti e Sparta veniva considerata la maggiore potenza militare della Grecia, e rappresentava un modello di virtù. 
Le armi di un oplita del 500
a.C.: elmo, corazza, lancia,
di cui si vede solo la punta,
spada.
Diversa era la situazione ad Atene all'inizio del secolo. Lì  non si passava la vita sotto le armi, anzi, non c'era nessuno che facesse il soldato per professione: i cittadini venivano chiamati di volta in volta alle armi, in caso di necessità, sotto il comando di capi militari (gli strateghi) che venivano eletti di anno in anno. Nonostante che, dopo la riforma di Clistene, le cariche pubbliche fossero sorteggiate fra tutti gli aventi diritto, a quella di stratega veniva attribuita una componente di competenza tecnica, per cui era riservata, per comune consenso, alle persone riconosciute più esperte. Nelle tattiche di battaglia adottate da Ateniesi e Spartani (e in realtà da quasi tutti i Greci) al momento dell'invasione persiana, il nerbo dei rispettivi eserciti era costituito dalla fanteria oplitica.
Costituzione di Atene.
Gli opliti (da Yoplon, lo scudo tondo del diametro di un metro, in legno ricurvo corazzato in bronzo od ottone) erano cittadini liberi, appartenenti per lo meno al ceto medio, i quali potevano permettersi di equipaggiarsi con la pesante armatura di bronzo adottata dalle armate greche fin dalla fine dell'VIII secolo a.C.. L'equipaggiamento difensivo (chiamato panoplia) era composto da una corazza, sagomata in modo da avere la forma di un torso maschile, a protezione del busto; da un elmo, sempre di bronzo, che riparava anche il naso e le guance; da protezioni metalliche per la parte inferiore delle gambe; infine dal grande scudo argivo (Yoplon), da cui derivava appunto il termine 'oplita'. Le armi offensive erano una lancia e una spada di ferro. La fanteria oplitica combatteva in formazione serrata e pertanto si muoveva con lentezza, ma con efficacia, ed era in grado di resistere anche a una carica di cavalleria. L'armatura di bronzo bastava spesso a proteggere i soldati dalle frecce scagliate da lontano, o anche da una lancia scagliata senza sufficiente forza e precisione. Per sconfiggere gli opliti, dunque, era necessario affrontarli a distanza ravvicinata.
Modalità dell'ostracismo,
 praticato ad Atene.
L'introduzione di questo modo di combattere soppiantò i combattimenti individuali sui carri trainati da cavalli e i duelli tra aristocratici raccontati da Omero nelle gesta degli eroi Micenei. Poiché per costruire una falange occorreva un gran numero di uomini e grazie al fatto che l'oplita non aveva bisogno del cavallo, che doveva essere spesato dal cavaliere, quindi un'aristocratico, artigiani e mercanti entrarono a far parte dell'esercito ottenendo il diritto di cittadinanza: questo permise che il potere militare finisse nelle mani dei comuni cittadini. Pertanto l'introduzione della guerra oplitica fu uno dei fattori che contribuì a minare il primato dell'aristocrazia, che perse il predominio sulla forza militare. Alla lunga la nuova tecnica di combattimento finì con il creare tensioni anche all'interno della disciplinatissima società spartana.
La falange greca, formazione serrata con cui
combattevano gli Opliti dell'antica Grecia.
Comunque ad Atene e in molte altre città il potere politico era passato nelle mani dell'assemblea dei cittadini, situazione che creava ulteriori tensioni fra Sparta e Atene: entrambe, infatti, costituivano un modello per le opposizioni interne, rispettivamente appoggiate dall'esterno dall'una e dall'altra città. Fu su questo sistema politico fragile e attraversato da laceranti contrasti che si abbattè, nel 490 a.C., la temibile macchina da guerra dell'esercito persiano. Dario inviò in Grecia una potente flotta e un corpo di spedizione forte di ventimila uomini, del quale facevano parte molte truppe non iraniche (questo contingente era in effetti poca cosa per l'esercito del Gran Re, ma era pur sempre più del doppio dell'esercito ateniese). 

Ecateo di Mileto, (Mileto, 550 - 476 a.C.) è stato un geografo e storico greco antico. Visse attorno al 500 a.C. e fu tra i primi autori di scritti di storia e geografia in prosa del mondo greco. I logografi erano uomini che viaggiavano molto e descrivevano i paesi che visitavano nei loro vari aspetti: cultura, storia, geografia del luogo in cui vivevano, tradizioni, usi, costumi, religione. Grazie ai suoi numerosi viaggi lungo l'ecumene, la terra abitata conosciuta allora e formata dall'impero persiano, dalla Grecia, dall'Egitto, dal bacino del Mediterraneo, egli disegnò una carta geografica che perfezionava quella di Anassimandro e fu autore di una Periégesis, forse conosciuta da Erodoto. Essa rappresenta la fase intermedia tra poesia epica e storiografia. Figlio di Egesandro, aristocratico, si vantava, secondo quanto racconta Erodoto (Storie, II, 143), di avere avuto, nella propria genealogia, un dio per antenato della sedicesima generazione: i sacerdoti egiziani del dio Amon gli mostrarono nel tempio ben 345 statue di sacerdoti della stessa stirpe e il più antico di essi era ancora un uomo. Il senso dell'episodio sembra essere che egli cominciasse a considerare razionalmente i miti e a basarsi sui fatti per valutare le tradizioni. Sempre Erodoto (Storie, V, 36) racconta che al tempo della rivolta delle città ioniche contro i persiani (500 - 494 a.C.) Ecateo consigliò di costruire una flotta utilizzando il tesoro del tempio dei Branchidi per poter combattere con successo e fu poi tra gli ambasciatori che trattarono la pace col satrapo Artaferne; anche questo episodio mostrerebbe la sua spregiudicatezza e la sua noncuranza per ciò che allora era considerato sacro e inviolabile. Le Genealogie (Geneelogiai) sono una sua opera in 4 libri di natura storica, con un'esposizione di avvenimenti mitici ordinati cronologicamente per generazioni, in cui una generazione corrisponde a circa quarant'anni. Probabilmente Ecateo considerava il periodo dai deucalionidi, da Prometeo a Eracle. Restano una trentina di frammenti dai quali non si può ricavare carattere e distribuzione della materia trattata anche se sono considerate un tentativo di razionalizzare gli elementi mitici della storia primitiva della Grecia. Nel II libro erano narrati alcuni miti di Eracle e nel IV delle leggende milesie, del popolo degl'Itali e dei Morgeti. Restano frammenti anche del Giro della Terra (Periegesis), opera di natura geografica, pubblicata alla fine del VI secolo, in due libri riguardanti l'Europa e l'Asia, una descrizione di luoghi visitati, con indicazione delle distanze e osservazioni etnografiche: secondo Erodoto, disegnò una carta geografica che rappresentava la Terra come un disco rotondo circondato dall'Oceano, concezione del resto a lui anteriore.
Ecumene di Ecateo di Mileto.
Clicca sull'immagine per ingrandirla.
Esordisce nelle Genealogie con la perifrasi "os emoi dokei", "io scrivo cose che credo vere; invece molti racconti greci sono ridicoli". Questa fu una delle prime individualizzazioni dell'autore nella storia della letteratura, mentre in precedenza (basti pensare ai poemi omerici) lo scrittore non compare nell'opera, anzi essa è raccontata dalla musa per mezzo del poeta, non è frutto della fantasia o dell'abilità del poeta stesso. Considerando leggende molte tradizioni della sua terra, cerca di comprendere i miti, razionalizzandoli: così, per esempio, spiega la leggenda di Eracle che, nel capo Tenaro, scende nell'Ade per portare il cane infernale Cerbero a Euristeo, verificando che in quel luogo non c'è nessuna strada sotterranea e nessun ingresso all'Ade; dunque, secondo lui, Eracle ha semplicemente catturato in quel luogo un comune serpente chiamato, per la sua velenosità, cane dell'Ade. In questo modo il mito viene adattato ai tempi ma mantenuto, perché Ecateo non interpreta e mantiene reali Eracle e l'Ade, che sono i fondamenti della leggenda. È il limite di ogni razionalizzazione: in realtà le mitologie vanno spiegate storicizzandole, cioè comprendendo come e perché siano sorte, altrimenti vengono soltanto modificate, creandone altre, come infatti la storia insegna. Ma Ecateo non poteva “storicizzare”, proprio a causa dell'inesistenza, ai suoi tempi, di una storiografia e perciò di una metodologia storiografica e tuttavia, per il suo sforzo di mettere in discussione le narrazioni del passato, per la ricerca della verosimiglianza dei fatti e il rifiuto dell'autorità, merita il nome di padre della storiografia greca.

Per eventuali approfondimenti vedi "Storia dell'Europa n.18: dal 540 al 500 p.e.v. (a.C.)" QUI.

Dal 499 a.C. - Iniziano gli eventi che porteranno in Grecia le Guerre Persiane: Creso, re di Lidia, che aveva sottomesso le città greche della costa ionica nel 546 a.C. è rovesciato da Ciro il Grande, re di Persia, che si annette anche le città greche dell'Asia Minore.
Bronzetto raffigurante
un Guerriero Greco.

- Nello stesso anno si verifica la prima ribellione delle città greche contro il potere persiano, fomentata dalla città ionica di Mileto, a cui Atene si allea e gli fornisce navi. I Greci milesi incendiano Sardi, vicino capoluogo della Satrapia  Persiana: nell'incendio viene distrutto il tempio di Cibele. Anche Focea aderisce alla rivolta ionica contro Dario I di Persia e Dionisio di Focea comanda la flotta ionica nella battaglia di Lade (494 a.C.), in cui i Focesi poterono schierare solo tre navi su un totale di 350. I persiani vinsero la battaglia e poco dopo schiacciarono la rivolta. A Dario viene riferito che è stata Atene a fornire aiuto alle pòleis Greche ribelli.

Nel 494 a.C. - Il re di Persia Dario saccheggia Mileto e ristabilisce il controllo sulla Ionia, ma chiede ad un servitore di ricordargli, ogni giorno prima dei pasti, della pericolosità degli Ateniesi.

Nel 491 a.C. - A capo di una grande flotta, Dario si dirige su Atene, ma la flotta è distrutta da una tempesta.

Guerre Persiane con le spedizioni di
Dati - Ertafeme e Serse, (490- 480 a.C.)
itinerari e battaglie.
Nel 490 a.C. - Dati, generale del re persiano Dario, intraprende la seconda spedizione (prima guerra persiana) verso Atene. Sapendo che l'armata persiana si dirige su Atene, gli ateniesi chiedono aiuto a Sparta, che detiene la supremazia militare ellenica; Sparta risponde che sono in atto celebrazioni religiose e che al momento non manderanno aiuti. La grande armata persiana è sconfitta a terra dagli Ateniesi guidati da Milziade, che adotta un'astuta strategia di battaglia, a Maratona. Milziade non sa se la flotta Persiana ha raggiunto Atene, e invia un messaggiero, il più veloce e resistente che ha, Filippide, ad avvertire i concittadini della vittoria. Dopo i 42 chilometri di corsa, Filippide riuscirà solo a pronunciare "Nike", "vittoria" e morirà d'infarto. Da questo episodio nasce la maratona sportiva.

Dal 487 a.C. - Ad Atene si assiste al declino del potere dell'Areopago, grazie alla rivoluzione democratica già avviata nel 508/7 a.C. da Clistene, la cui costituzione aveva assegnato il potere a una Bulé composta da cinquecento membri, sorteggiati da una lista di candidati precedentemente eletti dalle tribù ateniesi.

Dal 482 a.C. - Si combattono le guerre fra Roma e Veio. Nel capitolo 43 del suo secondo libro, Tito Livio cita i Veienti: siamo al consolato di Quinto Fabio Vibulano e Gaio Giulio Iullo, ovvero nel 482 a.C. circa. I Veienti, approfittando dell'impegno di Roma per riprendere la supremazia sulle popolazioni latine, ripresero (oppure non avevano smesso) le armi venendo a stento tenuti a freno. L'anno successivo, consoli Cesone Fabio Vibulano e Spurio Furio Fusone, «Gli Equi attaccarono una città latina, Ortona e i Veienti, ormai sazi di bottino, minacciavano di attaccare la stessa Roma.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 43, op. cit.). Gaio Giulio partì contro gli Equi. Fabio portò l'esercito contro Veio. Una pagina nera nella storia dell'esercito romano. Per i motivi di frizione sopra sommariamente descritti, nonostante la bravura militare del console che schierò le truppe per consentire alla sola carica della cavalleria di sgominare il nemico, i fanti, componenti della plebe, si rifiutarono persino di inseguire i nemici in fuga, volsero le spalle e ritornarono agli accampamenti. L'anno seguente l'aristocrazia cambiò tattica: sotto l'impulso di Appio Claudio il senato iniziò a cercare l'aiuto di almeno uno dei tribuni per metterlo contro il collega e neutralizzare, con una forza uguale e contraria, i difensori della plebe. La posta era una delle molte ripresentazioni di una legge agraria che voleva contrastare lo strapotere dei ricchi possidenti. Questi, per potenza economica o politica riuscivano spesso ad impossessarsi dei terreni conquistati dall'esercito dirigendo gli sforzi dell'intera popolazione (anche della plebe) verso poche e ricche tasche. La mossa politica riuscì e «avvenne la partenza per la guerra contro Veio, cui erano giunti aiuti da ogni parte dell'Etruria non per particolare gratitudine ai Veienti, ma per la speranza che quella fosse l'occasione in cui Roma, logorata dalla lotta intestina, potesse subire il tracollo.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 44, op. cit.). La descrizione dei prodromi della battaglia e del suo svolgimento, delle astute resistenze di consoli ad attaccare per aumentare la vergogna e quindi l'ira dei Romani, gli atti di eroismo dei semplici combattenti e dei componenti la gens Fabia che affiancavano il consanguineo console Quinto Fabio e della morte dell'altro console Gneo Manlio Cincinnato merita una voce a sé stante. Questa, ad ogni modo, è la prima descrizione accurata di una battaglia fra Romani e Veienti. In questo periodo i Fabi sorsero in grande importanza all'interno di Roma, la famiglia dava ogni anno un console alla città. L'anno successivo, infatti, Cesone Fabio Vibulano salvò Roma da un attacco dei Veienti che il collega del console, Tito Virginio Tricosto Rutilo aveva sottovalutato. Da quel momento con i Veienti si instaurò una situazione di "non-pace e non-guerra" con azioni di puro brigantaggio nei territori avversari. Gli etruschi non affrontavano le legioni romane ritirandosi dentro le mura e quando i Romani si allontanavano uscivano per compiere razzie. Poiché gli eserciti di Roma erano spesso impegnati in vari altri fronti, i Fabii giunsero a chiedere una sorta di appalto della guerra contro Veio. La città poteva portare i suoi eserciti contro Equi e Volsci; la gens Fabia avrebbe preso su di sé l'intero peso della guerra con Veio, impegnandosi a «salvaguardare l'autorità di Roma nel settore e condurre la guerra come un affare di famiglia finanziandola privatamente senza che la città dovesse impegnare né denaro né uomini.». (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 48, op. cit.). La guerra con Veio diventò endemica generando un famoso episodio della storia di Roma. I Fabii condussero la guerra, una sorta di bracconaggio invero, provocando i Veienti, rubando le loro messi e le loro mandrie, resistendo agli attacchi dei nemici fino a quando questi, stanchi di "perdere la faccia", non si organizzarono, articolando una trappola e trucidando tutti i componenti della gens Fabia nella Battaglia del Cremera. Era il 13 luglio del 477 a.C.; dei Fabii rimase un solo componente, il futuro console Quinto Fabio Vibulano. Come conseguenza i Veienti ripresero coraggio e arrivarono persino al Gianicolo senza saper approfittare dell'occasione. Si fecero sconfiggere nuovamente con un trucco simile a quello utilizzato contro i Fabii e vennero sterminati.

Nel 481 a.C. - Il re persiano Serse I, figlio di Dario, attraversa l'Ellesponto (antico nome dello stretto dei Dardanelli) con un'armata composta da più di 200.000 uomini e fiancheggiata da centinaia di navi (seconda guerra persiana). Capendo che tutta la Grecia è a rischio, si costituisce una lega panellenica, a cui Sparta concederà Leònida, uno dei suoi due re e 300 opliti, il meglio della guardia reale.
Carta con le Termopili e altre battaglie
con i percorsi dei persiani.
Dopo aver sopraffatto al costo di numerosi reparti del suo esercito, compresi gl'immortali, la guardia del grande re persiano, i trecento spartiati del re Leònida e il migliaio di alleati Greci rimasti, al passo delle Termopili, l'armata persiana raggiunge Atene, che è stata abbandonata, la saccheggia e la incendia, templi compresi, vendicandosi finalmente di quello che i greci di Mileto fecero a Sardi. Ma all'isola di Salamina la flotta greca, comandata da Temistocle sconfigge la più imponente flotta persiana. Serse I fugge e i resti delle truppe e della flotta saranno poi vinti dall'alleanza Greca. Dopo la sconfitta di Serse I nel 480 a.C. nella Seconda guerra persiana, Atene accrebbe la propria potenza. Focea entrò nella Lega di Delo emanata dagli ateniesi, pagando ad Atene un tributo di due talenti.

Nel 479 a.C. - Le residue forze di terra persiane sono annientate a Platea. Atene si erge così come la città-stato più influente di tutta l'Ellade, sotto la guida politica di Aristide e impone uno stato di sudditanza alle altre città.

Carta ottenuta dal Periplo di Scilace,
 parte tratta da: QUI.
- Scilàce di Cariànda fu un antico navigatore, geografo e cartografo greco che visse tra il VI e il V secolo a.C. I cartaginesi gli commissionarono alcune esplorazioni, chiedendogliene il resoconto. Il Periplo di Scilace è quindi una descrizione scritta delle coste del Mediterraneo e del Mar Nero, redatta tra il VI e il V secolo a.C. Fra le tante osservazioni, riporta la presenza dei Liguri, mescolati agli Iberi, tra i Pirenei e il fiume Rodano e dei "Liguri veri e propri" sulle coste tra il Rodano e il fiume Arno.  

Parmenide di Elea.
- In Italia, nella Magna Grecia viene fondata un'altra scuola filosofica, la scuola Eleatica, che prese il suo nome da Elea, fondata dai Focei, Velia per i Romani, oggi nel comune di Ascea (Salerno), sulle coste del Cilento, patria dei suoi più importanti esponenti: Parmenide e Zenone. La fondazione della Scuola è spesso attribuita al più anziano Senofane di Colofone ma, sebbene nella sua dottrina ci siano molti elementi che faranno parte integrante della speculazione della Scuola eleatica, è probabilmente più corretto guardare a Parmenide come suo fondatore. Il pensiero di Senofane era più affine alla scuola ionica di Mileto, quella di Talete, Anassimandro e Anassimene. Parmenide di Elea visse all'incirca dal 515 al 460 (secondo altre testimonianze nacque invece intorno al 540 a.C.), e il suo spirito di libero pensiero si sviluppò in senso ontologico. Diceva che l'uomo durante la vita si trova sostanzialmente di fronte due vie: 1) l'alétheia (letteralmente = non velata), il sentiero della Verità, basato sulla ragione, che ci porta a conoscere l'essere vero; 2) la doxa, basata sui sensi, ci fa conoscere l'essere apparente. La sua filosofia si sintetizza in una frase: "L'essere è e non può non essere, il non essere non è e non può essere". Significa che l'essere esiste, il non essere non esiste e non può essere pensato né espresso. L'essere sembra avere delle connotazioni divine perché è: 1) ingenerato e imperituro perché se nascesse o morisse implicherebbe in qualche modo il non essere (in quanto nascendo verrebbe dal nulla e morendo tornerebbe al nulla); 2) eterno; 3) immutabile e immobile perché se si trasformasse o si muovesse diventerebbe qualcosa che prima non era (non essere); 4) unico e omogeneo; 5) finito (nell'antichità il finito è sinonimo di perfezione). Parmenide però poi aggiunse un' altra via: la doxa plausibile, che esclude il non essere facendo leva sul dualismo luce-notte. Questa via dice che gli opposti (luce-notte, maschio-femmina...) sono entrambi essere ma senza entrambi ci sarebbe il nulla. Escludendo il non essere la terza via esclude anche la morte infatti anche il cadavere non è tale perché percepisce silenzio, freddo... In seguito, o perché le sue speculazioni risultavano offensive per i contemporanei cittadini di Elea, o a causa della mancanza di una salda guida, la scuola degenerò concentrandosi su temi eristici e retorici, mentre i migliori frutti di questa corrente furono assorbiti dalla metafisica platonica. Dibattuto è il tema dell'influenza del pensiero di Parmenide su quello di Eraclito o viceversa. Secondo Diogene Laerzio fu il primo ad affermare che la Terra è sferica e occupa il centro dell'universo. Parmenide di Elea distinse due livelli di conoscenza: secondo verità e secondo opinione. Per lui il Sole e la via lattea erano esalazioni di fuoco. Anche la Luna era esalazione di fuoco, ed era illuminata dal Sole. La tradizione lo considera anche il primo ad aver riconosciuto che Espero e Lucifero erano lo stesso astro, il pianeta Venere. Senofane di Colofone fu il primo a muovere all'attacco della mitologia della Grecia arcaica, nella metà del VI secolo a.C., scagliandosi contro l'intero sistema antropomorfico sancito dai poemi di Omero ed Esiodo. Gli eleatici ricercavano un essere unico, eterno, immutabile di fronte al quale il nostro mondo è solo apparenza, e Senofane diceva che gli dei non sono antropomorfi, cioè non hanno caratteristiche e sembianze umane, ma secondo lui esisteva una sola divinità che si identifica con l'universo, un dio-tutto, eterno.

Filosofo greco da alcuni
identificato come Eraclito.
Roma, musei capitolini.
- Eraclito di Efeso (Efeso 535 a.C. - Efeso, 475 a.C.) è stato un filosofo greco antico, uno dei maggiori pensatori presocratici. Il suo pensiero risulta particolarmente difficile da comprendere ed è stato interpretato nei modi più diversi a causa del suo stile oracolare e della frammentarietà nella quale ci è giunta la sua opera. Eraclito aveva comunque fama di cripticità già nella sua epoca. Ad esempio Aristotele, che si suppone ne abbia letto integralmente l'opera, lo definisce «l'oscuro»; persino Socrate ebbe problemi a comprendere gli aforismi dell'«oscuro», sostenendo che erano profondi quanto le profondità raggiunte dai tuffatori di Delo. Eraclito influenzò in vario modo i pensatori successivi: da Platone allo stoicismo, la cui fisica ripropone in gran parte la teoria eraclitea del logos. Della vita di Eraclito si hanno pochissime notizie, così come della sua opera filosofica sono sopravvissuti soltanto pochi frammenti. Il nome "Eraclito" (Herákleitos) ha lo stesso significato di quello di Eracle, cioè "gloria di Era". Nacque in una famiglia aristocratica; il padre, dal nome incerto era un discendente di Androclo, il fondatore di Efeso, e possedeva mezzo stadio di terra e una coppia di buoi.

Zenone di Elea.
Zenone di Elea (in greco: Ζήνων, Zenon; 489 a.C. - 431 a.C.) è stato un filosofo greco antico presocratico della Magna Grecia e un membro della Scuola eleatica fondata da Parmenide. Aristotele lo definisce inventore della dialettica. È conosciuto soprattutto per i suoi paradossi, che Bertrand Russell definì come «smisuratamente sottili e profondi». Vi sono poche notizie certe sulla vita di Zenone. Anche se composta quasi un secolo dopo la morte di Zenone, la principale fonte di informazioni biografiche sul filosofo è il dialogo “Parmenide” di Platone. Nel dialogo, Platone descrive una visita di Zenone e Parmenide ad Atene, nel periodo in cui Parmenide ha "circa 65 anni", Zenone "quasi 40" e Socrate è "un uomo molto giovane". Grazie a queste indicazioni, attribuendo a Socrate un'età di 20 anni e assumendo come data di nascita di quest'ultimo il 469 a.C., è possibile stimare la nascita di Zenone nel 490 a.C. Di Zenone Platone ci dice che era "alto e di bell'aspetto" e che "venne identificato in gioventù come l'amante di Parmenide". Altri dettagli, forse meno affidabili, sono contenuti nelle “Vite dei filosofi” di Diogene Laerzio, dove si riporta che Zenone era figlio di Teleutagora, ma figlio adottivo di Parmenide, e che inoltre era "abile a sostenere entrambi i lati di ogni discorso" e che venne arrestato e forse ucciso dal tiranno di Elea. Secondo Plutarco, Zenone tentò di uccidere il tiranno Demilo e, avendo fallito, per non rivelare l'identità dei suoi complici, "con i suoi stessi denti si strappò la lingua e la sputò in faccia al tiranno". Ciò che si è conservato delle concezioni di Zenone è stato tramandato da Platone nel Parmenide e da Aristotele, che nel suo scritto Fisica[8] ne analizza il pensiero, definendo l'eleate "scopritore della dialettica". Diogene Laerzio, nel suo Vite dei filosofi[9], racconta della valenza politica di Zenone, il quale avrebbe ordito una congiura contro il tiranno della sua città natale (tale Nearco, o Diomedonte). Zenone è conosciuto soprattutto per i suoi paradossi formulati in relazione alla tesi della impossibilità del moto. Oggi sono conosciuti con il nome di paradossi di Zenone. Tre di essi, in particolare, sono noti come "paradosso dello stadio", "paradosso di Achille e la tartaruga", "paradosso della freccia". In tutti il fine è quello di dimostrare che accettare la presenza del movimento nella realtà implica contraddizioni logiche ed è meglio quindi, da un punto di vista puramente razionale, rifiutare l'esperienza sensibile ed affermare che la realtà è immobile. Questi paradossi implicano anche il concetto di infinita divisibilità dello spazio ed è questa la ragione per cui hanno ricevuto una notevole attenzione da parte dei matematici. Infatti il filosofo sosteneva che per raggiungere un punto preciso, bisogna prima raggiungerne il punto medio. Per giungere ad esso si deve arrivare a sua volta al suo punto medio, e ancora al punto medio del punto medio ecc, fino a che non ci si ritrova nello stesso identico punto in cui siamo al momento della partenza, e quindi il movimento non esiste, ma è soltanto un concetto che noi percepiamo. A mettere in discussione le affermazioni di Zenone interviene Aristotele, dicendo che Zenone si sbagliava, poiché il movimento è un insieme di punti distinti soltanto in "potenza", e non in "atto". In atto il tempo e lo spazio sono un tutt'uno, di punti non distinti tra loro. Sulle orme di Parmenide, Zenone tenta di affermare - attraverso la dialettica e la logica - le teorie di immutabilità dell'Essere, riducendo all'assurdo il suo contrario. Le tesi confutate da Zenone appartengono ai pitagorici, convinti della molteplicità dell'Essere in quanto numero, e ad Anassagora e Leucippo, suoi contemporanei, il primo esponente della teoria dei semi (spermata in greco) chiamati da Aristotele "omeomerie" e il secondo dell'atomismo. Zenone fu discepolo prediletto di Parmenide

Un'antica trireme greca ricostruita.
Navi lunghe e strette, veloci e molto
manovrabili, l'impiego delle triremi
è stato decisivo nella battaglia
di Salamina.
Nel 478 a.C. - Viene creata in Grecia la Lega Delio-Attica che vanta vittorie contro Cartagine  e gli Etruschi. La qualità speculativa della ragione e la nuova consapevolezza di libertà individuale (ottenuta parallelamente alla creazione di un mercato di schiavi), ha elaborato nuove forme di governo del potere nella res-pubblica: la Democrazia. Il potere è condiviso dalle varie parti della società degli uomini liberi, con e senza possedimenti fondiari, la terra: unici esclusi sono gli schiavi, ritenuti più merci che persone. Il culmine dello splendore politico e culturale di Atene è raggiunto con Pericle. Accentuato il carattere democratico con leggi che consentivano ai cittadini delle classi meno abbienti di accedere a cariche pubbliche. Favorito il sorgere di regimi democratici anche in altre città.
Atene, Eretteo - Loggia delle cariatidi.
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Durante l'Età di Pericle si ha la costruzione del Partenone, dell'Eretteo, dei Propilei e di altri edifici pubblici. La letteratura si esprime con le tragedie di Eschilo, Sofocle e Euripide le commedie di Aristofane, la filosofia splende con Socrate e Platone. Con il governo di Pericle, l'artefice della democrazia ateniese, e sotto la supervisione dello scultore Fidia, la rocca di Atene si trasformò in un frenetico cantiere dove affluivano gli ingegni e gli artisti migliori del tempo. Si costruirono il Partenone, tempio così chiamato da Athena Parthénos, la dea protettrice della città; i Propilei, cioè l'ingresso monumentale all'area sacra; il Tempio di Atena Nike, di piccole dimensioni ma di squisita eleganza; l'Eretteo, un tempio costituito da diversi ambienti tra cui la celebre Loggia delle Cariatidi, dove le colonne sono sostituite da eleganti figure femminili.

Pericle.
- Pericle, in greco Περικλῆς, Periklēs, "circondato dalla gloria" (nato a Cholargos nel 495 a.C. circa, morto ad Atene nel 429 a.C.), è stato un politico, oratore e stratega ateniese durante il periodo d'oro della città, tra le Guerre Persiane e la Guerra del Peloponneso. Discendeva, da parte di madre, dalla potente e storicamente influente famiglia degli Alcmeonidi. Pericle ebbe una così profonda influenza sulla società ateniese che Tucidide, uno storico contemporaneo a lui, lo acclamò "Primo cittadino di  Atene". Durante i primi due anni delle Guerre del Peloponneso, Pericle fece della Lega Delio-Attica (una alleanza fra Atene e altre città, con Delo, isola sacra poiché ritenuta il luogo di nascita di Apollo, come riferimento per l'alleanza), un impero comandato da Atene. Promosse le arti e la letteratura; questa fu la principale ragione per la quale Atene detiene la reputazione di centro culturale dell'Antica Grecia. Cominciò un progetto ambizioso che portò alla costruzione di molte opere sull'Acropoli (incluso il Partenone, il "tempio della vergine", dedicato ad Atena con un imponente statua d'oro e avorio, alta venticinque metri, costruita da Fidia). Sotto il governo di Pericle, Atene raggiunse il massimo sviluppo democratico, con l'istituzione dell'assemblea cittadina come capo della Lega Delio-Attica. Per avere informazioni sulla vita di Pericle, visualizza il post "Paolo Rossi: Pericle e la Democrazia" cliccando QUI. Ecco il suo Discorso agli Ateniesi riportato da Tucidide in "La guerra del Peloponneso" II, 37-41: "Qui ad Atene noi facciamo così: qui il nostro governo favorisce i molti, invece dei pochi, e per questo viene chiamato democrazia. Qui ad Atene noi facciamo così: le leggi, qui, assicurano una giustizia eguale per tutti nelle loro dispute private, ma noi non ignoriamo mai i meriti dell’eccellenza, quando un cittadino si distingue, allora esso sarà a preferenza di altri chiamato a servire lo stato, ma non come un atto di privilegio, come una ricompensa, al merito, e la povertà non costituisce un impedimento. Qui ad Atene noi facciamo così: la libertà di cui godiamo si estende anche alla vita quotidiana, noi non siamo sospettosi l’uno dell’altro, e non infastidiamo mai il nostro prossimo, se al nostro prossimo piace vivere a modo suo, noi siamo liberi, liberi di vivere, proprio come ci piace, e tuttavia siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo. Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari, quando attende alle proprie faccende private, ma soprattutto non si occupa dei pubblici affari per risolvere le sue questioni private. Qui ad Atene noi facciamo così: ci é stato insegnato di rispettare i magistrati e ci è stato insegnato anche di rispettare le leggi, e di non dimenticare mai coloro che ricevono offesa, e ci è stato anche insegnato di rispettare quelle leggi non scritte, che risiedono nell’universale sentimento di ciò che è giusto, e di ciò che è buonsenso. Qui ad Atene noi facciamo così: un uomo che non si interessa allo stato noi non lo consideriamo innocuo, ma inutile, e benché in pochi siano in grado di dar vita a una politica, beh, tutti qui ad Atene siamo in grado di giudicarla. Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia. Noi crediamo che la felicità sia il frutto della libertà, ma la libertà sia solo il frutto del valore. Insomma io proclamo Atene scuola dell’Ellade, e che ogni ateniese cresce prostrando in se una felice versatilità, la fiducia in se stesso e la prontezza a fronteggiare qualsiasi situazione. Ed é per questo che la nostra città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno straniero.
Qui ad Atene noi facciamo così!"

Anassagora.
- Anassagora di Clazomene visse all'incirca dal 500 al 430 a.C. E' probabile che abbia trascorso la sua giovinezza nella natia Ionia (Clazomene era una città nelle vicinanze di Smirne). Le fonti più importanti su Anassagora sono Aristotele, Platone, Teofrasto, Aetius, Plutarco, Ippolito. Si dice che, di famiglia facoltosa, abbia trascurato le ricchezze per dedicarsi allo studio. Si dice anche che sia stato lui il primo filosofo ad introdurre in Atene la filosofia (fino ad allora confinata alla Ionia) quando, poco più che ventenne, vi si trasferì. E' largamente accettato che ad Atene egli divenne amico di Pericle, più giovane di lui di cinque anni. Ma, come è noto, l'amicizia con Pericle gli costò cara: i nemici politici di Pericle per colpirlo si rifecero su Anassagora facendolo imprigionare e costringendolo all'esilio. Sembra addirittura che il provvidenziale intervento di Pericle abbia salvato Anassagora da sanzioni più gravi. Le accuse ad Anassagora consistevano, come è noto, nell'aver egli affermato che il Sole non era altro che "una pietra infuocata" (evidentemente, nell'Atene del 450 a.C. l'attitudine mentale tradizionale era ancora fortemente legata a valori sacrali e lo svilirli a una interpretazione naturalistica non poteva ancora essere accettato). Comunque, Anassagora si rifugiò a Lampsaco (sulla costa orientale dell'Ellesponto), dove si dice abbia fondato una Scuola filosofica. Nella dottrina filosofica di Anassagora si aveva una accentuazione del nous inteso come "mente", oppure "ragione", cioè disanima dei fenomeni secondo principi di razionalità. Secondo Aetius (che cita Teofrasto), Anassagora sosteneva che la Luna brilla di luce non propria ma riflessa dal Sole, così come la pensava Parmenide. Ippolito e altri ci informano delle corrette interpretazioni date da Anassagora, per primo, delle modalità del compiersi delle eclissi di Sole e di Luna. Sulle modalità di svolgimento delle eclissi di Luna, comunque, Anassagora introduce una credenza erronea, ammettendo la possibilità che ad oscurare la Luna siano anche altri corpi interposti. C'è un notevole grado di incertezza su quanto fossero estese le sue cognizioni matematiche. Vitruvio ci dà una intrigante informazione su Anassagora. Ci dice che, mentre si trovava in prigione, scrisse un trattato nel quale si davano istruzioni su come dipingere gli scenari per le commedie che venivano rappresentate ad Atene: come dovevano essere dipinti i pezzi che dovevano apparire sullo sfondo, e come quelli che dovevano apparire in primo piano. Si potrebbe arguire da ciò che Anassagora produsse una specie di trattato sulla prospettiva ma manca completamente qualunque altra notizia che confermi queste affermazioni di Vitruvio. E' noto anche la battuta con la quale si dice abbia risposto a che gli chiedeva quale riteneva fosse lo scopo della sua vita: "Investigare il Sole, la Luna e le stelle".

Empedocle.
- Empedocle di Agrigento visse all'incirca dal 480 al 420 a.C. Aristotele dice che morì ad Atene all'età di 60 anni, mentre secondo un'altra tradizione sarebbe precipitato nel cratere dell'Etna. Delle due opere certamente attribuitegli ci restano ampi frammenti: 100 versi del poema "Purificazioni" e 400 versi di "Sulla natura". Ispirandosi al pensiero di Eraclito, di Pitagora e di Parmenide, formulò la dottrina dei quattro elementi, da lui detti in realtà radici, più tardi riconosciuti come i quattro elementi naturali (aria, fuoco, terra e acqua). Accettò l'idea di Parmenide secondo cui la Luna rifletteva la luce solare e dette una spiegazione corretta del meccanismo delle eclissi solari. Aristotele sosteneva che Anassagora era prima di Empedocle per età ma dopo di lui per opere. Teofrasto sostiene che Aristotele riteneva Anassagora inferiore ad Empedocle nel pensiero. Aristotele riporta anche che Empedocle ebbe l'intuizione fisica importantissima secondo cui la velocità della luce era finita, per cui impiegava un certo tempo a percorrere una distanza.

Nel 475 a.C. - Si arriva all'alleanza di Roma con i Sabini. Publio Valerio Publicola, il console, si fece aiutare dai socii Latini ed Ernici ed entrò in contatto con Veienti e Sabini. Per prima cosa si scagliò contro i Sabini, ne espugnò l'accampamento mettendo in crisi anche la fiducia dei Veienti che stentarono ad organizzare una difesa comune. Questa difesa non ebbe grande riuscita. La cavalleria di Valerio riuscì a scompaginare i difensori e a sbaragliare gli Etruschi. Appena in tempo per fermare un attacco dei Volsci che a loro volta approfittavano delle difficoltà romane per compiere razzie e devastazioni. I consoli dell'anno successivo furono Lucio Furio Medullino e Gaio Aulo Manlio. A quest'ultimo fu affidata l'ennesima guerra con Veio. I risultati furono notevoli; i Veienti, senza combattere, chiesero e ottennero una tregua di quarant'anni.

Questo elmo appartenne a un
guerriero etrusco e fu preso a
simbolo della vittoria dei
siracusani contro la flotta
etrusca a Cuma nel 474 a.C.
Fu ritrovato durante gli scavi
di Olimpia, dove era stato
probabilmente offerto dallo
stesso Ierone, tiranno di
Siracusa, che si fregiava della
decisiva vittoria che aveva
segnato il definitivo declino
della potenza marittima degli
Etruschi nel mare Tirreno.
Londra, British Museum.
Nel 474 a.C. - La flotta riunita delle città-stato costiere dell'Etruria meridionale, Cere e Tarquinia, naviga verso sud-est lungo la costa laziale con l'obiettivo di attaccare e  conquistare la colonia greca di  Cuma. Dopo la prima battaglia di Cuma del 525 a.C., i rapporti fra Etruschi e Greci erano diventati ancora più conflittuali dopo la battaglia di Aricia del 505 - 504 a.C., quando la sconfitta degli Etruschi da parte di un'alleanza Greco-Latina aveva determinato la fine del commercio via terra tra l’Etruria e la Campania  attraverso il Lazio, interrotto inizialmente dai Latini dopo la caduta della monarchia e della dinastia etrusca a Roma. Per questo motivo la via marittima diventava sempre più strategica per gli Etruschi che vedevano proprio nella città di Cuma, con il suo porto ben organizzato, una seria minaccia per la loro navigazione. L’attacco etrusco alla città greca prevedeva un assalto combinato da terra e dal mare. Ma i Cumani vennero a conoscenza in anticipo della strategia etrusca e chiesero aiuto a Ierone I (o Gerone), tiranno di Siracusa, che non esitò a inviare in soccorso la sua intera flotta. Proprio quando gli Etruschi stavano iniziando l’operazione di accerchiamento da terra e dal mare spuntò, inattesa, la flotta da guerra di Siracusa, composta da moderne triere, che gettò nello scompiglio le navi etrusche che furono costrette a invertire la rotta e a dirigersi contro il nemico. Lo scontro probabilmente avvenne in mare aperto presso il vicino capo Miseno dove, ai piedi della scogliera alta 160 metri a picco sul mare, si accese una sanguinosa battaglia con un corpo a corpo tra navi che penalizzava fortemente i legni etruschi, più agili ma meno potenti e veloci delle triere greche. I Siracusani affondarono e catturarono numerose navi, costringendo alla fuga le poche superstiti. L’esercito di terra, intimorito e scoraggiato, tolse l’assedio a Cuma e tornò in patria. Ierone lasciò un presidio sull'isola di Pitecusa (Ischia). Con la seconda battaglia di Cuma e la disfatta degli Etruschi, fu ristabilito il controllo greco della costa e si indebolì la presenza degli Etruschi in Campania

Nel 470 a.C. - Ad opera dei Cumani, è fondata, ad oriente del primitivo insediamento di Partenope, la "città nuova", Neapolis, che vide un rapido sviluppo favorito dal declino del potere siracusano e da uno stretto legame con Atene. Partenope assumerà nel tempo il nome di Palaepolis, "città vecchia". Nel 421 a. C. le popolazioni italiche dell'entroterra conquisteranno sia Capua che Cuma, lasciando invece indenne Neapolis, che comunque risentirà fortemente della loro influenza.

Nel 462/461 a.C. - Ad Atene, Efialte e Pericle limitano definitivamente i poteri dell'Areopago, che passa a occuparsi solamente dei reati relativi al sacrilegio e all'omicidio volontario. L'organismo riacquisterà importanza col declino della democrazia e il sorgere della civiltà ellenistica.

Nel 453 a.C. - La realizzazione della fortificazione di Genova, sembra rispecchiare una pressante esigenza di difesa, forse in relazione alla situazione di insicurezza determinata dalle incursioni dei greci Siracusani nell’alto Tirreno nel 453 a.C. contro l’isola d’Elba e la Corsica.


Le colonne del tempio di Saturno,
 nel Foro di Roma.
Nel 451/450 a.C. - A Roma vengono scritte le leggi delle XII Tavole (duodecim tabularum leges), un corpo di leggi compilato dai decemviri legibus scribundis, contenenti regole di diritto  privato e  pubblico derivate da pronunce pontificali tramandate oralmente per molto tempo. Rappresentano la prima codificazione scritta del diritto romano, dopo i più antichi mores (consuetudini o costumi) e la lex regia, non scritti. « [...] mi pare che il solo libro delle XII tavole superi per autorità ed utilità le biblioteche di tutti i filosofi » (Marco Tullio Cicerone, De Oratore, I - 44, 195). Le fonti antiche, per giustificare questa innovazione, accennano a contatti con Ermodoro di Efeso, discendente del filosofo Eraclito e in effetti proprio nel VI-V secolo a.C., il mondo greco conobbe la legislazione scritta. Il tribuno della plebe Gaio Terenzilio Arsa aveva proposto, nel 462 a.C., la nomina di una commissione composta da appositi magistrati con l'incarico di redigere un codice di leggi scritte per sopperire all'oralità delle consuetudini (i mores) allora in vigore. Il Senato, dopo un'iniziale opposizione (la proposta fu riformulata l'anno seguente dai cinque tribuni della plebe), votò nel 454 a.C. l'invio di una commissione di tre membri nominati dai concilia plebis in Grecia, per studiare le leggi di Atene e delle altre città. Tito Livio ci fornisce i nomi dei tre componenti la commissione: Spurio Postumio Albo Regillense, Aulo Manlio Vulsone e Servio Sulpicio Camerino Cornuto. Nel 451 a.C. fu istituita una commissione di decemviri legibus scribundis che rimpiazzò le magistrature ordinarie, sia patrizie che plebee, sospese in quell'anno. I componenti della commissione furono scelti tra gli ex-magistrati patrizi. Lo stesso Tito Livio ce ne fornisce i nomi: Appio Claudio Crasso, console; Tito Genucio Augurino, console; Tito Veturio Crasso Cicurino; Gaio Giulio Iullo; Aulo Manlio Vulsone; Servio Sulpicio Camerino Cornuto; Publio Sestio Capitone; Publio Curiazio Fisto Trigemino; Tito Romilio Roco Vaticano; Spurio Postumio Albo Regillense. Seguendo il testo liviano furono nominati decemviri i tre della commissione inviata ad Atene, in qualità di "esperti" e "gli altri furono eletti per far numero" (supplevere ceteri numerum). Le Dodici Tavole (non sappiamo se di legno di quercia, d'avorio o di bronzo) vennero affisse nel foro, dove rimasero fino al saccheggio ed all'incendio di Roma del 390 a.C. da parte dei Celti di Brenno. Cicerone narra che ancora ai suoi tempi (nel I secolo a.C.) il testo delle Tavole veniva imparato a memoria dai bambini come una sorta di poema d'obbligo (ut carmen necessarium) e Livio le definisce come “fonte di tutto il diritto pubblico e privato (fons omnis publici privatique iuris)”. Il linguaggio delle tavole è ancora un linguaggio arcaico ed ellittico. Alcuni studiosi suppongono che le norme siano state scritte in metrica, per facilitarne la memorizzazione. Secondo lo storico Ettore Pais, i redattori non introdussero grandi novità ma si sarebbero limitati a redigere per iscritto gli antichi mores. Per il testo delle Tavole vedi QUI.

Insediamenti europei dei Celti dopo
Golasecca: Hallstatt, La Tène.
Dal 450 a.C. - Si sviluppa in Europa centro-occidentale la  cultura celtica di La Tène, preceduta dalla cultura di Hallstatt e prima ancora da quella di Golasecca.
Cartina dell'Europa intorno
al 500 a.C.: le città e le vie
dell'Ambra, in nero e rosso, i siti
di rinvenimento di Ambra in rosso.
La fine della cultura di Hallstatt, dovuta probabilmente a conflitti interni, con nuovi ceti che aspirano al potere e soppiantano la vecchia aristocrazia hallstattiana, segna l'inizio della  cultura di La Tène (450 - 50 a.C.), sviluppatasi sul lago di Neuchâtel (nell'attuale Svizzera occidentale) e caratterizzata, oltre che da una spettacolare attività artigianale e artistica, soprattutto dalla nascita di una forte rete di commercio di massa (armi e accessori in ferro, suppellettili in oro, argento e ambra) e dalla conseguente nascita di una proto-borghesia. 
OGHAM, l'alfabeto celtico. Ogni 
OGHA, simbolo-lettera, è l'iniziale
di un'albero-pianta, con i nomi
 in gaelico: inoltre qui indichiamo la
corrispondenza con il calendario
 arboricolo proposto da Robert
Graves.
Mentre fin dal 700 a.C. circa si era consolidata ed espansa la cultura celtica di Golasecca sul Ticino italico, nucleo primario della presenza dei Celti nella Gallia Cisalpina italica e nelle Marche più a sud-est, dalla zona tra  basso Rodano e alto Danubio, il cui centro era La Tène, principalmente per ragioni demografiche di sovrappopolamento, dal 450 a.C. l'espansione  dei Celti interesserà l'Europa centrale, le isole britanniche (già raggiunte da una prima ondata precedente) e la penisola iberica  (chiamati poi Celtiberi) e successivamente i territori dei Balcani, in cui vennero a contatto con l'impero di Alessandro Magno e svolsero attività di mercenari, mentre una parte ritornò verso l'Asia Minore (i Galati). 

Per eventuali approfondimenti vedi "Storia dell'Europa n.19: dal 500 al 450 p.e.v. (a.C.)" QUI.

Dal 443 a.C. - Fino al 350 d.C. nell'antica Roma è istituita la magistratura del Censore. L'esercito dell'antica Roma era composto da proprietari di beni, che avessero interessi materiali nell'autonomia dello Stato: terreni coltivati o/e capi di bestiame. Il loro "censo", la quantità dei beni posseduti, ne determinava il ruolo all'interno dell'esercito stesso, per cui era necessario tenere aggiornati i registri dei "censimenti" per stabilire una sincronizzazione fra la composizione dell'esercito e il censo dei cittadini che ne facevano parte. Inoltre con la nota censoria si punivano infrazioni nell'ambito della disciplina militare, gli abusi dei magistrati nei loro ruoli, gli eccessi nel lusso, ecc. La nota censoria causava una riprovazione morale che comportava ignominia.

L'Ecumene di Erodoto di Alicarnasso
che svolse la sua attività intorno
agli anni 440 - 425 a.C. I viaggi
che portò a termine gli consentirono
di allargare enormemente le
conoscenze geografiche dei suoi
contemporanei. Da https://digi
Dal 440 a.C. - Nell'ecumene di Erodoto di Alicarnasso, redatto tra il 440 - 425 a.C., troviamo i Liguri dalla foce dello Jùcar, in Iberia, fino alla pianura padana.

- In quegli anni, in Grecia, visse Democrito. La vita di Democrito di Abdera è collocabile tra gli anni 470 e 400 a.C. Discepolo di Leucippo, è considerato il più autorevole rappresentante della scuola atomistica. Ricollegandosi alla ricerca dell'arché, vide il principio originario del mondo in particelle di materia più o meno piccole, non ulteriormente divisibili: gli atomi.
Democrito
Secondo Democrito, tutto ciò che esiste nel mondo è prodotto dalle varie combinazioni degli atomi. Essi sono le uniche realtà durevoli e l'esistenza del vuoto è condizione indispensabile al loro movimento. Democrito è anche considerato il primo pensatore ad aver introdotto il concetto di infinità del cosmo. Le idee filosofiche di Democrito (e Leucippo) furono riprese e sviluppate da Epicuro. L'atomismo conobbe poi una certa popolarità tra la fine del secolo XVI e la fine del XVII (anche se non contribuì direttamente alla nascita dell'atomismo moderno). Le migliori fonti su Democrito sono Epicuro, che fu uno strenuo sostenitore dell'atomismo e Aristotele, che lo osteggiò altrettanto strenuamente. Si sa che Democrito fu istruito da precettori Caldei che gli insegnarono, tra l'altro, l'astronomia. Si dice anche che abbia completato la sua istruzione recandosi in Egitto e in Persia. A Democrito si attribuiscono molte opere, andate tutte perdute. Tra esse una "Grande cosmologia" e una "Piccola cosmologia". Diogene Laerzio da una lista delle opere scritte da Democrito, tra esse cita "Sui numeri", "Sulla geometria", "Sulle tangenti", "Sulle mappe", "Sugli irrazionali". Concepì la Via Lattea come una banda di luce costituita di stelle molto piccole e fittamente raggruppate. Elaborò anche un calendario astronomico che presenta un grande interesse perché vi sono descritti eventi astronomico-astrologici collegati a fenomenologie terrestri, oppure viene data una corretta interpretazione nell'associare l'inondazione del Nilo alla stagione delle piogge che si manifestano a monte. E' stato recentemente accertato che Archimede afferma nel "Metodo" che Democrito affermò  importanti teoremi su figure geometriche solide con un anticipo di circa cinquant'anni su Eudosso. Ecco infine un esempio di speculazione geometrica di Democrito che ci viene da Plutarco: "Se un cono venisse tagliato con un piano parallelo alla base, cosa dovremmo pensare confrontando la grandezza delle due superfici circolari? Se pensiamo che sono disuguali dovremmo anche ammettere che la superficie del cono abbia delle indentature. Se pensiamo che sono uguali dovremmo anche ammettere che il cono gode delle proprietà di un cilindro".

Rappresentazione
di Filosofo greco.
Gli anni dal 470 al 400 a.C. furono quelli tra i quali si estese la vita di Metone di Atene e quelli dal 460 al 390 a.C. quelli della vita del suo discepolo e collaboratore Eutemone. Questi due astronomi vengono spesso citati assieme. Due sono i contributi fondamentali che vengono loro attribuiti e che li fanno considerare tra gli iniziatori dell'astronomia scientifica greca: l'osservazione del solstizio estivo del 432 a.C. e l'introduzione del ciclo lunisolare di 19 anni. Il primo contributo fa parte del primo tentativo (di cui si abbia notizia) di stabilire la durata dell'anno conteggiando il numero di giorni che intercorrevano tra solstizi ed equinozi. Tolomeo dice nell'Almagesto che il solstizio estivo osservato fu durante l'arcontato di Apseudes, il mattino del 21esimo giorno del mese egizio di Phamenoth (27 giugno del 432 a.C.). Questa osservazione è molto importante perché venne usata da generazioni di astronomi successive. Per quanto riguarda la durata delle stagioni, ci si rifà ad un papiro del II secolo d.C. che viene denominato Ars Eudoxii, considerato una specie di brogliaccio di esercitazioni sull'opera di Eudosso e che attribuisce ai due la misura della durata delle stagioni in giorni, a cominciare dall'estate, con i valori 90, 90, 92 e 93. La maggior parte dei commentatori tende a prestare poca fede sui dati di questo papiro posteriore a Metone di più di 600 anni. Si tende a ritenere che la prima effettiva misura di durata delle stagioni sia quella eseguita da Callippo un secolo dopo Metone. L'indagine astronomica sulla durata dell'anno e delle singole stagioni doveva comunque già essere stata affrontata ai tempi di Metone ed Eutemone, perchè misurando le durate delle stagioni si poteva verificare l'assioma della uniformità del moto solare. A questo proposito va ricordato che nell'astronomia greca si ebbe fin dagli inizi, il sospetto latente, che perdurò fino ai tempi di Ipparco, circa una durata variabile dell'anno tropico. Diodoro Siculo dice che il ciclo lunisolare di 19 anni venne introdotto da Metone pure nel 432. Abbiamo visto che era stato introdotto (ed adottato) in Babilonia una cinquantina di anni prima. Non si è in grado di stabilire se Metone lo apprese dai Babilonesi o se fu il frutto di suoi studi. L'eguaglianza tra il numero di giorni di 235 mesi lunari e il numero di giorni di 19 anni non deve essere stata di molto difficile determinazione, per cui ad essa potrebbe essere pervenuto Metone indipendentemente. Le città greche non lo adottarono con uniformità. Si limitarono a tenerne conto per tenere sotto controllo le intercalazioni dei mesi. Ma inizialmente la scoperta di questo ciclo fu molto celebrata ad Atene. Si dice che il numero che ogni anno aveva nel ciclo venisse esposto nel Partenone su un'iscrizione d'oro, dando con ciò origine alla denominazione di numero d'oro. Ancora oggi del ciclo di Metone viene tenuto conto dalla Chiesa nel calcolo della data della Pasqua, in funzione di alcune costanti, tra le quali anche il numero d’oro. Per una convenzione stabilita da Dionigi il Piccolo, l’anno 1 a.C. corrisponde all’anno 1 del ciclo di Metone. Dionigi, monaco di origine orientale vissuto a Roma a cavallo tra il V e il VI secolo della nostra era, è ricordato, tra l’altro, per aver riformato il sistema di datazione a partire dalla nascita di Gesù Cristo, data che venne da lui fissata al 25 dicembre dell’anno 758 dalla fondazione di Roma, introducendo con ciò un errore di calcolo di circa 5 anni. Il numero d’oro di un anno qualunque (che è il numero d’ordine dell’anno all’interno del ciclo) è dato dal resto della divisione dell'anno + 1 per 19. Per esempio, per l’anno 2000 abbiamo: (2000 + 1) / 19 = 105 con resto 6: siamo cioè nel 105º ciclo di Metone, e il numero d’oro per l’anno 2000 è il 6.

Ricostruzione di come si doveva
 presentare il Partenone di
Atena, in stile Ionico, progettato
 da Fidia, nell'antica Atene.
- Per i Greci il tempio doveva esprimere un'idea di bellezza e armonia tra le parti, per questo alla sua costruzione partecipavano i più abili architetti del tempo. Presso il cantiere, le maestranze prima sbozzavano i blocchi facendo assumere loro la forma desiderata, poi servendosi di funi e carrucole, li collocavano nel punto stabilito dall'architetto. L'esterno del tempio veniva successivamente decorato da rilievi e da sculture, a volte dipinte con colori vivaci; i rilievi ornavano sia il frontone sia il fregio. Il tempio più ammirato dell'acropoli di Atene fu sicuramente il Partenone. Ciò che rendeva questo edificio il caposaldo dell'arte greca era soprattutto la ricchezza delle sue decorazioni, superiori a qualsiasi edificio mai costruito. L'artista chiamato a dirigere questo immenso cantiere fu lo scultore Fidia, uno dei più grandi artisti di tutti i tempi. Il tempio rappresentava per i Greci la costruzione più perfetta e armoniosa.
Ordine Dorico.
Per raggiungere questa perfezione gli architetti si servivano di regole geometriche e matematiche con cui legare ogni dettaglio all'edificio.
Questi diversi modi di concepire la costruzione di un tempio sono stati chiamati «ordini». Gli ordini utilizzati dai Greci sono tre:

- Dorico (dal nome del popolo dei Dori). Si caratterizza per l'essenzialità e la solennità delle sue forme. La colonna dorica non ha una base, poggia direttamente sullo stilòbate (il pavimento del tempio), si restringe verso l'alto ed è solcata da scanalature tagliate a spigolo vivo. Il capitello ha una forma semplice che serve a sostenere i blocchi di pietra rettangolare che formano l'architrave. La decorazione del fregio è costituita da lastre scolpite dette mètope alternate da pannelli solcate da tre scanalature detti triglìfi.

Ordine Ionico.
- Ionico (dal nome del popolo degli Ioni). Si caratterizza per una maggiore eleganza e leggerezza rispetto a quello dorico. La colonna non poggia direttamente sullo stilòbate, ma ha una propria base (o plinto) costituita da rientranze e sporgenze. Le scalanature sono più numerose e meno profonde. Il capitello è decorato da òvoli (così chiamati per la forma che ricorda delle mezze uova) e da due eleganti volute che si piegano lateralmente.

Ordine Corinzio.
- Corinzio (dal nome della città di Corinto). L'ordine corinzio fu impiegato soprattutto per l'interno dei templi. Il fusto della colonna corinzia (simile a quella ionica) è sollevato da una pedana di marmo posta sotto la base. Il capitello è la parte che caratterizza maggiormente l'ordine corinzio; le sue forme ricordano un cesto di vimini da cui fuoriescono delle foglie stilizzate di acànto.

"Hermes con Dioniso"
di Prassitele: nella
cultura greca l'eroe era
rappresentato nudo.
- Nelle sculture dell'età arcaica e classica, gli artisti della Grecia antica cercarono di produrre delle opere ideali, in grado di non sfigurare al cospetto delle divinità. Questo risultato fu raggiunto, specialmente nella scultura a tutto tondo, attraverso un lungo e ininterrotto processo di perfezionamento formale. Le prime testimonianze appartengono all'età arcaica, tra il VII e il VI secolo a.C.: si tratta di giovani nudi o di fanciulle vestite caratterizzati dalla fissità dell'espressione. Durante l'età classica (V-IV secolo a.C.), uno studio più attento del movimento e dell'anatomia umana permise agli scultori di raggiungere traguardi di sorprendente bellezza e armonia. I Greci idealizzavano la bellezza fisica, a cui doveva sempre rispondere la bellezza interiore: l'una doveva essere lo specchio dell'altra. Le opere di Policleto, di Mirone e di Prassitele testimoniano lo straordinario livello raggiunto nella ricerca delle proporzioni. Bisogna tuttavia ricordare che nessuna di queste statue è da intendersi come il ritratto di persone realmente esistite: sono piuttosto la rappresentazione delle qualità fisiche e morali del genere umano e, proprio perché distaccate dalla realtà terrena, si collocano in una sfera di ideale perfezione.

Tegola di Capua, museo di
Berlino.
Nel 438 Capua, che esisteva già da secoli, subì nel corso del V secolo a.C. circa, una profonda ristrutturazione che le diede un nuovo assetto urbano sotto l'impulso della presenza dominante etrusca. La Tegola di Capua, di questo periodo, merita una trattazione a parte. In questa lastra di terracotta trovata a S. Maria Capua Vetere e conservata al Museo di Berlino, vi è inciso il testo più lungo in lingua etrusca dopo quello della Mummia di Zagabria. Suddiviso in dieci sezioni da una linea orizzontale, risulta costituito da 62 righe, alcune in parte perdute, e da circa 390 parole, non tutte conservate per intero. La scrittura è quella in uso in Campania intorno alla metà del V secolo a.C., si tratta di un "calendario rituale" dove vengono prescritte cerimonie da compiere in certe date e in certi luoghi a favore di alcune divinità. Le popolazioni di lingua osca delle zone interne della Campania, spinte dalle prospettive economiche positive offerte dalla città, vi trovano posto come manodopera servile, in un primo tempo sottoposta all’elemento etrusco  dominante, che nel 438 a.C. concesse loro il diritto di cittadinanza (a quest'anno Diodoro Siculo fa risalire la costituzione del popolo dei Campani). Con il declino etrusco, le tribù osche raggiunsero una posizione di predominio, prendendo Capua nel 425-423 a.C. e successivamente Nola e la colonia greca di Posidonia. Capua si pose così in quest'epoca a capo di una lega campana.

- Nel 438 a.C. la colonia romana di Fidenae caccia la guarnigione romana e si allea con i vicini etruschi di Veio e successivamente con i Falisci e i Capenati, per contrastare i Romani. La guerra contro gli Etruschi e i loro alleati sarà cruenta, risolvendosi solo nel 437 a.C. con la presa e la distruzione della città.


Gorgia, un sofista dei sofisti.
- La Sofistica è una corrente filosofica sviluppatasi in Grecia, e ad Atene in particolare, a partire dalla seconda metà del V secolo a.C., la quale, in polemica con la filosofia della scuola eleatica e avvalendosi del metodo dialettico di Zenone di Elea, pone al centro della sua riflessione l'uomo e le problematiche relative alla morale e alla vita sociale e politica. Non si trattò di una vera e propria scuola né di un movimento omogeneo, ma fu estremamente variegata al suo interno: i suoi esponenti (detti appunto sofisti), seppur accomunati dalla professione di «maestro di virtù», si interessarono di vari ambiti del sapere, giungendo ognuno a conclusioni differenti e a volte tra loro contrastanti. Tra questi emerse, distaccandosene, la figura di Socrate. Anticamente il termine σοφιστής (sophistés, sapiente) era sinonimo di σοφός (sophòs, saggio) e si riferiva ad un uomo esperto conoscitore di tecniche particolari e dotato di un'ampia cultura. A partire dal V secolo, invece, si chiamarono «sofisti» quegli intellettuali che facevano professione di sapienza e la insegnavano dietro compenso: quest'ultimo fatto, che alla mentalità del tempo appariva scandaloso, portò a giudicare negativamente questa corrente. Nell'antichità, il termine era spesso posto in antitesi con la parola «filosofia», intesa come ricerca del sapere, che presuppone socraticamente il fatto di non possedere alcun sapere. I sofisti vennero ritenuti falsi sapienti, interessati al successo e ai soldi, più che alla verità. Il termine mantiene anche nel linguaggio corrente un carattere negativo: con «sofismi» si intendono discorsi ingannevoli basati sulla semplice forza retorica delle argomentazioni. Solo a partire dal XIX secolo la Sofistica è stata rivalutata, e oggi è riconosciuta come un momento fondamentale della filosofia antica. I sofisti erano maestri di virtù che si facevano pagare per i propri insegnamenti, e per questo motivo essi furono aspramente criticati dai loro contemporanei, soprattutto da Socrate, Platone e Aristotele, ed erano offensivamente chiamati «prostituti della cultura»; ironicamente però furono i primi ad elaborare il concetto occidentale di cultura (paideia), intesa non come un insieme di conoscenze specialistiche, ma come metodo di formazione di un individuo  nell'ambito di un popolo o di un contesto sociale. Riscossero successo soprattutto presso i ceti altolocati. Lo sviluppo della Sofistica ad Atene è legato a un insieme di fattori culturali, economici e politico-sociali. Con la sconfitta dei Persiani a Salamina nel 480 a.C. le poleis greche affermarono la propria autonomia, e la loro potenza si ampliò progressivamente nel corso dei successivi cinquant’anni di pace (la cosiddetta  Pentecontaetia). In particolare, a primeggiare su tutte furono le città rivali di Sparta e Atene: la prima espanse la propria influenza su quasi tutto il Peloponneso attraverso un’ampia rete di alleanze, mentre Atene, membro di primo piano della Lega delio-attica, con l’avvento di Pericle finì con l’assumerne il comando. Con il potere politico ed economico crebbe però anche l’ostilità tra le due città, e il desiderio di supremazia sull’intera Grecia portò al disastro della Guerra del Peloponneso (430-404 a.C.).  Pericle, leader carismatico della fazione democratica, governò Atene per circa un trentennio, dal 461 al 429 a.C., portando la città al suo massimo splendore. Egli fece trasferire il tesoro della Lega delio-attica da Delfi ad Atene, e trasformò il volto della città con un imponente piano di riforma architettonica (simbolo del potere dell’epoca sono gli edifici dell’Acropoli: il Partenone, l’Eretteo, i Propilei); inoltre, si intensificarono i rapporti con le altre città, attraverso alleanze e scambi commerciali. Fu proprio questo nuovo clima di pace a favorire l’affermarsi della Sofistica, poiché permise ai sofisti, «maestri di virtù» itineranti, di spostarsi di città in città, seguendo le rotte commerciali. Visitando luoghi con tradizioni e ordinamenti politici differenti, talvolta varcando addirittura i confini dell’Ellade, essi iniziarono ad interrogarsi sul valore intrinseco delle leggi e della morale, giungendo ad un sostanziale relativismo etico che riconosceva il valore delle norme morali solo in relazione alle usanze della città in cui ci si trova ad operare: la stessa areté (virtù) da loro insegnata si riduceva all’insieme delle norme e delle convenzioni riconosciute valide dai cittadini, alle quali il retore si deve adeguare per avere successo e buona fama. L’età di Pericle fu dunque al tempo stesso l’età dello splendore e della crisi della polis, poiché coincise con la crisi dei valori tradizionali, di cui i sofisti furono protagonisti; come scrive Mario Untersteiner, la Sofistica è «l’espressione naturale di una coscienza nuova pronta ad avvertire quanto contraddittoria, e perciò tragica, sia la realtà». Il primo interesse dei sofisti è la rottura con la tradizione giuridica, sociale, culturale, religiosa, fatta di regole basate sulla forza dell'autorità e del mito (e per questo motivo sono talvolta guardati come "precursori dell'Illuminismo"), a cui veniva contrapposta una morale flessibile, basata sulla retorica. D’altra parte, la stessa retorica che essi insegnavano aveva un’enorme importanza per la vita civile nel regime democratico dell’epoca, il quale riconosceva a tutti i cittadini l’uguaglianza giuridica (isonomia) e la libertà di parola durante l’assemblea pubblica (parresia). La figura del sofista, come persona che si guadagna da vivere vendendo il proprio sapere, si pone come precursore dell'educatore e dell'insegnante professionista. Argomento centrale del loro insegnamento è la retorica: mediante il potere persuasivo della parola essi insegnavano la morale, le leggi, le costituzioni politiche; il loro intento era di educare i giovani a diventare cittadini attivi, cioè avvocati o militanti politici e, per essere tali, oltre ad una buona preparazione, bisognava anche essere convincenti e saper padroneggiare le tecniche retoriche. I sofisti, a differenza dei filosofi greci precedenti, non si interessano alla cosmologia e alla ricerca dell'arché originario, ma si concentrano sulla vita umana, diventando così i primi filosofi morali. Vengono distinte varie generazioni di sofisti: i Sofisti della prima generazione come Protagora, Gorgia, Prodico e Ippia; i Sofisti della seconda generazione, solitamente allievi dei primi, a loro volta distinguibili in Sofisti politici come Antifonte, Crizia, Trasimaco, Licofrone, Callicle, Alcidamante, Polo, l'Anonimo di Giamblico; Sofisti della physis, che si interessano del rapporto natura-uomo, spesso conducendo studi naturalistici come Antifonte, (Ippia); Eristi, che portano all'esasperazione il metodo dialettico come Eutidemo e Dionisodoro, Eubulide di Mileto; Altri come Seniade di Corinto, l'anonimo autore dei “Dissoi logoi”. Va ricordato che la Sofistica non fu una scuola filosofica, bensì un movimento caratterizzato da un ampio e variegato dibattito interno. Capisaldi dell'insegnamento sofistico sono: 1) l'insegnabilità della virtù e 2) la retorica, l'arte di saper argomentare e saper vincere in una discussione. Dopo il successo del V secolo a.C., nel secolo successivo la Sofistica vide un progressivo ridimensionamento della propria importanza, soprattutto a causa delle già menzionate critiche rivolte ai sofisti dai filosofi Platone e Aristotele, e dalle loro scuole. Tuttavia, a partire dall'inizio del II secolo d.C. (quindi a distanza di circa 400 anni) si assiste, in piena età imperiale, ad una rinascita della Sofistica, grazie a un movimento filosofico-letterario definito da Filostrato Seconda sofistica (detta anche Nuova sofistica o Neosofistica, per differenziarla da quella antica). Diversamente dalla Sofistica del V secolo, però, la Seconda sofistica abbandona i temi di interesse filosofico ed etico (come la divinità, la virtù e via dicendo), per occuparsi esclusivamente di oratoria e retorica. La Nuova sofistica si presenta così subito come un movimento di impronta essenzialmente letteraria, orientato allo studio e all'esercizio dell'oratoria e ben distante dall'impegno politico e culturale dei sofisti dell'età di Pericle. I nuovi sofisti mirano all'affermazione personale e al successo pubblico, cercando (eccetto che in rari casi) di ingraziarsi la simpatia e i favori dei potenti; la loro produzione letteraria, improntata alla ricercatezza stilistica secondo lo stile del cosiddetto asianesimo, spazia attraverso vari generi: dialoghi, trattati, opere satiriche, novelle, fino a ben più leggere opere di intrattenimento, brani in cui veniva ostentata la propria bravura retorica.

Guerra del Peloponneso, battaglie fra
Atene e Sparta (431- 404 a.C.).
Dal 431 a.C. - Inizia in Grecia la Guerra del Peloponneso: la causa fu l'insofferenza delle città greche nel subire il predominio di Atene, abbinata all'accresciuta competitività di Sparta.
- Nel 431 a.C. Corcira (Corfù) chiede aiuto a Sparta per liberarsi del legame con Corinto, alleata di Atene.
- Il conflitto si concluse nel 404 a.C. con la supremazia di Sparta (Atene ebbe guide troppo scadenti come Cleone o troppo ambiziose come Alcibiade). Ad Atene fu imposto il regime oligarchico dei trenta tiranni.
- Nel 403 a.C. Trasibulo scacciò gli Spartani e restituì ad Atene gli istituti democratici e l'indipendenza.

L'Athena Parthenos
di Fidia che porta
sulla mano una
"Nike", la Vittoria
alata.
Nel 430 a.C. -  In Grecia Fidia progetta e scolpisce l'Athena Parthenos, in avorio e oro, che sarà collocata al centro del Partenone di Atene.

Nel 429 a.C. -  Morte di Pericle, infetto da peste. La strategia di Pericle contro Sparta, consisteva nell'abbandonare le campagne, distruggere i raccolti esterni alla città, e raccogliere tutti i cittadini all'interno delle mura di Atene... ma  con il sovrappopolamento della città, si scatenò la peste.

Nel 426 a.C. - Come conseguenza della vittoria di Veio contro l'esercito romano condotto dai tribuni militari Tito Quinzio Peno Cincinnato, Gaio Furio Pacilo Fuso e Marco Postumio Albino Regillense, ottenuta ad inizio dell'anno, Fidene inizia un nuovo conflitto contro Roma, uccidendo i coloni romani mandati sul suo territorio. Ai fidenati si alleano gli Etruschi di Veio e così si giunge ad una nuova battaglia, combattuta sotto le mura della città. Lo scontro è durissimo, ma alla fine i romani hanno la meglio, prendono la città e ne riducono gli abitanti in schiavitù.


Mater Matuta rinvenuta
 a Capua.
Nel 423 a.C. - Presa di Capua da parte delle popolazioni di lingua e cultura osco-sannitica, come ricorda anche lo storico Tito Livio, che segnò il definitivo tramonto dell'egemonia etrusca in Campania. Alla fase sannitica si lega la florida fioritura di due santuari extraurbani assai celebri in antico, quello di Diana Tifatina, alle pendici del Monte Tifata e quello, ancora senza nome, rinvenuto nel cosiddetto Fondo Patturelli, la cui documentazione più celebre è rappresentata da una cospicua messe di opere scultoree e fittili, fra le quali devono essere ricordate le "Madri capuane".
Carta della Campania "felix" e del
Sannio. Clicca per ingrandire.
A lungo in conflitto con i rivali Etruschi, appena cinquanta anni dopo la vittoriosa battaglia navale, nel 421 a.C., Cuma cadrà anch'essa sotto il controllo dei Sanniti.

Nel 412 a.C. - Durante la Guerra del Peloponneso, Focea si ribella con le altre città della Ionia, ma re Dario II, alleato di Sparta, la riconquista.

Dal 408 a.C. - Ad Atene si incontrano Socrate e Platone. Socrate (in lingua greca Σωκράτης, Sōkrátēs), nato ad Atene nel 470 o 469 a.C. e morto ad Atene nel 399 a.C., è stato un filosofo ateniese, uno dei più importanti esponenti della tradizione filosofica occidentale. Il contributo più importante che egli ha dato alla storia del pensiero filosofico consiste nel suo metodo d'indagine: il dialogo che utilizzava lo strumento critico dell'elenchos (= "confutazione") applicandolo prevalentemente all'esame in comune (exetazein) di concetti morali fondamentali. Per questo Socrate è riconosciuto come padre fondatore dell'etica o filosofia morale e della filosofia in generale. Per le vicende della sua vita e della sua filosofia che lo condussero al processo e alla condanna a morte è stato considerato il primo martire occidentale della libertà di pensiero. Il periodo storico in cui visse Socrate è caratterizzato da due date fondamentali: il 469 a.C. e il 404 a.C.
Socrate.
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La prima data, quella della sua nascita, segna la definitiva vittoria dei Greci sui Persiani (battaglia dell'Eurimedonte). La seconda si riferisce a quando all'età dell'oro di Pericle seguirà, dopo il 404 con la vittoria spartana, l'avvento del governo dei Trenta Tiranni. La vita di Socrate si svolge dunque nel periodo della maggiore potenza ateniese ma anche del suo declino. Il padre di Socrate, Sofronisco, fu uno scultore e trasmise il mestiere al figlio: opera di Socrate sarebbero state le Cariti, vestite, sull'Acropoli di Atene. Sua madre, Fenarete, fu una levatrice. Interessante sottolineare il significato dei nomi dei genitori: "Fenarete" significa "colei che fa risplendere la virtù" mentre "Sofronisco" significa "colui che riconosce la saggezza". Significati non senza importanza nella biografia di Socrate. Probabilmente Socrate era di famiglia benestante e di origini aristocratiche: nei dialoghi platonici non risulta che egli esercitasse un qualsiasi lavoro e del resto sappiamo che egli combatté come oplita nella battaglia di Potidea, e in quelle di Delio e di Anfipoli. È riportato nel dialogo "Simposio di Platone" che Socrate fu decorato per il suo coraggio. In un caso, si racconta, rimase al fianco di Alcibiade ferito, salvandogli probabilmente la vita. Durante queste campagne di guerra dimostrò di essere straordinariamente resistente, marciando in inverno senza scarpe né mantello. Socrate è descritto da Platone come un uomo avanti negli anni e piuttosto brutto, e aggiunge anche che ricordava il contenuto delle teche apribili installate di solito ai quadrivi, che custodivano all'interno la statuetta di un satiro. Questo pare quindi fosse l'aspetto di Socrate, fisicamente simile a un satiro, e tuttavia sorprendentemente buono nell'animo, per chi si soffermava a discutere con lui. Diogene Laerzio riferisce che, secondo alcuni antichi, Socrate avrebbe collaborato con Euripide alla composizione delle tragedie, ispirando in esse temi profondi di riflessione. Socrate fu sposato con Santippe, che gli diede tre figli (ma, secondo Aristotele e Plutarco, due di questi li avrebbe avuti da una concubina di nome Mirto). Santippe ebbe fama di donna insopportabile e bisbetica. Socrate stesso attestò che avendo imparato a vivere con lei era divenuto ormai capace di adattarsi a qualsiasi altro essere umano, esattamente come un domatore che avesse imparato a domare cavalli selvaggi, si sarebbe trovato a suo agio con tutti gli altri. Egli d'altra parte era talmente preso dalle proprie ricerche filosofiche al punto da trascurare ogni altro aspetto pratico della vita, tra cui anche l'affetto della moglie, finendo per condurre un'esistenza quasi vagabonda. Socrate viene anche rappresentato come un assiduo partecipante a simposi, intento a bere e a discutere. Fu un bevitore leggendario, soprattutto per la capacità di tollerare bene l'alcool al punto che quando il resto della compagnia era ormai completamente ubriaca egli era l'unico a sembrare sobrio. «...dall'antichità ci è pervenuto un quadro della figura di Socrate così complesso e così carico di allusioni che ogni epoca della storia umana vi ha trovato qualche cosa che le apparteneva. Già i primi scrittori cristiani videro in Socrate uno dei massimi esponenti di quella tradizione filosofica pagana che, pur ignorando il messaggio evangelico, più si era avvicinata ad alcune verità del Cristianesimo. L'Umanesimo e il Rinascimento videro in Socrate uno dei modelli più alti di quella umanità ideale che era stata riscoperta nel mondo antico. Erasmo da Rotterdam, profondo conoscitore dei testi platonici era solito dire: «Santo Socrate, prega per noi» (Sancte Socrates, ora pro nobis).» tratto da E. Rodocanachi, La Réforme in Italie, I, Paris 1920 pagg.34,35. Socrate non ha lasciato nulla di scritto. Nel "Fedro", Platone giustifica questa scelta facendogli dire quanto segue: "L'alfabeto ingenera oblio nelle anime di chi lo imparerà: essi cesseranno di esercitare la memoria perché fidandosi dello scritto richiameranno le cose alla mente non più dall'interno di se stessi, ma dal di fuori, attraverso segni estranei: ciò che tu hai trovato non è una ricetta per la memoria, ma per richiamare alla mente. Nè tu offri vera sapienza ai tuoi scolari, ma ne dai solo l'apparenza, perché essi, grazie a te, potendo avere notizie di moltissime cose senza insegnamento, si crederanno d'essere dottissimi, mentre per la maggior parte non sapranno nulla; con loro sarà una sofferenza discorrere, imbottiti di opinioni invece che sapienti." ( Fedro, 275 a-b).
Carta della guerra del Peloponneso
(431- 404 a.C.) con gli alleati di Sparta
e Atene, le battaglie, le spedizioni,
fra cui quella ateniese a Siracusa.
Socrate, con la sua complessa ironia, potè apparire ai suoi concittadini come un sofista ben più insidioso di quelli che insegnavano retorica a pagamento, anche perché fra le persone che l'avevano frequentato, forse suoi allievi, c'erano stati l'ambiguo Alcibiade e Crizia, dei Trenta Tiranni. Per questo fu  accusato di empietà, fu riconosciuto colpevole e fu condannato all'esilio o, in alternativa, alla morte. I dialoghi socratici di Platone non furono una sua invenzione personale, anche se hanno un preciso senso filosofico. Il rifiuto socratico di scrivere produsse una marea di sokratikoi logoi o discorsi socratici (di Eschine di Sfetto, Antistene, Aristippo, Brisone, Cebete, Critone, Euclide di Megara, Fedone), che non ci sono pervenuti. Per conoscere di un uomo che non ha voluto scrivere neppure una riga, dovremo leggere di lui come lo interpreta Platone, nell'"Apologia", nel "Protagora" e nel "Gorgia".

Dal 404 a.C. Egemonia di Sparta in Grecia. La guerra del Peloponneso si concluse nel 404 a.C. con la supremazia di Sparta (Atene ebbe guide troppo scadenti come Cleone o troppo ambigue e ambiziose come Alcibiade). A seguito della disastrosa spedizione ateniese, voluta da Alcibiade, contro Siracusa, alleata di Sparta, Atene perde l'autodeterminazione. Sparta le impone il regime oligarchico dei trenta tiranni, con a capo Krizia e Alcibiade, ex allievi di Socrate; motivo che scatenerà malumori nei confronti di Socrate stesso che verrà poi processato ed ostracizzato. Si evidenzia comunque la vocazione marinara navale di Atene, che le aveva consentito la costruzione di un'impero intorno al mar Egeo, e la supremazia terrestre di Sparta.

Per eventuali approfondimenti vedi "Storia dell'Europa n.20: dal 450 al 404 p.e.v. (a.C.)" QUI.

Nel 403 a.C. - Trasibulo scaccia gli Spartani e restituisce ad Atene gli istituti democratici e l'indipendenza.

Dal 400 a.C. - Da QUI: All'inizio del IV secolo a.C., a grandi linee, il dominio commerciale del Mediterraneo veniva così diviso: il mar Egeo era largamente controllato dai Greci (della Grecia, dell'Asia Minore e - dopo Alessandro Magno - dell'Egitto); i mari Adriatico e Ionio appannaggio delle città marinare poste sulle due rive. Il Mediterraneo occidentale era la zona commerciale cartaginese con l'eccezione del Tirreno, le cui rotte erano appannaggio non solo dei cartaginesi, ma anche degli Etruschi e delle colonie greche del sud Italia. La greca Massalia (Marsiglia) aveva una notevole influenza marinara nel Mediterraneo nord-occidentale, porto che collegava l'Europa continentale al Mediterraneo, così come la Ligure Genua. Cartagine, potenza marinara, usava i commerci per pagarsi le guerre. Fondata nell'814 a.C. da coloni fenici provenienti dalla città di Tiro, che avevano portato con loro il dio della città, Melqart, secondo la tradizione aveva a capo Didone (conosciuta anche come Elissa). Già nel VI secolo a.C. i marinai e i mercanti cartaginesi erano noti nell'intero Mediterraneo occidentale e le commedie greche ne tramandano ritratti macchiettistici. Nel IV secolo a.C., a seguito di operazioni militari, Cartagine controllava territori libici del golfo della Sirte a est e possedeva anche empori sparsi sulle coste della Numidia e dell'Iberia a ovest. Le coste della Sardegna e della Corsica erano anch'esse sotto il suo controllo, quando intraprese il tentativo di conquista della Sicilia con una serie quasi ininterrotta di scontri (dal 480 a.C. con la battaglia di Imera, al 307 a.C.), che però non furono sufficienti a prendere il controllo dell'isola, ampiamente colonizzata dai Greci. Piganiol ritiene che Cartagine fosse la città più ricca del mondo mediterraneo avendo creato, grazie alla sua potenza marittima, un vero e proprio impero commerciale, che aveva trovato come alleati gli Etruschi e come oppositori i Greci. Tesa quindi al commercio, la città punica andò col tempo a sostituire l'esercito cittadino con uno costituito per lo più da forze mercenarie, oltre a contadini libici (servi nei latifondi, arruolati a forza), nonché forze di cavalleria alleata, comandata da regoli numidi. Del resto le forze mercenarie compensavano con la loro esperienza militare, ciò che alle stesse mancava come senso patriottico. Malgrado tutto ciò i comandanti cartaginesi riuscirono ad impiegarle tatticamente in modo superbo, per quanto fossero truppe eterogenee tra loro. Roma, fondata solo sessanta anni dopo Cartagine (753 a.C. secondo Terenzio Varrone), per i primi 400 anni della sua storia fu impegnata in una estenuante serie di guerre con le popolazioni che la circondavano. Questo inesausto operare con città dell'interno fece "specializzare" l'esercito romano, inizialmente formato per lo più da contadini e pastori, nella guerra terrestre. Più che con i commerci, l'economia romana si sviluppava con lo sfruttamento economico dei nemici vinti, strappandone terre da assegnare ai propri coloni, utilizzandone le forze armate come alleati (socii) per i propri fini, legando al benessere dell'Urbe le classi aristocratiche e i possidenti delle città conquistate. Per i commerci marittimi Roma si affidava alle navi etrusche e greche.

Nel 396 a.C. - Dopo una guerra durata quasi un decennio, Roma conquista l'etrusca città-stato di Veio, estendendo la sua influenza su parte dell'Etruria meridionale. Fin dalla sua mitica fondazione ad opera di Romolo, Roma ebbe un nemico temibile e determinato in quella città etrusca. Le motivazioni dell'inimicizia secolare fra l'Urbe e Veio erano state di tipo economico, dove la ricchezza di una avrebbe significato la povertà dell'altra. Di quest'ultima e determinante guerra sappiamo che il dittatore romano, Marco Furio Camillo, alla presenza delle truppe (e della popolazione), pregò Apollo (il dio della Pizia di Delfi) e Giunone Regina, la protettrice di Veio: «Sotto la tua guida, Apollo Pitico, e stimolato dalla tua volontà, mi accingo a distruggere Veio e faccio voto di consacrare a te la decima parte del bottino. E insieme prego te Giunone Regina che ora siedi in Veio, di seguire noi vincitori nella nostra città che presto diventerà anche la tua perché lì ti accoglierà un tempio degno della tua grandezza.».


I Vandali (Wandili), una popolazione germanica, dopo una prima migrazione dalla Scandinavia nei territori dell'attuale Polonia (tra il bacino dell'Oder e della Vistola) intorno al 400 a.C., sotto la pressione di altre tribù germaniche si spostarono più a sud, dove combatterono e sottomisero la popolazione celtica dei Boi circa nel 170.

Carta degli insediamenti degli
Slavi orientali.
In Europa nordorientale, nel bacino superiore e centrale del Dnepr, sono stanziati gli Slavi orientali (distinti dagli Slavi occidentali, i Venedi-Sclavini), che conosceranno tardi la differenziazione di ceti e classi. Fino al I sec. d.C. tra loro si conserverà un sistema comunitario non molto diverso da quello di mille anni prima e solo nel I-II secolo si formeranno le grandi famiglie patriarcali, proprietarie di tutti gli strumenti produttivi e in grado di avvalersi del servizio di forze schiavili. Si sa poco degli Slavi occidentali, i Venedi-Sclavini dell'Europa centrale nel I millennio a.C. perché, essendoci stati pochi scambi commerciali tra loro e i greci, le fonti greche (Erodoto 484 a.C. - 425 a.C.) diedero solo notizie approssimative, e comunque le prime forme di differenziazione di ceto appaiono verso il IV sec. a.C., quando i contatti coi Celti (provenienti dalla Boemia meridionale), i Traci, gli Sciti e i Germani si fecero più intensi e il baratto comincerà ad essere sostituiti coi rapporti mercantili-monetari. Le tribù proto-slave della Vistola dovettero sostenere scontri armati per tutta la seconda metà del I millennio a.C. sia contro gli Sciti che contro i Sàrmati. Dopo Erodoto altri due storici ci hanno fornito ulteriori notizie su queste popolazioni: Tacito (55-117) e Plinio il Vecchio (23-79). Per loro, curiosamente, tutto quanto non era "germanico" veniva definito o "scito" o "sarmato". Anche il geografo Tolomeo (100 - ca. 175) si attiene a tale classificazione, all'interno della quale, al massimo, potevano usarsi termini come "Venedi" o "Sclavini", donde il nome di "Slavi", che non a caso voleva dire "schiavi". 
Carta degli insediamenti degli
Slavi occidentali, i Venedi-Sclavini.
In particolare i Venedi-Sclavini erano quelle tribù slave occidentali residenti nella pianura compresa tra i fiumi Oder e Vistola, a ovest del corso superiore del Dnestr. Non sappiamo con precisione i confini territoriali delle tribù proto-slave di allora. Quel che è certo è che le principali lingue slave: russo, polacco, l'estinto polabico, ceco, slovacco, bulgaro, serbocroato, sloveno ecc. provengono tutte dall'antico slavo, che già nella prima metà del I millennio a.C. era lingua comune tra queste popolazioni. La differenziazione linguistica vera e propria è avvenuta soltanto verso la prima metà del I millennio d.C., che significativamente coincide col periodo delle consolidate stratificazioni sociali tra gli slavi dell'Europa centro-occidentale. Che l'aristocrazia tribale dei Venedi fosse molto ricca è documentato dal corredo funerario (cfr il sepolcreto di Vymysl nella Posnania). I Venedi commerciavano con la Gallia, la Pannonia, le province romane occidentali e alcuni centri del mar Nero.

Carta dei territori gallici dei
Veneti Armoricani
- Ci sono alcune teorie riguardo all’origine del nome Venedi Veneti. Innanzitutto colpisce l’assonanza di questo nome con le popolazioni dei Veneti (o Venetici) dell’Italia nord-orientale e definite da alcuni storici antichi d'origine Illiro-balcaniche, quelle genti però sono precedenti all’apparizione degli Slavi Venedi (o Vendi) e quindi non dovrebbero avere alcuna relazione con questi ultimi. Quando una grande confederazione di popoli non germanici si stanziò nelle zone della Polonia e della Germania del nord fino ai Carpazi e alle Alpi, i vicini Germani affibbiarono loro l’appellativo Wenden (da wende = punto di svolta?) in quanto non-germanici, e si riferivano originariamente alla popolazione illirica e ai Veneti balcanico-italici, e con lo stesso nome indicarono poi gli Slavi, che ne avevano preso il posto. Sarà lo storico dei Goti, Jordane, che fisserà tale appellativo e lascerà che si diffonda da allora in poi. La frequenza di questo etnonimo in diverse aree europee non va però spiegata con ipotetici legami storici e linguistici tra i diversi popoli che ne hanno fatto uso, quanto piuttosto con un'uguale derivazione, più volte ripetuta in modo indipendente, dalla medesima radice indoeuropea “wen” (amare). I Veneti (wenetoi) sarebbero pertanto gli "amati", o forse gli "amabili", gli "amichevoli". Dalla stessa radice deriva il nome Venere, dea dell'amore. Non è chiaro comunque come mai nel nostro Veneto, già nel I secolo d.C., Plinio nomini la città di Tergeste (oggi Trieste) con una denominazione slava “moderna”, (lo slavo T’rghešte significa infatti Mercato). Nella famosa Tavola Peutingeriana del XIII sec. d.C. copiata da antichi documenti (fra cui sicuramente anche la Geografia di Claudio Tolomeo) appaiono ancora questi Venedi e il Periplus Marciani (più o meno della stessa epoca) li trova ormai localizzati sulle rive meridionali del Baltico dove il mare stesso è chiamato Golfo Venedico mentre i Carpazi sono denominati addirittura Monti Venedici! Questi dati però sono già molto posteriori. Tutto quanto sopra detto già ci avverte che gli Slavi della Mitteleuropa non si davano un etnonimo proprio, ma tante e diverse denominazioni e che Venedi/Veneti si riferisce propriamente ad una confederazione di tribù, più che ad una sola grande nazione (le tribù occidentali, N.d.R.). Una fonte primaria sugli Slavi è il goto Jordanes, che scrisse "De origine actibusque Getarum" ossia "Origine e Imprese dei Goti" nel VI sec. d.C. Benché anch’egli si basasse su documenti anteriori, fornisce molto materiale sugli Slavi.
Dialetti centro-sud Italici nel 400 a.C.
Ad esempio, vi si parla del famoso idromele, il liquore alcolico fatto dalla fermentazione del miele (chiamato medos o miod), bevuto in un famoso banchetto funebre per la morte di Attila. Addirittura la stessa veglia è detta con parola slava "strava"! Altri Veneti sono i Celti che si erano stanziati in Armorica, stanziati nell'attuale Bretagna. La popolazione celtica dei Veneti abitava la zona del Morbihan, in Armorica, l'attuale Bretagna (all'epoca parte della Gallia). La loro città più famosa, probabilmente la loro capitale, era Darioritum (oggi nota come Vannes), menzionata nella "Geografia" di Tolomeo.

Dal 399 a.C. - Si prepara l'egemonia tebana in Grecia quando Argo, Corinto e Tebe si uniscono ad Atene per farla finita con Sparta.

Busto di Brenno.
Nel 390 a.C. I Galli (esattamente i Celti Senoni) di Brenno (in realtà Brennan, nome del dio della guerra, era assunto da ogni capotribù in battaglia) giungono fino a Roma, la vincono e la saccheggiano.
Carta geografica delle Popolazioni
stanziate nel nord e centro Italia
 nel IV sec. a.C., fra cui  Celtoliguri
 e Celti. Clicca per ingrandire.
Per impedire che gli invasori incendiassero la città, i romani furono costretti all'umiliante riscatto di mille libbre d'oro, e celebre è rimasto l'episodio in cui, durante la pesatura dell'oro, i Romani si lamentarono dell'inesattezza della quantità conteggiata dai Galli. Brenno aggiunse la propria spada al contrappeso della bilancia esclamando "Guai ai vinti!". Un esercito di soccorso guidato dal dittatore Camillo riuscì poi a liberare la città. Questa vicenda scosse molto la Repubblica di Roma, che riorganizzò il proprio assetto militare per non dovere mai più rischiare l'indipendenza. I Celti italici avevano mantenuto relazioni con quelli d’Oltralpe e l'invasione del IV sec. fu preparata ed eseguita con la loro collaborazione. I motivi che spinsero i Celti ad occupare l’Italia sono oscuri: forse furono attratti dalla fertilità e dal clima mite del Meridione, o più probabilmente, furono costretti a spostarsi a causa della pressione demografica unita alla scarsità di terre coltivabili e ad altri problemi di carattere politico e sociale.
Dracma Padana. Le dracme d'argento padane furono coniate
dai Celti Cenomani della pianura padana, e il loro prototipo
fu la moneta di Marsiglia (l'antica Massalia fondata dai greci
di Focea) che i Cenomani ottennero forse come compenso
per servizi come mercenari. La cosiddetta "dracma pesante"
di Marsiglia, in argento (peso medio 3,74 grammi), recava al
diritto la testa di Artemide, protettrice della loro città, e al
rovescio un leone che avanza ruggendo, così come, nello
stesso periodo nella città greca di Elea/Velia, in Magna Grecia
(a sud di Poseidonia/Paestum), fondata anch'essa dai Focei.
Questa dracma, invece, emessa nel 390-386 a.C., ha nel retro
 la rappresentazione di un gambero di fiume. 
Verso l’inizio del IV secolo a.C. i Celti  o Galli, secondo la definizione latina, si stanziarono in Lombardia (Insubri e Cenomani) fino ai confini con il Veneto, in Emilia (Anari e Boi), in Romagna (Lingoni) e nelle Marche (Senoni), regioni praticamente sottratte agli Etruschi e agli Umbri. Ciò che risulta interessante sottolineare, è la collaborazione che si creò tra i primi coloni Celti e le successive ondate migratorie, che si susseguirono fino a tutto il IV secolo. La comunanza di usi, costumi, lingua e culti religiosi, non fece altro che cementare accordi ed unioni fra le diverse nazioni celtiche che si mischiarono con le antiche popolazioni Liguri e fronteggiarono unite prima gli Etruschi poi gli Umbri, i Veneti ed infine la potenza espansionistica di Roma.  Fino al IV secolo a.C. i Liguri Friniati o  Friniates erano insediati nell'area corrispondente all'Appennino reggiano, modenese e parte del pistoiese. Insieme ai Liguri Apuani, insediati in Lunigiana e Garfagnana, appartenevano alla famiglia etno-linguistica dei liguri orientali. Anticamente il loro areale comprendeva anche gran parte dell'alta pianura reggiana e modenese, ma vennero sospinti nelle montagne dalla grande invasione gallica del IV secolo a.C., che vide l'insediamento dei Galli Boi, la popolazione gallica più numerosa e potente nel Nord italia con cui poi si allearono, nella fascia pedemontana e nell'alta pianura reggiana e modenese. Le popolazioni celtiche riuscirono quindi, per due secoli a radicarsi sul territorio dell'intera penisola italica, vivendo a contatto con le genti autoctone, integrandosi con successo e lasciando tracce indelebili che sono tutt'oggi riscontrabili nella cultura e negli usi di tutta la pianura Padana ed in alcuni paesi del centro e nel sud.
Il fiume Montone.
Stando a Polibio, storico greco in Italia, attorno al 400 a.C., un gruppo di Senoni attraversò le Alpi e, scacciati gli Umbri, si stanziò sulla costa orientale dell'Italia, fra i territori orientali della Romagna e la costa anconetana delle Marche, in quello che venne denominato in età augustea "Ager Gallicus", a est del fiume Montone, mentre a ovest del fiume Montone iniziava il territorio dei Galli Boi, che avevano occupato anche l'antica Bologna etrusca: Fèlsina. Tale posizione, strategica per i contatti con le vie marittime e la valle del Tevere, fu il punto di partenza per le loro successive incursioni nell'Italia meridionale e centrale.
Musi di cinghiali inferociti 
  
costituivano la campana
delle "carnix", temutissime
trombe da guerra celtiche.
Lì fondarono Sena Gallica (Senigallia), che divenne la loro capitale. Nel 391 a.C. invasero l'Etruria e assediarono Chiusi. Gli abitanti di questa città chiesero aiuto a Roma che intervenne, ma fu sconfitta nella battaglia del fiume Allia il 18 luglio del 390 a.C. (dalla cronologia di Varrone) o nel 387 secondo Polibio. La stessa Roma fu poi presa e saccheggiata dai Senoni, guidati da Brenno nel 390-386 a. C., evento traumatico per i Romani e fu  probabilmente per questo che  il fiero popolo romano volle giustificare quella sconfitta con la ferocia degli aggressori. Oggi, invece, si tende a considerare l’invasione celtica non come quella di un’orda selvaggia, ma piuttosto di una vasta comunità costretta a lasciare il proprio territorio d’origine per problemi di sopravvivenza. E’ possibile che l'espansione sia poi proseguita verso sud-est senza ulteriori grossi traumi.
Popolazioni del nord e centro Italia
del IV sec. a.C.: nella tonalità più
scura le popolazioni di Celti e
Celtoliguri e le incursioni dei
 Senoni a Roma nel 390 a.C.
Per oltre 100 anni tra questi due popoli si verificarono molti scontri, finché, nell'ambito della terza guerra sannitica e a seguito della battaglia del Sentino (del 295 a.C.) i Galli Senoni furono debellati dai consoli Publio Decio Mure e Quinto Fabio Massimo Rulliano e quindi sottomessi nel 283 a.C. dal console Publio Cornelio Dolabella. L'occupazione romana dell'ager Gallicus non avvenne prima del 272 a.C., anno in cui Roma portò a termine la guerra con Taranto e a Sena Gallica fu insediata una colonia romana. La presenza dei Galli Senoni è testimoniata nell'ager Gallicus anche dopo la sottomissione ai romani; sono attestate fasi di convivenza fra i Romani insediati nelle città di fondovalle di Suasa, Ostra antica, etc. e i Senoni appostati nei loro villaggi sulle alture, come ad esempio il sito archeologico di Montefortino di Arcevia. Probabilmente la popolazione e la cultura gallica furono gradualmente assorbite da quelle romane. Come spesso avveniva dopo una conquista, a cambiare non era la popolazione intera ma solamente il ceto dirigente che imponeva la propria cultura e gradualmente assimilava alla "romanità" i popoli sottomessi in battaglia; prova di ciò è la presenza tuttora fortissima della cosiddetta "cadenza celtica" nei dialetti della provincia di Pesaro e Urbino. Col tempo, al Senato Romano appartennero Celti provenienti dall'ager Gallicus a dimostrazione della rappresentanza di tutte le tribù del territorio di Roma, cosa di cui i romani andavano fieri, e molti guerrieri Celti si misero al servizio di chi offriva loro denaro. Ancora al tempo di Gaio Giulio Cesare un gruppo di Galli Senoni viveva nel territorio oggi occupato dai distretti di Seine-et-Marne, Loiret e Yonne. Dal 53 al 51 a.C. furono in guerra contro Cesare, dopodiché furono inclusi nella Gallia Lugdunensis, o Celtica. (Lugdunum deriva da "accampamento di Lugh”, divinità solare celtica, è il toponimo di molte città odierne. La zona in cui ora sorge Lion, ma lo stesso toponimo è in London, da Lughdunum, Lugos, Lugo di Romagna etc...).

Nel 389/386 a.C. - Nuova guerra fra Etruschi e Romani. Gli antichi scrittori riferiscono che nel 389, Etruschi, Volsci ed Equi si sollevano tutti insieme nella speranza di rovesciare il potere romano. Secondo Livio buona parte dell'Etruria si riunisce presso il santuario federale di Vertumna (Fanum Voltumnae) per formare un'alleanza ostile a Roma. Posti sotto assedio da più parti, i Romani nominano Marco Furio Camillo dittatore, che sceglie di marciare prima contro i Volsci, lasciando una forza comandata dal tribuno consolare, Lucio Emilio Mamercino nel territorio di Veio a guardia degli Etruschi. Nel corso delle due campagne militari, Camillo riesce a battere in modo schiacciante Volsci ed Equi lungo il fronte meridionale, risultando così pronto a combattere gli Etruschi lungo il fronte settentrionale. Mentre Camillo stava ancora combattendo contro i Volsci, gli Etruschi posero sotto assedio Sutrium, città alleata di Roma. I Sutrini chiesero aiuto ai Romani ma quando Camillo riusci a giungere a Sutrium, la città era già stata costretta ad arrendersi agli Etruschi e trovò il nemico ancora occupato a saccheggiare la città. Il dittatore romano ordinò allora di far chiudere tutte le porte della città e attaccò gli Etruschi prima che questi potessero riorganizzare le proprie forze ma quando seppero che sarebbe stata risparmiata la vita in caso di resa, abbandonarono le armi in gran numero e fecero atto di sottomissione. Sutrium venne quindi presa e dopo aver vinto tre guerre simultanee, Camillo tornò a Roma in trionfo. I prigionieri Etruschi furono venduti in un'asta pubblica e dell'oro ottenuto una parte fu restituito alle matrone romane (che avevano contribuito a riscattare Roma dai Galli di Brenno) e ne rimase a sufficienza per fonderne in tre coppe con inciso il nome di Camillo e collocate nel tempio di Giove Ottimo Massimo, ai piedi della statua di Giunone, mantenendo la promessa fatta nel conflitto con Veio.


Nel 387 a.C. - Con la pace di Antalgida (un generale spartano), Sparta si accorda con la Persia,  cedendole l'intera costa occidentale dell'Asia Minore, ma non le sue città, che rimangono indipendenti a fare da cane da guardia su Atene.

Platone.
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Ad Atene Platone fonda l'AccademiaPlatone nacque ad Atene da famiglia aristocratica intorno al 427 a.C, e vi morì intorno al 347. Secondo Aristotele, ebbe tra i suoi maestri Cratilo, seguace di Eraclito. Da adolescente cominciò a frequentare Socrate, e ripudiò la sua precedente vocazione poetica, dando alle fiamme i suoi versi. Secondo quello che egli stesso dice nella Lettera VII (che è di fondamentale importanza per la sua biografia e per l'interpretazione della sua stessa personalità), avrebbe voluto dedicarsi alla vita politica. Partecipò alle guerre peloponnesiache (Atene contro Sparta) dal 409 al 404. Ritor­nato ad Atene, subì una grave delusione a causa delle degenerazioni della vita politica ateniese e, soprattutto, per la condanna a morte che venne inflitta al suo amico Socrate nel 399 a.C. «Io vidi, egli dice, che il genere umano non sarebbe mai stato liberato dal male, se prima non fossero giunti al potere i veri filosofi o se i reggitori di Stato non fossero, per divina sorte, diventati veramente filosofi». La morte di Socrate lo dissuase dal fare politica in patria, ma non per questo rinunciò a perseguire l'ideale di un reggimento filosofico della città.  Negli anni seguenti, si recò a Megara presso Euclide, poi in Egitto e a Cirene. Nulla sappiamo intorno a questi viaggi, dei quali egli non parla. Parla invece del viaggio che fece nell'Italia meridionale, a Taranto, dove venne a contatto con la comunità pitagorica di Archita, e a Siracusa dove strinse amicizia con Dione, parente e consigliere del tiranno Dionisio il Vecchio. Entrato in conflitto con Dionisio, fu venduto come schiavo sul mercato di Egina. Riscattato da Anniceride di Cirene, ritornò ad Atene, dove fondò nel 387 l'Accademia. La scuola di Platone, che si chiamò così perché fiorita nel ginnasio fondato da Accademo, fu organizzata sul modello delle comunità pitagoriche come un'associazione religiosa, un tìaso. Attraverso l’insegnamento della scienza e della filosofia, egli sperava di svolgere opera di educazione sulle giovani generazioni per prepararle alla gestione della cosa pubblica con uno standard ben diverso da quello che lo aveva così tanto disgustato. L’Accademia platonica prosperò ad Atene fino all’anno 527 d.C., quando venne chiusa per ordine dell’imperatore Giustiniano, perché non poteva più essere tollerata quale istituzione pagana. Alla morte di Dionisio, Platone fu richiamato a Siracusa da Dione alla corte del nuovo tiranno Dionisio il Giovane, per guidarlo nella riforma dello Stato in conformità con il suo ideale politico. Ma l'urto fra Dionisio e Dione, che fu esiliato, rese sterile ogni tentativo di Platone. Alcuni anni dopo, Dionisio stesso lo chiamò insistentemente alla sua corte e Platone vi si recò nel 361, spinto anche dal desiderio di aiutare Dione, che era rimasto in esilio. Ma nessun accordo fu raggiunto e Platone, dopo essere stato trattenuto per un certo tempo, quasi come prigioniero, grazie all'intervento di Archita, lasciò Siracusa e ritornò ad Atene. Qui egli trascorse il resto della sua vita, dedito solo all'insegnamento. Morì a 81 anni, nel 347. Il corpus delle opere di Platone è composto dall'Apologia di Socrate, da 34 dialoghi e da 13 lettere, complessivamente 36 titoli ordinati in 9 tetralogie dal grammatico Trasillo (I sec. d. C.). Venendo ora, in breve, all'insegnamento di Platone, ci limitiamo soltanto ad accennare, per sommi capi, all’influenza che esso ebbe sulla matematica e l’astronomia (ricordiamo che a quel tempo l’astronomia era un ramo della matematica). Platone aveva il convincimento secondo cui la matematica costituiva la scienza che esercitava i più benefici influssi nell’educazione di un giovane. Sulla porta dell’Accademia aveva fatto porre la scritta : "Chi non è edotto in geometria non entri qui". Egli concentrò la sua attenzione sul concetto di prova e raccomandava di dare accurate definizioni per quanto riguardava sia le ipotesi che le tesi dei teoremi da dimostrare. Tutti i commentatori sono concordi nel ritenere che i più importanti lavori matematici del IV secolo a.C. furono eseguiti da amici o allievi di Platone. Per quanto riguarda le sue concezioni astronomiche, queste comprendevano anzitutto la nozione di sfere cristalline, quindi solide, che trasportavano nei loro movimenti attorno alla Terra, naturalmente immobile al centro del cosmo, in successione la Luna, il Sole, Mercurio, Venere, Marte, Giove, Saturno e da ultimo la sfera delle stelle fisse. Riteneva che la luce mostrata dalla Luna fosse luce riflessa dal Sole. Infine, per Platone erano assolutamente indiscutibili gli assiomi pitagorici della circolarità dei moti di tutti gli astri (il cerchio era la figura geometrica che maggiormente racchiudeva i caratteri della perfezione) e della loro uniformità. Come si vede, quindi, le concezioni astronomiche di Platone erano sostanzialmente quelle dei Pitagorici. Dove Platone proponeva innovazioni rispetto a Pitagora era nell’esortare gli astronomi a escogitare rigorosi metodi matematici che avrebbero permesso di spiegare le irregolarità (stazionamenti, moti retrogradi e apparenti variazioni di velocità) che venivano riscontrate nei moti planetari, salvando i fenomeni, cioè preservando i due assiomi pitagorici di cui sopra. Di questa esortazione è testimone lo storico Eudemo, secondo cui Platone propose agli astronomi " ... di trovare con quali supposizioni di movimenti regolari ed ordinati si potessero rappresentare le apparenze osservate nei moti dei pianeti ...". 

Le sfere di Eudosso.
- Eudosso di Cnido (410 - 350 a.C. circa) frequentò con molta probabilità sia Platone che Aristotele. Le notizie che possediamo su di lui ci vengono da Simplicio, oltre che da Aristotele. Quest’ultimo, di un paio di generazioni più giovane, molto probabilmente ebbe scambi culturali con Eudosso. Simplicio parla di Eudosso nel suo commentario "De coelo" su Aristotele. Si riferisce inoltre a un libro di Sosigene, un filosofo peripatetico del II secolo d.C., che a sua volta aveva commentato Eudosso attraverso una Storia dell’astronomia scritta da Eudemo, contemporaneo di Aristotele. I due grandi interessi di Eudosso furono la matematica e l’astronomia. Abbiamo notizia di due opere di Eudosso di argomento astronomico (entrambe perdute): I fenomeni, una descrizione sistematica della sfera celeste e delle costellazioni (a quest’opera si ispirò Arato di Soli per scrivere un poema in versi, dello stesso titolo e argomento). L’altra opera, anch’essa perduta, fu Delle velocità. In essa era descritta una pietra miliare nella storia dell’astronomia, il cosiddetto sistema delle sfere omocentriche, cioè il primo approccio su basi scientifiche a una strutturazione geometrica del cosmo nel suo complesso. Della sua vita si sa che fu a Taranto dove studiò matematica sotto la guida di Archita. Si sa di un suo soggiorno in Egitto dove compì studi di astronomia. Al suo ritorno in Grecia si stabilì a Cizico dove fondò una scuola che si dice aver goduto di una certa fama. Dopo un soggiorno ad Atene, in cui venne con tutta probabilità in contatto con Platone, si stabilì definitivamente nel suo luogo natale, Cnido dove svolse attività astronomica e di insegnamento presso un suo osservatorio. Eudosso diede un importante contributo alla matematica con la teoria delle grandezze incommensurabili (una definizione negli Elementi di Euclide , fu da Archimede attribuita ad Eudosso, e il famoso matematico Dedekind affermò che trasse ispirazione da Eudosso per la sua teoria delle sezioni nel campo dei numeri razionali ). Un altro importante contributo alla matematica fu il suo metodo di esaustione, un metodo di calcolo con il quale venivano risolti certi specifici problemi (ad esempio, il calcolo dell’area di un cerchio per confronto con aree successive di poligoni inscritti, aventi numero sempre maggiore di lati).

Bronzetto di guerriero
Ligure in assalto
con copricapo a
forma di testa di cigno
del VI-V secolo a.C.
Parigi, Bibliotheque
Nazionale.
- Nel IV e III secolo a. C. i Liguri erano ancora prevalenti in tutta la Gallia meridionale e nel XIV e XIII una frazione di quel popolo era già stabilita nel Lazio, proprio nell'area di Roma. Lagneau, autore di una memoria speciale sui Liguri, propende a trovarne non solo nell'interno della Gallia sulla Loira o Ligeris,  da cui crede abbiano derivato il nome, ma su tutta la costa, da Bayonne al mare del Nord, e perfino nelle isole Sorlinghe, e non mancano certamente nella Gallia antica nomi di luoghi analoghi ad altri della Liguria e della Spagna. Vi sono poi analogie innegabili in alcune caratteristiche fisiche e morali dei Siluri di Tacito, dei Gallesi e Gaeli di Scozia e d'Irlanda, dei Loegrini e dei Basso-Bretoni nell'antica Armorica, con la descrizione degli antichi Liguri. Gli antichi accennano all'origine iberica dei Siluri ed alla possibile estensione delle genti iberiche fino alla Bretagna, il che troverebbe qualche argomento generico in appoggio nella somiglianza dei caratteri esteriori fisici di qualche frazione della popolazione di alcune regioni di quei paesi. Alcuni archeologi e storici come Mullenhof, Camilo Jullian e D'Arbois designano curioso come nelle aree occupate dai predecessori Liguri e poi occupate dai Celti, come Britannia, Gallia e Spagna, i tratti celtici si siano dimostrati più persistenti.

Nel 382 a.C. - Sparta impone a Tebe un governo oligarchico.

Nel 371 a.C. - Poiché Sparta volle imporre a Tebe un governo oligarchico, i Tebani, guidati da Pelopida ed Epaminonda sconfissero Sparta a Leuttra. Allora Atene e Sparta si allearono contro Tebe. 

Nel 370 a.C. Agesilao, re spartano, prima della battaglia degli alleati greci contro i tebani, ascolta le lamentele degli alleati per l'esiguo numero di spartani nelle file alleate. Fa alzare artigiani e addetti ai servizi, e dimostra che il nerbo delle forze militari, sono spartane. Nella battaglia di Mantinea, quando l'"ordine obliquo" stava per dare la vittoria ai Tebani, il re tebano Epaminonda è colpito a morte e prima di morire, consiglia ai suoi la pace. Fu così la fine dell'egemonia tebana.

Nel 367 a.C. - A seguito di gravi tumulti verificatisi a Roma tra patrizi e plebei, sono emanate le Leggi Licinie Sestie (in latino Leges Liciniae Sextiae) proposte dai tribuni Gaio Licinio e Lucio Sestio Laterano, che rappresentano il culmine del lungo processo storico definito rivoluzione della plebe. Parte degli studiosi ritiene che le leges Liciniae Sextiae nascondano in realtà un vero e proprio accordo politico fra patrizi e plebei. Alla data di emanazione di dette leggi si riconduce convenzionalmente la fine del periodo arcaico della storia di Roma. Le leggi, scritte dopo la conquista da parte romana della città di Veio, sancirono che i territori di tale città venissero distribuiti tra la popolazione bisognosa, formando 4 nuove tribù. Prima delle guerre di conquista l'economia romana si basava soprattutto sull'agricoltura e sulla pastorizia. Si coltivavano, in modo particolare, cereali che servivano al sostentamento della popolazione. La vendita dei prodotti agricoli non era facile, vista la mancanza di una rete stradale di trasporti che permettesse l'arrivo di tali beni sui principali mercati. I trasporti all'epoca, avvenivano a mezzo di cavalli o buoi ed erano lenti e costosi. Quando era possibile si preferivano i trasporti fluviali e quelli marittimi, che permettevano di trasportare grandi quantità di merci a costi molto inferiori. Le attività industriali e commerciali erano molto limitate. Con le guerre di conquista, il nuovo fulcro economico di Roma, più che l'agricoltura, la pastorizia e i commerci, diventava lo sfruttamento economico dei nemici vinti, a cui erano sottratte le terre per essere assegnate ai propri coloni, di cui venivano utilizzate le forze armate come alleati (socii) per i propri fini ed erano legate al benessere dell'Urbe le classi aristocratiche e i possidenti delle città conquistate. La strategia romana si basava sulla capacità di rompere i legami di solidarietà tra popoli diversi o tra città, in modo tale da indebolire le capacità di resistenza dei nemici e a tal fine puntavano le fondazioni di colonie e la costruzione di vie di comunicazione per il dominio territoriale a cui aspirava sia l'intero senato che la plebe. Nelle nuove leggi si stabiliva inoltre la quantità massima di terreno che un privato potesse occupare (500 iugeri, circa 125 ettari). Pochi anni prima Brenno ed i suoi Galli avevano distrutto la città di Roma e molti plebei si erano indebitati per ricostruire le proprie case. Secondo le “leggi delle dodici tavole”, il creditore poteva rendere schiavo il debitore ed anche ucciderlo se questi non avesse ripagato il debito, dunque molti plebei rischiavano di diventare schiavi. La nuova legge prevedeva dunque che la cifra prestata potesse essere restituita in tre anni. Le Leggi Licinie Sestie rappresentano il più importante e cruciale sviluppo della costituzione romana: al vertice dello Stato ci sono due consoli, reintegrati completamente dopo l'abolizione dei tribuni militum consulari potestate, uno dei quali può essere plebeo (de consule plebeio). Viene riservata ai patrizi la carica di pretore (praetor) che amministra la giustizia (qui ius in urbe diceret). Viene istituita inoltre l'edilità curule (l'aggettivo curule, nell'antica Roma, era attribuito alle magistrature e ai magistrati che detenevano il potere giudiziario come i censori, i consoli, i dittatori, gli edili, i pretori ecc.). Le differenze tra la varie componenti della magistratura edile si affievolirono via via col tempo, sia pure mantenendo alcune competenze specifiche. I loro compiti comprendevano principalmente tre aree di competenza: 1) la prima era la cura urbis, la gestione delle strade cittadine, dei bagni pubblici e degli edifici; 2) la seconda era la cura annonae (l'annona è la politica di un paese per le proprie scorte di cereali e delle altre derrate alimentari) attraverso la gestione dei mercati; 3) la terza non era altro che la cura ludorum, la gestione dei giochi pubblici e circensi. I magistrati edili avevano inoltre dei compiti meno definiti relativi all'archivio di stato, all'ambito giudiziario (nella giurisdizione tribunizia) e alla capacità di elevare multe. Si ebbero tre rogazioni delle Leggi Licinie Sestie: 1) De aere alieno: che le usure pagate si computassero a diminuzione del capitale e che i debitori potessero soddisfare i loro creditori in tre rate annue uguali; 2) De modo agrorum: che fosse vietato di possedere più di 500 iugeri di ager publicus e di far pascolare sui terreni pubblici più di 100 capi di bestiame grosso e 500 di minuto e inoltre che ci si dovesse servire di una certa aliquota di lavoro libero, non servile o schiavile; 3) De consule plebeio: sicuramente la più importante, che ha consentito la possibilità ai plebei di accedere al consolato. In seguito ad una insurrezione, nel 342 a.C., i plebei ottennero che uno dei due seggi del consolato, magistratura sino ad allora tipicamente patrizia, fosse riservato alla classe plebea. Al fine di compensare la perdita subita, ai patrizi fu riservata la magistratura del praetor minor con funzioni essenzialmente giurisprudenziali; si stabilì, altresì l’ammissione dei patrizi alla carica plebea degli edili.


L'antica Grecia del 371-362 a.C.
con le dinamiche che portarono
la fine dell'egemonia di Sparta.
- Nel 367 a.C. la Pace di Antalcida (un generale spartano), ristabilisce il controllo persiano sulle poleis greche ioniche. 

Per eventuali approfondimenti vedi "Storia dell'Europa n.21: dal 404 al 367 p.e.v. (a.C.)" QUI.

Nel 362 a.C. - In Grecia, termina l'egemonia di Sparta. 

Nel 360 a.C. - Nell'ambito di una serie di scontri tra Celti e la Repubblica romana, iniziati qualche decennio prima con il famoso sacco celtico di Roma, si combatte la battaglia dell'Aniene o battaglia dell'Anio, nei pressi del ponte sull'omonimo fiume, fra l'esercito romano, guidato da Tito Manlio Torquato Imperioso che risulterà vincitore e i Galli, che rimarranno confinati nella Gallia Cisalpina fino all'incursione dei Senoni nel Piceno. (Carta con l'Anio, l'Aniene QUI).

Dal 359 a.C. - In Grecia inizia l'egemonia Macedone. Filippo II di Macedonia, salito al trono nel 359 a.C. nel giro di vent'anni pose fine all'indipendenza della Grecia. Nel 338 a.C. con la vittoria di Cheronea assume il controllo delle città greche, nel 336 a.C. venne assassinato. Filippo aveva mutato le tecniche di combattimento adottate fino a quel tempo. “Quest'individuo non solo non è un Greco, né è imparentato con i Greci, ma non è nemmeno un barbaro di una nazione degna di questo nome; no, egli è una pestilenza che viene dalla Macedonia, una regione dove non si può nemmeno comprare uno schiavo che valga qualcosa”: sono parole sprezzanti e volontariamente offensive della Prima Filippica di Demostene, l'ultimo grande oratore di Atene, e non è troppo difficile vedere attraverso il disprezzo che sembrano esprimere per il re macedone Filippo II la preoccupazione che vasti settori della classe dirigente ateniese nutrivano per l'ascesa tenace e apparentemente inarrestabile del nuovo protagonista della politica greca.

La Macedonia di Filippo II, con
gli stati alleati, quelli assoggettati
e le battaglie.
Una delle ragioni della potenza di Filippo II era la riorganizzazione cui aveva sottoposto il proprio esercito, in particolare per quanto riguarda la fanteria, che da allora in poi si schierò secondo lo schema della cosiddetta "falange macedone": i fanti, infatti, vennero muniti di una lancia grande e pesante, la sarissa, lunga cinque metri e mezzo, che andava brandita con entrambe le mani (mentre il braccio sinistro portava un piccolo scudo). Le prime cinque file puntavano le lance in avanti, mentre a partire dalla sesta fila ogni soldato appoggiava la sua lancia sulla spalla di quello che lo precedeva: questa disposizione dava alla falange, dal punto di vista del nemico, l'aspetto di un micidiale porcospino, irto di punte, di cui era difficile fermare l'avanzata, soprattutto se lo scontro avveniva su un terreno pianeggiante.
Moneta d'argento con l'effige di
Filippo II il Macedone. La scoperta
di miniere di minerali di metalli
preziosi, oro e argento nel Pangeo,
permise il riarmo macedone. Clicca
sull'immagine per ingrandirla.
Il principale limite dello schieramento a falange, infatti, stava nel fatto che esso era poco manovrabile, soprattutto su un terreno accidentato. La prima abilità dei condottieri macedoni, dall'adozione della falange in poi, consistette nell'imporre battaglia su un terreno adatto al modo di combattere del proprio esercito.
La falange "pesante" Macedone
Per limitare le conseguenze della scarsa mobilità della falange Filippo introdusse anche un altro corpo scelto, che prendeva posizione sul fianco della falange schierata: gli ipaspisti (i portatori di scudo), armati con lo scudo argivo e la tradizionale lancia corta degli opliti greci. 

Nel 358 a.C. - Roma è costretta ancora una volta ad intervenire contro Tarquinia.

Nel 356 a.C. - Secondo quanto racconta Livio, il console Marco Fabio Ambusto condusse i Romani contro Falisci e Tarquiniensi. L'esercito etrusco portò con sé anche i sacerdoti, armati di serpenti e torce, i quali causarono nei Romani un tale timore da indurli a fuggire in preda al panico verso i loro accampamenti, ma il console, allibito per il loro comportamento, li costrinse a riprendere la battaglia. Gli Etruschi, allora, furono dispersi e il loro campo catturato. Ciò indusse tutta l'Etruria a marciare, sotto la guida dei Tarquiniensi e dei Falisci, contro le saline romane della foce del Tevere. In questa situazione di emergenza i Romani nominarono dittatore Gaio Marcio Rutilo, la prima volta che un plebeo ottenesse quella nomina. Marcio portò le sue truppe attraverso il Tevere sopra delle zattere e dopo l'iniziale cattura di un certo numero di predoni etruschi, riuscì ad occupare l'accampamento etrusco e a fare ben 8.000 prigionieri mentre gli altri vennero uccisi o cacciati fuori del territorio romano. Il popolo di Roma premiò Marcio con un trionfo, anche se non ratificato dal Senato. I Fasti triumphales registrarono «C. Marcius Rutilus, dittatore, trionfò gli Etruschi il 6 maggio.». Secondo quanto aggiunge Diodoro Siculo, gli Etruschi saccheggiarono il territorio romano, razziando le rive del Tevere, prima di tornare a casa.

Nel 355 a.C. - Secondo quanto riportato da Livio, il console Gaio Sulpicio Petico avrebbe devastato il territorio di Tarquinia, mentre altri ritenevano che avesse condotto una campagna militare contro la città di Tibur, insieme al suo collega.

Nel 354 a.C. - I Romani costringono i Tarquiniensi alla resa, dopo la morte di un gran numero di loro in battaglia. I prigionieri sono tutti uccisi, ad esclusione di 358 nobili inviati a Roma dove saranno flagellati e decapitati nel Foro romano (secondo Diodoro Siculo, solo 260) come punizione per quei Romani uccisi dai Tarquiniensi nel 358 a.C..

Nel 353 a.C. - Livio, unica fonte degli anni finali della guerra romano-etrusca, scrive che a Roma giunsero voci che gli abitanti di Caere si fossero schierati con Tarquinia e gli altri alleati etruschi. Ciò venne confermato quando il console Sulpicio Petico, che stava devastando il territorio tarquiniese, riferì che le saline romane erano state attaccate e parte del bottino era stato inviato a Caere. I Romani allora nominarono dittatore Tito Manlio Imperioso Torquato, che dichiarò guerra a Caere. I Ceriti, amaramente pentiti per le loro azioni, inviarono ambasciatori a Roma per implorare la pace e in considerazione della loro antica amicizia, i Romani concessero a Caere un trattato di pace per 100 anni e concentrarono le loro forze sui Falisci, ma quando giunsero al loro accampamento lo trovarono abbandonato, tanto che l'esercito romano poté tornare a Roma dopo aver devastato il territorio falisco.

Nel 352 a.C. - A causa di voci che si rileveranno poi infondate, le dodici città dell'Etruria formano una Lega contro Roma, tanto che i due consoli romani sono costretti a nominare un nuovo dittatore: Gaio Giulio Iullo.

Nel 351 a.C. - Nel corso di quest'ultimo anno della guerra romano-etrusca, il console Tito Quinzio Peno Capitolino Crispino muove guerra contro Falerii, mentre il suo collega Gaio Sulpicio Petico contro Tarquinia. Non ci sarà nessuno scontro, poiché i Falisci e i Tarquiniensi, ormai stanchi della guerra, dopo aver subito continue devastazioni nei loro territori negli anni precedenti, chiedono la pace che i Romani concedono a ciascuna città, con una tregua di 40 anni.

Prima delle guerre di conquista l'economia romana si basava soprattutto sull'agricoltura e sulla pastorizia. Si coltivavano, in modo particolare, i cereali, che servivano al sostentamento della popolazione. La vendita dei prodotti agricoli avveniva con difficoltà per la mancanza di una rete stradale di trasporti che permettesse l'arrivo dei prodotti sui principali mercati. I trasporti all'epoca avvenivano a cavallo o con buoi ed erano lenti e costosi. Quando era possibile si preferivano i trasporti fluviali e quelli marittimi, che permettevano di trasportare grandi quantità di merci a costi molto inferiori. In quel contesto le attività industriali e commerciali erano molto limitate. Con le guerre di conquista, il nuovo fulcro economico di Roma, più che agricoltura, pastorizia  e commerci, diventerà lo sfruttamento economico dei nemici vinti, strappandone terre da assegnare ai propri coloni, utilizzandone le forze armate come alleati (socii) per i propri fini, legando al benessere dell'Urbe le classi aristocratiche e i possidenti delle città conquistate. La strategia romana si basava sulla capacità di rompere i legami di solidarietà tra popoli diversi o tra città (divide et impera), in modo tale da indebolire le capacità di resistenza dei nemici e a tal fine puntavano le fondazioni di colonie.

Nel 348 a.C. - Roma e Cartagine stipulano un secondo trattato in cui vengono riconosciuti, oltre agli interessi territoriali di entrambe anche le rispettive alleanze. Scullard aggiunge che con questo nuovo accordo, i mercanti romani erano esclusi dalla Sardegna, dalla Libia, dal Mediterraneo occidentale e dal golfo di Tunisi fino a Mastia in Spagna e rimanevano "aperte" ai loro traffici solo la Sicilia cartaginese e Cartagine. E così mentre Roma era concentrata sul suo entroterra, la futura rivale trasformava il Mediterraneo occidentale in un "lago" cartaginese. Brizzi ritiene che Roma, pur rinunciando ad ogni precedente diritto sulla Sardegna, otteneva così l'appoggio navale di Cartagine, mettendo così la città al riparo da possibili attacchi dal mare, ora che era esposta ad una nuova minaccia dei Celti, manovrati dai tiranni di Siracusa. A queste considerazioni si aggiunga che Roma, dopo 150 anni circa, era riuscita a conquistare buona parte dell'Etruria, eliminare Veio e ricacciare l'invasione dei Galli di Brenno nel 390 a.C., ma già nel 360 a.C. una seconda ondata stava sommergendo la pianura Padana creando apprensione. E soprattutto Roma era stata per anni - e continuava ad essere - squassata da lotte intestine fra i patrizi e i plebei per l'accesso alle cariche pubbliche e quindi alla gestione dei territori conquistati con le incessanti guerre. Per necessità o per scelta, Roma si stava battendo contro le popolazioni degli Ernici, dei Volsci, dei Tiburtini e degli Etruschi, e si stava preparando alla lotta con i Sanniti, che erano scesi dai monti per invadere la ricca Campania, cui mirava anche Roma stessa. Più che con i commerci, l'economia romana si sviluppava con lo sfruttamento economico dei nemici vinti, strappandone terre da assegnare ai propri coloni, utilizzandone le forze armate come alleati (socii) per i propri fini, legando al benessere dell'Urbe le classi aristocratiche e i possidenti delle città conquistate. In Sicilia e nel sud Italia, Dionisio il Grande (405-367 a.C.), non solo cercava di eliminare definitivamente i Cartaginesi dall'isola, ma andava creando un primo embrione di stato unitario greco in Italia, che Piganiol definisce "un regno delle due Sicilie" che avrebbe potuto fermare Roma. Dionisio il Giovane cercò, dopo la morte del padre, di ampliare il regno ereditato, scontrandosi con altre forze greche. Una situazione convulsa di alleanze, anche tra i Cartaginesi ed alcune città greche, fece disgregare il regno del giovane Dionisio, che fu deposto 344 a.C.. Taranto, che si era tenuta fuori dalle lotte, cresceva in influenza e commercio, pur non riuscendo a creare uno stato esteso. Cartagine, dopo aver posto un limite all'espansione cirenaica, stabilì il confine orientale del territorio punico in Sicilia con i Greci d'Occidente di Siracusa, per il controllo della Sicilia. Gli Etruschi, in precedenza alleati dei Cartaginesi contro i Greci, erano stati fermati dai Galli nell'Italia Settentrionale e da Roma nel Lazio, dopo aver perduto la Campania in precedenza, occupata dalle genti sannitiche.


Nel 343 a.C. - Inizia la prima guerra Sannitica. Le Guerre sannitiche sono una serie di tre conflitti combattuti dalla giovane Repubblica romana contro la popolazione italica dei Sanniti e numerosi loro alleati tra la metà del IV e l'inizio del III secolo a.C. Le guerre, terminate tutte con la vittoria dei Romani (tranne la prima fase della seconda guerra), scaturirono dalla politica espansionistica dei due popoli che a quell'epoca si equivalevano militarmente e combattevano per conquistare l'egemonia nell'Italia centrale e meridionale oltre che per la conquista del porto magnogreco di Napoli. All'epoca dei fatti i Romani dominavano già su Lazio, Campania settentrionale, sulla città etrusca di Veio ed avevano stretto alleanze con diverse altre città e popolazioni minori. I Sanniti dal canto loro erano padroni di quasi tutto il resto della Campania e del Molise, e cercavano di espandersi ulteriormente lungo la costa a discapito delle colonie della Magna Grecia e verso la Lucania nell'entroterra. Nel 354 a.C. Romani e Sanniti, venuti in contatto per la prima volta, avevano comunque preferito un patto di non belligeranza, così da potersi espandere tranquillamente in altre direzioni, ma il confronto era solo rimandato. La grande importanza che i Romani e i loro storiografi sempre diedero a questa lotta per la supremazia nell'Italia meridionale è sottolineata dal gran numero di episodi leggendari o colorati dalla storiografia, come la subjugatio delle Forche Caudine, la Devotio del Console Decio Mure nella terza guerra, e forse di suo padre nella prima, la Legio Linteata.
Guerrieri Sanniti da una tomba di
Nola del IV sec. a.C.
Prima guerra sannitica (343-341 a.C.): il casus belli che fece scoppiare la prima guerra tra Sanniti e Romani, fu offerto dalla città di Capua che, posta sotto l'attacco dei Sanniti, chiese l'aiuto di Roma. Il primo anno della campagna militare fu affidata ai due consoli in carica, Marco Valerio Corvo, inviato in Campania, ed Aulo Cornelio Cosso Arvina, inviato nel Sannio. Mentre Marco Valerio riuscì ad ottenere due chiare, seppur sofferte, vittorie, nella battaglia del Monte Gauro, primo scontro in campo aperto tra i due popoli, e nella battaglia di Suessula, Aulo Cornelio riuscì ad uscire da una difficile situazione militare, e a vincere il successivo scontro in campo aperto, grazie al pronto intervento del tribuno militare Publio Decio Mure. L'anno successivo, il console Gaio Marcio Rutilo inviato a prendere il comando delle truppe acquartierate vicino Capua a sua difesa, si trovò nella necessità di affrontare comportamenti sediziosi dei soldati, che progettavano di prendere con la forza Capua, per impadronirsi delle sue ricchezze. Durante quell'anno non ci furono scontri coi Sanniti, e la prima guerra sannitica, si concluse l'anno successivo, nel 341 a.C., quando il console Lucio Emilio Mamercino Privernate, a cui era stata affidata la campagna contro i Sanniti, ne devastò le campagne, finché gli ambasciatori Sanniti, inviati a Roma, non ottennero la pace.

Dal 342 a.C. - A partire dalla seconda metà del IV secolo a.C., le città della Magna Grecia cominciarono lentamente a tramontare sotto i continui attacchi delle popolazioni sabelliche di Bruzi e Lucani. Le città più meridionali, di cui Taranto era la più importante grazie al commercio con le popolazioni dell'entroterra e la Grecia stessa, furono più volte costrette a chiedere soccorso a condottieri provenienti dalla madrepatria greca, come Archidamo III di Sparta negli anni 342-338 a.C. o Alessandro il Molosso negli anni 335-330 a.C., per difendersi dagli attacchi dalle popolazioni italiche che, con la nuova federazione dei Lucani, alla fine del V secolo a.C. si erano espanse fino alle coste del Mar Ionio. Nel corso di queste guerre i Tarantini, nel tentativo di far valere i propri diritti sull'Apulia, stipularono un trattato con Roma, di consueto collocato nell'anno 303 a.C. ma forse risalente già al 325 a.C., secondo il quale alle navi romane non era concesso di superare ad Oriente il promontorio Lacinio (oggi capo Colonna, presso Crotone). La successiva alleanza di Roma con Napoli nel 327 a.C. e la fondazione della colonia romana di Luceria (nel foggiano) del 314 a.C. e Venusia (nel potentino) del 291 a.C. preoccuparano non poco i Tarantini, che temevano di dover rinunciare alle loro ambizioni di conquista sui territori dell'Apulia settentrionale a causa dell'avanzata romana.

Nel 340 - Nella Guerra latina che oppone la Repubblica romana ai vicini popoli Latini, alleati ad alcune città dei Campani, dei Volsci, degli Aurunci e dei Sidicini, dal 340 al 338 a.C., Roma è alleata con la confederazione sannitica, dopo il rinnovo dell'alleanza al termine della prima guerra sannitica (343 - 341 a.C.). Si risolverà in una vittoria romana, una disfatta della Lega Latina, e la definitiva acquisizione dei loro territori sotto l'influenza romana: i primi passi verso la conquista romana dell'Italia.. I Latini, i Volsci e i Campani già sottomessi, ottennero in parte i diritti dei cittadini romani e furono obbligati a registrarsi per censo e a prestare il servizio militare a fianco delle legioni romane, per cui Roma ottiene una quantità enorme di ulteriori alleati.

Nel 338 a.C. - Roma concede la civitas sine suffragio, ovvero la cittadinanza senza l'esercizio del diritto di voto, a Capua. Poco più di vent'anni dopo inizierà la costruzione della via Appia, che stabilisce un saldo collegamento viario tra il centro campano e l'Urbe. Sul finire del III secolo a.C. il diritto alla cittadinanza fu tuttavia revocato in seguito alla sconfitta di Annibale nel corso delle guerre puniche, il territorio confiscato divenendo ager publicus, e la città sottoposta all'autorità di un prefetto. Contemporanea romanizzazione dell’area dei Campi Flegrei. L’area dei Campi Flegrei fu la prima ad entrare nell’orbita romana;

Cartina delle città dei Campi
Flegrei da Cuma a Napoli nel
338 a.C.  Clicca sull'immagine
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- nel 338 a.C. Cuma si schierò al fianco di Roma e ottenne la civitas sine suffragio,
- nel 318 a.C. venne istituita la praefectura Capuam Cumas.
Cuma, in virtù di questa alleanza mantenne una sua indipendenza e nei secoli IV e III a.C. definì architettonicamente lo spazio pubblico con la realizzazione del foro, una piazza di 50×120 m. fiancheggiata sui lati lunghi da portici a due piani con fregio d’armi (risalenti alla fine del II sec.), dietro si aprivano delle tabernae. Al centro del lato occidentale del foro rimangono i resti del colossale tempio di Giove di tipo italico, su alto podio con una cella a tre navate e un pronao profondo. Sul fondo della cella è visibile un basamento su cui dovevano essere alloggiate le statue della triade capitolina, quando il tempio fu trasformato in Capitolium nel I sec. a.C.. La realtà economica di questo periodo, nella penisola italica, vede una fiorente ricchezza. 

Aristotele.
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Nel 335 a.C. - Nel Liceo di Atene, Aristotele fonda la Scuola del PeripatoAristotele nacque a Stagira (l'attuale Stavro) nel 384 o 383 a.C. da Nicomaco, medico del re di Macedonia Aminta II, ed entrò nella scuola di Platone, l'Accademia, a diciassette anni. Vi rimase sino al 348/47, cioè per 20 anni. La sua formazione spirituale si compì dunque interamente sotto l'influenza dell'insegnamento e della personalità di Platone.
Schema della visione della Fisica
di Aristotele.
Alla sua morte Aristotele lasciò l'Accademia e si recò ad Asso, dove con altri due scolari di Platone, Erasto e Corisco, che già si trovavano là sotto la protezione del tiranno di Atarneo, Ermia, ricostituì una piccola comunità platonica, in cui probabilmente tenne per la prima volta un insegnamento autonomo. Lì Aristotele sposò Pizia, sorella (o nipote) di Ermia e dopo la morte di questi, nel 345/44, si trasferì a Mitilene.
Nel 343/42 fu chiamato da Filippo re di Macedonia a Pella come precettore del figlio Alessandro, decisione forse determinata dall'amicizia di Aristotele con Ermia, alleato di Filippo e dai precedenti rapporti di suo padre con la corte macedone.
Alessandro Magno
Istanbul, Museo
 Archeologico.
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Aristotele poté così formare lo spirito del grande conquistatore, al quale comunicò la sua convinzione della superiorità della cultura greca e della sua capacità di dominare il mondo, se si fosse congiunta con una forte unità politica. Quando nel 340 a.C. Alessandro diviene reggente del regno di Macedonia, cominciando anche ad avvicinarsi alla cultura orientale, il suo maestro Aristotele, che era intanto rimasto vedovo e conviveva con la giovane Erpillide da cui ebbe il figlio Nicomaco, intorno al 335 a.C. si trasferisce ad Atene, dove in un pubblico ginnasio, detto Liceo perché sacro ad Apollo Licio, fonda una sua famosissima e celebrata scuola, chiamata Peripato, "passeggiata", dall'uso istituito dallo stagirita Aristotele di insegnare passeggiando nel giardino che la circonda. Probabilmente non è Aristotele ad acquistare la scuola; egli l'affitta perché per la città di Atene egli era uno straniero e non aveva diritto di proprietà. La scuola viene inoltre finanziata dallo stesso Alessandro. Aristotele promuove attività di ricerca nella città di Atene soprattutto per quanto riguarda materie scientifiche quali zoologia, botanica, astronomia. Aristotele vi teneva corsi regolari e vi tenevano corsi anche gli scolari più anziani, Teofrasto ed Eudemo. Nel 323 la morte di Alessandro provocò ad Atene l'insurrezione del partito antimacedone che mise Aristotele sotto accusa per empietà. Egli fuggì allora a Calcide nell'Eubea, patria di sua madre. Nel 322/21 una malattia di stomaco pose fine ai suoi giorni. Il corpus delle opere aristoteliche ha avuto un destino singolare: le opere esoteriche o acroamatiche, composte per la scuola, furono messe in salvo e nascoste dal suo erede Neleo nella Troade.
Cartina geografica dell'impero di
 Alessandro Magno, il macedone
con i paesi suoi alleati, il percorso
 delle conquiste e i luoghi delle
maggiori battaglie.
Ritrovate nel I sec. a. C. e riportate ad Atene, furono trasferite a Roma da Silla; qui l'erudito Andronico di Rodi le sistemò nell'ordine che è invalso fino ad oggi. Le opere essoteriche, invece, destinate alla pubblicazione, sono andate perdute e ci sono note solo attraverso testimonianze e citazioni di altri autori. Il campo dello scibile da lui affrontato lo rende un vero caposaldo nella storia della scienza. Nella Fisica, aveva elaborato alcune teorie secondo cui vi sono 4 elementi fondamentali, e tutti i corpi subiscono l'attrazione dell'elemento a cui sono più affini, per cui le materia tende a cadere in basso poiché nel suo schema è all'altezza dell'orizzonte, l'acqua tende ad andare in profondità perché nello schema è l'elemento più basso, per il motivo opposto la fiamma va vero l'alto ecc. Quando, in epoca successiva, le opere di Aristotele vennero trascritte per essere tramandate, vennero catalogate secondo gli argomenti trattati: e fu così che nacque la "metafisica", "oltre la fisica", e cioè gli argomenti che non potevano ritenersi attinenti ne alla fisica ne ad altre discipline classificabili.

Alessandro Magno in una
copia da Lisippo del I sec.
conservata a Copenaghen.
Dal 334 a.C. - Inizio delle conquiste di Alessandro Magno, figlio di Filippo II di Macedonia. Alessandro (356 - 323 a.C.) dal 334 al 323 a.C. estese le sue conquiste fino ai confini dell'India. Alessandro non aveva un fisico particolarmente avvenente, bensì era tozzo e di corporatura robusta; aveva gli occhi di colore l'uno diverso dall'altro (uno blu, l'altro marrone o nero), mentre la sua voce era aspra; portava sempre il collo leggermente inclinato verso sinistra e soffriva probabilmente di alcune malformazioni congenite, che forse hanno contribuito alla sua morte. Aveva i capelli rossicci ed aspri.
Cartina geografica dell'Egitto
e delle sue materie prime
 nel 300 a.C., nel suo
periodo ellenistico.
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È dovuta a lui l'usanza di radersi il volto: pare che avesse infatti pochissima barba, che all'epoca connotava inequivocabilmente l'uomo di potere (contrapposto a donne e giovani che ne erano privi) e per non sfigurare in mezzo ai suoi dignitari li indusse a radersi. Per effetto della circolazione delle idee dovuta all'Ellenismo la moda si diffuse poi in tutto il Mediterraneo e quindi a Roma. Fra gli scultori del tempo, Lisippo ritraeva molto fedelmente il condottiero e venne nominato scultore di corte. Alessandro si erse a campione dell'ellenismo contro quelli che venivano considerati barbari dai Greci. Nonostante ciò, come richiesto dalla mentalità orientale sull'origine divina dei monarchi, elevò la sua figura reale fino a farsi proclamare figlio di Dio nel santuario di Ammone in Egitto, malgrado la disapprovazione dei suoi soldati. Ciò cozzava violentemente con il pensiero da uomini liberi dei greci, e fu la causa dell'assassinio di Clito, che pur avendo salvato Alessandro in battaglia, fu da lui stesso ucciso. A Samarcanda nel 328 a.C., Alessandro, durante una serata di festeggiamento con i suoi generali e ufficiali, accolse alcuni uomini giunti dalla costa, venuti ad offrire della frutta al loro signore. Il re incaricò Clito il Nero di portarli dinnanzi al suo cospetto e per incontrarli dovette sospendere un sacrificio in atto, cosa mai vista dagli indovini. In seguito, durante il banchetto si ascoltarono i versi di un poeta di corte, un certo Pranico, che schernì i generali macedoni. Clito, in stato di ebbrezza, si offese più degli altri, ricordando al re di avergli salvato la vita tempo addietro (nella battaglia del Granico). Seguirono parole dure da entrambe le parti; il generale criticava aspramente la politica di integrazione fra Macedoni e Persiani perseguita da Alessandro e lo definì non all'altezza di suo padre Filippo, il vero Macedone...
Lisippo: Alessandro Magno
al Louvre di Parigi.
Ma seguiamo l'episodio riportato da Plutarco: “Clito si recò dal re che lo aspettava a pranzo [...]. Durante il banchetto, fra l’abbondante scorrere del vino, un certo Pranico (o Pierione, come dicono alcuni) recitò dei versi che aveva scritto per svergognare e ridicolizzare i generali che poco prima erano stati battuti dai barbari. I più anziani si risentirono e insultarono sia il poeta che il musico, mentre Alessandro e i suoi fedelissimi ascoltavano divertiti, invitando i due a proseguire. A questo punto Clito, che oltre ad essere ubriaco era anche irascibile e orgoglioso per natura, s’infuriò, dicendo che non era bello sbeffeggiare di fronte ai barbari nemici dei soldati macedoni, i quali, anche se in quel caso non avevano avuto fortuna, erano molto migliori di chi li derideva. Al che Alessandro: «Tu parli per te stesso, scambiando per sfortuna la viltà!». Allora Clito, balzando in piedi: «La mia viltà ti ha salvato la vita, illustre figlio degli dei, quando voltavi le spalle alla spada di Spitridate! Ed è grazie al sangue dei Macedoni e alle loro ferite che sei andato tanto in alto da ritenerti figlio di Ammone e rinnegare tuo padre Filippo!». Irritato da queste parole, Alessandro esclamò: «O testa matta, attento che tu non abbia a soffrire per questo tuo continuo sparlare di me, mettendomi contro i Macedoni!». «Già soffriamo abbastanza!», ribatté Clito. «Sono queste le ricompense per le nostre fatiche? Beati quelli che sono morti prima di vedere i Macedoni battuti dalle fruste dei Medi e costretti a supplicare i Persiani per poter avvicinare il loro re!». A queste parole ardimentose e schiette, quelli che stavano con Alessandro insorsero contro Clito coprendolo di insulti. [...] Intanto gli amici erano riusciti a stento a portar via dalla sala Clito, che continuava a protestare, e che a un certo momento rientrò da un’altra parte, recitando, con sfrontata impudenza, tre versi dell’Andromaca di Euripide [laddove Peleo esclama]: Ohimé, che brutta usanza c’è nell’Ellade! [In guerra son gli eserciti che vincono ma il vanto solo i capi se lo pigliano!]. A questo punto Alessandro tolse di mano a una delle guardie un giavellotto e mentre Clito, scostata la tenda che copriva l’entrata, gli andava incontro con un gesto di sfida, lo trapassò da parte a parte e quello, gemendo e gridando per il dolore, piombò a terra e morì. Istantaneamente Alessandro si calmò e rientrato in sé, visto che gli amici erano ammutoliti, si avvicinò al cadavere ed estratta fulmineamente la lancia rivolse la punta contro di sé in direzione del collo, ma prontamente le guardie del corpo gli afferrarono le mani trascinandolo a forza nella sua stanza.” (Plutarco, Vite parallele. Alessandro e Cesare). Alessandro morì a 33 anni a Babilonia, di una malattia misteriosa

Nel 332 a.C. - Tra Roma e i Senoni della Gallia Cisalpina fu stipulato un trattato di pace che, a quanto sembra, garantirà un interludio di pace durato circa trent'anni.  

Nel 326 a.C. - Seconda guerra sannitica (326-304 a.C.). Casus belli della seconda guerra sannitica fu una serie di reciproci atti ostili. Cominciarono i Romani fondando nel 328 a.C. una colonia a Fregellae presso l'odierna Ceprano, sulla riva orientale del fiume Liri, cioè in un territorio che i Sanniti consideravano propria esclusiva sfera di influenza. In più i Sanniti vedevano con preoccupazione l'avanzata dei romani in Campania, così quando Roma dichiarò guerra alla città greca di Palepolis, i Sanniti inviarono 4.000 soldati a difesa della città. I Romani, dal canto loro, accusarono i Sanniti di aver spinto alla ribellione le città di Formia e Fondi.
Carta con i territori teatro della
seconda guerra sannitica.
Nel 326 a.C., mentre a Lucio Cornelio Lentulo venivano affidati i poteri proconsolari per proseguire le operazioni militari nel Sannio, Roma inviava i feziali a dichiarare guerra ai Sanniti e ottennero poi, senza averlo sollecitato, l'appoggio di Lucani ed Apuli, con i quali furono stipulati tratti di alleanza. Lo scontro con i Sanniti iniziò favorevolmente per i romani che, tra il 326 a.C. e il 322 a.C. occuparono Allife, Callife e Rufrio, Palopolis, anche grazie all'attività destabilizzante dei Tarantini, che si adoperarono affinché defezionassero in favore di Roma. Furono poi Cutina e Cingilia ad essere espugnate dai romani, che riportarono anche una serie di vittorie in campo aperto, tra le quali quella nei pressi di Imbrinium. Però nel 321 a.C. l'esercito romano, condotto dai consoli Tiberio Veturio Calvino e Spurio Postumio Albino Caudino, subì l'umiliante sconfitta alle Forche Caudine (dal latino Furculae Caudinae). Nonostante i due consoli sconfitti avessero accettato le condizioni di resa, i romani continuarono la guerra contro i Sanniti, facendo ricadere la responsabilità della resa unicamente sui due comandanti. Dopo lo scontro a Caudia, la guerra si allargò nelle regioni vicine al Sannio, così nel 320 a.C., lo scontro arrivò in Apulia, davanti Lucera, dove i romani, dopo aver sconfitto i Sanniti in uno scontro in campo aperto, conquistarono la città. Nel 319 a.C. i romani ripresero il controllo su Satrico e sconfissero i Ferentani, e l'anno successivo conquistarono Canusio e Teano in Apulia, nel 317 a.C. Nerulo in Lucania e nel 315 a.C. Saticola. Sempre quell'anno i due eserciti si scontrarono nella durissima battaglia di Lautulae. Nel 314 a.C., con l'aiuto di traditori, i romani presero Sora, Ausona, Minturno, Vescia e con le armi Luceria, che si era unita ai Sanniti. La guerra sembrava volgere a favore dei romani, anche perché nel 313 a.C. questi presero ai Sanniti la città di Nola, e due anni dopo, 311 a.C., sconfissero i Sanniti davanti la città di Cluvie. Quando nel 310 a.C. ripresero le ostilità tra romani ed etruschi, i Sanniti ripresero l'iniziativa con più vigore, sconfiggendo l'esercito romano in una battaglia campale, nella quale rimase ferito lo stesso console Gaio Marcio Rutilo Censorino. Per questo motivo, a Roma fu eletto dittatore Lucio Papirio Cursore, che ottenne una chiara vittoria contro i Sanniti nei pressi di Longula, mentre anche sul fronte etrusco i romani ottenevano una serie di successi, consolidando il fronte settentrionale, con la resa degli Etruschi nel 309 a.C. Nel 308 a.C. Quinto Fabio Massimo Rulliano, vincitore degli Etruschi, sconfisse ancora i Sanniti, cui si erano alleati i Marsi e i Peligni. Infine nel 305 a.C. i romani conseguirono la decisiva vittoria nella battaglia di Boviano a seguito della quale, nel 304 a.C., le tribù del Sannio, chiesero la pace a Roma, ponendo fine alla Seconda guerra sannita.

La divisione in nuove satrapìe
dell'impero di Alessandro Magno,
di cui la più estesa fu dei Seleucidi.
Nel 323 a.C. - Muore Alessandro il Grande. Il suo impero viene spartito fra i suoi generali, i diadochi, che ne diventano così i sàtrapi. Nell'Egitto ormai elenizzato dalla conquista di Alessandro il macedone, inizia il regno di Tolomeo I Sotere, che regnerà fino al 283 a.C.. In seguito alla morte di Alessandro il Grande, l'impero greco-macedone era stato spartito fra i suoi generali, i Diadochi (= successori) dal reggente dell’impero Perdiccas, e Tolomeo ra stato nominato sàtrapo d’Egitto e Libia. Con l'intenzione di legittimare il proprio potere, Tolomeo I aveva sequestrato il corpo di Alessandro il Grande, che era stato imbalsamato e che avrebbe dovuto essere riportato in Macedonia, inviando un contingente armato ad intercettare il corteo funebre per portare il corpo ad Alessandria, dove fece erigere una tomba spettacolare: sceneggiatura che investiva Tolomeo come successore di Alessandro. Quando Antigono I, un membro dei Diadochi, attaccò Seleuco I nel 326 a.C., che si era impadronito di Babilonia nel 321 a.C., con tutta la parte orientale dell’Impero, la più consistente, visto che riuscì ad appropriarsi della città, Seleuco fuggì alla corte del suo amico Tolomeo I in Egitto. Questo fatto diede inizio all’epica lotta tra i Diadochi, che avrebbe consumato molte delle loro vite. Nel 308 a.C., Demetrio I (figlio di Antigono) riuscì a sconfiggere Tolomeo I di Egitto in una battaglia navale sulle coste di Cipro e nel 305 a.C. assediò Rodi, impiegando quasi 30000 operai per fabbricare le torri d’assedio ma malgrado il suo enorme sforzo, l’assedio era fallito. Anche se Tolomeo I non riuscì a conservare Cipro e parte della Grecia, riuscì tuttavia a resistere all’invasione sia in Egitto che a Rodi ed occupò Palestina (Giudea) e Cirenaica. Nel 305 a.C., Tolomeo (conosciuto anche come Sotere, ”il preservatore”) si era autoproclamato Re di Egitto, fondando la Dinastia Tolemaica che durerà circa 300 anni, fino alla morte di Cleopatra VII nel 31 a.C. e in seguito, con Augusto, l’Egitto diventerà una provincia Romana. Tolomeo I si era alleato politicamente con Lisimaco, che nel frattempo si era proclamato re di Tracia e gli aveva dato in sposa sua figlia Arsinoe II, avuta dall'amante "ufficiale" Berenice, intorno al 300 a.C.. In cambio, Lisimaco avrebbe dato qualche anno dopo la propria figlia Arsinoe I in sposa al figlio di Tolomeo I, Tolomeo II Filadelfo. In tal modo Lisimaco diventava il potenziale nonno del futuro regnante d’Egitto, Tolomeo III. Tolomeo I fu un uomo di grande ingegno. La sua amministrazione dell’Egitto rassomigliò molto ad una gestione imprenditoriale, amministrando lo stato con lo sguardo rivolto esclusivamente al profitto. Come risultato, Alessandria crebbe fino a diventare la più prospera città del mondo Ellenico. Tolomeo I Sotere, è stato uno storiografo di se stesso, oltre che l’autore di una perduta storia delle campagne di Alessandro il Grande. Proprio per il suo amore per la storia, Tolomeo I fondò la più grande biblioteca del mondo antico ad Alessandria, la sua capitale. La grande biblioteca di Alessandria fu costituita spedendo inviati all’estero con il compito di acquistare o copiare tutti i libri che avessero trovato. Ciascuna nave che entrava in Alessandria, veniva setacciata alla ricerca di libri che venivano acquistati o copiati e restituiti. In tal modo, la biblioteca si ampliò fino a contenere un mezzo milione di rotoli o libri. I Tolomei fondarono ad Alessandria un museo (tempio delle muse), che operava in modo molto simile ad una moderna università. Uomini dotti e studenti vennero attratti ad Alessandria da ogni parte del mondo antico per insegnarvi o studiarvi. Il commercio marittimo prosperò e un faro fu costruito sull’isola di Faro, per guidare le navi nel porto di Alessandria, annoverato come una delle sette meraviglie del mondo antico.

Nel 316 a.C. - Agatocle sale al potere nella greco-spartana Siracusa e intraprende una campagna per liberare dai Cartaginesi la Sicilia. Nel 310 a.C. sbarca in Africa portandovi direttamente la guerra e nell'anno successivo elimina perfino l'alleata Cirene, dichiarandosi re dell'Africa. Agatocle dovette però rientrare in Sicilia dopo la sconfitta subita dal figlio Arcagato.

Prima delle guerre di conquista l'economia romana si basava soprattutto sull'agricoltura e sulla pastorizia. Si coltivavano, in modo particolare, i cereali, che servivano al sostentamento della popolazione. La vendita dei prodotti agricoli avveniva con difficoltà per la mancanza di una rete stradale di trasporti che permettesse l'arrivo dei prodotti sui principali mercati. I trasporti all'epoca avvenivano a cavallo o con buoi ed erano lenti e costosi. Quando era possibile si preferivano i trasporti fluviali e quelli marittimi, che permettevano di trasportare grandi quantità di merci a costi molto inferiori. In quel contesto le attività industriali e commerciali erano molto limitate. Con le guerre di conquista, il nuovo fulcro economico di Roma, più che agricoltura, pastorizia  e commerci, diventerà lo sfruttamento economico dei nemici vinti, strappandone terre da assegnare ai propri coloni, utilizzandone le forze armate come alleati (socii) per i propri fini, legando al benessere dell'Urbe le classi aristocratiche e i possidenti delle città conquistate. La strategia romana si basava sulla capacità di  rompere i legami di solidarietà tra popoli diversi o tra città (divide et impera), in modo tale da indebolire le capacità di resistenza dei nemici e a tal fine puntavano le fondazioni di colonie e la costruzione della via Appia per il dominio territoriale a cui aderiva l'intero senato assieme alla plebe.  

Dal 312 a.C. - Roma inizia la costruzione delle strade e degli acquedotti. Il più esteso monumento dell'antichità, lungo quasi centomila chilometri, è senza dubbio la rete delle strade romane, dal Nord Africa all'Inghilterra e dalla Turchia al Portogallo, dove Roma era il punto di partenza verso le più lontane periferie dell'Impero. Plinio il Vecchio scriveva infatti: "I Romani posero ogni cura in tre cose soprattutto, che furono dai Greci neglette, cioè nell'aprire le strade, nel costruire acquedotti e nel disporre nel sottosuolo le cloache". La prima strada ad essere approntata è stata la Via Appia. La costruzione delle strade inizialmente era stata dettata dalla necessità di spostare rapidamente le truppe in qualsiasi regione conquistata, ed infatti le prime strade furono costruite proprio dai legionari. Anche se in principio avevano una funzione militare permisero un notevolissimo sviluppo al commercio dell'Urbe favorendo lo spostamento di merci e mercanti, oltre che della gente comune e dei messaggeri. In poco tempo le prime vie Consolari come: l'Appia, l'Aemilia, la Salaria, la Postumia ed altre, vennero prolungate, fino a formare un complesso sistema che permetteva di raggiungere qualsiasi punto dell'Impero in poco tempo; si calcola che furono costruite più di 29 strade che percorrevano oltre 120.000 Km (due volte il giro della Terra!). Le strade romane avevano il compito fondamentale di mettere in comunicazione Roma con il resto dello Stato nel modo più rapido effettuabile. Per questo venivano tracciate il più rettilinee possibile per evitare allungamenti, anche a costo di lasciare isolati i centri più piccoli, i quali venivano comunque collegati con vie secondarie. La necessità di superare ostacoli naturali come specchi d'acqua o colline per dare continuità al tracciato venne compiuta  con la costruzioni di mirabili ponti, viadotti e gallerie in parte tuttora praticabili. Ricordiamo tra tutti il ponte più lungo dell'antichità costruito sul Danubio per volere di Traiano con una lunghezza di oltre 2,5 km! Questi sono solo alcuni dei segni più imponenti che questa civiltà ci ha lasciato, e che tra l'altro furono per secoli studiati per la loro perfezione: il Medioevo incapace di imitare le strade e i ponti romani li chiamò per questo "sentieri dei giganti" o "strade del diavolo".

La Via Sacra Romana.
La parola miglio deriva dall'espressione latina milia passuum, "migliaio di passi", l'unità di misura per le distanze (1 passo = 1,48 metri) pari a 1480 m. Occorre ricordare che per gli antichi romani il passus era inteso come la distanza tra il punto di distacco e quello di appoggio dello stesso piede durante il cammino, quindi il doppio rispetto all'accezione moderna. Ad ogni miglio, veniva posto ai bordi della strada una pietra cilindrica alta anche 3 o più metri, sulla quale erano incise le miglia percorse dalla città precedente, e quelli alla prossima, oltre che alla distanza da Roma; erano inoltre incisi il nomi di coloro che la fecero costruire. Al centro dell'Urbe, vicino al Foro, l'Imperatore Ottaviano Augusto fece collocare accanto ai Rostri il Miliarium Aureus ossia una pietra miliare dorata con le distanze di tutte le principali città dell'Impero; inoltre non lontano c'era anche una grande mappa bronzea dell'Impero detta Forma Imperii, accanto a quella di Roma detta Forma Urbi. La velocità di percorrenza giornaliera media delle strade era di  30 Km orari in carro, 7-8 Km/h a piedi, ed 80 Km giornalieri al massimo per i messaggeri imperiali del cursus publicus ossia i corrieri a staffetta per i funzionari di Governo. Le principali strade in Italia furono:
Le Vie e strade Romane in Italia.
I. Via Appia: fu costruita nel 312 a.C. dal Console Appio Claudio; essendo la più antica delle vie Consolari è chiamata regina viarum, cioè la regina delle strade. Inizialmente fu tracciata fino a Capua, grande centro della Campania, ma fu poi prolungata fino a Beneventum, Venosa, Tarantum e Brundisium ove c'era un importantissimo porto. Nel II secolo d.C. l'Imperatore Marco Ulpio Traiano crea una un percorso alternativo tra Benevento e Brindisi passando attraverso gli Appennini, dando origine alla Via Appia Traiana, la quale permetteva di risparmiare oltre un giorno di marcia. Questa opera è ricordata sopratutto per il fatto che durante i lavori di costruzione, per riuscire a oltrepassare uno scaglione di roccia molto alto, i Romani lo fecero letteralmente tagliare! Tutt'ora è possibile vedere ciò che ne resta.
II. Via Aemilia: altro non era che il proseguimento della via Flaminia verso Nord-Ovest. Essa congiungeva Ariminum con Placentia, toccando Caesena, Forum Livi, Bononia, Mutina, Regium Lepidum e Parma.
III. Via Capua-Rhegium: si staccava dalla via Appia a Capua , proseguiva fino a Rhegium, passando per Consentia e Vibo Valentia.
IV. Via Aurelia: strada costiera che andava a Nord: collegava l'Urbe con Vada Sabatia (Vado Ligure), attraverso Pisae, Luna e Genua. Venne poi edificata la Via Julia Augusta che proseguiva per le Gallie attraversando il sito dei Balzi Rossi, nei pressi dell'attuale confine sulla costa ligure fra Italia e Francia.
V. Via Domitiana: si separava dalla Via Appia a Sinuessa (Mondragone) e giungeva fino a  Neapolis.
VI. Via Popilia-Annia: altro proseguimento della via Flaminia, verso Nord-Est: partiva da Ariminum passando per Rabenna, Atria (Adria), Patavium (Padova), Altinum, Aquileia, Tergeste (Trieste).
VII. Via Latina: collegava l'Urbe direttamente con Capua spercorrendo passando per Anagnia, Frusino, Casinum.
VIII. Via Flaminia: univa Roma con Ariminium (Rimini), toccando Fanum Fortunae (Fano) e Pisuarum.
IX. Via Salaria: prende il nome dalla materia prima (il sale) che per secoli fu trasportata lungo il suo tracciato. Essa partiva da Roma e giungeva fino Castrum Truentinum (Porto d’Ascoli), passando per  Reate e Asculum.
X. Via Postumia: passando per la Pianura Padana univa  Genua con Aquileia, attraversando Cremona, Verona, Vicetia.
XI. Via Valeria: collegava l'Urbe Ostia Aterni (Pescara), passando per Tibur (Tivoli) e Teate Marrucinorum (Chieti).
XII. Via Cassia: congiungeva l'Urbe al Nord Italia, passando attraverso Arretium, Florentia, Pistoia, Luca.
XIII. Via Clodia: collegava  Roma a Saturnia.
Gli strati in cui era costruita
la strada romana. Clicca
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Nonostante le strade fossero ben lastricate, con i carri non era possibile andare troppo veloci, anche perché spesso per tirarli servivano dei buoi e si preferivano i viaggi per mare, che si rivelavano più rapidi anche se più pericolosi a causa delle frequenti tempeste. Le strade in epoca imperiale vennero sviluppate soprattutto per garantire un efficiente servizio postale e un rapido spostamento di messaggeri. Per facilitare ciò a intervalli regolari sorgevano stazioni per il cambio dei cavalli (mutationes) e locande per le soste notturne (mansiones), che erano attive per tutti anche per i Cittadini i quali all'interno trovavano dipinte sulle pareti delle vere e proprie guide stradali, chiamate "intineraria picta", con segnalati i punti di sosta tra un itinerario e l'altro, le città, le distanze e tutte le strade importanti. Di queste mappe non sono rimaste tracce, tuttavia esiste una copia di epoca medioevale di eccezionale importanza, chiamata Tabula Peutingeriana, che ci dà un'idea di come fossero strutturate, e quali nozioni geografiche avevano i Romani. Questa mappa lunga sei metri e alta trenta centimetri rappresenta tutto il mondo conosciuto allora dai Romani dalle colonne d'Ercole fino all'estremo Oriente.
Particolare con Roma della Tabula
 Peutingeriana.
E' da notare, che nelle mappe antiche l'Oriente è posto verso l'alto, infatti nella foto della Tabula Peutingeriana qui a lato (cliccare sopra per ingrandire) il tratto di terra orizzontale è l'Italia, e in alto c'è il Mare Adriatico, sotto il Mare Tirreno, si notano inoltre Roma seduta sul trono, e Ostia sotto. Secondo il Diritto romano, il transito sulle strade dell'Impero era libero, ma la manutenzione del manto stradale spettava agli abitanti della Provincia  attraversata dalla strada, tuttavia con la riforma del governo iniziata dall'Imperatore Ottaviano Augusto la gestione fu affidata al Curator Viarum il quale dava l'ordine, o la concessione per la ristrutturazione o la costruzione della strada. Facendo una piccola osservazione si può ben notare come tutte le autostrade attuali in Europa seguano il percorso delle strade romane, conservando talvolta addirittura il nome!
Le vie e strade costruite nell'Impero
 Romano.
L'attuale termine strada deriva da viae strata  cioè via lastricata. Ogni strada romana, aveva una struttura ben precisa e si sviluppava in modo più o meno rettilineo. Originariamente le dimensioni delle strade erano sancite dalle XII Tavole: per esempio la larghezza media andava dai 4 ai 6 metri, potevano avere due marciapiedi (margines) laterali di 2/3 metri di larghezza circa o anche più. Avevano uno spessore che andava dai 90 ai 120 cm, ed erano formate da una massicciata di tre strati di pietre sempre più piccole, legate con malta (ciò per permettere una maggior resistenza e durata nel tempo), e dal piano stradale lastricato, costituito da uno strato di blocchi di pietra spianati e accostati. La costruzione iniziava con il scavare un "letto" tra due solchi, i quali ne delimitavano la larghezza, nel quale sarebbero stati posati i vari strati di pietre. Lo strato più basso, era composto da pietre molto grandi come sassi ed era detto statumen, il secondo chiamato rudus era formato da ciottoli di medie dimensioni, il terzo da ghiaia mista ad argilla detto nucleus, ed il quarto era il vero e proprio manto stradale chiamato pavimentum: esso era composto da lastre grosse e piatte adagiate in orizzontale, ma con una forma lievemente convessa per facilitare lo scolo delle acque piovane, verso le canalette di scolo, sempre presenti nelle vie cittadine. Se nelle strade dell'Impero regnava l'ordine quasi assoluto, non si poteva dire lo stesso dell'Urbe, dove al contrario le strade erano tutt'altro che ordinate e rettilinee. Questo è facilmente spiegabile dal fatto che Roma è nata e si è estesa senza dei piani urbanistici; questi infatti verranno ideati appena alla fine della Repubblica per opera di Giulio Cesare,  Ottaviano Augusto ed altri Imperatori. Quindi fatta eccezione per alcune vie principali, che sono rettilinee poiché penetrazioni urbane delle vie Consolari, molte altre strade sono strette e intricate e alcune addirittura senza marciapiedi. Tuttavia bisogna dire che i marciapiedi a Roma non erano necessari visto che per un decreto di Giulio Cesare, i carri (fatte alcune eccezioni) non potevano transitare in città di giorno ma solo la sera e la notte. L'Urbe era inoltre una città caotica e rumorosa sopratutto nelle zone centrali, dove c'erano i  mercati, i Fori e gli edifici pubblici più importanti.
Ponte-acquedotto sul fiume Gard
nell'attuale Francia, che riforniva
 la città di Nemasus l'odierna Nimes.
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Tra le opere più grandi e vistose lasciateci dai Romani, sicuramente ricordiamo gli imponenti acquedotti. Gli acquedotti vengono ideati a Roma nel IV sec. a.C. perché ormai la fornitura idrica dell'Urbe, che fino ad allora si affidava al Tevere o ai pozzi, non era più sufficiente. Roma si stava trasformando nella più grande metropoli di tutta l'Antichità e non solo, quindi si decise di costruire un' acquedotto che collegasse una sorgente e portasse l'acqua fresca in città, il primo fu l'Aqua Appia costruito nel 312 a.C. per volere dell'omonimo Console Appio Claudio, lo stesso che diede il nome alla celeberrima via. Con il passare degli anni ne vennero costruiti altri di maggior portata. In totale c'erano ventiquattro acquedotti, che trasportavano ogni giorno nell'Urbe oltre 1 milione di metri cubi d'acqua percorrendo in totale oltre 400 Km di condutture. Se oggi possediamo molte informazioni sugli acquedotti e l'edilizia idraulica lo dobbiamo all'opera del Curator Aquarum Sesto Giulio Frontino, contemporaneo dell'Imperatore Nerva, il quale scrisse un libro, il De aqueductu Urbis Romae (letteralmente Sugli acquedotti della Città di Roma),  nel quale spiega i metodi di costruzione, i materiali edili, ma anche nomi e percorsi delle condutture idriche, l'ubicazione delle sorgenti e molto altro. Dalla prosa ricca di tecnicismi di Frontino traspare la consapevolezza e l'orgoglio che porta lo scrittore, cives romanus, a compiacersi della mole degli acquedotti, sostenuti per chilometri da imponenti arcate, e a sorridere, con un certo disprezzo, delle piramidi egiziane ed ai templi greci, opere famose ma inutili. Dietro la costruzione di un acquedotto stanno tutta una serie di problematiche, che gli ingegneri Romani hanno saputo perfettamente risolvere. Per esempio la forza motrice dell'acqua. L'acqua non si sposta da sola! E' necessario un "motore", e i Romani ne trovarono uno veramente "autonomo" cioè la forza di gravità. Gli ingegneri avevano intuito che sarebbe stato sufficiente dare una certa pendenza all'acquedotto e mantenerla per tutto il tragitto, e poi la forza di gravità avrebbe fatto tutto il resto, così capirono che un'inclinazione del 25%, in media un metro di pendenza ogni chilometro, avrebbe fatto scorrere l'acqua senza problemi fino alla città. Era inoltre necessario saper scegliere la sorgente giusta, in modo da fare defluire una giusta quantità d'acqua tutto l'anno senza periodi di secca o di piena.
Sezione di acquedotto
Romano soprelevato.
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Una volta scelta la sorgente adeguata, si stabiliva il percorso che l'aqueductus avrebbe compiuto per arrivare in città, per fare ciò si tracciava un profilo della geografia del terreno segnando coline e avvallamenti, pianure e corsi d'acqua. Per questo lavoro i tecnici adoperavano uno strumento di legno simile all'attuale livella, ma di dimensioni assai più grandi: il coròbate. Questo poteva dirsi in esatta posizione orizzontale quando i fili a piombo attaccati al suo ripiano di legno pendevano parallelamente alle gambe e quando l'acqua che colmava una vaschetta scavata sul ripiano non debordava. guardando attraverso il coròbate i tipografi potevano tracciare un'immaginaria linea orizzontale che seguiva tutto il percorso dell'acquedotto e segnare su questa linea, a intervalli di 10 metri, le distanze verticali tra essa e il terreno. Unendo tutti i segni presi con una linea si otteneva il vero profilo del terreno e gli ingegneri stabilivano se appoggiare le condotte al livello del suolo, se farle passare sotto, oppure elevarle di alcuni metri. A questo punto si procedeva alla sua edificazione. Spesso per la necessità di mantenere una pendenza costante le condotte facevano percorsi molto lunghi con molte curve, e non andavano mai in linea retta, in tal modo l'acqua defluiva senza problemi fino alla "foce artificiale", che quasi sempre era costituita da una grossa cisterna. Il percorso dell'acquedotto era per la maggior parte interrato o talvolta scavato sotto colline e montagne; in questo caso la condotta era formata solo da una struttura di laterizio parallelepipeidale impermeabilizzata e areata con dei pozzetti posti ogni 20-30 metri, usati anche per la manutenzione periodica. Solo talvolta la conduttura doveva superare fiumi o pianure  ed era quindi necessario costruire una struttura di sostegno (aquae pensiles). Uno degli esempi più famosi è il ponte-acquedotto sul fiume Gard nell'attuale Francia, che riforniva la città di Nemasus l'odierna Nimes. La realizzazione iniziava con l'edificazione delle fondamenta dei pilastri: se passavano sulla terra si scavava una buca profonda vari metri e si costruiva una solida base a tronco di piramide con grossi blocchi di pietra. Se invece si trattava di un fiume era necessario preparare un recinto di legno impermeabilizzato con la pece tutto intorno all'area della costruzione di ogni singolo pilastro: in tal modo si poteva asportare prima l'acqua, poi la fanghiglia e la ghiaia per poter edificare una solida base di grossi blocchi di pietra. Fatto ciò iniziava la costruzione dei piloni veri e propri. Questi potevano essere sia di pietra che di laterizio, e venivano sovrapposti tra loro alternati e uniti con malta. Solo a questo punto si univano i pilastri con gli archi i quali si costruivano utilizzando delle strutture di sostegno di legno dette centine che permettevano la collocazione dei conci fino alla chiusura della "chiave di volta". Costruita la prima arcata si procedeva all'edificazione delle altre arcate che poggiavano sempre sugli stessi pilastri, all'ultimo piano sorgeva in laterizio la vera e propria condotta dell'acquedotto. Una città come Roma con il suo milione e mezzo di abitanti doveva essere ben rifornita di acqua, anche perché questa non serviva solo direttamente ai suoi Cittadini ma anche ai complessi termali, i quali sembra consumassero molta acqua. Roma si avvaleva di undici acquedotti costruiti in varie epoche a partire dal II sec. a.C., che rimasero sempre tutti in funzione e che, nel complesso, portavano nell'Urbe oltre un milione di metri cubi di acqua al giorno, ed erano: I. Aqua Appia - Fu il primo acquedotto di Roma, edificato nel 312 a.C. dal Console Appio Claudio, lo stesso che fece costruire la Via Appia. Le sorgenti sono situate sulla via Collatina ed è lungo ben 16 Km, anche se il suo percorso è quasi del tutto sotterraneo, e giungeva fino al foro boario. II. Aqua Ania o Anio Vetus - Lungo oltre 63 km, prende il suo nome dalla valle dell'Aniene presso Tivoli, le sue acque giungevano fino alle Terme di Diocleziano, mentre una ramificazione secondaria giungeva erogava l'acqua necessaria alle terme di Caracalla. III. Acqua Marcia - Il nome deriva dal Pretore M. R. Marcius, e fu edificato nel 114 a.C. La sorgente era situata presso Marano Equo. IV. Acqua Tepula - Costruito nel 126 a.C. prendeva le acque dalla Valle Preziosa scorrendo esclusivamente in condotte sotterranee. Il suo nome deriva dl fatto che la temperatura dell'acqua rimaneva sempre sui 18 gradi circa. V. Acqua Iiulia - Edificato nel 33 a.C. da Marco Vipsanio Agrippa, convogliava le acque dalle sorgenti nelle vicinanze di Grottaferrata. VI. Acqua Vergine - Fu costruito sempre da Agrippa verso il 19 a.C. convogliando le acque ubicate presso la tenuta della Rustica. E' tuttora perfettamente funzionate. Alcune derivazioni dall'acquedotto giungevano presso il Campidoglio e Trastevere.
VII. Aqua Augusta - Costruito per volere dell'Imperatore Augusto nel 2 d.C., serviva a portare l'acqua a Trastevere ove si tenevano le naumachie (o battaglie navali) in un lago artificiale. VIII. Aqua Claudia - Iniziato dall'Imperatore Claudio nel 38 d.C. ma terminato da Caligola è uno dei più imponenti. Le sue sorgenti erano ubicate presso la Valle dell'Aniene, e portava le sue acque fino a Porta Maggiore ove una diramazione giungeva presso il Palazzo e riforniva l' area circostante al Colle Palatino. IX. Aqua Ania Nova o Anio Novus - Costruito per volere di Caligola ma terminato dall'Imperatore Claudio nel 52 d.C. circa prendeva l'acqua dal Fiume Aniene, con la sua lunghezza di oltre 84 Km è l'aquedotto più grande del mondo. X. Aqua Traiana - Voluto dall'Imperatore Traiano nel 109 d.C. circa convogliava le acque del lago Sabatino nella zona di Trastevere. XI. Aqua S. Severa - Fu edificato dall'Imperatore Settimio Severo nel 226 d.C.. I Romani inventano tra le altre cose la calcee una variante di essa detta idrica poiché resisteva all'acqua ed era utilizzata nelle cisterne o negli acquedotti appunto per impermeabilizzare, è tuttora utilizzata. Con questa invenzione rivoluzionarono le tecniche costruttive utilizzate fino a quel momento, che prevedevano l'utilizzo di blocchi di pietra sovrapposti a incastro, per utilizzare invece mattoni di terracotta e calce,a cui era mischiata la pozzolana, una calce lavica di origine vulcanica che conferiva estrema durezza e resistenza al calcestruzzo così ottenuto e con la tecnica degli archi con poco materiale potevano sostenere grandi pesi e giungere a grandi altezze. In quei tempi le case di Roma avevano diversi piani, generalmente così non era per le altre città. 

Patrizio Torlonia, identificato
invece come Marco Porcio
Catone (234-149 a.C.), il
più famoso dei censori.
- A Roma, con la censura di Appio Claudio Cieco (lo stesso che da console sovrintenderà alla costruzione della via Appia, di cui ne controllerà la qualità sfiorandola col piede per sentirne le asperità, essendo cieco) del 312 a.C., si riforma il sistema della computazione della qualità del "censo" dei cittadini, in cui si considera anche il capitale mobile. Questa riforma sarà fondamentale per l'apertura dei Comizi centuriati alle nuove classi sociali in ascesa, che fondavano la propria ricchezza sul commercio e sull'artigianato piuttosto che sull'agricoltura o l'allevamento.

- Fino all'avvento del cristianesimo, la mentalità dei Romani antichi era piuttosto pragmatica e libera da eventuali condizionamenti filosofico-religiosi. La locuzione latina Faber est suae quisque fortunae, tradotta letteralmente, significa "Ciascuno è artefice della propria sorte". L'espressione è caratteristica della teoria dell'homo faber, secondo cui l'unico artefice del proprio destino è l'uomo stesso; viene talvolta vista come un iniziale contrapporsi dell'uomo romano all'idea del fato (dominante nel mondo classico), per essere responsabile protagonista delle sue azioni o nella lotta contro il bisogno e la miseria. Questa teoria verrà in seguito sviluppata soprattutto durante l'Umanesimo e il Rinascimento, specialmente alla luce della riconsiderazione del rapporto tra virtù e fortuna intesa come destino dell'uomo in genere. Se, infatti, nel Medioevo l'uomo è considerato succube del destino, nell'Umanesimo e nel Rinascimento esso è visto come intelligente, astuto ed energico, e perciò capace di utilizzare al meglio ciò che la natura gli offre ed essere dunque artefice del proprio destino. Forte sostenitore di questa visione dell'uomo è stato il filosofo Giordano Bruno.

Nel 306 a.C. - Viene stipulato il terzo trattato fra Roma e Cartagine. Non se ne conosce il testo ma secondo lo storico Filino, che in genere si mostra filopunico, Roma accettò di non interferire negli affari in Sicilia, mentre Cartagine si impegnava a fare altrettanto nella penisola italica: di fatto un sodalizio contro i Greci della Magna Grecia. Roma era ormai diventata il primo stato in Italia e di conseguenza, motivo per cui Cartagine, desiderosa di evitare che Agatocle di Siracusa, potesse rivolgersi in Italia per chiedere aiuto, stipulò con l'Urbe il nuovo trattato e sebbene Roma non fosse ancora pronta a misurarsi con Cartagine, il suo territorio superava quello dell'impero siracusano di Agatocle. A Roma era utile questo trattato, poiché dopo aver posto sotto il proprio controllo buona parte dell'Etruria meridionale e del territorio costiero della Campania, si trovava nel pieno delle guerre sannitiche, che, scoppiate nel 343 a.C., si sarebbero concluse solo nel 290 a.C., guerre che denunciavano una rivolta delle popolazioni del Lazio, dell'Etruria e del Sannio al dominio romano. D'altra parte, dopo il superamento del pericolo costituito dalla presenza delle popolazioni galliche a Nord, le vittorie su Volsci ed Equi e gli accordi stipulati con Etruschi e Latini, Roma aveva avviato, nella seconda metà del IV secolo a.C., un intenso processo di espansione verso il Meridione della penisola italica. La vittoria romana nelle tre guerre sannitiche (343-341; 326-304; 298-290 a.C.) e nella guerra latina (340 a.C.-338 a.C.) assicurava all'Urbe il controllo di buona parte dell'Italia centro-meridionale, ma si perseguiva l'intento di espandersi verso il Meridione della penisola italica. La strategia romana si basava sulla capacità di rompere i legami di solidarietà tra popoli diversi o tra città, in modo tale da indebolire le capacità di resistenza dei nemici e a tal fine puntavano le fondazioni di colonie e la costruzione della via Appia per il dominio territoriale a cui aderiva l'intero senato assieme alla plebe. A sollecitare l'avanzata verso Sud erano infatti interessi di tipo economico e culturale, frenati dalle città della Magna Grecia, organizzate militarmente, politicamente e culturalmente, capaci quindi di resistere all'espansione romana. Contemporaneamente la strategia di Roma era quella di continuare la sua politica diplomatica con il mondo greco, accordandosi nel 306 a.C. con Rodi, città in forte espansione commerciale. Taranto, in un periodo di splendore e di espansione, riuscì perfino a limitare i traffici marittimi di Roma con il trattato del 303/302 a.C., che fissava il limite di navigazione di Roma al promontorio Lacinio (oggi Capo Colonna, presso Crotone). Il Mommsen aggiunge che, tra il Mediterraneo occidentale e quello orientale: «[...] si stabilirono solo relazioni economiche, così la repubblica di Rodi, che teneva il primo posto fra gli Stati marittimi della Grecia e che in quel tempo di continue guerre (guerre dei diadochi), era come la mediatrice universale del commercio, concluse un trattato con Roma, naturalmente un trattato commerciale, che poteva essere tra un popolo di mercanti e i padroni delle marine di Cere e della Campania.» Mommsen 1972, “Re Pirro contro Roma e l'unificazione d'Italia, vol. 2, cap. VII, p. 478.


Epicuro.
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- Nel 306 a.C., nel Liceo di Atene, Epicuro fonda la sua scuola filosofica, il Giardino. Si vide sorgere in Atene, oltre all'Accademia e al Liceo, un'altra scuola filosofica, il Giardino, fondata da Epicuro. Epicuro (in greco Epìkouros) (Samo, 341 a.C. - Atene, 271 a.C.) è stato discepolo di Nausifane e fondatore di una delle maggiori scuole filosofiche dell'età ellenistica e romana, l'epicureismo, che si diffuse dal IV secolo a.C. fino al II secolo d.C., quando, avversato dai Padri della Chiesa, subì un rapido declino, per essere poi rivalutato secoli dopo dall'Umanesimo del Rinascimento e dall'Illuminismo. Nato sull'isola di Samo, figlio di un maestro di scuola e di una maga, fu chiamato Epicuro (che significa "soccorritore") in onore di Apollo (questo era uno degli epiteti del dio). Frequentò la scuola di Pamfilo seguace del pensiero platonico, e successivamente quella del democriteo Nausifane a Teo, località sulle coste dell'Asia Minore. All'età di 32 anni fondò la sua scuola prima a Mitilene e a Lampsaco ed infine ad Atene nel 306. La scuola era dotata di un giardino dove i discepoli, tra i quali anche donne, come la famosa etera Leonzia e persino schiavi, seguivano le lezioni del maestro. Sebbene fosse assertore della non partecipazione alla vita sociale e politica sostenne il governo macedone. La filosofia della scuola del "giardino" era in polemica con le dottrine socratiche e platoniche, con l'aristotelismo ma anche con le scuole minori come i cinici, i megarici, i cirenaici e con lo stoicismo, l'altra grande scuola ellenistica, che stava iniziando a diffondersi proprio in quel periodo. Epicuro morì ad Atene di calcoli renali, all'età di 70 anni circa. Per Epicuro la filosofia ha in primo luogo una funzione terapeutica : "Vana è la parola del filosofo se non allevia qualche sofferenza umana", egli diceva . Di Epicuro ci restano tre epistole dottrinali complete riportate da Diogene Laerzio, due raccolte di aforismi, e alcuni frammenti. Epicuro riprende nella fisica la teoria atomistica di Democrito e Leucippo. Quest'ultimo, secondo le affermazioni di Epicuro riportate da Diogene Laerzio, non sarebbe mai esistito, ma viene clamorosamente smentito dai suoi stessi allievi in ambito campano. Nei Papiri Ercolanensi infatti (Vol. Herc. coll. alt. VIII 58-62 fr. 1), si parla di Leucippo e gli si attribuisce la Grande cosmologia negandola a Democrito, che se ne sarebbe presa arbitrariamente la paternità. La novità introdotta da Epicuro rispetto a Leucippo sta però nel fatto che egli non considera più la forma degli atomi ma il loro peso. Questi atomi, infiniti di numero, eternamente si muovono in un vuoto a sua volta infinito. Epicuro inoltre introduce nella sua teoria il fenomeno della deviazione (parenklisis, declinazione, inclinazione) casuale che interviene nella caduta in verticale (Lettera ad Erodoto, 43) degli atomi determinandone così collisioni in base alle quali gli atomi si aggregano originando i corpi estesi. Mentre Democrito vedeva il moto degli atomi come vorticoso, per Epicuro esso si verifica per il peso degli atomi verticalmente, una sorta di pioggia di atomi sulla quale può intervenire una deviazione che interrompe il fenomeno naturale che si stava formando dando luogo ad un altro diverso effetto. Nella causalità meccanica e deterministica della natura Epicuro salva così l'elemento della casualità nella formazione degli eventi naturali. Nell'etica Epicuro riprende concettualmente l'edonismo dei Cirenaici, ma mentre per questi il piacere è dinamico (ricerca del piacere) per Epicuro è statico (eliminazione del dolore), assicurando così la salute dell'anima. Un'anima che: "è una sostanza corporea composta di sottili particelle" cioè di atomi molto mobili. Grazie a questa concezione egli libera l'uomo dalla paura della morte poiché quando questa si verifica il corpo, e con esso l'anima, ha già cessato di esistere e quindi cessa anche di provare sensazioni. Inoltre gli dei, secondo Epicuro, non si occupano dell'uomo in quanto vivono negli intermundia, cioè in spazi situati fra gli infiniti mondi reali, e del tutto separati da questi, e perciò non hanno esperienza dell'uomo: gli dèi sono indifferenti alle vicende umane e si chiudono nella loro perfezione. Epicuro ritiene che la filosofia debba diventare lo strumento, il mezzo, teorico e pratico, per raggiungere la felicità liberandosi da ogni passione irrequieta. Dice Epicuro nella Lettera a Pitocle: "non bisogna infatti ragionare sulla natura per enunciati privi di riscontro oggettivo e formulazione di principi teorici, ma in base a ciò che l'esperienza sensibile richiede": la base della scienza sperimentale. 

Nel 303 a.C. - Nuovi attacchi da parte dei Lucani, costringono ancora una volta i Tarantini a chiedere aiuto ai mercenari della madrepatria: è ingaggiato questa volta un certo Cleonimo di Sparta (303-302 a.C.), che sarà però, sconfitto dalle popolazioni italiche, forse sobillate dagli stessi Romani. Il successivo intervento di un altro paladino della grecità, Agatocle di Siracusa, portò di nuovo l'ordine nella regione con la sconfitta dei Bruzi (298-295 a.C.), ma la fiducia delle piccole città dell'Italia meridionale in Taranto e Siracusa inizierà a svanire a vantaggio di Roma, che nel contempo si era alleata con i Lucani e risulterà vittoriosa a settentrione sui Sanniti, Etruschi e Celti (nella terza guerra sannitica e nelle guerre tra Celti e Romani). Morto Agatocle di Siracusa nel 289 a.C., i Lucani, un tempo alleati di Roma, si ribellarono insieme ai Bruzi ed iniziarono ad avanzare nel territorio di Thurii (nei pressi di Sibari, in Calabria) devastandolo; gli abitanti della città, consci della propria debolezza inviarono due ambasciate a Roma per chiedere aiuto, la prima nel 285 a.C. e poi nel 282 a.C.. Solo in questa seconda circostanza Roma inviò il console Gaio Fabricio Luscino il quale, posta una guarnigione a Thurii, avanzò contro i Lucani sconfiggendo il loro principe Stenio Stallio, come riportano i Fasti triumphales. A seguito di questo successo, le città di Reggio, Locri e Crotone chiesero di essere poste sotto la protezione di Roma che inviò una guarnigione di 4.000 uomini a presidio di Reggio: Roma si proiettava ormai, verso il Meridione d'Italia.


Da https://www.slideshare.net
/luigiarmetta/let-ellenistica
Dal 301 a.C. - Inizia l'Età ellenistica, periodo che va dalla morte di Alessandro Magno fino alla riduzione della Grecia a provincia romana, nel 146 a.C., in cui trionfano la cultura e la civiltà greche diffuse nei territori di quello che era stato il suo impero. Si ebbero tre grandi dinastie fondate dai generali (diadochi) di Alessandro: i Tolomei in Egitto, i Seleucidi in Siria e Mesopotamia, gli Antigonidi in Macedonia. Le aristocrazie urbane euro-mediterranee utilizzano il greco come lingua. Si fondano nuove città come Pergamo in Asia Minore, Alessandria in Egitto, Antiochia in Siria. Si sviluppa una grande fioritura culturale con scienziati come Euclide, Archimede, Apollonio di Perga, Aristarco di Samo, Eratostene, Ipparco, Erone di Alessandria, oltre a filosofi come Epicuro e Zenone, nonché poeti come Callimaco, Apollonio Rodio e  Teocrito.

Per eventuali approfondimenti vedi "Storia dell'Europa n.22: dal 367 al 301 p.e.v. (a.C.)" QUI.

Zenone di Cizio.
Nel 300 a.C. - Ad Atene, Zenone di Cizio (335 - 263 a.C.) fonda la sua Scuola Stoica. Quella dello stoicismo è una corrente filosofica  spirituale con un forte orientamento etico. Lo stoicismo prende il nome dalla Stoà Pecile o Portico dipinto, originariamente «Portico di Peisianatte», eretto nella prima metà del V secolo a.C. nell'agorà di Atene, dove Zenone di Cizio era solito esporre e discutere le proprie idee con i suoi discepoli. Lo stoicismo propone un percorso individuale da cui scaturisce la capacità del saggio di disfarsi delle idee e dei condizionamenti che la società in cui vive gli ha impresso. Lo stoico tuttavia non disprezza la compagnia degli altri uomini e l'aiuto ai più bisognosi è una pratica raccomandata. La fase originaria di tale scuola di pensiero è detta Stoicismo antico. Lo stoicismo fu abbracciato da numerosi filosofi e uomini di stato, sia greci che romani, fondendosi presso quest'ultimi con le tradizionali virtù romane di dignità e portamento. Il disprezzo per le ricchezze e la gloria mondana la resero una filosofia adottata sia da imperatori (come Marco Aurelio, autore dei Colloqui con se stesso) che da schiavi (come il liberto Epitteto). Cleante, Crisippo, Seneca, Catone, Anneo Cornuto e Persio furono importanti personalità della scuola stoica, alla quale si ispirò anche Cicerone. A partire dall'introduzione di questa dottrina a Roma da parte di Panezio di Rodi, ha inizio il periodo dello Stoicismo medio. Si differenzia dal precedente per il suo carattere eclettico, in quanto influenzato sia dal platonismo che dall'aristotelismo e dall'epicureismo. Infine, abbiamo il cosiddetto Stoicismo nuovo o romano, che abbandona la tendenza eclettica cercando di tornare alle origini. Sviluppo cronologico delle varie fasi dello stoicismo con i relativi personaggi più rappresentativi: Antico (III a.C.-II a.C.) con Zenone di Cizio, Cleante, Crisippo; Medio (II secolo-I a.C.) con Panezio, Posidonio, Cicerone (parzialmente); Nuovo o Romano (I d.C.-III d.C.) con Seneca, Epitteto, Marco Aurelio. Gli stoici dividevano la filosofia in tre discipline: la logica, che si occupa del procedimento del conoscere; la fisica, che si occupa dell'oggetto del conoscere; l'etica, che si occupa della condotta conforme alla natura razionale dell'oggetto. Essi portavano un esempio: la logica è il recinto che delimita il terreno, la fisica l'albero e l'etica è il frutto.

- Fino al 300 a.C., a Roma solo i patrizi erano designati a far parte del Collegio dei Pontefici. Dopo un'aspra lotta politica che vide contrapposti i plebei, guidati da Publio Decio Mure, ai patrizi, guidati da Appio Claudio Cieco, con la legge Ogulnia del 300 vi ebbero accesso anche i plebei, cui furono riservati 4 pontefici del collegio sacerdotale, portato così da 5 a 9 membri. (Tito Livio, “Ab Urbe condita” X, 6-9).  

- Nello stesso 300 a.C. la scuola matematica di Alessandria d'Egitto, che ha in Euclide il suo massimo esponente, studia la leva, il sifone, la vite e la carrucola. Euclide visse all'incirca dal 325 al 265 in Alessandria. Il suo capolavoro sono i tredici libri degli "Elementi", il culmine della geometria classica, una delle opere più studiate della storia del pensiero. Ne sono state stampate più di 1000 edizioni. La quasi totalità della geometria che ancora oggi viene appresa nelle scuole superiori di tutto il mondo è di origine euclidea. L'opera propriamente astronomica lasciataci da Euclide ha per titolo "Fenomeni".

Nel 298 a.C. - Terza guerra sannitica (298-290 a.C.). Nel 298 a.C. i Lucani, il cui territorio era fatto oggetto di saccheggi da parte dei Sanniti, inviarono ambasciatori a Roma, per chiederne la protezione. Roma accettò l'alleanza con i Lucani, e dichiarò guerra ai Sanniti. Il console Gneo (pronuncia Ghneo) Fulvio Massimo Centumalo cui era toccata la campagna contro i Sanniti, guidò i romani alla presa di Boviano e di Aufidena. Tornato a Roma, Gneo ottenne il trionfo. Nel 297 a.C., al comando dei consoli Quinto Fabio Massimo Rulliano e Publio Decio Mure, gli eserciti romani sconfissero un esercito di Apuli vicino a Maleventum, impedendo che questi si potessero unire agli alleati Sanniti, e uno Sannita nei pressi di Tifernum. L'anno seguente, il 296 a.C.,le operazioni si spostarono in Etruria, dove i Sanniti si erano recati per ottenere l'alleanza degli Etruschi; ma i romani sconfissero l'esercito Etrusco-Sannita. Nel 295 a.C. i Romani dovettero fronteggiare una coalizione nemica composta da 4 popoli: Sanniti, Etruschi, Galli ed Umbri, nella Battaglia di Sentino. Seppure nello scontro fu ucciso il console plebeo Publio Decio Mure, alla fine le schiere romane riportarono una completa vittoria. Sempre quell'anno Lucio Volumnio Flamma Violente, con poteri proconsolari, sconfisse i Sanniti nei pressi di Triferno, e successivamente, raggiunto dalle forze guidate dal proconsole Appio Claudio, sconfisse le forze sannite, fuggite dalla battaglia di Sentino, nei pressi di Caiazia. Nel 294 a.C., mentre l'esercito romano otteneva importanti vittorie sugli Etruschi, costringendoli a chiedere la pace, fu combattuta una sanguinosa ed incerta battaglia davanti alla città di Luceria, durata due giorni, alla fine dei quali i romani risultarono vincitori, ma la battaglia decisiva fu combattuta nel 293, quando i romani sconfissero i Sanniti nella battaglia di Aquilonia. Da Aquilonia, dove aveva combattuto la Legio Linteata, alcuni Sanniti superstiti si rifugiarono a Bovianum da dove riorganizzatisi condussero una resistenza disperata che durò fino al 290, con l'ultima, durissima campagna condotta dai consoli Manio Curio Dentato e Publio Cornelio Rufino. Con la vittoria sui Sanniti, i Romani conquistarono una posizione egemonica in tutto il centro sud, imponevano alle altre, ancora forti popolazioni italiche, le loro decisioni in politica estera, le riducevano a fornire contingenti di truppe e a finanziare campagne militari; Roma conquistava il potere che l'avrebbe condotta a scontrarsi nel giro di un secolo prima con Pirro e poi con Cartagine. Nell'ambito della terza guerra sannitica, i Galli Senoni dell'Italia settentrionale si allearono con gli Umbri, gli Etruschi e i Sanniti contro Roma. La coalizione, inizialmente vincitrice (con la presa di Arezzo), venne in seguito sconfitta dai Romani nella battaglia di Sentino. E ciò permise a Roma l'istituzione dell'Ager Gallicus e la fondazione della sua colonia a Sena Gallica, che ancora conserva, nel moderno toponimo di Senigallia, la duplice memoria dell'etnonimo e dell'origine di quel popolo celtico. Nel 283 a.C. si concludeva questa fase del conflitto celto-romano, dove Roma riusciva a occupare tutti i territori a sud degli Appennini, battendo ancora i Senoni nella battaglia del lago Vadimone, combattuta contro una coalizione celto-etrusca.

Nel 290 a.C. - Terminano ufficialmente le guerre fra Roma e i Sanniti, che continueranno comunque ad appoggiare ogni forma di resistenza a Roma da parte di altre popolazioni. L'azione di Roma nel territorio aveva alleggerito la pressione delle popolazioni italiche sulle città greche del sud Italia, in particolare su Taranto mentre Siracusa era continuamente in guerra con Cartagine e dopo la morte di Agatocle, era squassata da guerre civili. Durante le guerre sannite, il costo sociale dell'esercito romano era stato molto dispendioso. La leva standard consisteva nell'arruolare da due a quattro legioni e le campagne militari avvenivano ogni anno. Ciò implicava che il 16% di tutti gli adulti maschi romani fossero coinvolti nelle operazioni militari annuali, arrivando fino al 25% durante i periodi di emergenza. 

Nel 283 a.C. - In Egitto muore il greco Tolomeo I Sotere. Sotto la guida e la protezione del sagace Tolomeo I e di suo figlio Tolomeo II, Alessandria d'Egitto era il centro letterario, matematico e scientifico dell’antico mondo occidentale e mediorientale, arrogandosi il ruolo in precedenza goduto da Atene. Ed in questo ruolo rimase per molte generazioni. Tolomeo I aveva abdicato a favore del figlio Tolomeo II nel 284 a.C. ed era morto pacificamente nel proprio letto, uno dei pochi sopravvissuti ad Alessandro ad esserci riuscito. Tra le opere tramandateci da Tolomeo I, si può ancora vedere il tempio di Kom Abu Billo, dedicato ad Hathor “Signora di Mefket”.

Nel 282 a.C. - L'aiuto accordato da Roma a Thurii fu visto dai Tarantini come un atto compiuto in violazione agli accordi che Roma non dovesse scendere oltre capo Lacinio, presso Crotone, inoltre nell'autunno del 282 a.C. Roma inviò una piccola flotta duumvirale composta da dieci imbarcazioni da osservazione nel golfo di Taranto che provocò i tarantini, che stavano celebrando in un teatro affacciato sul mare delle feste in onore del dio Dioniso e in preda all'ebbrezza, scorte le navi romane, le attaccarono: ne affondarono quattro e una fu catturata, mentre cinque riuscirono a fuggire. Tra i Romani catturati, alcuni furono imprigionati e gli altri messi a morte, poi i Tarantini marciarono contro Thurii, che fu presa e saccheggiata e la guarnigione Romana scacciata insieme agli esponenti dell'aristocrazia locale. Roma decise di inviare a Taranto un'ambasceria guidata da Postumio, per chiedere la liberazione di coloro che erano stati fatti prigionieri, il rimpatrio dei cittadini aristocratici espulsi da Thurii, la restituzione dei beni a loro depredati e la consegna di coloro che erano stati responsabili dell'attacco alle navi romane. I diplomatici romani, giunti a Taranto, furono ricevuti ma il discorso di Postumio fu ascoltato con scarso interesse da parte dell'uditorio, più attento alla correttezza della lingua greca parlata dall'ambasciatore romano che alla sostanza del messaggio.Vittime di risate di scherno da parte dei Tarantini, che si prendevano gioco dell'eloquio scorretto e delle loro toghe dalle fasce purpuree, gli ambasciatori furono condotti fuori dal teatro e mentre ne stavano uscendo, tuttavia, un uomo chiamato Filonide, in preda all'ubriachezza, si sollevò la veste e orinò sulla toga degli ambasciatori con l'intento di oltraggiarli. A tale atto Postumio visto che tutti coloro che erano presenti sembravano aver apprezzato l'atto di Filonide, li apostrofò, secondo la testimonianza di Dionigi di Alicarnasso, ammonendoli: "Ridete finché potete, Tarantini, ridete! In futuro dovrete a lungo versare lacrime!", poi gli ambasciatori rientrarono a Roma dove Postumio mostrò ai concittadini la toga sporcata da Filonide. Una parte dei politici romani e delle grandi famiglie, tra cui la gens Fabia, voleva l'espansione territoriale di Roma verso il sud Italia, per cui il nuovo console Lucio Emilio Barbula cominciò a devastare le campagne circostanti Taranto, tanto che i Tarantini, consci di non poter affrontare a lungo l'assedio romano, cercarono nuovi aiuti questa volta in Epiro, richiedendo l'intervento del re Pirro che accolse la richiesta di aiuto dei Tarantini poiché desideroso di ampliare il proprio regno ed incorporare nella propria sfera d'influenza la Magna Grecia, compresa la Sicilia (contesa fra i Cartaginesi e la città greca di Siracusa) fondando uno stato nell'Italia meridionale, e inviò Cinea per comunicare la sua decisione, poco prima che Taranto capitolasse. Pirro non avrebbe potuto respingere la richiesta di aiuto fatta da Taranto, che aveva dato un contributo importante per la conquista di Corfù e per la riconquista della Macedonia, persa nel 285 a.C..

Percorsi di Pirro nella penisola
italica, da QUI.

Dal 280 a.C. - Si combattono le Guerre pirriche fra la Repubblica romana e l'esercito di Pirro, re dell'Epiro, a capo di una coalizione greco-italica, che avranno luogo nell'Italia meridionale e coinvolgeranno anche le popolazioni italiche del posto, la Sicilia greca e Cartagine. Pirro (dal greco antico Pýrrhos, "il colore del fuoco, rosso biondo"; 318 a.C. - Argo, 272 a.C.) è stato re dell'Epiro tra il 306 e il 300 a.C. e di nuovo nel periodo 298-272 a.C. Appartenente alla casa degli Eacidi (che dichiarava di discendere da Neottolemo, figlio di Achille) e imparentata agli Argeadi e quindi ad Alessandro Magno, dal 306 a.C. fu re della sua gente, i Molossi, tribù preponderante dell'antico Epiro nei periodi 288-285 a.C. e 273-272 a.C. Nel 280 a.C. Pirro aveva 39 anni. Mandato come ostaggio nell'Egitto dei Tolomei da Cassandro di Macedonia, era stato insediato sul trono dell'Epiro nel 297 a.C. da Tolomeo I Sotere, che era stato generale e diadoco (successore) in Egitto di Alessandro Magno. Dopo due anni Pirro aveva sposato la figlia di re Agatocle di Siracusa, Lanassa, che come dote gli aveva portato le isole ioniche di Leucade e Corcira (Corfù). Chiamato in Italia dai tarantini, che stavano soccombendo all'attacco delle legioni di Roma, Pirro arrivò con un esercito di 25.000 uomini e 20 elefanti presentandosi come campione dell'Ellade contro l'avanzata dei barbari italici. Alcuni pensarono addirittura, in modo ottimistico, che egli avrebbe creato in Occidente un impero simile a quello che Alessandro aveva fondato in Oriente. L'attacco di Pirro a Roma fu, inizialmente, coronato da successo: la battaglia di Heraclea in Lucania contro le legioni guidate da Publio Valerio Levino fu vinta grazie agli elefanti, che i Romani non conoscevano ancora. Le perdite però furono elevate per entrambi i contendenti, tanto che Pirro inviò un ambasciatore a proporre la cessazione delle ostilità, ma la guerra continuò per l'azione di Appio Claudio Cieco e l'arrivo di una flotta cartaginese di 120 navi nel porto romano di Ostia, che ricordò ai Romani le clausole dei precedenti trattati di alleanza con la città punica. Scullard e Brizzi sostengono che Cartagine di fatto, offriva a Roma un aiuto militare (una flotta per bloccare Pirro) ed economico per continuare la guerra. Warmington aggiunge che la grande flotta, la maggiore che i Romani avessero mai visto prima d'ora, rafforzò il partito di coloro che non volevano cedere ad una pace con Pirro. Altro argomento assai persuasivo fu la consegna da parte dell'ammiraglio cartaginese, Magone, di un ricco dono in verghe d'argento, con il quale i Romani poterono pagare i rinforzi ricevuti dai loro alleati. Nel 279 a.C. una seconda grande battaglia ad Ausculum, sulle rive dell'Aufidus (battaglia di Ascoli di Puglia), vide la vittoria del re epirota sulle forze dei consoli Publio Sulpicio e Publio Decio Mure. Anche questa battaglia portò gravi perdite (3.500 soldati contro i 6.000 dei Romani), tanto da far diventare famose le "vittorie di Pirro", termine omologo a quello di Vittoria cadmea, in cui le perdite erano state così alte da essere in ultima analisi incolmabili, condannando l'esercito vincitore a perdere la guerra. Siracusa, in guerra permanente contro Cartagine, offrì al re dell'Epiro la corona di Sicilia per il figlio a patto che se l'andasse a conquistare, cacciando i Cartaginesi dall'isola. Pirro accettò di diventare campione della Grecia, dopo aver cercato di sbarazzarsi dei suoi impegni nell'Italia meridionale, stipulando forse un accordo con il console romano Fabrizio e pretendendo probabilmente per Taranto la sola immunità. Pirro partì quindi per l'avventura siciliana, riuscendo a cacciare i Cartaginesi fino al Lilibeo. L'alleanza tra Siracusa e Pirro costringerà Cartagine a rinnovare quella con Roma.


Aristarco di Samo in un
dipinto del 1646.
- Nel 280 a.C. Aristarco di Samo (310 - 230 a.C. circa) elabora l'ipotesi di un sistema solare eliocentrico. Aristarco di Samo, isola greca dell'Egeo orientale, ubicata tra l'isola di Chio e le isole del Dodecaneso, è stato l'astronomo e fisico noto soprattutto per avere per primo introdotto una teoria astronomica nella quale il Sole e le stelle fisse sono immobili mentre la Terra ruota attorno al Sole, percorrendo una circonferenza. Della sua opera "Delle dimensioni e distanze di Sole e Luna" ci rimangono solo pochi frammenti ma sappiamo che Aristarco concordava con Eraclide Pontico nell'attribuire alla terra anche un moto di rotazione diurna attorno ad un asse inclinato rispetto al piano dell'orbita intorno al Sole, ipotesi che giustificava l'alternarsi delle stagioni. La migliore testimonianza dell’attribuzione ad Aristarco dell'ipotesi eliocentrica ci viene dall'"Arenario" di Archimede, dove narra che Aristarco riteneva che la Terra si muovesse intorno al Sole in un cerchio. Si suppone che la teoria di Aristarco fosse stata accettata nei primi secoli successivi alla sua esistenza, dato che Plinio il Vecchio e Seneca si riferiscono al moto retrogrado dei pianeti come a un fenomeno ottico e non reale, concezione più in linea con l'eliocentrismo che con il geocentrismo.

Nel 275 a.C. - Dopo la sconfitta di Maleventum (a cui verrà cambiato il nome in Beneventum), Pirro ritornò definitivamente in Epiro lasciando Roma padrona dell'intera penisola italica a sud dell'Appennino tosco-emiliano. Quasi avesse intuito quello che di lì ad una decina d'anni sarebbe accaduto alle due potenze del Mediterraneo occidentale, esclamò: «Amici, lasciamo questa palestra a Cartaginesi e Romani.» (Plutarco, Pirro, 23.). Roma è egemone sull'intera Magna Grecia, prossima al controllo della tecnica di costruzione e gestione delle navi e conscia della potenza delle proprie legioni, che non temevano più nemmeno gli elefanti. Non a caso la vittoria su Pirro diede a Roma un grande prestigio di fronte, non solo ai Tolomei d'Egitto che chiesero l'amicizia con il popolo romano, ma anche nei confronti dei re d'Oriente.


Cartina della penisola italica nel 272
a.C. con l'estensione dei territori della
Repubblica di Roma in rosso, e il limite
settentrionale fissato dai fiumi Magra
e Rubicone. In blu sono segnalati i
territori controllati da Cartagine.
Nel 272 a.C. - Roma, avendo completato la  conquista dell'Italia centrale e meridionale, mentre a nord, nella Gallia Cisalpina, sono stanziati Liguri, Celti e Veneti, fissa i propri confini settentrionali nei fiumi Magra e Rubicone. La politica romana del periodo repubblicano è stata quella dell'integrazione; pur gestendo le risorse nei territori conquistati necessitava di contingenti militari alleati.
Carta geografica della Gallia Cisalpina.
Popolazioni Liguri, Etrusche, Celtoliguri
(Celto-Ligi) e Celtiche nel Centro-Nord
italico attorno al 300 a.C..
Le colonie degli italici e dei greci italioti (i Socii, "alleati") avevano dei patti con Roma: in cambio dell'autonomia locale, fornivano contingenti militari a Roma. Si verificava così che nelle legioni romane, gli ausiliari (perlopiù italici, poiché gli alleati greci fornivano navi e marinai) erano in maggior numero che i  romani. Inoltre la frequentazione delle legioni imponeva la conoscenza del latino, anche scritto (alcuni ordini erano trasmessi per iscritto). Addirittura negli accampamenti fortificati delle legioni, il console, che era il comandante supremo, era vicino agli alloggi degli alleati, e quindi protetto dalle eventuali trame o tradimenti che i romani avrebbero potuto intentare. Nei territori di confine i romani fondavano colonie che presidiavano il territorio, conferendo agli abitanti la cittadinanza romana. Le colonie latine formate da cittadini romani invece, perdevano la cittadinanza romana, per assumere lo status di alleati. 

Cartina della prima e seconda
 guerra punica con eventi,
battaglie e percorsi di Annibale e
Scipione nella seconda guerra.
Nel 264 a.C. - Inizia la prima guerra punica fra Roma e Cartagine ed è dalla Sicilia che giunge il casus belli. Nel 288 a.C. i Mamertini ("figli di Mamerte" o Mamers), un gruppo di mercenari italici della Campania originariamente al servizio di Agatocle, tiranno di Siracusa, rimasti senza un signore alla morte di quest'ultimo avvenuta l'anno prima, avevano occupato la città di Messana (la moderna Messina) uccidendo tutti gli uomini e prendendone le donne. Nel 280 a.C., la vittoria di Pirro sui romani nella battaglia di Eraclea aveva portato le popolazioni italiche a ritenere possibile la sconfitta di Roma e in alcuni casi a ribellarsi ad essa. La guarnigione romana di Rhegium (l'attuale Reggio Calabria) costituita da soldati campani, pensò di prevenire una sollevazione della popolazione e senza aver ricevuto disposizioni in tal senso, fece strage degli uomini, impossessandosi anche in questo caso dei beni e delle donne. Sconfitto Pirro nella battaglia di Maleventum del 275 a.C., i romani nel 270 a.C. decisero di riprendere Rhegium alla loro guarnigione ribelle. Il console Gneo Cornelio Blasione pose l'assedio alla città, aiutato dalla flotta siracusana e quando la guarnigione si arrese dopo una strenua difesa, deportò a Roma i sopravvissuti tra i 4000 che dieci anni prima avevano preso la città che furono fustigati e decapitati. Intanto in Sicilia i Mamertini saccheggiavano il territorio circostante Messana scontrandosi col regno siceliota indipendente di Siracusa, che controllava ormai solo l'estrema propaggine sud-orientale della Sicilia, limitato ad ovest dal fiume Salso e a nord dal Fiume Alcantara e dai Monti Nebrodi. Gerone II di Siracusa, divenuto tiranno e Basileus di Sicilia quello stesso anno (270 a.C.), si scontrò con i Mamertini vicino a Mylae, l'odierna Milazzo, sconfiggendoli nella battaglia presso il fiume che lo storico Polibio nelle sue "Storie" chiama "Longanus", nei "Campi Milesi" e alla sconfitta seguì la presa di Milazzo. I Mamertini dopo il rovescio  si rivolsero a Roma e Cartagine per ottenere assistenza militare. La prima a rispondere alla richiesta fu Cartagine, che contattò il rivale Gerone per ottenere la cessazione di ulteriori azioni e nello stesso tempo convinse i Mamertini ad accettare una guarnigione cartaginese a Messana. Forse non contenti della prospettiva di dover accogliere truppe cartaginesi in città o forse convinti che la recente alleanza tra Roma e Cartagine contro Pirro confermasse l'esistenza di relazioni cordiali tra le due potenze, i Mamertini chiesero di allearsi anche con Roma per avere una protezione più affidabile. Roma, impegnata nella pacificazione dei territori conquistati e all'inizio dell'espansione nella Pianura Padana, in Gallia Cisalpina, era riluttante a impegnarsi in Sicilia. Secondo lo storico Polibio, vi fu un vasto dibattito a Roma per decidere se accettare la richiesta dei Mamertini, andando contro al trattato del 306 a.C. che vietava gli interventi di Roma in Sicilia o andare in aiuto di soldati che ingiustamente avevano rubato una città ai legittimi proprietari, cosa recentemente punita nel caso di Rhegium. Probabilmente vedere Cartagine a poche miglia dalle coste del Bruttium appena conquistato, dovette creare qualche apprensione nel Senato romano e la questione venne rimessa all'assemblea popolare in cui maggior voce in capitolo aveva la parte mercantile e popolare di Roma, che era interessata al possibile controllo delle ricchezze e delle scorte di grano in Sicilia (isola già nota per le sue risorse), nonché alla possibilità di fondare colonie per aprire nuovi mercati e allentare la pressione sociale e demografica nella capitale. Così in assemblea fu deciso di  accettare la richiesta dei Mamertini. Venne posto il console Appio Claudio Caudice a capo di una spedizione militare con l'ordine di attraversare lo stretto di Messina, cosa che avvenne nel 264 a.C., andando contro al trattato del 306 a.C. che vietava gli interventi di Roma in  Sicilia.  Cartagine allora dichiarò guerra a Romaalleandosi con la sua nemica storica, Siracusa. La maggior parte della prima guerra punica, comprese le battaglie più decisive, fu combattuta in mare, un ambito ben noto alle flotte cartaginesi ed entrambi i contendenti dovettero investire pesantemente nell'allestimento delle flotte e questo diede fondo alle finanze pubbliche di Cartagine. All'inizio della guerra Roma non aveva nessuna esperienza di guerra navale. Le sue legioni erano vittoriose da secoli nelle terre italiche ma non esisteva una Marina (la prima grande flotta fu costruita dopo la Battaglia di Agrigento del 261 a.C.. Roma del resto mancava della tecnologia navale e quindi dovette allestire una flotta basandosi sulle triremi e quinqueremi (navi che avevano ordini di due o tre remi e ciascun remo era manovrato da più rematori) cartaginesi catturate. Per compensare la mancanza di esperienza in battaglie con le navi, Roma equipaggiò le sue con uno speciale  congegno d'abbordaggio: il corvo, che agganciava la nave nemica e permetteva alla fanteria, trasbordando, di combattere come sapeva fare. In almeno tre occasioni (255 a.C., 253 a.C. e 249 a.C.), intere flotte furono distrutte dal maltempo o dal peso dei corvi sulle prore delle navi. Sono state tre le battaglie terrestri di larga scala combattute durante questa guerra. Nel 262 a.C. Roma assediò Agrigento in un'operazione che coinvolse entrambi gli eserciti consolari (quattro legioni). Giunsero rinforzi cartaginesi guidati da Annone e dopo alcune schermaglie si venne a una vera battaglia che fu vinta dai Romani ed Agrigento cadde. La seconda operazione terrestre fu quella di Marco Attilio Regolo quando, fra il 256 a.C. e il 255 a.C. Roma portò la guerra in Africa. Cartagine era stata sconfitta nella Battaglia di Capo Ecnomo da una grande flotta romana appositamente approntata, che aveva consentito alle legioni di Attilio Regolo di sbarcare in Africa. All'inizio Regolo vinse la battaglia di Adys e Cartagine chiese la pace, ma i negoziati tuttavia fallirono e Cartagine, assunto il mercenario spartano Santippo, riuscì a fermare l'avanzata romana nella battaglia di Tunisi. La guerra fu decisa nella battaglia delle Isole Egadi (il 10 marzo 241 a.C.) vinta dalla flotta romana sotto la guida del console Gaio Lutazio Catulo. Parte del relitto di una nave punica affondata in questa guerra è conservata nel Museo archeologico Baglio Anselmi di Marsala. Il conflitto si concluderà con la vittoria di Roma nel 241 a.C. e con il suo controllo sulla Sicilia. Il destino dei Galli cisalpini si decise così quando legarono la propria  sorte a  Cartagine, che si opponeva alla nascente potenza militare di Roma, alleandosi con essa fin dal 263 a.C.

- L'origine dei giochi gladiatori è oggetto di discussione. Alcuni, fondandosi soprattutto su fonti letterarie, ritengono che essi discendano dal costume etrusco di offrire sacrifici umani per celebrare la morte di un nobile, allo scopo di pacificare lo spirito del defunto. Lo storico romano Livio, al contrario, e molti studiosi di oggi, affermano che i giochi si originarono in Campania (ove in effetti vi sono molti dipinti funerari che raffigurano scene di duelli e corse di carri). Altri ancora invece ritengono che i giochi siano originari del Sannio, poiché i primi gladiatori usavano le tradizionali armi sannite. E' accertato che all'inizio i giochi gladiatori erano collegati alla religione e alla magia. La prima testimonianza di un combattimento tra gladiatori risale al 264 a.C., quando i figli di Bruto Pera offrono questo spettacolo per onorare la memoria del padre. L'ultimo combattimento nel Colosseo è registrato nel 438 d.C., anno in cui  i giochi sono aboliti  dall'imperatore Valentiniano III.

- Dal III secolo a.C. i Romani, avendo avuto ragione degli Etruschi e integrato i loro territori, si trovarono a diretto contatto con i Liguri. L'espansionismo romano puntava verso i ricchi territori della Gallia e della penisola iberica (allora sotto il controllo cartaginese) e il territorio ligure era il percorso per accedervi (i Liguri controllavano le coste liguri e le Alpi meridionali). All'inizio i Romani ebbero un atteggiamento piuttosto accondiscendente poiché il territorio dei Liguri era considerato povero, mentre la fama dei suoi guerrieri era nota (li avevano già incontrati in qualità di mercenari), inoltre erano già impegnati nella prima guerra punica e non erano intenzionati ad aprire nuovi fronti; pertanto cercarono innanzitutto di farseli alleati. Nonostante i loro sforzi, solo poche tribù liguri fecero con i Romani accordi di alleanza (famosa l'alleanza con i Genuati), mentre gli altri si dimostrarono ostili.

Sàrmati, che come gli Sciti facevano parte della famiglia linguistica iranica (indoeuropea), di  cultura e religione persiana, dai loro territori d'origine (le steppe lungo il Volga, le regioni pedemontane degli Urali meridionali e la steppa del Kazakistan occidentale), a causa di continui scontri con i Battriani, Parti e Sogdiani, in diversi periodi e a diverse ondate, si erano spinti verso occidente. Si suddividevano in quattro ceppi. I Roxolani, che si insediarono nei territori occupati dagli Sciti a nord e a nord ovest del Mar Nero tra il III secolo a.C. e il II d.C., stabilendo con loro un rapporto di alleanza fino a quando li assoggettarono. Gli Iazigi, che si insediarono nei territori a ovest dei Daci, a sud dei Germani e sia a est che a nord del Danubio tra il III secolo a.C. e il II d.C.. Gli Aorsi, che probabilmente si stanziarono nei pressi del Bosforo a sud-est degli Alani e gli Alani, che si insediarono ad est del Mar Nero, a nord del Caucaso, descritti dai Romani come allevatori di cavalli, la popolazione sarmatica di più lunga durata. Gli Alani rimasti si stabilirono sul Caucaso occidentale e attualmente sono noti come Osseti.

Nel 249 a.C. - I Celti Boi chiamarono in soccorso i Galli transalpini, innescando una nuova crisi che si concluderà nel 225 a.C., l'anno in cui si registra l'ultima invasione gallica dell'Italia. Quell'anno, infatti, cinquantamila fanti e venticinquemila cavalieri Celti varcarono le Alpi in aiuto dei Galli cisalpini (si trattava di una coalizione di Celti Insubri, Boi e Gesati), e se prima riuscirono a battere i Romani presso Fiesole, vennero poi sconfitti e massacrati dalle armate romane nella battaglia di Talamone (a nord di Orbetello), spianando così a Roma la strada per la conquista della pianura padana.

Nel 241 a.C. - Il primo conflitto fra Roma e Cartagine si conclude con la vittoria di Roma e il suo conseguente controllo sulla Sicilia. 

Eratostene di Cirene.
Nel 240 a.C. Eratostene, che nacque a Cirene, la Bengasi dell’odierna Libia, nel 276 e visse fino al 194 a.C., dopo essere stato tutore del figlio del re d’Egitto, venne nominato a dirigere la Biblioteca di Alessandria, che veniva chiamata Mouseion, essendo appunto il tempio delle muse. I commentatori moderni hanno espresso il loro stupore per il fatto che il suo ingegno sembra non aver goduto presso i suoi contemporanei la fama che oggi invece gli viene riconosciuta (uno dei suoi soprannomi era Beta, e un altro sembra sia stato Pentathlos, con riferimento a quegli atleti che si distinguono in diverse specialità, senza primeggiare in una in particolare). 

Mediterraneo occidentale nel 226 a.C.
dopo la prima guerra illirica (230-229
a.C.), l'avanzata cartaginese fino
all'Ebro e l'alleanza romana con
Cenomani e Veneti in Pianura
Padana. Di Cristiano64, questo file
deriva da: West Mediterranean sea
topographic map.svgPethrus-
Opera propria, CC BY-SA 3.0,
Nel 238 a.C. - Le ostilità contro Roma da parte delle popolazioni della Gallia Cisalpina sono aperte da una coalizione di Liguri e di Galli Boi, ma i due popoli si trovarono ben presto in disaccordo e la campagna militare si arrestò con lo sciogliersi dell'alleanza. In seguito una flotta romana comandata da Quinto Fabio Massimo sbaragliò navi liguri (probabilmente pirati) lungo la costa ligure (234-233 a.C.), permettendo ai Romani il controllo della rotta costiera da e per la Gallia.

Dal 225 a.C. - Con gli scontri di Talamone (225 a.C.) e di Clastidium (Casteggio, 222 a.C.) il sogno della grande Gallia Cisalpina unita nel dominio celtico, termina  definitivamente. A Talamone, una coalizione di Celti InsubriGesatiBoi e Taurini si immola in una gloriosa ma inutile resistenza, troppo presi dal loro ardore per contrastare la gelida efficienza bellica romana. Per la  prima volta l'esercito romano poteva spingersi oltre il Po, dilagando in Gallia Transpadana: la battaglia di Clastidio (l'odierna Casteggio), nel 222 a.C., valse a Roma la presa della capitale insubre di Mediolanum (Milano) e costringendo gli Insubri a tentare una resistenza disperata fuggendo sulle montagne, per non perire assieme alla loro capitale.
Carta del III sec. a.C. con la 
distribuzione delle varie tribù
Celtiche e la loro fusione 
con Liguri e Iberici.
Per consolidare il proprio dominio Roma crea le colonie di Placentia, nel territorio dei Boi, e Cremona in quello degli Insubri. Il destino dei Galli cisalpini si era deciso da quando avevano legato la propria sorte allo svolgimento dei conflitti punici che vedevano Roma opporsi alla potenza militare di Cartagine. I Celti si errano schierati con quest'ultima fin dal 263 a.C., contribuendo in modo determinante all'impresa di Annibale iniziata nel 221 a.C. con la campagna di Spagna e culminata nel 218 a.C. con la battaglia di Canne.
Carta con l'incursione a
Telamon (Talamone) da
parte delle popolazioni Celtiche
e Celto-liguri degli Insubri,
Gesati, Boi e Taurini che furono
sconfitti nel 225 a.C. dai
Romani.
Già dal 243 a.C. i Celti della Pianura Padana avevano cercato, forse per una sorte di premonizione, l'appoggio dei fratelli d'oltralpe nel tentativo di opporsi in modo solidale alla minaccia espansionistica romana. Le soliti liti e faide interne impedirono che l'alleanza si realizzasse. Piegati i Celti del  nord, della Gallia Cisalpina, i Romani si dedicarono alla disfatta ed all'annientamento di quella che era considerata la più potente fra le nazioni celtiche stanziate al di sotto del fiume Po, i Boi.

Archimede.
Nel 220 a.C. - Archimede scopre le leggi di galleggiamento dei corpi immersi  nell'acqua.  Archimede, nato a Siracusa intorno al 290 a.C. e morto nella stessa città in seguito al saccheggio della stessa nel 212 a.C. da parte dell’esercito romano, fu probabilmente il primo ingegnere della storia, l'arguto matematico che determinò come calcolare il volume della sfera e fu autore anche di un’opera astronomica, oggi perduta, sulla costruzione della sfera, nella quale erano dati i principi per la costruzione delle sfere armillari che venivano utilizzate sia come strumenti didattici per l’insegnamento dell’astronomia, che come veri e propri strumenti per osservazioni astronomiche (misurazione di coordinate stellari, notoriamente le longitudini e le latitudini). Sappiamo ciò da Cicerone, che nel secolo I a.C. scrisse di due "sfere", costruite da Archimede, che erano state portate a Roma dal console Marcello come parte del bottino in seguito alla conquista della città di Siracusa, nel 212 a.C.

Apollonio di Perga.
- In quei tempi visse anche Apollonio di Perga, dal 262 al 190 a.C. circa. Era noto nell’antichità come “il grande geometra”. Ebbe una grande influenza sullo sviluppo della matematica, specialmente per la sua opera più famosa, "Le coniche", in cui introdusse termini matematici quali ellisse, parabola, iperbole, che continuano ad essere usati. Degli otto libri di cui era costituita l’opera, i primi quattro dell’edizione greca sono giunti fino a noi (naturalmente attraverso copie), mentre di una traduzione araba ci sono pervenuti i primi sette. Si ritiene generalmente che la maggior parte delle nozioni contenute nei primi quattro libri fosse nota ad alcuni predecessori di Apollonio, tra cui Euclide. I contributi originali di Apollonio si hanno nei rimanenti libri. Pappo dà alcune indicazioni sui contenuti di altre sei opere di Apollonio, sempre di argomenti matematici e geometrici. Ma ad Apollonio è attribuito il merito di avere fatto conseguire notevoli progressi all’astronomia matematica. Tolomeo dice nell’Almagesto che Apollonio introdusse le costruzioni geometriche degli epicicli e degli eccentri per spiegare le anomalie dei moti planetari.

La via Flaminia romana dalla Tabula Peutingheriana,
da: http://www.prolocofano.it/itinerari-via-flaminia/.
Dal 220 a.C. - Per consentire ai propri eserciti un rapido accesso alla Gallia Cisalpina, al fine di conquistarla, Roma costruisce la via Flaminia, che la collega a Fano e Rimini. L'Italia  Settentrionale era conosciuta dai Romani durante l'epoca repubblicana come Gallia Cisalpina. La Gallia Cisalpina comprendeva la Pianura Padana, di gran lunga la più grande pianura fertile della penisola italica e perciò il più ampio territorio coltivabile d'Italia. Conquistando quest'area i Romani avrebbero avuto l'opportunità di accrescere enormemente la propria popolazione e le proprie risorse economiche. I Romani sottomisero i Galli della Pianura Padana attraverso una serie di campagne militari alla fine del III secolo a.C. La costruzione di una via militare che collegasse Roma a Fano e Rimini per consentire all'esercito il rapido accesso alla futura regio VIII Aemilia, fu completata già nel 220 a.C. (via Flaminia) mentre la via Emilia sarebbe stata completata nel 187 a.C. l'espansione romana fu infatti ritardata di circa venti anni a causa della seconda guerra punica. Con l'invasione dell'Italia da parte dei cartaginesi guidati da Annibale (218-203 a.C.) Roma perse il controllo della Pianura Padana.

- Nell'intervallo di tempo fra la prima e la seconda guerra punica, Cartagine dovette subire e reprimere una rivolta delle truppe mercenarie che aveva impiegato. La rivolta era dovuta all'impossibilità dei punici di pagare le truppe stesse alla fine del conflitto. Dopo tre anni di battaglie i mercenari furono sgominati e Cartagine poté riprendere il suo percorso per riconquistare il vigore economico precedente, cercando di compensare le perdite economiche subite con la prima guerra punica grazie una sistematica penetrazione in Spagna, diretta da Amilcare Barca e poi da Asdrubale (il genero). Dopo acerrime lotte politiche fra le due principali fazioni cittadine, Amilcare Barca, padre di Annibale e capostipite dei cosiddetti Barcidi, partì per la Spagna con un piccolo esercito di mercenari e cittadini punici. Dopo aver perso isole fra cui la Sicilia, i cartaginesi cercavano una riscossa nel Mediterraneo e fonti di ricchezza per pagare le forti indennità di guerra dovute a Roma. Amilcare marciò per tutta la costa del Nordafrica e buona parte della costa spagnola sottomettendone molte popolazioni e alla sua morte fu sostituito dal genero Asdrubale che consolidò le conquiste fatte, fondò la città di Carthago Nova (oggi Cartagena) e stipulò un trattato con Roma che poneva i limiti dell'espansione punica in Iberia a sud del fiume Ebro. Quando anche Asdrubale fu ucciso, l'esercito scelse come capo Annibale, ancora ventisettenne. Cartagine accettò la designazione e dopo due anni, Annibale decise di portare la guerra in Italia, scatenando la seconda guerra punica.


Cartina della seconda guerra punica
 con itinerari e date di Annibale e
Asdrubale e le principali battaglie.
Nel 218 a.C. Seconda guerra punica fra Roma e Cartagine, con l'invasione dell'Italia da parte di Annibale Barca (Cartagine, 247 a.C. - Libyssa, 183 a.C.) e del fratello Magone, figli di Amilcare Barca, (Barca in cartaginese significava "folgore") che era stato il comandante supremo dell'esercito cartaginese. Annibale valicò, con un'esercito e degli elefanti, le Alpi occidentali, per cogliere Roma alle spalle. Probabilmente gli elefanti morirono quasi tutti nell'attraversamento delle Alpi ma Annibale, disponendo fra l'altro di pochi uomini rispetto alle legioni romane,  contava  sulla  sollevazione delle popolazioni sottomesse da Roma sul suolo italico, Liguri, Celti, Greci e Sanniti numerosi alleati di Roma contro Roma stessa, infatti Liguri Celti si allearono a lui, e così fece Capua, che fu poi punita con la distruzione. Le tribù Liguri ebbero atteggiamenti differenti: una parte (le tribù del ponente, quelle apuane e appenniniche) si allearono con i cartaginesi, fornendo soldati alle truppe di Annibale mentre un'altra parte (i genuati, le tribù del levante ligure e i Taurini) si schierarono in appoggio ai Romani. Annibale, appena superate le Alpi, attaccò i Taurini (218 a.C.) e distrusse la loro capitale.
Annibale Barca
(Barca in cartaginese
significava Folgore).
 I Liguri pro-cartagine parteciparono alla battaglia della Trebbia, in cui i cartaginesi ottennero la vittoria. Celti e Liguri della Gallia Cisalpina (l'Italia settentrionale) furono fondamentali nelle vittorie di Annibale al Trasimeno (217 a.C.) e a Canne (216 a.C.). I Boi riuscirono, inoltre, a battere i Romani nell'agguato della Selva Litana. Invece, anche popolazioni da poco romanizzate, che potessero covare rancori, come i Sanniti, tennero fede all'alleanza con Roma, segnalando così che la politica di integrazione nei loro confronti, aveva dato ai romani buoni frutti e probabili vantaggi ai Sanniti. Altri Liguri si arruolarono nell'esercito di Asdrubale, quando questi calò in Italia (207 a.C.), nel tentativo di ricongiungersi con le truppe del fratello Annibale.
Antica bireme Romana con rostro.
Nel porto di Savo (l'attuale Savona), allora capitale dei Liguri Sabazi, trovarono riparo le navi triremi della flotta cartaginese del generale Magone Barca, fratello di Annibale, destinate a tagliare le rotte commerciali romane nel mar Tirreno. Nel 205 a.C., Genua fu attaccata e rasa al suolo da Magone. Con il rovesciamento delle sorti della Seconda Guerra Punica, ritroviamo Magone (203 a.C.) tra i Liguri Ingauni, a tentare di bloccare l'avanzata romana: subì una grave sconfitta che gli costò anche la vita; nello stesso anno venne riedificata Genua. Truppe liguri sono ancora presenti, come truppa scelta di Annibale, alla battaglia di Zama, che decreterà la sconfitta di Cartagine con la vittoria di Scipione, nel 202 a.C. Si dirà poi che Annibale, pur avendo vinto tutte le battaglie aveva perso la guerra. Annibale, marciando dalla Spagna, attraverso i Pirenei, la Provenza e le Alpi, era sceso in Italia, dove aveva sconfitto, insieme a Liguri e Celti, le legioni romane in quattro battaglie principali: battaglia del Ticino (218 a.C.), battaglia della Trebbia (218 a.C.), battaglia del Lago Trasimeno (217 a.C.) e battaglia di Canne (216 a.C.), oltre ad altri scontri minori.
Cartina della prima e seconda guerra
 punica con gli itinerari di Annibale,
 Asdrubale e Magone, Gneo e Publio
 Scipione e le principali battaglie,
anche in Spagna.
Dopo la battaglia di Canne però, i Romani avevano rifiutato lo scontro diretto e gradualmente avevano riconquistato i territori del sud Italia di cui avevano perso il controllo. La Seconda guerra punica terminò con l'attacco romano a Cartagine, che costrinse Annibale al ritorno in Africa nel 204 a.C., dove fu definitivamente sconfitto nella Battaglia di Zama, nel 202 a.C. La grande capacità tattica di Annibale aveva messo in crisi l'esercito romano. Le sue manovre imprevedibili, repentine, affidate soprattutto alle ali di cavalleria cartaginese e numidica, avevano distrutto numerosi eserciti romani accorrenti, anche se superiori nel numero dei loro componenti, come era avvenuto soprattutto nella battaglia di Canne dove perirono 50.000 Romani. Questo portò ad una rielaborazione della tattica legionaria, ma soprattutto all'impiego di contingenti di cavalleria di regni alleati, come avvenne con Scipione Africano nella battaglia di Zama del 202 a.C., dove l'esercito romano (unitamente a 4.000 cavalieri alleati numidi, comandati da Massinissa) riuscì a battere in modo definitivo le forze cartaginesi di Annibale. Dopo la fine della guerra, Annibale governò Cartagine per parecchi anni, cercando di ripararne le devastazioni, fino a quando i Romani non lo forzarono all'esilio, nel 195 a.C., presso il re seleucide Antioco III di Siria dove continuò a propugnare guerre contro Roma fino a quando, nel 189 a.C., con la sconfitta di Antioco III da parte romana, Annibale dovette ricominciare la fuga, questa volta presso il re Prusia I in Bitinia. Quando i Romani chiesero a Prusia la sua consegna, Annibale preferì suicidarsi; era il 182 a.C.. Annibale è considerato uno dei più grandi generali della storia. Polibio, suo contemporaneo, lo paragonava a Publio Cornelio Scipione Africano; altri lo hanno accostato ad Alessandro Magno, Giulio Cesare e Napoleone.

Nel 210 a.C. - Nell'ambito della seconda Guerra Punica si combatte la seconda battaglia di Erdonia, l'attuale Ordona (FG). La città di Erdonia era già stata teatro di una sconfitta romana nel 212 a.C., quando due anni dopo i romani provarono a riconquistarla. Annibale, che aveva invaso l'Italia ormai da otto anni, accerchiò e distrusse l'esercito romano. Dopo le continue sconfitte di Roma (su tutte, la Battaglia di Canne, ma anche quelle del lago Trasimeno e della Trebbia), la fedeltà degli alleati italici di Roma aveva iniziato a vacillare. Oltre ai Sanniti, ai Lucani, ai Greci del Sud Italia, anche in Apulia sorgevano le prime ribellioni. La pesante disfatta ebbe infatti ripercussioni fra Roma e i suoi  gli alleati italici, che sembrarono sul punto di lasciarla a suo destino, viste le continue sconfitte di cui era stata vittima nel giro di pochi anni. I Romani però tennero duro e nel giro di tre anni riuscirono ad intrappolare Annibale nella parte sud-occidentale della penisola, riconquistando i territori persi e punendo le città italiche che avevano collaborato con l'invasore cartaginese.


Cartina con in verde i territori
 della Repubblica di Roma
nel 201 a.C. e in arancio quelli
conquistati dal 201 al 146 a.C.
Nel 206 a.C. Roma conquista l'Hispania (Spagna centrale e Portogallo). Espulsi i Cartaginesi dalla Spagna nel corso della seconda guerra punica, Roma vi fonda la nuova provincia e inizia una lenta occupazione della penisola che si prolunga per buona parte del II secolo a.C., fra rivolte e azioni di conquista che comportano i frequenti invii di eserciti, guidati da consoli. Nei primi decenni dell'occupazione infatti, i romani si trovarono di fronte alla guerriglia scatenata dal capo lusitano Viriato, che culminerà con la presa della città celtibera di Numanzia (nel 133 a.C.).

Nel 203 a.C. - Trattato di non belligeranza fra Roma e Liguri Ingauni e del resto del ponente ligure. Con lo scoppio della seconda guerra punica (218 a.C.) le tribù Liguri avevano avuto atteggiamenti differenti:una parte (le tribù del ponente, quelle apuane e appenniniche) si erano alleate con i cartaginesi, fornendo soldati alle truppe di Annibale quando giunse in nord-Italia (speravano così che il generale cartaginese li liberasse dal vicino romano) mentre un'altra parte (i Genuati, le tribù del levante e i Taurini) si erano schierate in appoggio ai Romani. Da http://nuovotuttosapere.altervista.org/la-conquista-romana-dellattuale-liguria/?doing_wp_cron=
1585053063.0515789985656738281250 preso da Cultura-Barocca  http://www.cultura-barocca.com/ ma modificato: "Benché Annibale nel 218 a.C., durante la II guerra punica, fosse entrato in Italia per altri valichi, ai Romani non sfuggiva l’importanza della via costiera della Liguria. Gli Ingauni possedevano un territorio molto vasto, che dal mare raggiungeva le valli della Bormida e del Tanaro e penetrava in area pedemontana, mentre il territorio intemelio rappresentava un passaggio obbligato per qualsiasi esercito che dovesse dovuto raggiungere la Gallia Narbonese, che diventerà Provincia (da cui Provenza) nel 121 a.C., senza valicare le Alpi. Oltre a tutto ciò i Liguri, con la loro attitudine alla pirateria, potevano sempre disturbare i traffici, sia militari che mercantili, di chi attraversasse vie, sia terrestri che marittime, soggette al loro controllo: per questo Roma affidò a due duumviri navales il compito, non semplice, di domare queste scorrerie piratesche. Scontri militari fra Romani e popolazioni liguri si erano verificate anche prima del conflitto annibalico, ma in quell'occasione, per un’antica alleanza coi Cartaginesi, scesero in campo contro la maggiore potenza italica, molte genti costiere del territorio compreso tra Vada Sabatia [Vado Ligure (IM)], centro dei Liguri Sabazi ed Albintimilium [Ventimiglia (IM)], centro dei Liguri Intemelii, ad infoltire le truppe di Magone, fratello di Annibale, tra il 205 ed il 203 a.C.. Inoltre agli Ingauni, in cambio della promessa di fornirgli truppe ausiliarie, Magone fece il non trascurabile favore di infliggere pesanti sconfitte a Montani ed Epanterii, i rozzi liguri dell’interno, che saccheggiavano spesso il territorio ingauno. La sconfitta di Magone da parte del Pretore Publio Quintilio Varo nel 203 a.C. costrinse i Liguri, ed in particolare gli Ingauni, a stipulare una serie di trattati coi Romani per il timore di rappresaglie, viste le precedenti alleanze con i Cartaginesi. Lo storico Romano Tito Livio (Patavium, 59 a.C. - Patavium, 17) menziona un trattato di non belligeranza che appare esteso alla sola Albingaunum, ma ciononostante è da credere, visto il peso politico degli Ingauni, che quel trattato di non belligeranza si ritenesse esteso a tutte le genti del  ponente ligure."

Nel 201 a.C. - Con la vittoria di Scipione, detto poi l'Africano, a Zama, termina con la vittoria di Roma la seconda Guerra Punica. Fino al 200 a.C., l'esercito repubblicano non era costituito da forze militari professionali ma al contrario si provvedeva ad una leva annuale attraverso la coscrizione obbligatoria, come richiesto per ogni campagna miliare stagionale, per poi congedare tutti al termine della stessa (alcune unità potevano essere mantenute durante l'inverno). Per far parte dell’esercito romano si doveva avere un reddito (censo) che permettesse di pagarsi gli armamenti e i più numerosi componenti dell'esercito erano gli allevatori e i piccoli proprietari terrieri. Durante la seconda guerra punica Polibio stima che i cittadini romani iuniores (17-46 anni), escludendo gli alleati italici, fossero circa 231.000 nel 225 a.C., prima dell'inizio della guerra e dopo gli anni compresi tra il 218 e il 206 a.C. ne rimasero 180.000, di cui almeno 100.000 furono utilizzati continuativamente in Italia e nelle province nel periodo 214-203 (con un picco di 120.000) e altri circa 15.000 servirono nella flotta romana. Le nuove reclute che raggiugevano l'età minima, erano pareggiate dalle perdite subite durante la guerra, i due terzi degli iuniores prestarono in modo continuativo servizio durante la guerra. Quelli che furono lasciati a produrre cibo per sfamare le armate, risultarono appena sufficienti. Anche allora, furono spesso necessarie misure di emergenza per trovare un numero sufficiente di reclute. Livio dice che, dopo Canne, il censo minimo per il servizio legionario fu in gran parte ignorato. Inoltre, il normale divieto di arruolare nelle legioni, criminali, debitori e schiavi, venne revocato. Due volte la classe benestante fu costretta a contribuire con i propri schiavi per gli equipaggi delle flotte e per due volte anche i minorenni vennero arruolati nell'esercito. Dopo la battaglia di Canne, a causa della penuria dei soldati, vennero arruolati 8.000 servi. Quindi al termine della seconda guerra punica vi fu una nuova riduzione del censo minimo richiesto per passare dalla condizione di proletarii (o capite censi) ad adsidui, ovvero per prestare il servizio militare all'interno delle cinque classi, come aveva stabilito nel VI secolo a.C., Servio Tullio. Si era, infatti, passati nel corso di tre secoli da un censo minimo di 11.000 assi ai 4.000 degli anni 214-212 a.C. (pari alle 400 dracme argentee di Polibio alla fine del III secolo a.C.) fino ai 1.500 assi riportati da Cicerone e databili agli anni 133-123 a.C., a testimonianza di una lenta e graduale proletarizzazione dell'esercito romano, alla continua ricerca di armati, in funzione delle nuove conquiste nel Mediterraneo; molti dei proletari ex nullatenenti erano stati nominalmente ammessi tra gli adsidui.

- La presenza di eunuchi nell'antica Roma divenne sempre più frequente con l'espandersi delle conquiste romane nel Mediterraneo e con l'assimilazione delle culture e religiosità orientali come il culto della dea Cibele. A Roma questo culto fu agli inizi malvisto per il suo carattere orgiastico ma successivamente invece, la dea divenne una delle divinità protettrici di Roma in quanto le si attribuiva il fatto di aver distolto Annibale dall'invadere la città nel 204 a.C. Da quell'anno si tennero sempre grandi celebrazioni in onore della dea durante le quali i sacerdoti castrati (chiamati galli) e i fedeli si flagellavano, le donne si amputavano i seni e gli uomini si eviravano.


Dal 200 a.C. - Durante il II secolo a.C., il territorio romano conobbe un generale declino demografico, in parte dovuto alle enormi perdite umane subite nel corso di varie guerre. Questo si accompagnò a forti tensioni sociali e al più grave collasso delle classi medie nelle classi censuarie inferiori o nel proletariato. Quale conseguenza, sia la società romana, sia il suo esercito, divennero sempre più proletarizzate. Roma fu costretta ad armare i propri soldati a spese dello stato, dal momento che molti di quelli che componevano le sue classi inferiori erano di fatto proletari impoveriti, troppo poveri per permettersi un proprio equipaggiamento. In aggiunta, la carente disponibilità di manodopera militare appesantiva il fardello sulle spalle degli alleati (socii), a cui toccava procurare le truppe ausiliarie. Quando, in questo periodo, alcuni alleati non erano in grado di fornire il tipo di forze richiesto, i Romani assoldarono mercenari per farli combattere al fianco delle legioni.

- Dalla Siria giunge nel mondo romano la tecnica della soffiatura del vetro.

- A Pergamo, nella penisola anatolica, l'attuale Turchia, inizia la fabbricazione della pergamena. 

- In quei tempi i Venedi-Sclavini (popolazione di Slavi) commerciano con la Gallia, la Pannonia, le province romane occidentali e alcuni centri del mar Nero. Che l'aristocrazia tribale dei Venedi-Sclavini fosse molto ricca, è documentato dal corredo funerario (vedi il sepolcreto di Vymysl nella Posnania).

- All'indomani della vittoria nella seconda guerra punica, Roma procedette alla definitiva sottomissione della pianura padana, che aprì un territorio vasto e fertile agli emigranti originari dell'Italia centrale e meridionale, nonostante le vittorie celtiche nella battaglia di Cremona, nel 200 a.C. e in quella di Mutina (Modena), nel 194 a.C.. Pochi decenni dopo, lo storico greco Polibio poteva già personalmente testimoniare la rarefazione dei Celti in pianura padana, espulsi dalla regione o confinati in alcune limitate aree subalpine. L'avanzata romana continuò anche nella parte nord-orientale con la fondazione della colonia di Aquileia nel 181 a.C., come raccontano gli autori antichi, nel territorio degli antichi Carni.

Mediterraneo nel 200 a.C. con tratteggiate le aree
di influenza, da QUI.
- Dopo l'avventura di AnnibaleCartagine aveva dovuto cedere anche le redditizie conquiste in Spagna mentre doveva pagare puntualmente le nuove  indennità per la seconda sconfitta (200 talenti d'argento annui per 50 anni). Inoltre era impegnata a prestare aiuto militare alle forze di Roma nelle guerre contro il sovrano seleucida Antioco III, Filippo V re di Macedonia e il figlio Perseo nel 192/188 a.C.). La relativa decadenza dello stato cartaginese era mitigata da un riprendersi del commercio e un nuovo impulso dato all'agricoltura, in particolare alle coltivazioni di ulivo e vite. Roma, però, non poteva dimenticare il pesante carico di costi economici, umani e psicologici causati dalla precedente guerra annibalica. "Hannibal ad portas!" (Annibale è alle porte!) era diventata la frase spauracchio per i bambini, e non solo. I territori a sud di Roma che avevano sopportato le scorribande dei Cartaginesi prima e delle legioni poi, erano in condizioni disastrose (nel solo 214 a.C. nove villaggi distrutti e 32.000 civili resi schiavi). Lo sforzo bellico era stato grandioso in termini di risorse umane. Si può calcolare che con le forze degli alleati, Roma avesse dovuto mantenere oltre 200.000 uomini a combattere, oltre alle forze navali. Ogni combattente era stato sottratto alle campagne e all'agricoltura. Si può quindi comprendere perché Roma fosse ben attenta a far sì che Cartagine non rialzasse la testa. E a far ricordare i romani pensava il tradizionalista Catone il Censore, che terminava tutti i suoi discorsi con la famosissima frase «Ceterum censeo Carthaginem esse delendam» (e concludo affermando che Cartagine deve essere distrutta). Nondimeno, la situazione avrebbe potuto mantenersi in uno stato di precario equilibrio se non fosse intervenuto Massinissa, sovrano berbero figlio del re dei Massili, Gaia, e primo re della Numidia dopo l'unificazione fra la parte occidentale ed orientale, regno vassallo da Roma dalla fine della seconda guerra punica.

Nel 196 a.C. - In seguito alla battaglia di Cinocefale, il proconsole romano Tito Quinzio Flaminino proclama la libertà della Grecia dal dominio macedone. Durante i regni di Filippo V (221-179 a.C.) e di suo figlio Perseo, il regno di Macedonia si scontrò con la repubblica romana. Il casus belli fu, nel contesto della seconda guerra punica, l'alleanza di Filippo V con Annibale, vincitore a Canne sull'esercito romano. La prima guerra macedonica (215-205 a.C.) si risolse senza vincitori con la Pace di Fenice (nel 205 a.C.). La seconda guerra macedonica (200-196 a.C.) vide invece la netta vittoria romana nella battaglia di Cinocefale (197 a.C.) per opera del proconsole Tito Quinzio Flaminino e la conseguente proclamazione della libertà della Grecia dal dominio macedone da parte dello stesso magistrato (196 a.C.), mentre la potenza del regno di Macedonia e i suoi confini venivano notevolmente ridimensionati.

Nel 193 a.C. - A seguito della conquista romana della Gallia Cisalpina, conclusasi con la sottomissione dei Galli Boi intorno al 193 a.C., le popolazioni ribelli dei liguri Friniati e Apuani continuarono ad essere sovrane nelle montagne, al punto che i Friniati (da cui prenderà il nome il Frignano) riuscirono persino ad espugnare l'appena fondata colonia romana di Mutina (Modena). Come risulta dalle numerose iscrizioni friniate rinvenute nell'appennino modenese, i liguri Friniati si identificavano come "Umbrii" (da cui il toponimo di Montombraro, frazione di Zocca in provincia di Modena), nome comune a moltissime popolazioni indo-europee.

- Il re numida Massinissa occupa Emporia, nella Syrtis Minor, l'attuale golfo tunisino di Gabès, tanto ricca da rendere a Cartagine un talento al giorno. Alle lamentele di Cartagine, il re numida ribatté che i punici erano stranieri i quali, avuto il permesso di possedere tanta terra quanta ne comprendeva una pelle di bue, si erano impadroniti di molta parte dell'Africa. Ad ogni buon conto il Senato inviò a Cartagine una delegazione comprendente Publio Cornelio Scipione che però non decise alcuna mossa contro la Numidia.


La via Emilia sulla Tabula
Peutingeriana.
Nel 189 a.C. - Il console Mario Emilio Lepido fa costruire l’antica Via Emilia, che unisce la colonia di Placentia (Piacenza) ad Ariminum (Rimini), e darà il nome alla regione.
Marco Emilio Lepido
il nonno, dal
museo di Luni.
Marco Emilio Lepido (il nonno) console nel 187 a.C. e morto nel 152 a.C., esponente dei Lepidi, un ramo della gens Aemilia, è stato edile nel 193 a.C. insieme a Lucio Emilio Paolo, promuovendo la costruzione del nuovo porto fluviale a sud del colle Aventino. Questa nuova costruzione, chiamata Emporium, prevedeva una banchina di circa 500 m e un grosso edificio di 50 vani, i Navalia. Lo spazio retrostante i Navalia era occupato da diversi horrea, magazzini per lo stoccaggio delle merci, di cui i più noti sono gli horrea Galbana. Marco Emilio Lepido fu eletto console romano nel 187 e nel 175 a.C. e ricoprì le cariche di pontefice massimo e di censore nel 179 a.C.. Riportò la vittoria sui Liguri durante il suo consolato: in tale occasione fece voto di erigere un tempio a Giunone e durante la censura dedicò (il 23 dicembre) il tempio di Giunone Regina al Campo Marzio. Dedicò il tempio D dell'area sacra di Largo di Torre Argentina ai Lari Permarini durante la propria censura. È noto per aver dato il nome alla via Emilia, fatta da lui costruire per collegare Piacenza con Rimini, che ha dato nome all'Emilia stessa e pare che sia stato un fondatore di Luni, in Lunigiana. La città di Reggio Emilia si chiamava in età romana Regium Lepidi in suo onore.). I Romani avevano iniziato la conquista della Pianura Padana (la Gallia Cisalpina) attraverso una serie di campagne militari dalla fine del III secolo a.C., e costruito una via militare che collegava Roma a Fano e Rimini, completata già nel 220 a.C. (la via Flaminia) mentre la via Emilia era stata costruita solo trent'anni più tardi a causa della seconda guerra punica. Con l'invasione dell'Italia da parte dei cartaginesi guidati da Annibale (218-203 a.C.) Roma aveva infatti perso il controllo della Pianura Padana.
Rimini, Ponte di Tiberio del I sec.
da: QUI.
Molte tribù di recente sottomissione (come i Boi e gli Insubri) si erano ribellati e uniti alle forze di Annibale nella speranza di riottenere la propria indipendenza. Solo nel 189 a.C. l'ultima resistenza dei Galli fu vinta con la conquista di Bononia, l'odierna Bologna e nello stesso anno Roma avviò la costruzione della strategica via Emilia, completata nel 187 a.C.. Inoltre, in quel periodo la colonia di Placentia era circondata da stanziamenti di Galli Boi che, nonostante la sconfitta, non avevano voluto firmare la pace con Roma e il pericolo di rivolte era quindi reale. La strada militare rettilinea fu dunque portata fino a Placentia per consentire il rapido spostamento dell'esercito nel caso di eventuali rivolte boiche. Il punto di inizio della via Emilia coincideva dunque con quello finale della via Flaminia, strada consolare che partiva da Roma e terminava a Rimini, dove intersecava la via Popilia (a Rimini la via Emilia attraversava il fiume Marecchia grazie al ponte di Tiberio). 
Rimini, arco di Augusto del I sec.,
punto di partenza della via Emilia
da: QUI.
Inoltre, a Piacenza la via Emilia si intersecava con la via Postumia, che collegava i porti di Genova ed Aquileia, lo scalo romano più importante dell'alto Adriatico. Le maggiori città attraversate, di fondazione romana o rifondate dai Romani, dopo Rimini, sono: Acervolanum (Santarcangelo di Romagna), Sabinianum (Savignano sul Rubicone), dove era presente il ponte romano sul Rubicone), Cesena (Caesena), Forlimpopoli (Forum Popilii), Forlì (Forum Livii), Faenza (Faventia), Imola (Forum Cornelii), Castrum (Castel San Pietro Terme), Claterna (Ozzano), Savenae (San Lazzaro di Savena), Bologna (Bononia, dove intersecava la via Flaminia militare), Unciola (Anzola dell'Emilia), Ad Medias (Crespellano), Forum Gallorum (Castelfranco Emilia), Modena (Mutina), Herberia (Rubiera), Reggio nell'Emilia (Regium Lepidi), Taneto (Tannetum), Parma (Parma), dove era presente il ponte di Teodorico, Fidenza (Fidentia), dove era presente il ponte romano di Fidenza, Senum (Alseno), Florentia (Fiorenzuola d'Arda), Pons Nure (Pontenure) e Piacenza (Placentia).
Savignano sul Rubicone, ponte
consolare romano sul Rubicone
da: QUI.
Col nome di via Emilia si indica ancora oggi l'arteria fondamentale della regione Emilia-Romagna, cioè l'attuale SS 9, il cui tracciato ha costituito un riferimento anche per le successive infrastrutture viarie: quasi parallele sono state infatti costruite le ferrovie Milano-Bologna e Bologna-Ancona nonché l'Autostrada del Sole e l'Autostrada Adriatica. A Forlì, durante i lavori per la realizzazione della circonvallazione e a Reggio nell'Emilia, durante degli scavi, sono stati rinvenuti resti dell'antica via romana.

Il Mediterraneo al tempo della pace
siglata al termine della seconda guerra
punica (201 a.C.). Roma ottenne il
controllo dell'intera penisola italica,
di Sardegna, Corsica, Sicilia e delle
coste mediterranee della penisola
Iberica, estendendo la sua influenza
fino all'area dell'Egeo. Di Cristiano64
File che deriva da: West Mediterranean
sea topographic map.svgPethrus-
Opera propria, CC BY-SA 3.0,
Dal 188  a.C. -  Incentivazione romana delle operazioni belliche in Liguria. I Liguri erano sempre stati gelosi della loro autonomia e quindi, dal Trattato di non  belligeranza  fra Roma e Liguri  Ingauni  e del resto del ponente ligure del  203 a.C., erano vissuti in uno stato di costante belligeranza e guerriglia contro Roma, che cercò di porvi rimedio con uno sforzo militare decisivo, specie dopo il poco onorevole episodio del pretore Lucio Bebio Divite, che venne sconfitto dagli eserciti congiunti dei Liguri non lontano da Massalia, città in cui si rifugiò con le truppe superstiti e dove morì per le ferite subite, come scrissero Livio (XXXVII, 5) ed Orosio (IV, 20, 24). L’incentivazione romana delle operazioni belliche in Liguria si può datare dal 188 a.C. con le imprese del console M. Valerio Massimo (Livio, XXXVIII, 35, 7 e 42, 1). I risultati non furono definitivi né pari alle aspettative di Roma, così il Senato affidò ad entrambi i consoli del 187 a.C. (Marco Emilio Lepido e Gaio Flaminio) la provincia della Liguria col compito di pacificarla definitivamente (Livio, XXXVIII, 42, 8). Nonostante l’abilità dei Liguri a combattere nel loro aspro territorio, servendosi della velocità e di armi leggere che permettevano rapide fughe ed improvvisi attacchi, le legioni romane ottennero questa volta dei risultati importanti (Livio, XXXIX, 1, 1). La pressione militare di Roma aumentò ancora dal 185 a.C. ed i popoli liguri subirono una serie di pesanti sconfitte. Mentre il console Marco Sempronio Tuditano sottometteva il levante ligure, il suo collega Appio Claudio Pulcro lo eguagliava “con alcune fortunate battaglie nel territorio dei Liguri Ingauni”, come ancora scrisse Livio (XXXIX, 38, 1). Nonostante questi successi la Liguria non fu del tutto piegata e per garantire un più rigido controllo ed una maggior possibilità di celere intervento militare, fu a lungo assegnata come provincia consolare (al tempo della Repubblica di Roma, per provincia consolare si intendeva quella che veniva assegnata ad un console perché vi capitanasse una guerra o dovesse compiervi operazioni militari, N.d.R.). Nel 184, peraltro, gli Ingauni ed i loro alleati, essendo consoli Publio Claudio Pulcro e Lucio Porcio Licino, presero a riorganizzarsi, con una serie di successi militari culminati, nel 181 a.C., in una potente “lega militare” che respinse e poi assediò il proconsole Lucio Emilio Paolo che s’era mosso contro di loro a capo di una discreta forza di guerra. Lucio Emilio Paolo, che era però un buon comandante ed un soldato valoroso, seppe rompere l’assedio posto al suo accampamento ed alla fine inflisse una dura sconfitta alla coalizione di Liguri, il cui grosso dell'esercito era composto da Ingauni. Dopo la sconfitta definitiva  degli Ingauni (nel 181 a.C.) da parte di Lucio Emilio Paolo, il console Aulo Postumio Albino, dal territorio degli Apuani si spinse via di mare ad ispezionare quello intemelio, spedizione che fa presumere che, pacificati gli Ingauni, anche  gli Intemelii  avessero accettata la supremazia romana. La guerra coi Liguri era stata abbastanza dura ed il Senato, di fronte ad imminenti conflitti in Oriente, preferì mitigare le richieste nei confronti dei popoli vinti, anche per evitare possibili insurrezioni.
Carta dell'anno 6 con la IX regio
romana, la Liguria e dintorni, con
i nomi delle varie popolazioni
Liguri ormai romanizzate.
Il dominio sugli Intemelii, al pari di quello delle altre genti liguri, prese la forma di foedus onorevole e la sua capitale Albintemilia acquisì la denominazione di “città federata” (cioè legata da vincoli di alleanza) nei confronti di Roma. Non è semplice oggigiorno ricostruire le forme tra i possibili “accordi” stipulati coi Romani dai Liguri vinti ma è certo che non si ebbero più  insurrezioni e che i Liguri assolsero ai propri doveri con rigore (queste genti – come ricorda Sallustio nel De Bello Iugurt., 77, 4 e 93-94 - vennero inquadrate in coorti ausiliarie e se una di queste, assieme a 2 “turme” di Traci e pochi altri soldati, si macchiò del tradimento del legato romano Aulo Postumio Albino, causandone la sconfitta a Suthul in Numidia, è altrettanto vero che proprio un soldato ligure, col suo coraggio, permise a Gaio Mario di occupare una città dei Numidi). Poco per volta, per quanto abbastanza impermeabili in un primo tempo all’acculturazione romana, i Liguri si inserirono nel contesto statale di Roma (pur fondendosi con le genti celticheN.d.R.).

Nel 180 a.C. - Il console romano Caio Claudio, nella battaglia del fiume Scoltenna, che con il Leo forma il Panaro, sconfigge i liguri Apuani che perderanno quindicimila e settecento uomini e 51 insegne militari (Tito Livio, Storia Romana, deca V, libro I, cap. II).

Dal 176 a.C. - Dopo sanguinose battaglie con migliaia di morti contro i romani, numerosi liguri Friniati sono deportati in pianura e definitivamente sottomessi dai romani.

Nel 174 a.C. - Il re numida Massinissa occupa Tisca e il territorio circostante. Per salvare le apparenze, Roma invia in Africa Catone il Censore alla guida di una nuova commissione. Tornato in Italia con ancora più radicata la convinzione che Cartagine stesse risorgendo economicamente e anche riarmandosi, Catone intensificò la sua martellante campagna per la distruzione della città. Famoso l'aneddoto del cestino di fichi che Catone, al suo ritorno, mostrò in Senato; erano ancora tanto freschi da rendere evidente "quanto" Cartagine fosse vicina e tanto buoni da far toccare con mano la concorrenziale qualità dei suoi prodotti.

Nel 171 a.C. - Fra Roma e il regno macedone si scatena la terza guerra macedonica. Perseo, il figlio di Filippo V dopo aver potenziato il proprio esercito aveva iniziato una politica aggressiva nei confronti della Grecia. I Romani reagirono scatenando la terza guerra macedonica (171-168 a.C.), che si concluse con la battaglia di Pidna e la disfatta delle truppe macedoni per opera del console Lucio Emilio Paolo Macedonico. Lo stesso Perseo si arrese ai Romani, fu deposto e deportato in territorio romano, dove morì in prigionia. La Macedonia fu suddivisa in quattro repubbliche fedeli a Roma.


Carta di Macedonia, Grecia e Ionia nel
II secolo a.C. con i vari regni e regioni
coinvolti nelle guerre dell'Egeo.
Nel 168 a.C. - Con la vittoria di Paolo Emilio a Pidna, Roma conquista la Macedonia.  Dopo la morte di Alessandro, nelle vicende politiche greche non si hanno altro che guerre tra città. Durante la sua ascesa, la Roma repubblicana dovette impegnarsi in ben tre guerre contro la Macedonia. L'esercito macedone, sotto la guida del re Perseo, subì la sconfitta definitiva nella battaglia di Pidna per opera del console Lucio Emilio Paolo nel 168 a.C., e nel 146 a.C. la Macedonia divenne povincia romana. Nello stesso anno, con la distruzione di Corinto, anche la Grecia venne inclusa nella provincia di Macedonia. Malgrado un regime particolarmente liberale accordato alla Grecia, molte città greche sostennero Mitridate VI, re del Ponto, nella sua campagna contro Roma, ma il generale romano Lucio Cornelio Silla costrinse Mitridate a fuggire e domò severamente la rivolta greca. L'imperatore Augusto farà della Grecia una provincia senatoria, dandole il nome di Acaia.

- Nello stesso 168 a.C. l'Epiro è conquistato dai romani e non diventa provincia autonoma, ma viene incorporato nella Macedonia, istituita nel 146 a.C.. I primi interventi armati romani in quel territorio risalivano già al 229 a.C., quando si cercava di eliminare i pirati dal mare Adriatico ed avere relazioni commerciali ed economici con città fiorenti quali Apollonia e Durazzo. Con la riorganizzazione delle province di Augusto, l'Epiro sarà diviso tra la Macedonia e l'Acaia e solo intorno al 108 d.C. diverrà provincia autonoma, con Traiano imperatore. I Romani hanno dominato gli Illirici, che sempre più si sono concentrati nel territorio dell'odierna Albania, l'ex Epiro, dal 168 a.C. fino alla caduta dell'impero. Sotto i Romani, le arti e la cultura fiorirono, particolarmente ad Apolonia, la cui scuola filosofica si sviluppò notevolmente. Qui studiò, tra altri, Marco Tullio Cicerone. La lingua e la cultura latine hanno influenzato fortemente gli Illiri e comunque quelli che vivevano nelle terre albanesi di oggi riuscirono a conservare sia la loro lingua che le loro usanze, pur adottando molte parole latine, che fanno oggi parte del lessico albanese.

Nel 150 a.C. - L'esasperata Cartagine, rompendo i patti, decide il riarmo. La fazione di Cartaginesi favorevole a Roma e addirittura a Massinissa aveva perso il potere e 40 dei loro membri erano stati esiliati. Rifugiatisi in Numidia, senza grande fatica avevano spinto l'ormai ottantenne Massinissa, ad inviare a Cartagine i suoi figli per chiedere il rientro degli esuli. Cartagine aveva rifiutato e Massinissa, per contro, aveva occupato la città di Oroscopa. Sapendo ormai di non poter ottenere giustizia da Roma, nel 150 a.C. l'esasperata Cartagine, rompendo i patti, decide il riarmo e appresta un esercito di 50.000 uomini (come sempre in massima parte mercenari) e cerca di riconquistare Oroscopa. Ma il re Numida, disponendo di forze militari di maggiore professionalità, ne riuscirà vincitore. Il rischio per Roma, a questo punto, era che Cartagine, ancor più indebolita, cadesse preda della Numidia. Naturalmente a Roma non si sarebbe visto di buon occhio il formarsi in Africa di uno stato economicamente potente, esteso dall'Atlantico all'Egitto e con notevoli masse umane da impiegare nelle inevitabili guerre.  

Nel 149 a.C. - Macedonia contro Roma nella quarta guerra macedonica. Andrisco, proclamatosi re di Macedonia col nome di Filippo VI, solleva la Macedonia contro Roma ed intraprende la quarta guerra macedonica (149-148 a.C.) ma è sconfitto da Quinto Cecilio Metello Macedonico a Pidna (148 a.C.) e il regno di Macedonia perde definitivamente l'indipendenza  diventando una provincia della repubblica romana.


- Nel 149 a.C. inizia la terza guerra punica. La rottura dei patti di Cartagine, riarmandosi contro Massinissa, era indiscutibile e fornì Roma di un pretesto perfetto per poter intervenire. Contrariamente ai desideri di Catone che parteggiava per un'immediata dichiarazione di guerra, all'inizio Roma mandò una missione diplomatica per far desistere i Cartaginesi dal riarmo, in cui il Senato chiedeva che la parte della città sul mare fosse demolita e che nessun edificio sorgesse a meno di 5 km dal mare. Giacché l'intera economia cartaginese si fondava sugli scambi commerciali sul Mediterraneo, questi non accettarono, cosicché, anche per evitare che Massinissa la conquistasse e diventasse così troppo potente e incontrollabile, dichiarò guerra all'eterna  rivale,  che si concluderà tre anni dopo con la vittoria di Roma e la distruzione di Cartagine. L'esercito romano sbarcò vicino a Utica, pochi chilometri a nord di Cartagine. Non appena si seppe che i romani erano forti di un esercito di 80.000 uomini e 4.000 cavalieri, Cartagine capitolò, inviando 300 ostaggi scelti fra gli adolescenti della nobiltà punica. I consoli ricevettero gli ambasciatori di Cartagine che dovettero accettare le condizioni poste: Cartagine consegnò armature, catapulte e altro materiale bellico. Resi inermi i cartaginesi, i Romani, attraverso Censorino, avanzarono la pretesa che la città fosse distrutta e ricostruita a 10 miglia dalla costa. Il popolo cartaginese si ribellò, uccise tutti gli italici presenti in città, liberò gli schiavi per avere aiuto nella difesa e furono richiamati Asdrubale e altri esuli. Fu chiesta una moratoria di 30 giorni per inviare una delegazione a Roma e in quei 30 giorni si ebbe una frenetica corsa al riarmo, già segretamente riavviato negli anni successivi alla sconfitta di Zama. Si dice che i cartaginesi riuscissero a produrre ogni giorno 300 spade, 500 lance, 150 scudi e 1.000 proiettili per le ricostruite catapulte. Le donne offrirono i loro capelli per fabbricare corde per gli archi. Quando i romani arrivarono alle mura di Cartagine trovarono un intero popolo stretto a difesa della propria città. Fu posto l'assedio a Cartagine, che era estremamente ben difesa. La sosta aveva dato ad Asdrubale, posto a capo dell'esercito, la possibilità di raccogliere circa 50.000 uomini ben armati e l'assedio si protrasse. Nel 148 a.C. i nuovi consoli furono inviati in Africa ma si rivelarono ancora più incapaci dei predecessori. Gli insuccessi romani resero audaci i cartaginesi, Asdrubale prese il potere con un colpo di Stato e ordinò di esporre sulle mura i prigionieri orrendamente mutilati per cui i romani, inaspriti, non avrebbero concesso mercé.

Nel 147 a.C. - Publio Cornelio Scipione Emiliano (figlio di L. Emilio Paolo, poi adottato da P. Cornelio Scipione, figlio dell'Africano) era stato nominato console di Roma insieme a Gaio Livio Druso. Asdrubale, che difendeva il porto di Cartagine con 7.000 uomini, fu attaccato di notte e costretto a riparare a Birsa. Scipione bloccò il porto da cui arrivavano i rifornimenti per gli assediati ma questi scavarono un tunnel-canale e riuscirono a costruire cinquanta navi che Scipione distrusse e il tunnel-canale fu chiuso. Nel frattempo Nefari fu attaccata da truppe romane e cadde; questo portò la resa delle altre città. I romani si poterono concentrare su Cartagine. L'agonia della città si protrasse per tutto l'inverno, senza viveri e attaccata da una pestilenza.

Nel 146 a.C. - Scipione sferra l'attacco finale a Cartagine. Per quindici giorni i sopravvissuti impegnarono i Romani in una disperata battaglia per le strade della città, ma l'esito era scontato. Gli ultimi soldati si rinchiusero nel tempio di Eshmun altri otto giorni. Scipione abbandonò la città al saccheggio dei suoi soldati; Cartagine fu rasa al suolo, bruciata, le mura abbattute, il porto distrutto e fu anche gettato del sale sulla terra per evitare la coltivazione dei campi e renderli ancora più aridi. Si disse che Scipione pianse nel vedere la città bruciare, perché gli sembrava di aver intravisto Roma in mezzo alle fiamme.

Cartina con in verde i territori della
Repubblica di Roma nel 201 a.C.
e in arancio quelli conquistati
dal 201 al 146 a.C..
- Non è dato sapere il momento in cui viene dedotta la provincia romana della Gallia Cisalpina. La storiografia moderna oscilla fra la fine del II secolo a.C. e l'età sillana. Vero è che all'89 a.C. risale la legge di Pompeo Strabone ("Lex Pompeia de Gallia Citeriore") che conferisce alla città di Mediolanum, e ad altre, la dignità di colonia latina. Nel dicembre del 49 a.C. Cesare con la Lex Roscia concederà la cittadinanza romana agli abitanti della provincia, mentre nel 42 a.C. verrà abolita la provincia, facendo della Gallia Cisalpina parte integrante dell'Italia romana.

Carta delle isole Cicladi con
Delos, considerata sacra
poiché si credeva che vi
fosse nato il dio Apollo.

Nel 146 a.C. i Romani conquistano e saccheggiano Corinto, e la Grecia  diventa provincia di Roma. Con la conquista romana della Grecia, si afferma un fiorente mercato di schiaviDelo (Delos in greco), già sede della lega delio-attica capeggiata da Atene, stipulata nel 478 a.C, poiché Roma la elegge porto franco, esente da tasse, a discapito di Rodi, che lo era stata prima, ex alleata punita da Roma per non averla sostenuta nel conflitto contro la Macedonia. Questo mercato è di rilievo mediterraneo, tanto che mediamente si vendono 10.000 schiavi al giorno, ottenuti perlopiù con incursioni piratesche. Gli italici e i romani hanno una posizione preponderante fra gli acquirenti di schiavi, e procurano così la manodopera per la coltivazione nei terreni in Italia. Avviene così che mentre in Italia gli italici, alleati di Roma, non hanno i diritti della cittadinanza romana ma i doveri dei "soci", con  fornitura di contingenti militari a Roma senza godere dei proventi delle conquiste. All'estero sono considerati romani: vestono la toga, parlano latino, e anche questo favorisce quell'"autoromanizzazione" che, svilita dalla mancata concessione della cittadinanza romana, sfocerà nelle Guerre Sociali.

Finisce così l'Età ellenistica, periodo che va dalla morte di Alessandro Magno fino alla riduzione della  Grecia a provincia romana, nel 146 a.C.

- Prima delle guerre di conquista l'economia romana si basava soprattutto sull'agricoltura e sulla pastorizia. Si coltivavano, in modo particolare, cereali che servivano al sostentamento della popolazione. Al termine delle guerre di conquista, la repubblica di Roma si trovava ad affrontare grandi cambiamenti: il degrado delle campagne, l'aumento degli schiavi e le grandi ricchezze che giungevano a Roma come bottino di guerra dalle province. Il dominio incontrastato nell'Italia continentale ed insulare, sul Mediterraneo occidentale ottenuto grazie alla vittoria sui Cartaginesi e su quello orientale ottenuto con la conquista dei regni ellenisti, portava allo sfruttamento della manodopera schiavile nei latifondi. Dato che si trattava di migliaia di schiavi, Roma era costretta a portare avanti continue guerre di conquista per averne sempre di più, mentre venivano esautorati dal lavoro braccianti e piccoli proprietari. A Roma, fino al 200 a.C., l'esercito repubblicano, così come quelli precedenti, non era costituito da forze militari professionali ma al contrario era composto da una leva annuale, attraverso il meccanismo della coscrizione obbligatoria, come richiesto per ogni campagna miliare stagionale, per poi congedare tutti al termine della stessa (sebbene in alcuni casi alcune unità potevano essere mantenute durante l'inverno e anche per alcuni anni consecutivi, durante le maggiori guerre). Dopo che Roma conquistò dei territori oltremarini in seguito alle guerre puniche, le armate cominciarono ad essere posizionate nelle province chiave in modo stabile, anche se nessun soldato poteva essere mantenuto sotto le armi per più di sei anni consecutivi. Per far parte dell’esercito romano si doveva avere un reddito (censo) che permettesse di pagarsi gli armamenti e i più numerosi componenti delle milizie erano i piccoli proprietari terrieri, che durante queste guerre erano stati costretti, dovendosi arruolare, a lasciare incolti i loro terreni. Mal pagati per il servizio militare prestato ed esclusi dagli aristocratici dalla divisione del bottino, al loro ritorno si ritrovavano sommersi dai debiti che le loro famiglie avevano contratto per sopravvivere e secondo le leggi delle “dodici tavole”, nella Roma antica il creditore poteva rendere schiavo il debitore ed anche ucciderlo se questi non avesse ripagato il suo debito; dunque molti piccoli proprietari terrieri rischiavano di diventare schiavi. Per ripagare i debiti, molti di loro finirono o per svendere i loro possedimenti o a lavorare come braccianti. In ogni caso il grano prodotto dai piccoli proprietari terrieri nella Repubblica non era più conveniente: dalla Sicilia e dall'Africa giungevano cereali a prezzi molto contenuti ottenuti con la manodopera degli schiavi, fenomeno che si stava affermando anche nel suolo italico. Per potersi risollevare i piccioli agricoltori avrebbero dovuto smettere di coltivare grano e convertire le piantagioni in vigne e uliveti ben più redditizi, ma non disponevano dei capitali necessari per effettuare queste trasformazioni. In alcuni casi restavano a lavorare i campi come braccianti con paghe bassissime e in altri si trasferivano in città in cerca di fortuna, dando così vita al fenomeno dell'urbanesimo. In città conducevano una vita molto misera, ricevendo delle elargizioni di grano dallo Stato (le frumentazioni) o vivendo grazie all'appoggio di qualche famiglia potente e vendendo il proprio voto al miglior offerente. Al contrario, la classe dei grandi proprietari si arricchiva, appropriandosi della quasi totalità della ricchezza che proveniva dalle regioni conquistate. La maggior parte di loro comprava così terreni a prezzi molto bassi facendoli lavorare a servi o schiavi e non pagando di conseguenza la manodopera. L’impoverimento dei piccoli proprietari terrieri determinava grandi problemi a Roma poiché la maggior parte di loro erano stati i principali componenti delle legioni e diventando nullatenenti l'esercito si ritrovava con sempre meno forze a disposizione e gradualmente si dovette abbassare il censo delle nuove leve dell'esercito fino ad arruolare i proletarii. Roma contava sulle proprie forze armate e su quelle degli alleati, non di certo su contingenti di mercenari, come invece aveva fatto Cartagine.

- Lo storico romano-orientale Procopio di Cesarea (Cesarea marittima in Palestina, 490 circa - Costantinopoli, 560 circa) riferisce che gli eunuchi affluivano a Roma in maggior numero dal paese sul Mar Nero degli Abasgi, dove i capi potevano prelevare i giovanetti più attraenti per farli evirare e vendere come schiavi. Quando gli Abasgi cominciarono a convertirsi al cristianesimo Giustiniano vietò questa pratica stabilendo che «mai più alcuno, in quella regione, fosse privato della virilità violentando la natura col ferro». Da Procopio: «I romani conoscevano tre classi di eunuchi: gli spadones, cui erano state tagliate le gonadi; i thlasiae (dal greco θλάω, "schiaccio"), ai quali esse erano state schiacciate; infine i castrati, cui era stata praticata l'ablazione totale di verga e testicoli.».La diffusione della cultura ellenistica orientale incrementa a Roma, specie presso le classi alte, l'usanza di servirsi delle prestazioni sessuali degli eunuchi, in particolare di quelle dei cosiddetti spadones che, privi della potentia generandi non avevano perso la potentia  coeundi  cosicché erano in grado di offrire, quasi come strumenti sessuali viventi, appagamenti di natura diversa dall'usuale. Questa particolarità degli spadones sembra essere stata apprezzata dalle donne romane che, visti i rischi della pratica dell'aborto, preferivano usare gli eunuchi spadones  che garantivano di non rimanere incinte. Questo è lo scopo, secondo il poeta romano Marziale (Marco Valerio Marziale, Augusta Bilbilis, 1º marzo 38 o 41 - Augusta Bilbilis, 104), di Gellia, in un suo epigramma: «Vuoi sapere Pannichio, come va che la tua Gellia intorno alle sottane non ha che dei castrati? Teme la levatrice, adora i peccati.».


Per eventuali approfondimenti vedi "Storia dell'Europa n.23: dal 301 al 146 p.e.v. (a.C.)" QUI.

Nel 140 a.C. - Il greco Ipparco determina con una certa precisione la distanza fra Terra e Sole.
Ipparco di Nicea.
Ad Ipparco ci si riferisce generalmente con l’appellativo di Nicea, perché si ritiene che abbia avuto i natali in quella località della odierna Turchia, prossima al Mar di Marmara, nella regione allora chiamata Bitinia, intorno al 190 a.C. La solidità della fama di cui godette nell’antichità è testimoniata da monete coniate sotto i regni di diversi imperatori romani. Queste monete portano sul diritto l’immagine di imperatori romani, quali Alessandro Severo (222 - 235 d.C.) e sul rovescio quella di un uomo che regge un globo e la scritta “Ipparco di Nicea”. Anche della sua vita si hanno pochissime notizie. Sembrano sicure quelle riferentesi a sue osservazioni astronomiche eseguite in Bitinia, nell’isola di Rodi e ad Alessandria. Soltanto una delle sue opere ci è giunta: il Commentario su Arato ed Eudosso, che non è certamente tra le sue più importanti.

- E' in questi anni che in Grecia si costruisce il "meccanismo di Antikythera".
Grecia e isole greche con
l'ubicazione di Antikythera.
Clicca sull'immagine per ingrandirla.
Antikythera è il nome di una piccola isola greca del Mar Ionio. Antikythera, Ante Kythera, l’isola di fronte a Kythera, dove cent’anni fa è stato ritrovato il più antico calcolatore della storia da pescatori di spugne nel relitto di un antico veliero che trasportava un carico di oggetti preziosi, statue, vasi di pregevole fattura e monete d’argento. 
La Macchina di Antikythera.
Accurate analisi del reperto ne fecero risalire, con certezza, la costruzione al 150/100 a. C. Sotto le incrostazioni vennero scoperti complicati ingranaggi e grazie a diversi frammenti dell’oggetto fu possibile tentarne una ricostruzione. Era costituito da una trentina di ruote dentate in bronzo e riportava in superficie circa 2.000 caratteri, con le indicazioni relative al funzionamento del meccanismo. Oggi è conservato nella collezione di bronzi del Museo archeologico nazionale di Atene. 
Modello del meccanismo
di Antikythera.
Alla fine del 2008 è arrivata la notizia della ricostruzione completa dell’antico apparecchio, curata da Michael Wright, un ingegnere del Museo delle Scienze di Londra. Di fronte ci sono due quadranti sovrapposti che riportano lo zodiaco e i giorni dell’anno. Punte di metallo indicano la posizione del Sole, della Luna e dei cinque pianeti. Il quadrante superiore, spiega Wright, rappresenta il ciclo Metonico, cioè il ciclo dei 19 anni. In questo modo è possibile mantenere un calendario sincronizzato sia al corso del sole, sia a quello della luna. Il quadrante inferiore è stato diviso invece in 223 parti con riferimento al cosiddetto ciclo di Saros, usato per prevedere le eclissi. La Macchina di Antikythera conferma l’alto livello tecnologico raggiunto dalla Grecia nel secondo secolo a. C.

- Nelle province romane d'Hiberia, la guerriglia scatenata dal capo lusitano Viriato culmina con la presa della città celtibera di Numanzia nel 133 a.C. Solo al termine di tali eventi bellici (a cavallo fra la fine del II e i primi anni del I secolo a.C.), che si salderanno poi con le guerre civili della tarda età repubblicana, combattute in parte in Iberia, il potere romano sulle due province (Lusitania e Tarraconiensis)  poté considerarsi pienamente consolidato, anche se si estenderà a tutta la penisola solo dopo l'assoggettamento dei Cantabri in età augustea.
Le province iberiche romane con
indicati gli anni delle conquiste da:
L'occupazione romana culmina con la creazione delle province hispaniche. Il nome Hispania o Ispania deriva dal termine di probabile origine punica (cartaginese) che significa terra di conigli. Appare in letteratura e in storiografia fin dalla tarda età repubblicana: anche Tito Livio utilizza i termini di Hispania e di Hispani (o Hispanici) per designare il territorio iberico e i popoli che lo abitavano.

Nel 134 a.C. - Il romano Gaio Mario si distingue per le notevoli attitudini militari dimostrate in occasione dell'assedio di Numanzia, in Spagna, tanto da farsi notare da Publio Cornelio Scipione Emiliano (in seguito soprannominato Emiliano o Africano Minore). Non è dato sapere con certezza se venne in Spagna al seguito dell'esercito di Scipione oppure se si trovasse già in precedenza a servire nel contingente che, con scarso successo, da tempo cingeva d'assedio Numanzia. Sta di fatto che Mario parve fin dall'inizio molto interessato a far carriera politica in Roma stessa. Infatti si candidò per la carica di tribuno militare di una delle 4 prime legioni (in tutto i tribuni elettivi erano 24, mentre tutti gli altri venivano nominati dai magistrati preposti agli arruolamenti). Lo storico Sallustio ci informa che il suo nome era del tutto sconosciuto agli elettori, ma che alla fine i rappresentanti delle tribù lo elessero per merito del suo eccellente stato di servizio e su raccomandazione di Scipione Emiliano. Successivamente si ha notizia di una sua candidatura alla carica di questore ad Arpino. È probabile che egli utilizzasse le posizioni di comando ad Arpino per raccogliere dietro di sé un consistente numero di clienti su cui fare affidamento per le successive mosse che aveva in animo di compiere. Tuttavia sono solo congetture in quanto nulla si conosce della sua attività come questore.

Territori di Roma nel II sec.a.C. con Numanzia in
Hispania, da https://people.unica.it/federica
falchi/files/2020/03/Cicerone.pdf
.
Nel 133 a.C. - Dopo vent'anni di scontri, l'esercito romano della “Tarraconense” comandato da Publio Cornelio Scipione Emiliano, conquista Numanzia, antica roccaforte celtiberica (in spagnolo: Numancia, in latino Numantia), situata nell'attuale provincia di Soria, in Spagna, nei pressi di Milles de la Polvorosa dove il Tera affluisce nell'Esla, (in epoca romana conosciuto come Astura, nella Cordigliera Cantabrica) a sua volta affluente del Duero. È passata alla storia per l'autodistruzione operata dai suoi abitanti che, gelosi della loro indipendenza, non intendevano in nessun modo sottomettersi al potere dei Romani, conquistatori della penisola iberica. Venne fondata con ogni probabilità nel IV secolo a.C. dal popolo celtibero degli  Arevaci. Dopo quasi un anno di assedio (l'assedio di Numanzia ispirò a Cervantes un dramma, “El cerco de Numancia”), i numantini, ridotti alla fame, cercarono un abboccamento con Scipione ma, saputo che questi non avrebbe accettato altro che una resa incondizionata, i pochi uomini in condizione di combattere preferirono gettarsi in un ultimo, disperato assalto contro le fortificazioni romane. Il fallimento della sortita spinse i superstiti, secondo la leggenda, a bruciare la città e a gettarsi fra le fiamme. Non tutti però persero la vita; alcuni, ridotti in schiavitù, sfilarono a Roma durante il trionfo di Scipione. La città fu rasa al suolo come Cartagine. Il bellum numantinum acquista particolare importanza perché segna il pieno affermarsi dell'egemonia romana  nell'Hispania centro-settentrionale e la definitiva pacificazione della massima parte della penisola iberica.

- Le grandi conquiste produrranno a Roma profonde trasformazioni economico-sociali: 1) Prima delle guerre d'oltremare, i terreni conquistati venivano distribuiti ai soldati ma nel caso delle guerre puniche, in cui erano stati occupati territori vasti e molto importanti, i senatori e gli ufficiali, approfittando del proprio potere, si riservarono i terreni più vasti e fertili, divenendo così latifondisti, violando una disposizione a favore dei plebei. Inoltre poterono acquistarono terreni a basso prezzo dai piccoli proprietari, rovinati dalla loro partecipazione a lunghe guerre. A Roma, fino al 200 a.C., l'esercito era formato leve annuali, attraverso il meccanismo della coscrizione obbligatoria, per poi congedare tutti. Per far parte dell’esercito romano si doveva avere un reddito (censo) che permettesse di pagarsi gli armamenti e i più numerosi componenti delle milizie erano allevatori e piccoli proprietari terrieri, che durante queste guerre erano stati costretti, dovendosi arruolare, a lasciare incolti i loro terreni. Mal pagati per il servizio militare prestato ed esclusi dagli aristocratici dalla divisione del bottino, al loro ritorno si ritrovavano sommersi dai debiti che le loro famiglie avevano contratto per sopravvivere e secondo le leggi delle “dodici tavole”, nella Roma antica il creditore poteva rendere schiavo il debitore ed anche ucciderlo se questi non avesse ripagato il suo debito; dunque molti piccoli proprietari terrieri rischiavano di diventare schiavi. Per ripagare i debiti, molti di loro finirono o per svendere i loro possedimenti o a lavorare come braccianti. In ogni caso il grano prodotto dai piccoli proprietari terrieri nella Repubblica non era più conveniente: dalla Sicilia e dall'Africa giungevano cereali a prezzi molto contenuti ottenuti con la manodopera degli schiavi, fenomeno che si stava affermando anche nel suolo italico. Per potersi risollevare i piccioli agricoltori avrebbero dovuto smettere di coltivare grano e convertire le piantagioni in vigne e uliveti ben più redditizi, ma non disponevano dei capitali necessari per effettuare queste trasformazioni. In alcuni casi restavano a lavorare i campi come braccianti con paghe bassissime e in altri si trasferivano in città in cerca di fortuna, dando così vita al fenomeno della proletarizzazione urbana. In città conducevano una vita molto misera, ricevendo delle elargizioni di grano dallo Stato (le frumentazioni) o vivendo grazie all'appoggio di qualche famiglia potente, delinquendo e/o vendendo il proprio voto al miglior offerente. 2) Per contro, questi nuovi proletari non potevano legalmente entrare nell'esercito, poiché non possedevano il censo per accedervi e questo, insieme alla mancanza di suolo pubblico da assegnare in cambio del servizio militare e agli ammutinamenti avvenuti nella guerra Numantina, causava problemi di reclutamento e la carenza di truppe. Per questo i fratelli Gracchi avrebbero mirato alla bonifica delle terre pubbliche incolte da parte dei membri benestanti della classe senatoria, il loro affidamento agli ex militari e ai contadini sfollati, sovvenzionare la produzione di grano per i bisognosi e per avere la paga Repubblica per l'abbigliamento dei suoi soldati più poveri affinchè potessero far parte dell'esercito. 3) L'afflusso di sempre più schiavi e le prime rivolte. Dopo la conquista dell’Epiro ,150.000 abitanti furono venduti come schiavi. Con la conquista della Grecia, potevano giungere anche 10.000 schiavi in un solo giorno da Delo, dove il mercato degli schiavi era gestito da cittadini romani e da italici senza cittadinanza romana. Da Cartagine sconfitta definitivamente, furono condotti a Roma 50.000 prigionieri. I latifondisti, oltre alle nuove conquiste potevano così acquistare i terreni dei piccoli proprietari indebitati a basso prezzo e facevano coltivare i loro terreni dagli schiavi, al posto dei contadini e piccoli proprietari, generando così la «proletarizzazione» di una vasta mole di persone, costrette a riversarsi nella città in cerca di espedienti ed elargizioni pubbliche. 4) Alle popolazioni italiche federate con Roma, che occupavano il resto della penisola, pur avendo partecipato come socii ai vari conflitti, non era stata riconosciuta la cittadinanza romana, che avrebbe permesso loro gli stessi diritti dei Romani e inferiori spese daziali e tributarie. Il risentimento nei confronti del dominatore romano cresceva tra gli alleati italici, poiché erano trattati come una classe sociale di seconda scelta nel sistema romano. In particolare, non avendo la cittadinanza romana, non potevano usufruire dei benefici dei cittadini romani, come la distribuzione su larga scala dei terreni pubblici (ager publicus), sia nei confronti del grande e del piccolo proprietario terriero, sulla base delle riforme agrarie portate avanti dai fratelli Gracchi a partire dal 133 a.C.. Non a caso le riforme portarono a chiedere da parte di molte popolazioni italiche tra i socii che fosse loro concessa la cittadinanza romana. Ma sembra dalle fonti frammentarie che la maggioranza conservatrice del Senato romano riuscì, anche attraverso l'eliminazione degli stessi Gracchi, a bloccare qualsiasi significativa espansione della cittadinanza tra i socii nel periodo successivo alla legge agraria del 133 a.C.

I fratelli Gracchi.
- Nel 133 a.C. Tiberio Sempronio Gracco (Roma, 163 a.C.- Roma, 132 a.C.) della fazione dei Populares, è eletto tribuno della plebe. Figlio maggiore dell'omonimo Tiberio Sempronio Gracco di origine plebea, che aveva avuto un ruolo importante nelle guerre di Spagna e di Cornelia, figlia di Publio Cornelio Scipione Africano di antica famiglia aristocratica, Tiberio Sempronio, grazie alla provenienza paterna dalla gens plebea, ottiene l'ascesa al tribunato. Poco più che fanciullo, aveva fatto parte dei sacerdoti auguri grazie anche all'approvazione dell'influente senatore Appio Claudio Pulcro, che poco più tardi gli aveva dato in moglie la figlia Claudia, da cui non ebbe nessun figlio. Nel 146 a.C., all'età di diciassette anni, aveva militato in Libia sotto il comando del cognato Scipione Emiliano e nove anni dopo, al suo ritorno a Roma, era stato eletto questore, dovendo così partire per la terza guerra celtibera sotto il comando del console Gaio Ostilio Mancino che aveva ricevuto il compito di espugnare Numanzia, che già da diversi anni teneva in scacco i romani. Il tentativo si rivelò fallimentare; infatti il console fu sconfitto in diverse occasioni finché, completamente circondato dai nemici, fu costretto a negoziare un trattato di pace per evitare l'annientamento delle sue truppe. In questo trattato Mancino fu supportato dal suo questore Tiberio Gracco, che godeva di grande rispetto presso i numantini poiché memori delle gesta del padre, che in passato era stato loro alleato. Fra l'altro Tiberio Gracco accettò di trattare con i Numantini anche per recuperare il diario e le tavole del suo ufficio di questore che erano state rubate nel saccheggio successivo alla fuga romana. Tornato a Roma fu accusato e biasimato per il suo gesto, ma il popolo e le famiglie dei soldati (20.000 vite furono risparmiate) scampati al massacro lo acclamarono come un salvatore. Dalla compagine dei senatori venne invece una reazione ostile per il fatto che i romani erano usciti piegati dallo scontro con Numanzia e patteggiato una pace non da vincitori ma da vinti. Il senato rimandò così a Numanzia Gaio Ostilio Mancino come prigioniero, consegnato nudo e legato in segno di rifiuto del trattato che Tiberio aveva formulato. Come tribuno della plebe, Tiberio Gracco voleva risolvere la grande povertà di cui soffriva la popolazione romana dai tempi delle guerre puniche. Solitamente i terreni conquistati venivano distribuiti ai soldati ma nel caso delle guerre puniche, in cui erano stati occupati territori vasti e molto importanti, i senatori e gli ufficiali, approfittando del proprio potere, si riservarono i terreni più vasti e fertili. Inoltre poterono acquistarono terreni a basso prezzo dai piccoli proprietari rovinati dalle lunghe guerre, così i terreni prima coltivati da umili contadini diventarono latifondi coltivati da schiavi e quindi era cambiata completamente la società. I contadini disoccupati si recavano nelle città con la speranza di trovare un lavoro ma molti diventavano delinquenti per contrastare la fame. Con queste distribuzioni di terreni veniva anche violata una disposizione a favore dei plebei. Per porre fine alla crescente povertà del popolo, il neo eletto tribuno della plebe Tiberio Gracco cercò di far approvare una legge di riforma agraria, la lex agraria detta legge Sempronia, con l'aiuto del suo parente Publio Licinio Crasso Dive Muciano, pontefice massimo e del console Publio Muzio Scevola, per la redistribuzione delle terre del suolo italico, usurpate dai ricchi ai più poveri e offerte ai forestieri per la lavorazione. La legge prevedeva che nessuno potesse possedere più di 500 iugeri di terre pubbliche (pari a 125 ettari visto che 1 iugero = 0,252 ettari). A questi se ne potevano aggiungere altri 250 iugeri per ogni figlio maschio ma non si potevano superare i 1.000 iugeri di terreni pubblici in proprio possesso. Chi possedeva maggiori terre pubbliche  doveva restituire l'eccedenza allo Stato. Era comunque previsto un compenso a chi sarebbero state espropriate le terre. Nessun limite era invece posto ai terreni di proprietà privata. Lo Stato avrebbe  suddiviso i terreni restituiti, in quanto eccedenti le quantità massime che potevano essere detenute, in piccoli fondi da 30 iugeri (7,5 ettari), da assegnare ai  cittadini romani poveri. Una commissione formata da tre membri eletti dai Comizi tribuni doveva controllare la correttezza delle operazioni relative a tali terreni. Questa riforma aveva il vantaggio di consentire ai ricchi di continuare a detenere grandi estensioni di terreni ma al tempo stesso avrebbe permesso ai disoccupati, poveri e agitati, di tornare ad essere tranquilli contadini. Per evitare che i piccoli proprietari terrieri si ritrovassero di nuovo ad essere nullatenenti veniva stabilita l'impossibilità di vendere i terreni che fossero stati loro assegnati. La legge fu approvata ma incontrò gravi difficoltà; ad esempio, molti italici, che erano rimasti sui terreni come affittuari, temevano di perdere tutto con la legge di Tiberio, così come alcune comunità alleate di Roma. Il dibattito sull'assegnazione delle terre era collegato alla questione del diritto di cittadinanza: gli abitanti alleati avevano interessi a ottenere gli stessi diritti dei cittadini romani. Per gli Optimates questa riforma avrebbe rappresentato sia la perdita di loro possedimenti pubblici che la perdita del controllo di una massa di persone che, potendo tornare al proprio lavoro nei campi, non poteva più essere manovrata  durante le elezioni. La nobiltà, allora, portò dalla propria parte il tribuno della plebe Marco Ottavio Cecina, che oppose il veto alla riforma. Tiberio si rivolse ai Comizi chiedendo la deposizione del tribuno che aveva avuto un comportamento contrario agli interessi del popolo. La proposta di deporre il tribuno Ottavio  Cecina fu approvata all'unanimità dalle 35 tribù: era questo, però, un atto incostituzionale dato che i Comizi non potevano revocare la nomina di un tributo. Dopo la deposizione di Ottavio Cecina la riforma agraria fu approvata e venne creata la commissione che doveva occuparsi della redistribuzione delle terre pubbliche. Tuttavia, l'applicazione della legge fu piuttosto difficile dato che i contadini non avevano i mezzi necessari per mettere a coltura i terreni che venivano loro assegnati e c'era quindi bisogno di concedere loro dei  finanziamenti affinché potessero acquistare attrezzi, sementi e bestiame per far rinascere la piccola proprietà terriera. Proprio nel 133 a.C. Attalo III, non avendo figli, lascia in eredità il suo regno di Pergamo e i suoi averi a Roma, che Tiberio Gracco pensava di utilizzare per finanziare la ricostruzione delle fattorie dei piccoli contadini. Fece così una proposta in tal senso ai Comizi ma ancora una volta sembrò al Senato come un tentativo di scavalcare la propria autorità: infatti si trattava di una decisione di politica estera che competeva al Senato e non ai Comizi. Temendo che la legge agraria potesse non trovare una piena applicazione, Tiberio fu riproposto candidato come tribuno per l'anno successivo ma gli optimates  replicarono che la Lex Villia del 180 a.C. prevedeva che tra una magistratura e l'altra dovesse trascorrere un lasso di tempo. Per questa ragione fu mossa contro di lui l'accusa di voler diventare un tiranno. Il contrasto tra gli Optimates e Tiberio Gracco si concluderà con la morte di quest'ultimo, assassinato al Campidoglio in occasione della carneficina ordinata mediante la formula del tumultus dal pontefice massimo Publio Cornelio Scipione Nasica Serapioneuna, carneficina nella quale persero la vita oltre trecento cittadini romani oltre allo stesso Tiberio, ucciso pare a colpi di sgabello. Il suo cadavere fu gettato nel Tevere e i suoi amici condannati a morte o esiliati senza processo. Il senato non si oppose però alla spartizione delle terre ed elesse come nuovo esecutore il suo parente Publio Licinio Crasso Dive Muciano. Nasica fu ripetutamente offeso e minacciato ed il senato decise di mandarlo in Asia per precauzione. L'opera di Tiberio venne poi portata avanti dal fratello Gaio.

Il Regno di Pergamo nel 133 a.C.
Nel 133 a.C.Roma riceve in eredità da Attalo il Regno di Pergamo, in Asia Minore.

Nel 123 a.C. - Gaio Sempronio Gracco (Roma, 154 a.C. - Roma, 121 a.C.), dieci anni dopo la morte del fratello maggiore Tiberio, è eletto tribuno della plebe, carica nella quale sarà confermato anche l'anno seguente. Gaio Sempronio Gracco avrebbe voluto da tempo riprendere l'opera di riforma sociale del fratello Tiberio, ma gli ottimati invece, lo avevano nominato questore, inviandolo in Sardegna ad amministrare le finanze, in modo che la sua distanza da Roma, unita al fatto di ricoprire già un incarico politico, lo dissuadesse dal candidarsi a tribuno della plebe. Gaio era rimasto nella provincia sarda per due anni, per poi tornare a Roma a candidarsi ed essere eletto tribuno della plebe. Gaio cercò di opporsi al potere esercitato dal senato romano e dall'aristocrazia attuando una serie di riforme favorevoli ai Populares, ovvero la plebe, che si erano riversati nell'Urbe dopo l'espansione territoriale delle guerre puniche, composti in parte dagli abitanti delle nuove province conquistate e dai piccoli agricoltori italici e romani che non potevano competere con i bassi prezzi delle derrate provenienti dalle provincie (Sicilia, Sardegna, Nord Africa). Durante il suo secondo tribunato, Gaio Gracco proseguì la politica agraria del fratello, permettendo la vendita di grano a prezzo ridotto. Promosse inoltre varie colonie ma la rilevanza storica di Gaio è legata tuttavia essenzialmente alle sue leges Semproniae, approvate tramite plebisciti, tra le quali: Lex Sempronia agraria che dava maggior vigore a quella del fratello mai abrogata, assegnando ai cittadini romani indigenti porzioni dell'agro pubblico romano in Italia, compreso quello dei privati proprietari di terre oltre i 500-1000 iugeri; Lex de viis muniendis, piano di costruzioni di strade per agevolare i commerci e dare lavoro alla plebe con un programma di opere pubbliche; De tribunis reficiendis, con cui si stabiliva la rieleggibilità dei tribuni della plebe; Rogatio de abactis, con cui si toglieva l'elettorato passivo al tribuno destituito dal popolo. Era questa una legge indirizzata a colpire il tribuno Caio Ottavio che si era opposto alla lex Sempronia agraria, ma lo stesso Gaio ritirò questa legge; Lex de provocatione, che vietava la condanna capitale di un cittadino senza regolare processo; Lex frumentaria, che disponeva la distribuzione di grano a basso prezzo ai cittadini bisognosi di Roma; Lex iudiciaria, che trasferiva la carica di giudice dai senatori ai cavalieri. Gaio Sempronio Gracco introduceva così tra le due classi di patrizi e plebei, la terza, l'Ordo EquestrisLex de coloniis deducendis per la deduzione di nuove colonie; Lex de provinciis consularibus, che imponeva al senato di stabilire prima delle elezioni dei consoli quali provincie dovessero essere loro assegnate per impedire che un console avverso al senato fosse allontanato da Roma; Lex militaris, che stabiliva che l'equipaggiamento dei soldati fosse a carico dello Stato e vietava l'arruolamento prima dei 18 anni; Lex Sempronia de capite civis, che era tesa a vietare la formazione di corti straordinarie (quaestiones extraordinariae) per Senatus consultum riportando la decisione su tale materia al popolo (provocatio ad populum); Lex Sempronia de provincia Asia, che mirava a cercare l'appoggio dei cavalieri. Rendeva infatti i terreni della provincia d'Asia ager publicus populi romani e sottraeva l'appalto delle tasse ai governatori assegnandolo a pubblicani facenti parte dell'ordine equestre. Poi, in seguito all'introduzione dei comizi tributi (in cui si riunivano i cittadini ripartiti per le 35 tribù, 4 urbane e 31 rustiche, in cui ognuna esprimeva un voto. Eleggevano i magistrati minori, come questori e edili e avevano competenza giudiziaria per reati che prevedessero multe) ed all'assegnazione delle province, Gaio Gracco propose nel maggio del 122 a.C. la concessione della cittadinanza romana ai latini e di quella latina agli italici. L'opposizione al suo disegno di legge trovò concordi il Senato (che trovava così il modo di liberarsi di lui), la maggior parte dei cavalieri e pressoché tutta la plebegelosa dei propri privilegi.

- La principale divisione politico-sociale a Roma era stata quella tra patrizi e plebei, ma nel 123 a.C. Gaio Sempronio Gracco introduce tra le due classi una terza, l'Ordo Equestris

Lapide di eques da QUI.

La Lex Sempronia iudiciaria stabiliva infatti che i giudici dovessero essere scelti tra i cittadini di censo equestre e cioè di età tra i trenta e i sessant'anni, essere o essere stato un eques o comunque avere il  denaro per acquistare e mantenere un cavallo e non essere un senatore. Il termine equites perciò, dall'iniziale identificazione di soldati a cavallo, passò prima a indicare chi quel cavallo avesse o avrebbe avuto la possibilità di acquistarlo per poi indicare chi avesse la possibilità di essere eletto come giudice. La corruzione delle province era ormai un cancro diffuso. I governatori, d'accordo con i Pubblicani (appaltatori delle imposte, pagavano allo stato un canone per esigere per proprio conto le tasse) gonfiavano i tributi da riscuotere e se ne intascavano i profitti. I governatori erano sottoposti al controllo del Senato ma spesso erano loro stessi senatori e a nulla era valso, nel 149 a.C. un tribunale creato proprio per questi casi. Gaio Gracco propose che i tribunali fossero assegnati all'ordine equestre, sfruttando la forte rivalità esistente tra le due fazioni.

Nel 121 a.C. - Gaio Sempronio Gracco aveva perso molta della sua popolarità, non era stato rieletto al tribunato e dovette difendersi da accuse pretestuose, come quella di aver dedotto nuovamente Cartagine, atto che gli indovini avevano dichiarato come infausto. Gaio il giorno della votazione relativa all'abrogazione proposta dal senato della legge riguardante la fondazione delle colonie, si presentò all'assemblea per difenderla. I nobili, capeggiati da Publio Cornelio Scipione Nasica Corculo gli gettarono contro il collega Marco Livio Druso e il triumviro Gaio Papirio Carbone.

Jean-Baptiste Topino-Lebrun, 1782
"Morte di Gaio Sempronio Gracco".
Licenza http://commons.wikimedia
.org/wiki/File:Death_of_Gaius_
Gracchus.jpg#/media/File:Death
_of_Gaius_Gracchus.jpg
 
 Scoppiarono una serie di disordini che il nuovo console Opimio, eletto dal partito oligarchico, ebbe mano libera per reprimere.  Gaio e i suoi sostenitori si rifugiarono sull'Aventino per resistere armati, ma quando Opimio promise l'impunità a chi si fosse arreso e consegnato, l'ex tribuno, rimasto quasi solosi fece  uccidere dal suo schiavo Filocrate nel lucus Furrinae sul Gianicolo. Una feroce repressione portò alla morte nelle carceri di quasi 3.000 dei suoi partigiani. La memoria dei Gracchi fu maledetta e alla madre fu proibito d'indossare le vesti a lutto per il figlio defunto. «La sconfitta dei Gracchi consolidò apparentemente il potere dell'aristocrazia, ma dimostrò anche che questa, rifiutandosi a qualsiasi soddisfazione delle esigenze dei plebei e degli Italici, non si reggeva ormai più che con la violenza.» (Enciclopedia Italiana Treccani alla voce "Gracco, Gaio Sempronio").

La provincia romana narbonense, da
cui nascerà il nome Provenza. 
Nel 121 a.C. - La Gallia Narbonense diventa provincia romana col nome originario di Gallia Transalpina (ossia "Gallia al di là delle Alpi", nota anche come Gallia ulterior e Gallia comata, in contrapposizione alla Gallia Cisalpina ossia "Gallia al di qua delle Alpi", nota anche come Gallia citerior e Gallia togata). Dopo la fondazione della città di Narbo Martius, o Narbona, (l'attuale Narbona), nel 118 a.C., la provincia fu rinominata Gallia Narbonensis, o Gallia bracata, con la nuova colonia costiera come capitale. La nuova provincia romana corrispondeva all'incirca alle due odierne regioni amministrative francesi di Linguadoca-Rossiglione e Provenza-Alpi-Costa Azzurra, situate nella Francia meridionale. Precedentemente conosciuta come Gallia Transalpina (o Gallia meridionale), in epoca romana era chiamata anche Provincia Nostra o semplicemente Provincia. L'eco di questo termine ancora permane nel nome dell'attuale regione francese (Provence o Provenza). Con la riforma dioclezianea, la Gallia narbonese perse la sua parte più settentrionale, che assunse il nome di Gallia Viennensis. Poco dopo la provincia venne ulteriormente divisa, in "Narbonensis prima" (ad occidente del Rodano), e "Narbonensis secunda" (a oriente del Rodano). Insieme all'Aquitania prima, all'Aquitania secunda, alla Novempopulana (da Novempopuli, il resto del sud-ovest della Gallia) e alle Alpi Marittime andò a formare la Diocesi denominata "Septem Provinciae", da cui derivò il termine postumo di "Settimania".

Nel 120 a.C. - Gaio Mario è eletto tribuno della plebe per il 119 a.C. A quanto sembra si era già candidato alla carica nel 121 a.C., ma senza successo. Un ruolo determinante ebbe, nell'occasione, il sostegno della potente famiglia dei Cecilii Metelli, verso i quali probabilmente aveva un rapporto di clientela. Durante il suo tribunato Mario perseguì una linea vicina alla fazione dei popolari, facendo in modo che venisse approvata, fra l'altro, una legge che limitava l'influenza delle persone di censo elevato nelle elezioni. Negli anni intorno al 130 a.C. si era introdotto il metodo del ballottaggio scritto nelle elezioni per le nomine dei magistrati, per l'approvazione delle leggi e per l'emanazione delle sentenze legali, in sostituzione del metodo tradizionale di votazione orale. Poiché i nobiles o optimati cercavano sistematicamente di influenzare l'esito dei ballottaggi con la minaccia di controlli ed ispezioni, Mario fece approvare un'apposita legge per far costruire uno stretto corridoio da cui i votanti dovevano passare per depositare il proprio voto nell'urna al riparo dagli sguardi indiscreti degli astanti. In conseguenza di ciò Mario si alienò la potente famiglia dei Metelli, che da quel momento in poi diventarono suoi fieri oppositori. Successivamente Mario si candidò per la carica di edile plebeo, ma senza successo.

- Nello stesso 120 a.C. la tribù dei Cimbri abbandona lo Jutland e anche i loro vicini Teutoni decidono di spostarsi a sud,  attraverso la Germania. La fortezza romana di Teutoburgium, circa 19 chilometri a nord della città moderna di Vukovar, viene spesso citata come prova della loro presenza. Non è tuttavia chiaro se i Teutoni si fossero subito uniti ai Cimbri o se li seguissero ad una certa distanza. I Cimbri erano una tribù germanica, anche se alcuni ritengono che fosse di origine celtica, la cui sede originaria pare fosse nel nord dello Jutland, nell'attuale Danimarca, che nell'antichità era chiamata penisola cimbra. Probabilmente sia Ambroni che Cimbri avevano radici miste celto-germaniche, infatti durante il loro breve e sanguinario attraversamento dell'Europa, i Cimbri erano guidati da Boiorix, un nome celtico che significa "Re dei Boi". I Tèutoni erano secondo fonti romane un popolo germanico che originariamente viveva nello Jutland. Il nome Teutones o Teutoni tramandato dalle fonti greche e romane non permette di riconoscerne una provenienza certa, potrebbe essere tanto di origine celtica quanto protogermanica poiché esisteva una grande quantità di lessemi simili e non è possibile tracciare un collegamento ad una località precisa. Il termine è stato spesso collegato con l'etnonimo Deutsche ("tedeschi"), che risale ai termini in alto tedesco antico "theodisk" e "diutsc", che possedevano la radice germanica "theoda", che significa "popolo" o "tribù" ma che significava originariamente "appartenente al popolo" e "che parla la lingua del popolo". I geografi antichi riconoscevano nella denominazione "Teutoni" un nome collettivo per gli abitanti non celtici della costa del Mare del Nord o anche per l'interezza dei Germani. L'autore romano Plinio il Vecchio è stato il primo a riportare che i Teutoni vivessero sulla costa occidentale dello Jutland, verosimilmente a sud dei Cimbri e che in quei luoghi praticavano il commercio dell'ambra; da notare che il prefisso Amb è usuale in molti nomi tribali celtici. Secondo gli autori antichi, una devastante marea costrinse i Teutoni ad abbandonare le loro aree di insediamento. La tribù degli Ambroni (o Ambrones) appare brevemente nelle fonti romane relative al II secolo a.C.. La loro posizione originaria pare fosse lungo la costa dell'Europa settentrionale, a nord del Rhinemouth (la foce del Reno), nelle Isole Frisone, regione oggi occupata dai resti dello Zuider Zee e dallo Jutland, che gli Ambroni condivisero con i propri vicini Cimbri e Teutoni. Lo Zuiderzee (in italiano Mare del Sud) era un golfo dei Paesi Bassi, lungo le coste del Mare del Nord dove in epoca romana c'era il Lago Flevo, separato dal mare dalla presenza di dune. Nel XIII secolo, a seguito di inondazioni il mare aveva invaso il lago, trasformandolo in golfo marino. Al fine di ampliare e garantire il loro territorio, gli olandesi all'inizio nel XIX secolo avviarono un grande progetto per la creazione di polder (i Zuiderzeewerken), tratti di mare asciugato artificialmente attraverso dighe e sistemi di drenaggio dell'acqua. Il prefisso Amb è usuale in molti nomi tribali celtici, per cui si potrebbe pensare che gli Ambroni fossero di origine celtica, ma esistono prove a sostegno dell'ipotesi che Ambroni e Cimbri avessero radici miste celto-germaniche. Queste etnie miste, probabilmente in origine celtiche ma assimilate dai Germani, suggeriscono d'altra parte come in quel periodo le tribù germaniche fossero pesantemente influenzate dalla cultura celtica. La potenza dei Celti in Europa stava declinando nel corso del II - I secolo a.C. mentre i Germani cominciavano a premere per attraversare i due grandi fiumi europei, il Reno ad occidente per invadere la Gallia e la penisola iberica ed il Danubio a sud sud-est per poi spingersi fino ai Balcani, in cerca di una nuova sistemazione. La grande migrazione delle genti germaniche che ne seguì comportò lo spostamento di intere popolazioni, comprese donne, bambini ed anziani, carriaggi e mandrie, mentre un buon numero di Celti erano scacciati dai loro insediamenti nel centro europeo, come i Boi che prima erano in Boemia e poi erano passati in Baviera (Baiovara), dove erano ricordati in quei toponimi, per cui di Celti ne rimarranno in Italia Settentrionale, alcuni fondendosi con gli antichi Liguri, in Francia, nella Galizia iberica mischiati agli Iberici, in tutta la Britannia (Scozia inclusa) e Irlanda, alcuni fino all'Asia Minore (i Galati). Secondo gli autori antichi, una devastante marea aveva costretto i Teutoni ad abbandonare le loro aree di insediamento e forse gli Ambroni erano stati convinti ad emigrare dalle recenti alluvioni dello Zuider Zee; comunque Cimbri, Teutoni e Ambroni in una prima fase, non miravano a scontrarsi coi Romani, al contrario il loro disegno originario potrebbe essere stato quello di attraversare il fiume Danubio per stanziarsi nei Balcani. Si trattava di circa 300.000 uomini delle tre tribù, dei quali 30.000 erano Ambroni. La migrazione si trasformò ben presto in razzie. Mentre puntavano verso la Boemia, vennero bloccati dai Boi, che in quel periodo abitavano le terre che ancora oggi portano il loro nome e si creò forte preoccupazione nelle genti alleate ai Romani del Norico, che ne richiesero l'intervento a propria salvaguardia.


Nel 116 a.C. - Gaio Mario riesce, di stretta misura, a farsi eleggere pretore per l'anno successivo (a quanto pare si classificò solo al sesto posto su sei), ed è immediatamente accusato di brogli elettorali (il termine latino è ambitus.) Riuscito a malapena a farsi assolvere da questa accusa, esercitò la carica senza che si verificassero avvenimenti degni di particolare menzione. Terminato il mandato ricevette il governatorato della Spagna ulteriore, dove fu necessario intraprendere alcune campagne militari contro le popolazioni celtiberiche mai del tutto sottomesse. Il governatorato e le guerre gli fruttarono ingenti ricchezze personali, come sempre accadeva ai comandanti romani. Le vittorie ottenute gli permisero, tornato a Roma, di richiedere ed ottenere il trionfo.

Dal 113 a.C. al 101 a.C. - Si combattono le guerre cimbriche fra la Repubblica romana e la coalizione delle tribù germanico-celtiche di Cimbri, Teutoni ed Ambroni, che si riveleranno una questione assai ben più seria del recente conflitto celtico del 121 a.C. e generarono un grande timore a Roma che, per la prima volta dopo la seconda guerra punica, si sentiva seriamente minacciata. All'inizio dei conflitti, i Romani subirono pesanti perdite anche a causa della rivalità tra i consoli al comando. La prima sconfitta avvenne con il console Gneo Papirio Carbone (Perseus, Carbo No. 4). Strabone racconta che i Celti Boi avevano respinto, in Boemia, gli attacchi dei Cimbri, che avevano poi proseguito la loro marcia, insieme a Teutoni ed Ambroni, girando attorno ai Boi ed entrando in Serbia ed in Bosnia, oltrepassando il Sava e la Morava. Ben presto però avevano lasciato quei territori montuosi seguendo un tragitto che passava a nord delle Alpi e dei pericolosi Romani, verso la Pannonia e il Norico. Il console Gneo Papirio Carbone vista l'avanzata delle genti germaniche, di cui egli stesso sapeva poco, temendo che potessero invadere l'Italia come era accaduto tre secoli prima con il sacco di Roma, decise di sorprendere gli invasori, ma subì un'autentica disfatta nei pressi di Noreia (l'attuale Krainburg) nel 113 a.C., battaglia che segnò così l'esordio delle guerre romano-germaniche che si susseguirono per i sei secoli successivi fino alla caduta dell'Impero romano d'Occidente. La partecipazione dei Teutoni alla battaglia di Noreia nel 113 a.C. è attestata in diverse fonti antiche. Dopo il successo nella battaglia di Noreia, CimbriTeutoni ed Ambroni attraversano poi il Reno e i territori degli Elvezi per poi giungere nei verdi pascoli della Galliadevastandola, come riporterà Cesare nel suo "De bello Gallico". La seconda sconfitta romana avverrà con Marco Giunio Silano Torquato (Perseus, Silanus, Junius No. 17) in Gallia nel 109 a.C., una terza con Gaio Cassio Longino nel 107 a.C. ed una quarta con Quinto Servilio Cepione e Gneo Mallio Massimo nel 105 a.C. (Battaglia di Arausio). Le forze romane che si alternarono negli anni del conflitto furono ingenti: 4 legioni (composte di 5 000÷6 000 armati ciascuna) nel 109 a.C.; 6 legioni e 6.000 cavalieri nel 107 a.C.; 8 legioni nel 106 a.C.; 9 nel 105 a.C. oltre a 5.000 cavalieri circa; 7 legioni e 3.000 cavalieri con Gaio Mario nello scontro di Aquae Sextiae. Riguardo alle forze germaniche, sulla base di quanto ipotizzato da Gaio Giulio Cesare nella conquista della Gallia, i guerrieri potevano essere attorno ai 25/30.000 per singolo popolo mentre secondo altre fonti gli uomini delle tre tribù erano circa 300.000, dei quali 30.000 erano Ambroni. 

Nel 110 a.C. - La carriera di Gaio Mario non sembrava destinata a grandi successi fino al 110 a.C., quando gli fu proposto un matrimonio con una giovane esponente dell'aristocrazia, Giulia Maggiore, sorella del senatore Gaio Giulio Cesare il vecchio e futura zia di Giulio Cesare. Mario accettò, divorziando dalla sua prima moglie Grania di Pozzuoli. La gens Iulia era una famiglia patrizia di antichissime origini (faceva risalire la propria discendenza a Iulo, figlio di Enea, e a Venere, dea della bellezza), ma nonostante ciò, i suoi appartenenti avevano, per ragioni finanziarie, notevoli difficoltà a ricoprire cariche più elevate di quella di pretore (solamente una volta, nel 157 a.C. un Giulio Cesare era stato console). Il matrimonio permise alla famiglia patrizia di rimettere in sesto le proprie finanze e diede a Mario la legittimità per candidarsi al consolato. Il figlio che ne nacque, Gaio Mario il Giovane, vide la luce nel 109 (o 108) a.C., quindi il matrimonio probabilmente fu contratto nel 110 a.C.. La famiglia di Mario era per tradizione cliente dei Metelli e infatti Cecilio Metello aveva appoggiato la campagna elettorale di Mario per il tribunato. Sebbene i rapporti con i Metelli si fossero in seguito deteriorati, la rottura non dovette essere definitiva, tanto è vero che Q. Cecilio Metello, console nel 109 a.C., prese con sé Mario come suo legato nella campagna militare contro Giugurta.  

Nel 109 a.C. - La migrazione di Cimbri, Teutoni ed Ambroni viene affrontata dal proconsole romano Marco Giunio Silano, al comando di 4 legioni (composte di 5 000÷6 000 armati l'una) ma è sconfitto nelle terre dei Sequani, evento che provoca un inizio di ribellione da parte delle tribù celtiche che erano state di recente assoggettate dai Romani nella parte meridionale del paese. La coalizione celto-germanica subisce poi una sconfitta da parte dei Celti Belgi.

Nel 108 a.C. - Gaio Mario si convince che i tempi siano maturi per candidarsi alla carica di console. A quanto pare chiese a Metello il permesso di recarsi a Roma per portare a termine il proprio proposito, ma Metello gli raccomandò di astenersi, e probabilmente gli consigliò di aspettare il tempo necessario per potersi candidare insieme al figlio ventenne dello stesso Metello, cosa che avrebbe rimandato tutto di almeno venti anni. Mario fu costretto a fare buon viso a cattivo gioco, ma nel frattempo, durante tutta l'estate del 107, fece in modo di guadagnarsi il favore della truppa, allentando notevolmente la rigida disciplina militare e di accattivarsi anche i commercianti italici del posto, ansiosi di intraprendere i propri lucrosi traffici, assicurando a tutti che, se avesse avuto mano libera, avrebbe potuto, in pochi giorni e con la metà delle forze a disposizione di Metello, concludere vittoriosamente la campagna con la cattura di Giugurta. Entrambi questi influenti gruppi si affrettarono a inviare a Roma messaggi in appoggio di Mario, con cui si suggeriva di affidargli il comando, e si criticava Metello per il modo lento e inconcludente con cui stava conducendo la campagna militare. In effetti la strategia di Metello prevedeva una lenta, metodica e capillare sottomissione di tutto il territorio. Alla fine Metello dovette cedere, rendendosi conto, a ragione, che non gli conveniva mettersi contro un subordinato tanto influente e vendicativo. In queste circostanze è facile immaginare il modo trionfale con cui Mario, alla fine del 108 a.C., fu eletto console per l'anno successivo. La sua campagna elettorale fece leva sull'accusa, rivolta a Metello, di scarsa risolutezza nel condurre la guerra contro Giugurta. Viste le ripetute sconfitte militari subite negli anni fra il 113 e il 109, nonché le accuse di spudorata corruzione rivolte a molti esponenti dell'oligarchia dominante, è facile comprendere come l'onesto uomo fattosi da sé, e affermatosi percorrendo faticosamente tutti i gradini della carriera, fu eletto a furor di popolo, essendo visto come l'unica alternativa ad una nobiltà divenuta corrotta e incapace. Tuttavia il Senato aveva ancora un asso nella manica. Infatti la lex Sempronia  stabiliva che il Senato avesse facoltà di decidere ogni anno quali province dovessero essere affidate ai consoli per l'anno successivo. Alla fine dell'anno e appena prima delle elezioni, il Senato decise di sospendere le operazioni contro Giugurta e di prorogare a Metello il comando in Numidia. Mario non si perse d'animo e si servì di un espediente già sperimentato nell'anno 131 a.C.. In quell'anno c'era stato infatti disaccordo su chi avrebbe dovuto comandare la guerra contro Aristonico in Asia e un tribuno aveva fatto approvare una legge che autorizzava un'apposita elezione per decidere a chi affidare il comando (e per la verità c'era stato un'ulteriore precedente in occasione della seconda guerra punica). Mario fece approvare una legge simile anche in quell'anno (il 108 a.C.), risultando eletto a grande maggioranza. Metello ne fu profondamente offeso, tanto che, al suo ritorno, non volle nemmeno incontrarsi con Mario, dovendosi accontentare del trionfo e del titolo di Numidico che gli vennero generosamente concessi. Mario riformò l'esercito dell'epoca allargando il reclutamento a tutti i cittadini romani: aveva un estremo bisogno di raccogliere truppe fresche e, a questo  scopo, introdusse una profonda riforma del sistema di reclutamento, foriera di conseguenze di un'importanza di cui lui stesso, al momento, probabilmente non comprese la portata. Tutte le riforme  agrarie attuate dai Gracchi si basavano sul tradizionale principio secondo cui erano esclusi dal servizio di leva i cittadini il cui reddito era inferiore a quello stabilito per la quinta classe di censo. I Gracchi, con le loro riforme, avevano cercato di favorire i piccoli proprietari terrieri, che da sempre avevano costituito il nerbo degli eserciti romani, in modo da fare aumentare il numero di quelli che avessero i requisiti per essere arruolati. Nonostante i loro sforzi, tuttavia, la riforma agraria non risolse la crisi del sistema di arruolamento, che aveva avuto lontana origine dalle sanguinose guerre puniche del secolo precedente. Si cercò quindi di trovare una soluzione semplicemente abbassando la soglia minima di reddito per appartenere alla quinta classe da 11.000 a 3.000 sesterzi, ma nemmeno questo fu sufficiente, tanto che già nel 109 a.C. i consoli erano stati costretti a derogare dalle restrizioni sugli arruolamenti imposte dalle leggi graccane.

Nel 107 a.C. - Gaio Mario ruppe ogni indugio e decise l'arruolamento senza alcuna restrizione riguardo al censo e alle proprietà fondiarie dei potenziali soldati. D'ora in avanti le legioni di Roma saranno composte prevalentemente da cittadini poveri, il cui futuro, al termine del  servizio,  dipendeva unicamente dai successi conseguiti dal proprio comandante, che era solito loro assegnare parte delle terre frutto delle vittorie riportate. Di conseguenza i soldati avevano il massimo interesse ad appoggiare il proprio comandante, anche quando si scontrava con i voleri del Senato, composto dai rappresentanti dell'oligarchia dominante, ed anche quando andava contro il pubblico interesse, che, a quell'epoca, veniva di fatto impersonato dal Senato stesso. Va notato che Mario, persona fondamentalmente corretta e fedele alle tradizioni, non si avvalse mai di questa potenziale enorme fonte di potere, ma passeranno meno di vent'anni che il suo ex questore Silla, lo farà per imporsi contro il Senato e contro lo stesso Mario. Ben presto Mario si rese conto che concludere la guerra non era così facile come egli stesso si era in precedenza vantato di poter fare. Dopo essere sbarcato in Africa verso la fine del 107 a.C. costrinse Giugurta a ritirarsi in direzione Sud-Ovest verso la Mauritania. Nello stesso 107suo questore era stato nominato Lucio Cornelio Silla, rampollo di una nobile famiglia patrizia caduta economicamente in disgrazia. A quanto pare Mario non fu contento di avere alle proprie dipendenze un simile giovane dissoluto ma, inaspettatamente, Silla dimostrò sul campo di possedere grandi qualità di comandante militare. Nel 105 a.C. Bocco, re di Mauritania e suocero di Giugurta, nonché suo riluttante alleato, si trovò di fronte l'esercito romano in avanzata. I romani gli fecero sapere di essere disponibili ad una pace separata e Bocco invitò Silla nella sua capitale per condurvi le trattative. Anche in questa circostanza Silla si dimostrò particolarmente abile e coraggioso; in effetti, Bocco rimase a lungo dubbioso se consegnare Silla a Giugurta oppure, come poi avvenne, Giugurta a Silla. Alla fine, Bocco fu convinto a tradire Giugurta, che fu subito consegnato nelle mani dello stesso Silla. La guerra era così conclusa. Poiché Mario era il comandante dotato di imperium e Silla militava alle sue dirette dipendenze, l'onore della cattura di Giugurta spettava interamente a Mario, ma era chiaro che gran parte del merito andava riconosciuto personalmente a Silla, tanto che gli fu consegnato un anello con un sigillo commemorativo dell'evento. Al momento la cosa non fece particolarmente scalpore, ma in seguito Silla si vanterà di essere stato il vero artefice della conclusione vittoriosa della guerra. Mario, intanto, si guadagnava fama di eroe del momento. Il suo valore stava per essere messo alla prova da un'altra grave emergenza che incombeva su Roma e sull'Italia. L'arrivo in Gallia del popolo dei Cimbri e la vittoria da loro conseguita su Marco Giunio Silano nel 109 a.C., il cui esercito era stato totalmente annientato, aveva provocato un inizio di ribellione da parte delle tribù celtiche che erano state di recente assoggettate dai romani nella parte meridionale del paese, la Gallia Narbonense. Nel 107 a.C. il console Lucio Cassio Longino venne completamente sconfitto da una tribù locale, e l'ufficiale di grado più elevato fra quelli sopravvissuti (Gaio Popilio Lenate), figlio del console dell'anno 132, riuscì a mettere in salvo quanto restava delle forze romane solo dopo aver ceduto metà degli equipaggiamenti ed aver subito l'umiliazione di far marciare il proprio esercito sotto il giogo, in mezzo allo scherno dei vincitori.

Nel 106 a.C. - Il console Quinto Servilio Cepione marcia da Narbona, alla testa di ben 8 legioni (composte di 5 000÷6 000 armati l'una), contro delle tribù ribellatesi a Roma stanziate nella zona di Tolosa. Si racconta che Cepione cercasse, all'interno della città di Tolosa e per diversi giorni, il tesoro di cui narrava una leggenda, un'enorme quantità di oro che pare fosse custodita nei santuari dei templi (il cosiddetto Oro di Tolosa o Aurum Tolosanum). Non trovando nulla, decise di prosciugare i laghi vicini alla città e ritrovò così sotto la melma 50.000 lingotti d'oro, 10.000 lingotti d'argento e macine interamente in argento, una fortuna incredibile. Durante il trasporto verso Massilia (l'odierna Marsiglia), nel tratto tra Tolosa e Narbona, dove avrebbe dovuto essere imbarcato), 1.000 predoni si impadronirono dei 450 carri che trasportavano i soli lingotti d'oro. A Roma si sospettò dello stesso Cepione, che però fu confermato nel comando anche per l'anno successivo, ma si unì a lui nelle operazioni in Gallia meridionale anche uno dei due nuovi consoli, Gneo Mallio Massimo. Al pari di Gaio Mario, anche Mallio era un uomo nuovo, che non faceva cioè parte di alcuna élite romana e la collaborazione fra i due si dimostrò fin da subito impossibile.


Nel 105 a.C. - Al pari di Gaio Mario, anche Mallio era un uomo nuovo, che non faceva cioè parte di alcuna élite romana e la collaborazione fra lui e Cepione si dimostrò fin da subito impossibile. Cimbri, Teutoni e Ambroni erano apparsi sul corso del fiume Rodano proprio mentre l'esercito di Mallio si trovava nella stessa zona. Cepione, che era accampato sulla riva opposta del fiume, si rifiutò in un primo momento di venire in soccorso del collega minacciato, decidendosi ad attraversare il fiume solo dopo che il Senato gli aveva ordinato di cooperare con Mallio. Tuttavia si rifiutò di unire le forze dei due eserciti mantenendosi a debita distanza dal collega. I Germani approfittarono della situazione e, dopo aver sbaragliato Cepione, distrussero anche l'esercito di Mallio il 6 ottobre del 105 a.C. presso la città di Arausio. I Romani dovettero combattere con il fiume alle spalle che impediva loro la ritirata e, stando alle cronache, furono uccisi 80.000 soldati e 40.000 ausiliari. Le perdite subite nel decennio precedente erano state molto gravi ma questa sconfitta, provocata soprattutto dall'arroganza della nobiltà che si rifiutava di collaborare con i più capaci capi militari non nobili, fu la goccia che fece traboccare il vaso. Non soltanto le perdite umane erano state enormi, ma l'Italia stessa era ormai esposta all'invasione delle orde barbariche. Il malcontento del popolo contro l'aristocrazia stava raggiungendo ormai l'esasperazione e così nell'autunno del 105, mentre si trovava ancora in Africa, il populares Mario fu rieletto console. L'elezione in absentia era una cosa abbastanza rara, e inoltre una legge successiva all'anno 152 a.C. imponeva un intervallo di almeno 10 anni fra due consolati successivi, mentre una del 135 a.C. sembra che proibisse addirittura che questa carica potesse essere rivestita per due volte dalla stessa persona. La grave minaccia incombente dal nord fece tuttavia passare sopra ad ogni legge e consuetudine, e Mario, ritenuto il più abile comandante disponibile, fu rieletto console per ben 5 volte consecutive (dal 104 al 100 a.C.), cosa mai avvenuta in precedenza.

Nel 104 a.C. - Al suo ritorno a Roma, il 1º febbraio 104 a.C., Gaio Mario vi celebrò il trionfo su Giugurta, che fu prima portato come un trofeo in processione e infine giustiziato in carcere. Nel frattempo i Cimbri si erano diretti verso la Spagna, mentre i Teutoni vagavano senza una meta precisa nella Gallia settentrionale, lasciando a Mario il tempo di approntare il proprio esercito, curandone in modo molto attento l'addestramento e la disciplina. Uno dei suoi legati era ancora Lucio Cornelio Silla, e questo dimostra che in quel momento i rapporti fra i due non si erano ancora deteriorati. Sebbene avesse potuto continuare a comandare l'esercito in qualità di proconsole, Mario preferì farsi rieleggere console fino all'anno 100 a.C., in quanto questa posizione lo metteva al riparo da eventuali attacchi di altri consoli in carica. L'influenza di Mario divenne in quel periodo talmente grande che era addirittura in grado di influenzare la scelta dei consoli che in ogni anno dovevano essere eletti insieme a lui e pare che facesse in modo che venissero scelti quelli che riteneva più malleabili.

Nel 103 a.C. - I Germani indugiavano ancora nelle proprie scorribande in Spagna ed in Gallia e questo fatto, insieme alla morte del console collega Lucio Aurelio Oreste, consentì a Gaio Mario, che stava già marciando verso nord contro i Germani, di rientrare a Roma per venirvi confermato console per l'anno 102 a.C., insieme ad un nuovo collega, Quinto Lutazio Càtulo.

Aquilifer con aquila, di
Marten 253, da QUI.
- Sallustio narra che Gaio Mario usò per la prima volta l'aquila come insegna delle legioni romani nella guerra contro i Cimbri, consegnandone una ad ogni legione. In battaglia e durante le marce era tenuta in consegna dall'aquilifer (aquilifero) e strenuamente difesa. La sua perdita era motivo di disonore e poteva causare lo scioglimento dell'unità. L'aquila, nel periodo antico, rappresentava l'Icona di Giove, padre di tutti gli dei e protettore dello stato. Come tale fungeva da simbolo del potere di Roma e del suo impero e venne utilizzata da allora come insegna da parte dell'esercito. Ai tempi di Gaio Giulio Cesare, l'aquila delle legioni era d'argento e oro ma a partire dalla riforma augustea il materiale utilizzato fu il solo oro. L'aquila era custodita dalla prima centuria della prima coorte, conservata presso l'accampamento (assieme ai signa militaria) all'interno dell'aedes signorum, uno degli edifici dei Principia (quartier generale della legione). L'aquila usciva dall'accampamento romano solo in occasione dei trasferimenti dell'intera legione, sotto la responsabilità di un sottufficiale legionario, l'Aquilifer che, oltre a doverne garantire la custodia, era incaricato di portarla in battaglia e difenderla anche a costo della propria vita. In tal senso, l'aquilifer può essere paragonato ad un alfiere, quindi un giovane ufficiale dei moderni eserciti e la stessa aquila può essere considerata come una bandiera di guerra o uno stendardo. Era segno di grave disfatta la sua perdita, evento che accadde in rare occasioni, come nel corso della battaglia della foresta di Teutoburgo nel 9 d.C., quando ben tre aquilae caddero nelle mani del nemico germanico.

Carta geografica dell'invasione di
Cimbri, Teutoni e Ambroni, con le
relative battaglie, nel II sec. a.C.

Nel 102 a.C. - I Cimbri dall'Hispania tornano in Gallia e insieme ai Teutoni e agli Ambroni, decidono un attacco congiunto alla Repubblica romana. Dalla Gallia, i Teutoni e gli Ambroni avrebbero dovuto puntare a sud-est dirigendosi verso le coste del Mediterraneo, mentre i Cimbri dovevano penetrare nell'Italia Settentrionale da nord-est attraversando il passo del Brennero. Infine i Tigurini, la tribù celtica loro alleata che aveva sconfitto Longino nel 107, progettava di attraversare le Alpi provenendo da nord-ovest. La decisione di dividere in questo modo le loro forze si sarebbe dimostrata fatale, poiché diede ai Romani, avvantaggiati anche dalle linee di approvvigionamento molto più corte, la possibilità di affrontare separatamente i vari contingenti, concentrando le proprie forze laddove era di volta in volta necessario. Così mentre Ambroni e Teutoni transitavano nella Gallia Narbonense (a est di Marsiglia) verso l'Italia, i Cimbri si dirigevano verso il passo del Brennero (”per alpes Rhaeticas”) per poi entrare da lì in Italia. Il console Gaio Mario decise di affrontare Teutoni e Ambroni, che si trovavano in quel momento nella provincia della Gallia Narbonense e si stavano dirigendo verso le Alpi alla volta dell'Italia, stabilendo un campo sul loro percorso. Gli Ambroni e i Teutoni, guidati dal loro re Teutobod, assaltarono il campo romano venendo respinti e decisero quindi di proseguire verso l'Italia aggirando il campo, ma Mario li seguì per poi accamparsi vicino a quella che sarebbe passata alla storia col nome di battaglia di Aquae Sextiae (l'attuale Aix en Provence), un insediamento fondato dal console nel 109 a.C. Gaio Sestio Calvo, in modo da sbarrare il cammino agli invasori. Gaio Mario aveva organizzato nel migliore dei modi la propria armata. I soldati erano stati sottoposti ad un addestramento che mai in precedenza si era visto, ed erano abituati a sopportare senza lamentarsi le fatiche delle lunghe marce di avvicinamento, dell'allestimento degli accampamenti e delle macchine da guerra, tanto da meritarsi il soprannome di muli di Mario. Ad Aquae Sextiae, alcuni contingenti di Ambroni, l'avanguardia dell'esercito dei Germani, si lanciarono avventatamente all'attacco delle posizioni romane, senza aspettare l'arrivo di rinforzi, attaccando i Romani mentre stavano attingendo acqua da un vicino fiume. I Liguri, alleati dei Romani, accorsero ad aiutarli ricacciando gli Ambroni al di là del fiume. Gli Ambroni seguivano i costumi celtici, urlando il nome della propria tribù durante le entrate in battaglia e secondo Plutarco, in occasione della battaglia di Aquae Sextiae del 102 a.C., quando i Liguri alleati dei romani urlarono "Ambrones!" come grido di battaglia ottennero in risposta lo stesso grido dal fronte opposto dei Celti Ambroni; da ciò deriva l'ipotesi di una origine comune coi Liguri (la cui originaria espansione si estendeva presumibilmente dalla penisola italica a quella iberica e nella Francia meridionale prima dell'espansione dei Celti, mentre i Romani consideravano gli Ambroni Germani, non Celti. Queste circostanze suggeriscono la presenza di etnie miste, probabilmente in origine liguri poi celtiche così come etnie celtiche assimilate poi dai Germani. Non solo gli Ambroni provenivano da una regione settentrionale recentemente germanizzata, ma in quel periodo le tribù germaniche venivano pesantemente influenzate dalla cultura celtica. Nella battaglia di Aquae Sextiae (Aix-en-Provence), i Romani ricompattarono i ranghi rigettando gli Ambroni che tentavano di nuovo di oltrepassare il fiume e lì gli Ambroni persero buona parte delle loro forze. Gaio Mario schierò poi un contingente di 30.000  uomini per tendere un'imboscata al grosso dell'esercito dei Teutoni che, presi alle spalle e attaccati frontalmente, furono completamente sterminati e persero 100.000 uomini, mentre quasi altrettanti ne furono catturati. Gli Ambroni furono annientati e fondendosi con i Celti locali, diedero vita ad una nuova tribù, gli Aduatuci, storia che si può trovare nella vita di Gaio Mario nell'opera "Vite Parallele" di Plutarco scritta nell'80. Dopo la battaglia i Teutoni non vengono più nominati nelle fonti romane. Le parti dell'esercito teutone sopravvissute alla sconfitta si stabilirono presso la Mosa sotto il nome, anch'essi, di Aduatuci. Verosimilmente, ancora nel II - III secolo d.C. essi risiedevano nei dintorni del Meno. Dalle loro prime vittorie contro gli eserciti romani, si creò un collegamento fra i Teutoni ed il terrore che avevano generato, così che gli storici romani parlavano di furor teutonicus, furore teutonico. A partire dalla tarda età carolingia, l'aggettivo latino teutonicus venne utilizzato per indicare la popolazione residente nell'Impero carolingio che non parlava una lingua romanza e nel corso del Medioevo, venne utilizzato come traduzione per deutsch, tedesco (ad esempio, Ordo Teutonicus, o ordine dei Cavalieri Teutonici, è la traduzione di Deutscher Orden). A volte, un "tedesco tipico" viene indicato anche come teutone o teutonico, o nel senso di "un uomo di forma possente e robusta", o di deutschtümelnd, ovvero un individuo che accenti eccezionalmente i propri tratti caratteriali di tedesco, concetti usati a scopo ironico.

- Il console collega di Mario, Quinto Lutazio Càtulo, console nel 102, non ebbe altrettanta fortuna, non riuscendo a impedire che i Cimbri forzassero il passo del Brennero e avanzassero nell'Italia settentrionale verso il finire del 102 a.C. Mario apprese la notizia mentre si trovava a Roma, dove fu rieletto console per l'anno 101 a.C. Il senato gli accordò il trionfo ma lui rifiutò perché ne voleva fare partecipe anche l'esercito, quindi lo posticipò ad una vittoria contro i Cimbri. Immediatamente si mise in marcia per ricongiungersi con Catulo, il cui comando fu prorogato anche per il 101 a.C. mentre i Cimbri proseguivano verso Vercellae.


Nel 101 a.C. - Nell'estate di quell'anno, a Vercelli, nella Gallia Cisalpina, in una località allora chiamata Campi Raudii, ebbe luogo lo scontro decisivo fra Romani e Cimbri. Ancora una volta la ferrea disciplina dei Romani ebbe la meglio sull'impeto dei barbari, e almeno 65.000 di loro (o forse 100.000) perirono, mentre tutti i sopravvissuti furono ridotti in schiavitù. I Tigurini, a questo punto, rinunciarono al loro proposito di penetrare in Italia da Nord-Ovest e rientrarono nelle proprie sedi. Catulo e Mario, come consoli in carica, celebrarono insieme uno splendido trionfo, ma, nell'opinione popolare, tutto il merito venne attribuito a Mario. In seguito Catulo si trovò in contrasto con Mario, divenendone uno dei più acerrimi rivali.

- Gaio Giulio Cesare nasce il 13 luglio del 101 o il 12 luglio del 100 a.C. nella Suburra, un quartiere di Roma, da un'antica e nota famiglia patrizia, la gens Iulia, che secondo il mito, annoverava tra gli antenati anche il primo e grande re romano Romolo e discendeva da Iulo (o Ascanio), figlio del principe troiano Enea, figlio a sua volta della dea Venere. Il ramo della gens Iulia che portava il cognomen "Caesar" discendeva, secondo il racconto di Plinio il Vecchio, da un uomo venuto alla luce in seguito a un taglio cesareo. La Storia Augusta suggerisce invece tre possibili spiegazioni sull'origine del nome: «Le congetture cui ha dato luogo il nome di Cesare, l'unico di cui il principe del quale racconto la vita si sia mai fregiato, mi sembrano degne di essere riferite. Secondo l'opinione dei più dotti e informati, la parola deriva dal fatto che il primo dei Cesari fu chiamato così per aver ucciso in combattimento un elefante, animale chiamato kaesa dai Mauri.
Denarius del 49/48 a.C. con nome
e simbolo di Giulio Cesare, da:
https://it.wikipedia.org/wiki/Gaio
_Giulio_Cesare#/media/File
:CaesarElephant.jpg
Altra opinione è che il termine derivi dal fatto che, per darlo a luce, fu necessario sottoporre la madre, che era morta prima di partorire, a un'operazione di parto cesareo (dal verbo latino caedo-ĕre, 'tagliare'). Si crede inoltre che la parola possa derivare dal fatto che il primo dei Cesari nacque con i capelli lunghi o dal fatto che aveva degli occhi celesti incredibilmente vispi (dal latino oculis caesiis). Bisogna comunque considerare felice la circostanza, quale che fu, che diede origine a un nome tanto famoso, che durerà in eterno.» (Elio Sparziano, Historia Augusta, II,3). Visto il denarius che Giulio Cesare farà coniare nel 49/48 a.C. con il suo simbolo, un elefante che calpesta un serpente, è probabile che la prima ipotesi sia quella esatta.

Posidonio di Rodi.
Nel 100 a.C.Posidonio di Rodi (135 - 50 a.C. circa) viene nominato capo della scuola filosofica Stoica di Rodi. Posidonio fu un grande filosofo, rappresentante della Scuola Stoica. Talvolta viene denominato Posidonio di Apamea, dal nome della località della Siria in cui nacque. All'inizio della sua attività di studio, compì numerosi viaggi nel Mediterraneo, dedicandosi a studi di astronomia, geografia e geologia. Ricoprì incarichi pubblici, uno dei quali lo portò come ambasciatore di Rodi a Roma, dove ebbe modo di intrattenersi, fra gli altri, con Cicerone, che era stato suo allievo a Rodi. Tra le altre personalità romane che gli accordarono la loro ammirazione e l'amicizia ricordiamo il generale Caio Mario, che fu console sette volte, e Pompeo il Grande, triunviro con Cesare e Crasso. Nessuno dei suoi scritti ci è pervenuto. Cleomede dedica una buona parte del suo libro per descrivere il calcolo che Posidonio fece della circonferenza terrestre. Scrisse anche di meteorologia e storia.

- Come ricompensa per avere sventato il pericolo dell'invasione barbarica, Gaio Mario viene rieletto console anche per l'anno 100 a.C. Gli avvenimenti di quell'anno, tuttavia, non gli furono propizi. Nel corso di questo anno il tribuno della plebe Lucio Appuleio Saturnino richiese con forza che si varassero riforme simili a quelle per cui si erano in passato battuti i Gracchi. Propose quindi una legge per l'assegnazione di terre ai veterani della guerra appena conclusasi e per la distribuzione da parte dello stato di grano a prezzo inferiore a quello di mercato. Il senato si oppose a queste misure, provocando così lo scoppio di violente proteste, che presto sfociarono in una vera e propria rivolta popolare, e a Mario, come console in carica, fu chiesto di reprimerla. Sebbene egli fosse vicino al partito popolare, il supremo interesse della repubblica e l'alta magistratura da lui rivestita gli imposero di assolvere, sebbene riluttante, a questo compito. Dopodiché lasciò ogni carica pubblica e partì per un viaggio in Oriente e Roma conobbe alcuni anni di relativa tranquillità.

Nel 95 a.C. - Nella Repubblica di Roma viene approvata una legge che decreta l'espulsione da Roma di chi non avesse la cittadinanza romana, che perlopiù erano coloro che provenivano da altre città italiche.

Nel 91 a.C. - Marco Livio Druso è eletto tribuno e propone una grande distribuzione di terre appartenenti allo Stato, l'allargamento del Senato e la concessione della cittadinanza romana a tutti gli uomini liberi di tutte le città italiche. Il successivo assassinio di Druso provoca l'immediata insurrezione delle città-Stato italiche contro Roma e la Guerra sociale degli anni 91/88 a.C. in cui Gaio Mario sarà chiamato ad assumere, insieme a Lucio Cornelio Silla, il comando degli eserciti per sedare la pericolosa rivolta.

Moneta degli Italici non ancora cittadini romani.
A sinistra testa laureata, personificazione dell'Italia
con legenda latina ITALIA, in alfabeto latino.
Si tratta della prima documentazione epigrafica del
nome Italia. A destra, giovane inginocchiato a uno
stendardo, tiene un maiale al quale otto soldati
(4 per lato) puntano le loro spade; "P" in esergo.
- Nelle Guerre Sociali fra Roma e i popoli Italici appare il nome Italia. Già i Greci chiamavano la penisola "Italia", che nel loro linguaggio significava "curva convessa", dalla linea della costa per chi arrivava per mare da est e Italia era definita il dominio del condottiero ligure del XIII sec. a.C. Italo, padre di Siculo, che era rimasto sull'estremo della Calabria mentre il figlio con le sue genti approdava in quella che da lui prese il nome di Sicilia. Durante le guerre sociali gli italici, alleati in una Lega, fondarono due nuove città di cui una, considerata la capitale della Lega stessa, prese il nome di Italia, Vitelia in osco. Al tempo dei Gracchi a Roma si avanzarono proposte d'estensione dei diritti di cittadinanza anche ad altri popoli italici fino ad allora federati, ma senza successo. La situazione si avviava al punto di rottura quando, nel 95 a.C., Lucio Licinio Crasso e Quinto Muzio Scevola proposero una legge che istituiva un tribunale giudicante a chi si fosse abusivamente inserito tra i cives romani (Lex Licinia Mucia). Legge, questa, che accrebbe il malcontento dei ceti elevati italici, che miravano alla partecipazione diretta alla gestione politica. Marco Livio Druso, si schierò per la causa italica avanzando proposte di legge a favore dell'estensione della cittadinanza, ma la proposta non piacque né ai senatori né ai cavalieri. Il più accanito rivale di Druso fu il console Lucio Marcio Filippo, che dichiarò illegale la procedura seguita per le leggi di Druso, cosicché queste non vennero nemmeno votate. Nel novembre del 91 a.C. seguaci estremisti di Marcio Filippo mandarono un sicario ad assassinare Druso. Questa fu la scintilla che fece scoppiare la guerra sociale.
Moneta degli Italici non ancora cittadini romani.
A sinistra, testa laureata dell'Italia con legenda osca
retrograda UILETIV (Víteliú, l'Italia),"A" in esergo
A destra, un soldato elmato stante, di fronte che
tiene una lancia puntata in terra con il piede destro
su uno stendardo e alla sua sinistra, un toro a terra.  
Dopo l'uccisione di Livio Druso gli italici, esclusi gli Etruschi e gli Umbri, si ribellarono a Roma, capeggiati dal sannita Papio Mutilo. La rivolta scoppiò ad Ascoli, nel Piceno, dove un pretore e tutti i Romani residenti in città furono massacrati. Si organizzarono in una libera Lega con un proprio esercito, e stabilirono, dapprima a Corfinium (oggi Corfinio) poi ad Isernia la loro capitale, dove crearono la sede del senato comune e mutarono il loro nome da Lega Sociale a Lega Italica. Coniarono persino una propria moneta che recava la scritta Italia, nella quale era raffigurato un toro che abbatteva la lupa romana. Benché Gaio Mario e Gneo Pompeo Strabone riportassero alcune vittorie sui ribelli, nel 90 a.C. il console Lucio Giulio Cesare decise di promulgare la Lex Iulia, con la quale si concedeva la cittadinanza agli italici che non si erano ribellati e a quelli che avrebbero deposto le armi. Seguì nel 89 a.C. la Lex Plautia Papiria che concedeva il diritto di cittadinanza romana a tutti gli italici a sud del Po.
Bronzetto raffigurante
un Guerriero Sannita.
Il risultato fu di dividere i rivoltosi: gran parte deposero le armi, mentre altri continuarono a resistere. Roma spese ancora due anni per sconfiggere le città in armi grazie all'intervento di Silla e di Strabone. Tuttavia, lo scopo che gli Italici si erano proposti era stato raggiunto: essi potevano divenire a pieno titolo cittadini romani. Con la concessione della cittadinanza, l'Italia peninsulare divenne ager romanus. Il territorio venne riorganizzato col sistema dei municipia e nelle comunità italiche venne avviato un grande processo di urbanizzazione che si sviluppò lungo tutto il I secolo a.C., poiché l'esercizio dei diritti civici richiedeva specifiche strutture urbane (foro, tempio alla triade capitolina, luogo di riunione per il senato locale). Tuttavia la cittadinanza romana e il diritto a votare erano limitate, come sempre nel mondo antico, dall'obbligo della presenza fisica nel giorno di voto. E per la gente di città lontane, in particolare per le classi meno abbienti, non era certo facile recarsi a Roma per votare nelle assemblee popolari. Così talvolta i candidati pagavano parte delle spese del viaggio per permettere ai loro sostenitori di partecipare al voto. Di fatto, comunque, a beneficiare della cittadinanza furono soprattutto le "borghesie" italiche, che conquistarono anche la possibilità di accedere alle magistrature.

- L'onomastica romana è lo studio dei nomi propri di persona, delle loro origini e dei processi di denominazione nella Roma antica. L'onomastica latina prevedeva che i nomi maschili tipici contenessero tre nomi propri (tria nomina) che erano indicati come praenomen (il nome proprio come intendiamo oggi), nomen (equivalente al nostro cognome che individuava la gens, ovvero era il cosiddetto "gentilizio") e cognomen (che indicava la famiglia in senso nucleare, all'interno della gens). Talvolta si aggiungeva un "secondo cognomen", chiamato agnomen. Un uomo che veniva adottato, mostrava nel nome anche quello di adozione (come nel caso dell'imperatore Augusto). Per i nomi femminili, c'erano poche differenze.
Stele di due fratelli della gens
Cornelia. Le prime due righe
significano: C=Gaius, un prenomen;
CORNELIUS= il nomen o gentilizio
(la gens); C=Gaius, altro prenomen;
 F=filius, filiazione o patronimico;
 VOT=Voturia, la tribù;
CALVOS= il cognomen.
Il sistema dei tria nomina era il modo tradizionale latino, dall'epoca tardo repubblicana, di nominare una persona, anche se nella Roma arcaica vi era un sistema uninominale (es. Romolo, Numitore ed altri) ed il sistema binomio entrò in uso dopo l'inclusione dei Sabini (il sistema nominale costituito da praenomen e nomen era tipico dei Sabini). Molto del sistema dei tria nomina è dunque dovuto all'influenza che tale popolo esercitò su Roma, dopo la leggendaria coreggenza di Romolo e Tito Tazio. Sono relativamente pochi i praenomina usati nella Roma repubblicana e nella Roma imperiale, generalmente legati alla tradizione. Solo alcuni di questi, come "Marco", "Tiberio", "Lucio" (anche con la versione femminile "Lucia") sono ancora in uso. Ultimamente riscoperto anche "Gaia", femminile di "Gaio" o "Caio", che in realtà è la versione non corretta di "Gaio". La corruzione di Gaio in Caio deriva dalla tradizione latina che abbreviava con C. il praenomen Gaius (Gaio) e con Cn. il praenomen Gnaeus (Gneo). Tali tradizionali abbreviazioni derivano a loro volta dal fatto che gli Etruschi, che esercitarono una forte influenza sulla prima fase storica di Roma, non distinguevano fra la "G" e la "C". Emerge dallo studio delle iscrizioni lapidarie che nei tempi più antichi si usava la versione al femminile anche dei praenomina e che i nomi delle donne presumibilmente consistevano in un praenomen ed un nomen seguito da un patronimico. In periodo storico della Repubblica le donne non ebbero più praenomen. In effetti, sull'esistenza del praenomen femminile le opinioni sono discordi. Taluni ritengono che non sia mai esistito. Altri pensano, invece, che non potesse essere pronunciato per ragioni di pudicitia. Secondo i sostenitori di quest'ipotesi, infatti, i Romani avrebbero ereditato dai Sabini una credenza che considera il prenome una parte della persona; dunque, pronunciare il praenomen di una donna sarebbe stato un atto di intimità assolutamente inaccettabile. Al di là delle diatribe tra gli studiosi, resta il fatto che nominare una donna era considerato atto socialmente irrispettoso. Se era necessaria una ulteriore precisazione, il nome gentilizio era seguito dal genitivo del nome del padre o, dopo il matrimonio, del marito.
Tabella con la pronuncia del latino
classico e come invece la insegnano
a scuola. Clicca per ingrandire.
Infatti Cicerone indica una donna come Annia P. Anni senatoris filia (Annia figlia del senatore P. Annius). Dalla tarda Repubblica, le donne adottarono anche la forma femminile del cognomen del padre (per es. Caecilia Metella Crassi, figlia di Q. Caecilius Metellus e moglie di P. Licinius Crassus). Questo cognomen femminilizzato assunse spesso la forma diminutiva (per es. la moglie di Augustus, Livia Drusilla, era figlia di M. Livius Drusus). La pronuncia del latino classico era diversa da quella che impariamo a scuola. Il prenomen Gnaeus si pronunciava con la G dura di "gamba" seguito dalla n, e non come pronunciamo gnomo; ae e oe si pronunciavano divise, per cui si pronunciava "G-n-a-e-us". La C e la G erano sempre pronunciate dure come in "cane" e "gatto" e mai dolci come in "ciliegia", per cui Caesar si pronunciava "Ka-esar". Inoltre la V era la u maiuscola e si pronunciava sempre "U", per cui Valerius si pronunciava "Ualerius".

Per eventuali approfondimenti vedi "Storia dell'Europa n.24: dal 146 al 91 p.e.v. (a.C.)" QUI.

Il generale e più volte
console Gaio Mario.
Nell' 89 a.C. - Dopo le Guerre Sociali con gli italici, che ha rischiato di perdere, Roma concede la cittadinanza romana alle popolazioni italiche mentre Gaio Mario, contrariamente alle prescrizioni della legge, riceve il mandato di Console per l'ennesima volta. Gaio Mario (in latino: Gaius Marius, nelle epigrafi: C·MARIVS·C·F·C·N; Cereatae, Arpinium, 157 a.C. - Roma, 13 gennaio 86 a.C.) è stato un militare e politico romano, per sette volte console della Repubblica romana. La carriera di Gaio Mario è particolarmente emblematica della situazione nella tarda repubblica, in quanto si sviluppa attraverso fatti e circostanze che, in seguito, porteranno alla caduta della Repubblica romana. Mario nacque come homo novus, cioè proveniente da una famiglia della provincia italiana che non faceva parte della nobiltà romana, cosa che appare anche dal fatto che non ha tre nomi, ma seppe distinguersi e giungere alla ribalta della vita pubblica di Roma per merito della propria competenza militare. L'oligarchia dominante fu costretta, suo malgrado, a cooptarlo nel proprio sistema di potere. A causa del verificarsi di una situazione di grande pericolo per la minaccia di invasioni su larga scala, gli si dovette concedere un potere militare senza precedenti nella storia di Roma, e questo a scapito del rispetto delle leggi e delle tradizioni vigenti, che dovettero essere adattate alla nuova situazione di emergenza. Alla fine fu varata una profonda riforma della leva militare, che in passato raccoglieva solamente proprietari terrieri, e che da allora fu aperta anche a cittadini provenienti dalle classi dei nullatenenti. Nel lungo termine questa riforma ebbe l'effetto di cambiare in modo radicale e irreversibile la natura dei rapporti fra l'esercito e lo Stato. Nonostante abbia avuto successi straordinari nell'ambito militarenon riuscì a prevalere come uomo politico. Gaio Mario era nato nel 157 a.C. ad Arpino nel Lazio meridionale, precisamente nella frazione che ancora oggi porta il suo nome: Casamari (oggi nel Comune di Veroli). I Marii avevano relazioni con ambienti della nobiltà romana, partecipavano da protagonisti alla vita politica della piccola cittadina e appartenevano all'ordine equestre, classe istituita da Gaio Sempronio Gracco nel 123 a.C.. Le difficoltà che Mario incontrò agli esordi della sua carriera a Roma dimostrano quanto fosse arduo per un homo novus affermarsi nella società romana del tempo.

Nonostante le origini aristocratiche, la famiglia di Giulio Cesare non era ricca per gli standard della nobiltà romana, né particolarmente influente. Ciò rappresentò inizialmente un grande ostacolo alla sua carriera politica e militare, e Cesare dovette contrarre ingenti debiti per ottenere le sue prime cariche politiche. Inoltre, negli anni della giovinezza dello stesso Cesare, lo zio Gaio Mario si era attirato le antipatie della nobilitas repubblicana (anche se successivamente Cesare riuscì a riabilitarne il nome) e questo metteva anche lo stesso Cesare in cattiva luce agli occhi degli optimates. Il padre, suo omonimo, era stato pretore nel 92 a.C. e aveva probabilmente un fratello, Sesto Giulio Cesare, che era stato console nel 91 a.C. e una sorella, Giulia, che aveva sposato Gaio Mario intorno al 110 a.C. Sua madre era Aurelia Cotta, proveniente da una famiglia che aveva dato a Roma numerosi consoli. Il futuro dittatore ebbe due sorelle, entrambe di nome Giulia: Giulia maggiore, probabilmente madre di due dei nipoti di Cesare, Lucio Pinario e Quinto Pedio, menzionati insieme a Ottaviano nel suo testamento, e Giulia minore, sposata con Marco Azio Balbo, madre di Azia minore e di Azia maggiore, a sua volta madre di Ottaviano. Nell’antica Roma il nome individuale di una donna doveva rimanere segreto, infatti mentre gli uomini avevano il loro nome, poi il nome della gens ed infine il cognomen, le donne son indicate sempre con il nome della gens cui appartengono - cosa che spesso induce errori nelle trattazioni storiche - e vengono distinte con maior o minor in base all’anzianità o con un numero ordinale, secunda, tertia, ecc. ecc. La famiglia viveva in una modesta casa della popolare e malfamata Suburra, dove il giovane Giulio Cesare fu educato da Marco Antonio Gnifone, un illustre grammatico nativo della Gallia. Cesare trascorse il suo periodo di formazione in un'epoca tormentata da gravi disordini. Mitridate VI, re del Ponto, minacciava le province orientali; contemporaneamente era in corso in Italia la Guerra sociale e la città di Roma era divisa in due fazioni contrapposte: gli optimates, favorevoli al potere aristocratico e i populares o democratici, che sostenevano la possibilità di rivolgersi direttamente all'elettorato. Pur se di nobili origini, fin dall'inizio della sua carriera Cesare si schierò dalla parte dei populares, scelta sicuramente condizionata dalle convinzioni dello zio Gaio Mario, capo dei populares e rivale di Lucio Cornelio Silla, sostenuto da aristocrazia e Senato.

- Finite le guerre sociali in Italia si apre un nuovo fronte in Asia, dove Mitridate, re del Ponto, nel tentativo di allargare verso occidente i confini del suo regno, invade la Grecia, ormai provincia romana. Posto di fronte alla scelta se affidare il comando dell'inevitabile guerra contro Mitridate a Silla o Mario, il Senato, in un primo momento, sceglie Silla. In seguito, tuttavia, quando il tribuno della plebe Publio Sulpicio Rufo, appoggiato da Mario cercò di far passare una legge per distribuire gli alleati italici nelle tribù cittadine, in modo da influenzare con il loro voto i comizi, ne nacque uno scontro nel quale il figlio del console Quinto Pompeo Rufo trovò la morte. Silla, per sfuggire alla confusione, si rifugiò nella casa dello stesso Mario. Intanto la legge venne approvata e le tribù che adesso contenevano anche i nuovi cittadini fecero passare una legge secondo la quale veniva affidata a Mario la guerra contro Mitridate. Intanto Silla raggiunse l'esercito a Nola e Mario fece mandare due tribuni per portare l'esercito a Roma, ma l'esercito uccise i tribuni e Silla fece marciare l'esercito su Roma. Mario, all'arrivo di Silla, abbandonò precipitosamente Roma, rifugiandosi in esilio. Gneo Ottavio e Lucio Cornelio Cinna furono eletti consoli nell'87 a.C., mentre Silla, nominato proconsole, si mise in marcia verso oriente con l'esercito.

- Non è dato sapere il momento in cui venne dedotta la provincia romana della Gallia Cisalpina. La storiografia moderna oscilla fra la fine del II secolo a.C. e l'età sillana. Vero è che all'89 a.C. risale la legge di Pompeo Strabone ("Lex Pompeia de Gallia Citeriore") che conferisce alla città di Mediolanum, e ad altre, la dignità di colonia latina. Nel dicembre del 49 a.C. Cesare con la Lex Roscia concederà la cittadinanza romana agli abitanti della provincia, mentre nel 42 a.C. verrà abolita la provincia, facendo della Gallia Cisalpina parte integrante dell'Italia romana.

Carta dei luoghi delle battaglie nella
 Guerra Civile di Roma, 88/82 a.C.
Nell' 88 a.C. - Inizia la Guerra Civile Romana, che nell' 82 a.C. vedrà il conflitto tra la fazione degli ottimati, guidata da Silla, e quella dei populares, o mariani perché seguaci del sette volte console Gaio Mario morto nell'86 a.C., guidata dai consoli Gaio Mario il Giovane e Gneo Papirio Carbone. Quando nell'88 a.C. Mario fu dichiarato nemico pubblico da Silla e costretto a fuggire da Roma, si rifugiò tra le paludi di Minturnae. I magistrati locali decretarono la sua morte per mano di uno schiavo Cimbro il quale, tuttavia, mosso a compassione o intimorito non diede corso alla esecuzione. Il busto bronzeo di Gaio Mario si trova collocato attualmente nel Municipio di Minturno. Plutarco, in “Marium”, scrisse che i Minturnesi, mossi a compassione, lo aiutarono a imbarcarsi sulla nave di Beleo, diretta verso l'Africa. Mentre Silla conduceva la sua campagna militare in Grecia, a Roma il confronto fra la fazione conservatrice di Ottavio, rimasto fedele a Silla, e quella popolare e radicale di Cinna fedele a Mario si inasprì sfociando in aperto scontro. A questo punto, nel tentativo di avere la meglio su Ottavio, Mario, insieme al figlio, rientrò dall'Africa con un esercito ivi raccolto e unì le proprie forze a quelle di Cinna, che aveva radunato truppe filomariane ancora impegnate in Campania contro gli ultimi socii ribelli. Gli eserciti alleati entrarono in Roma, di modo che Cinna fu eletto console per la seconda volta e Mario per la settima. Seguì una feroce repressione contro gli esponenti del partito conservatore: Silla fu proscritto, le sue case distrutte e i suoi beni confiscati. L'armata di Silla, dopo aver concluso vittoriosamente la campagna nel Ponto, rientrò in Italia sbarcando a Brindisi nell'83 a.C., e sconfisse il figlio di Mario, Gaio Mario il Giovane, che morì in combattimento a Preneste, a circa 50 chilometri da Roma. Gaio Giulio Cesare, nipote della moglie di Mario, sposò una delle figlie di Cinna. Dopo il ritorno di Silla a Roma si  instaurò un regime di restaurazione che perpetrò le più feroci repressioni, tanto che Giulio Cesare fu costretto a fuggire in Cilicia, dove rimase fino alla morte di Silla, nel 78 a.C..

- Ormai da diverso tempo la repubblica romana era percorsa da un conflitto politico tra due fazioni, quella dei populares, guidata dall'uomo nuovo Gaio Mario (almeno fino alla sua morte avvenuta nell'86 a.C.), e quella degli ottimati, guidata dal nobile Lucio Cornelio Silla, che si combattevano, con alterne fortune, per il predominio politico sull'Urbe.

- Nell' 88/87 a.C. la lotta per il potere presto si era spostata dal piano politico a quello militare, così avvenne che, grazie all'appoggio delle legioni a lui fedeli, Silla scacciò i mariani dall'Urbe ed ottenne il comando per la guerra a Mitridate, e fu sempre grazie alla forza delle armi che, con Silla impegnato in Asia Minore, i populares e Gaio Mario poterono rientrare in città e controllarla, almeno fino al ritorno di Silla.

Nell' 86 a.C. - Mentre Silla combatteva in Grecia, ottenendo numerosi ed importanti successi, prima ad Atene nel marzo di quest'anno, poi al Pireo, a Cheronea, dove secondo Tito Livio caddero ben 100.000 armati del regno del Ponto, ed infine ad Orcomeno, a Roma Silla era dichiarato nemico pubblico da Gaio Mario e Lucio Cornelio Cinna. Le sue abitazioni cittadine e di campagna furono distrutte ed i suoi amici messi a morte. Contemporaneamente il Senato deliberava di inviare in Grecia il nuovo console, Lucio Valerio Flacco, collega di Lucio Cornelio Cinna, con due legioni per succedere nel comando a Silla. Nello stesso anno, nel primo mese del suo settimo mandato da Consoleall'età di 71 anni Gaio Mario muore. Cinna fu in seguito rieletto console per altre due volte, per poi morire vittima di un ammutinamento, mentre si dirigeva con l'esercito verso la Grecia.

Nell' 85 a.C. - Silla, conclusa prima del tempo quella che sarebbe stata ricordata come la prima guerra mitridatica con il Trattato di Dardano nell'85 a.C., decide di tornare in Italia per contrastare le manovre del partito avverso, che lo aveva addirittura dichiarato nemico della patria. I più attivi nel campo dei populares erano i consoli Lucio Cornelio Cinna e Gneo Papirio Carbone, consoli per l'85 a.C. e l'84 a.C., che a cavallo tra i due consolati tentarono di organizzare ad Ancona un esercito per contrastare quello di Silla, una volta che fosse terminata la campagna in Asia. L'impresa non ebbe seguito perché nell'84 a.C. l'esercito, forse perché scontento delle dure condizioni di vita imposte dai due consoli, si ribellò ed uccise Cinna, mentre Carbone fuggiva. Molti per sottrarsi alla tirannide dei due consoli avevano abbandonato Roma, e si erano rifugiati nell'accampamento di Silla, come in un porto di salvezza. Così in breve tempo venne a crearsi, attorno allo stesso, una parvenza di Senato. Anche la moglie, Cecilia Metella Dalmatica, riuscì a stento a fuggire con i figli e raggiunse il marito in Grecia, portando la notizia che i suoi oppositori avevano bruciato la casa in città e le ville in campagna, pregandolo quindi di far ritorno in Italia in aiuto dei suoi sostenitori.

- Nell' 85 a.C., quando Cesare aveva solo quindici anni, muore suo padre Gaio Giulio Cesare il Vecchio. 

Nell' 84 a.C. - Conclusa la pace a Dardano in Asia con Mitridate VI, ed obbligato quest'ultimo a ritirarsi dalle province romane asiatiche, Silla trascorre i successivi due anni in Grecia per riorganizzare le forze, prima di rientrare in Italia. Egli, infatti, una volta conclusa la pace, salpò da Efeso nel corso dell'inverno dell'85-84 a.C. e si trasferì al Pireo e poi ad Atene dove fu iniziato ai misteri. Verso la fine dell'anno attraversò la Tessaglia e la Macedonia e fece i preparativi per il suo rientro in Italia da Durazzo, con una flotta di 1.200 navi.

- Nell'84 a.C. Giulio Cesare ripudia la sua promessa sposa Cossuzia per poi sposare in seguito  Cornelia minore, figlia di Lucio Cornelio Cinna, alleato di Gaio Mario nella guerra civile. Nell’antica Roma il nome individuale di una donna doveva rimanere segreto, infatti mentre gli uomini avevano il loro nome, poi il nome della gens ed infine i cognomen, le donne son indicate sempre con il nome della gens cui appartengono - cosa che spesso induce errori nelle trattazioni storiche - e vengono distinte con maior o minor in base all’anzianità o con un numero ordinale, secundatertia, ecc. ecc. Il nuovo legame con una famiglia notoriamente schierata con i popolari, oltre alla parentela con Mario, causeranno problemi non indifferenti al giovane Cesare negli anni della dittatura di Silla, che cercherà di ostacolarne in tutti i modi le ambizioni, bloccando fra l'altro la sua nomina a Flamen Dialis, il sacerdote preposto al culto di Giove Capitolino, l'unico tra i sacerdoti che potesse presenziare nel Senato con il diritto alla sedia curule e alla toga pretesta.

Nell' 83 a.C. - Per quest'anno furono eletti consoli Lucio Cornelio Scipione Asiatico e Gaio Norbano che, mentre Silla sbarcava a Brindisi dove si acquartierava con i suoi veterani e riprendeva i contatti con gli esponenti della propria fazione, tentavano di organizzare un esercito per contrastare la marcia di Silla verso Roma. Silla era infatti sbarcato a Taranto con 30.000 armati in quella primavera, e secondo Plutarco, vi erano ad attenderlo 15 generali nemici e 450 coorte. E mentre si preparava a marciare contro Roma al comando delle sue legioni, ricevette rinforzi dal giovane Gneo Pompeo, che si unì al futuro dittatore con un buon numero di soldati a lui fedeli, provenienti per lo più dalla regione del Piceno, e da Quinto Cecilio Metello Pio, campione degli ottimati durante i 4 anni di consolato di Cinna. I due consoli in carica nell'83 decisero di contrastare il passo di Silla in Campania; Scipione organizzò il suo campo nei pressi di Teano, mentre Norbano fece campo nei dintorni di Capua. Silla attaccò per primo l'esercito sotto il comando di Norbano che, perso lo scontro ed oltre 7.000 uomini, si rifugiò all'interno delle mura di Capua. A quel puntò Silla marciò verso Teano offrendo a Scipione una tregua, prontamente accettata dal Console, che in questo modo pensava di guadagnar tempo per coordinarsi con il collega e con Sertorio. Ma quando Scipione pensò di poter rompere la tregua con Silla il suo esercito, che aveva fraternizzarono con l'esercito di Silla, gli si rivoltò contro passando al campo avverso senza colpo ferire. Scipione, fatto liberare da Silla, andò in esilio a Marsiglia, dove morì. L'83 a.C. terminò con gli uomini di Silla acquartierati in Campania e i populares a Roma che tentavano di organizzarsi per contrastare il passo al nemico.

- Nell'83 a.C. all'età di tredici anni, Cornelia (94 a.C. - 69 o 68 a.C.) ricordata anche come Cornelia Minore, sposa il diciottenne Gaio Giulio Cesare. Cornelia era figlia di Lucio Cornelio Cinna, uno dei maggiori leader del partito popolare mariano e sorella dell'omonimo Lucio Cornelio Cinna, pretore nel 44 a.C., che fu uno dei partecipanti all'omicidio di Giulio Cesare. Quando il dittatore Lucio Cornelio Silla comanderà allo stesso Cesare di ripudiare la moglie, lui si rifiuterà di farlo e riuscirà ad evitare la rappresaglia di Silla grazie all'intervento di alcuni personaggi particolarmente influenti appartenenti al partito degli ottimati.  


Nell' 82 a.C. - Sono eletti consoli Gneo Papirio Carbone e il ventiduenne Gaio Mario il Giovane, figlio di Gaio Mario, a cui fu affidata la difesa della città; quasi immediatamente inviarono Sertorio, forse l'unico esponente tra i populares con l'adeguata esperienza militare necessaria per contrastare Silla, nella Spagna Citeriore. I primi scontri, entrambi favorevoli agli ottimati, si ebbero nelle marche presso il fiume Esino, dove le truppe di Pompeo e di Metello ebbero la meglio su quelle condotte da Carbone, e nella pianura di Sacriporto, antistante Preneste, dove le truppe di Silla ebbero la meglio su quelle guidate da Mario il Giovane. I due comandanti mariani, invece di riunire le proprie forze, decisero di resistere alla fazione avversa ognuno dei due trovando rifugio in una diversa città; Gaio Mario il Giovane a Preneste nel Lazio, e Carbone a Chiusi in Etruria. Lo scontro decisivo tra gli eserciti delle due fazioni, la battaglia di Porta Collina, si svolse l'1 e il 2 novembre dell' 82 a.C., sotto le mura di Roma,  tra le legioni della fazione aristocratica guidata da Lucio Cornelio Silla e un esercito formato dalle legioni della fazione dei populares e dalle milizie italiche guidate dal condottiero sannita Ponzio Telesino, che marciavano su Roma. La battaglia, combattuta con estremo accanimento alle porte della città, venne vinta, dopo fasi di grande difficoltà, dall'esercito della fazione aristocratica. Persa la battaglia di Porta Collina, che segnò la definitiva sconfitta dei mariani, Preneste, in cui si trovava Mario il Giovane, si arrese a Silla e Mario il Giovane, frustrato nel suo tentativo di fuggire attraverso dei sotterranei, preferì uccidersi piuttosto che cadere nelle mani del nemico.
Il generale e dittatore
Lucio Cornelio Silla.
Carbone invece prima riparò in Africa poi sull'isola di Pantelleria, dove fu catturato da Pompeo Magno che lo trasse in catene nella prigione di Marsala, dove quello stesso anno fu giustiziato. Sconfitti i nemici mariani, Silla iniziò le proscrizioni di tutti gli avversari politici; assunse il titolo di dittatore a vita, e cercò con una serie di riforme di ristabilire il regime oligarchico. Una vittima delle sue proscrizioni con una morte particolarmente violenta e crudele fu Marco Mario Gratidiano che, racconta suo cognato Catilina, fosse stato torturato e smembrato in modo da evocare il sacrificio umano. Silla, entrando in Roma con le legioni in armi, segna un precedente che porterà alla fine della Repubblica.

- Per quanto poi emanerà una legge che proibisca tale gesto, dopo un quarantennio sarà il "populares" Gaio Giulio Cesare a stroncare definitivamente la repubblica in cui il Senato degli "ottimati" aveva sempre prevalso. Gaio Giulio Cesare, nipote di Giulia Maggiore, sorella del senatore Gaio Giulio Cesare il vecchio e moglie di Gaio Mario (dei populares), aveva sposato Cornelia, una delle figlie del console Lucio Cornelio Cinna, campione dei populares. Dopo il ritorno di Silla a Roma, in cui instaurò un regime di restaurazione  perpetrando feroci repressioni, Giulio Cesare fuggirà in Cilicia, dove rimase fino alla morte di Silla, nel 78 a.C.

- Nell' 82 a.C. la Gallia Cisalpina, l'attuale Italia settentrionale, è dichiarata provincia romana.

- Per Giulio Cesare la situazione a Roma si aggrava quando il dittatore campione degli ottimati Publio Cornelio Silla, avuta la meglio su Mitridate VI, nell'82 a.C. rientra in Italia, sconfigge i seguaci del campione dei populares Mario nella battaglia di Porta Collina e si autoproclama dittatore perpetuo al fine di riformare le leggi e restaurare i privilegi degli ottimati nel funzionamento della repubblica, cominciando ad eliminare i suoi avversari politici. Ordina a Cesare di divorziare da Cornelia poiché non è patrizia, ma Cesare rifiuta. Silla medita allora di farlo uccidere, ma deve poi desistere dopo i numerosi appelli rivoltigli dalle Vestali e da Gaio Aurelio Cotta, parente di Cesare. In quell'occasione esclama: «Abbiatela pure vinta, e tenetevelo pure! Un giorno vi accorgerete che colui che volete salvo a tutti i costi sarà fatale alla fazione degli Ottimati, che pure tutti insieme abbiamo difeso. In Cesare ci sono, infatti, molti Gaio Mario!» (Svetonio, Vite dei Cesari, Cesare, 1). Giulio Cesare, temendo comunque per la sua vita, lascia Roma, prima ritirandosi in Sabina (dove è costretto a cambiare domicilio ogni giorno) e poi, raggiunta la giusta età, partendo per il servizio militare in Asia, come legato del pretore Marco Minucio Termo che gli ordina di recarsi presso la corte di Nicomede IV, sovrano del piccolo stato della Bitinia. Di questa missione si parlò a lungo a Roma, ove si diffuse la voce che Cesare avesse avuto una relazione amorosa con il sovrano, come testimoniano i canti intonati dai legionari dello stesso Cesare oltre trentacinque anni dopo (Svetonio, Vite dei Cesari, Cesare, 1).

- Quando Silla impone la dittatura a Roma, Marco Emilio Lepido (padre) inizialmente concorre dalla sua parte, tanto che Silla lo nomina governatore in Sicilia, dove Lepido si prodigherà nell'espletare il suo dovere di “ottimate” abusando poi della sua posizione nel regime sillano: verrà accusato di impieghi illeciti di beni mobili e nella sua veste di pretore, di interessi nel campo degli avversari popolari. Marco Emilio Lepido (padre), console e politico romano, svolgerà il suo operato durante la decade del 70 a.C., quando le disposizioni di Silla vennero smantellate e una nuova generazione di insigni personaggi politici, tra i quali Cicerone, Pompeo, Crasso e Giulio Cesare, iniziarono a dominare Roma. Attraverso la sua attività politica, Lepido, riabilitò la gloria perduta della sua famiglia di origini principesche. Era figlio di Quinto e nipote di Marco, console nel 187. Sposò Apuleia, figlia del tribuno della plebe Saturnino, dalla quale ebbe tre figli. Due di essi si prodigarono per portare avanti la stirpe familiare, invece, il terzo figlio, di nome Scipione, partecipò agli intrighi politici del consolato del 78 a.C. che terminò nel 77 a.C.. Nonostante la sua provenienza, si era inserito nel partito dei popolari, motivo per cui Silla non lo ritenne un sostenitore fidato e inoltre era solito cambiare spesso le sue posizioni politiche in base alla convenienza.

Nell' 81 a.C. - Nel diritto penale romano la castrazione è proibita dalla Lex Cornelia Sullæ de sicariis et veneficis del dittatore Lucio Cornelio Silla, provvedimento che colpiva tra l'altro chi preparava, vendeva, comprava, deteneva o somministrava un venenum malum necandi hominis causa (veleno che potesse causare la morte) e forse anche chi praticava arti magiche; in seguito la si applicò all'aborto volontario, alla castrazione e alla circoncisione, tranne quella degli Ebrei.


Nell' 80 a.C. - Dopo essere stato eletto console per la seconda volta nell' 80 a.C., nella sua veste di dittatore a vita, Silla abdica dal suo ruolo di dittatore ristabilendo così il normale governo consolare. Cresceva intanto l'insofferenza verso gli eccessi compiuti dai suoi uomini. Un suo liberto fu denunciato in un processo e sconfitto grazie alle arringhe del giovane Cicerone.

Patrizio Torlonia di
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Patrizio Torlonia, da https
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Patrizio_Torlonia
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La testa 535 della Collezione Torlonia, detta anche patrizio Torlonia, ritrae un ignoto personaggio virile ed è il capolavoro del cosiddetto ritratto romano repubblicano, cruda effigie del patriziato romano durante il periodo di Silla. Si tratta di una copia di epoca tiberiana (I secolo d.C.) di un originale databile al decennio 80-70 a.C. In quest'opera sono ben evidenti tutte quelle caratteristiche che i patrizi dell'epoca volevano mettere in evidenza, in una dura epoca che vedeva finalmente trionfare le loro ambizioni dopo i momenti difficili della lotta ai Gracchi, dell'avanzata della plebe e delle guerre civili. In una resa particolarmente secca e asciutta, il trattamento minuzioso dell'epidermide non risparmia nessuno dei segni della vecchiaia: anzi essi stanno a significare la dura vita contadina e militare del patrizio, la fierezza inflessibile della sua casta e un certo sdegno, eloquentemente rappresentato dal taglio duro della bocca e dall'espressione ferma e sprezzante dello sguardo. Il notevolissimo realismo veicola quindi un preciso messaggio politico e sociale.

Nel 79 a.C. - Silla, sorprendendo tutti, decide di abbandonare la politica per rifugiarsi nella propria villa di campagna, con l'intento di accingersi a scrivere le proprie memorie e riflessioni. Quando si ritira a vita privata, pare che, attraversando la folla sbigottita, uno dei passanti si mette ad ingiuriarlo. Silla si limita a rispondergli beffardo: "Avresti avuto lo stesso coraggio a dirmi queste cose quando ero al potere?". Personaggio dall'indole spietata e ironica allo stesso tempo, Publio Cornelio Silla confidò, di se stesso, ad uno dei suoi amici: «Imbecille! Dopo questo gesto, non ci sarà più alcun dittatore al mondo disposto ad abbandonare il potere». Si narra che fosse circondato da una variopinta corte di attori, ballerini e prostitute, fra cui un certo Metrobio, famoso attore conosciuto in gioventù, che Plutarco rappresenterà come il vizio nelle "Vite parallele", e  che gli dei, per punizione, faranno ammalare di lebbra. Nel suo ultimo appassionato discorso indirizzato al Senato, Silla dichiara che costui era stato suo amante per tutta la vita, lasciando così l'assemblea scandalizzata e sgomenta. In compagnia di questa allegra brigata, Lucius Cornelius Sulla Felix, il suo nome in latino, rimane con loro fino all'ultimo respiro, esalato nel 78 a.C., probabilmente per cancro. Com'era allora d'uso presso i potenti di Roma, lui stesso dettò l'epitaffio che aveva voluto s'incidesse sul suo monumento funebre: «Nessun amico mi ha reso servigio, nessun nemico mi ha recato offesa, che io non abbia ripagati in pieno».

- Il lasso di tempo che va dal 79 al 77 a.C. è stato un triennio ricco di contese e lotte intestine, tra le preesistenti classi al potere e le nuove forze emergenti, in un clima di cambiamento delle condizioni in cui viveva lo stato, così come delle strutture della società repubblicana, che si avviava ad una fase di immane decadenza. Lepido, incurante delle proposte avanzate dagli aristocratici, continuerà la sua politica demagogica, adoperandosi alla demolizione di tutti i provvedimenti presi da Silla, quali: la restituzione dei poteri ai tribuni della plebe; la restituzione ai proscritti dei loro beni; la restituzione della cittadinanza per coloro che ne erano stati privati. Al ceto dirigente, che usciva lentamente e a fatica dall'egemonia sillana, premeva mantenere accentrato nelle proprie mani, il potere di cui aveva goduto in quegli anni; mentre, il proposito di Lepido, restava quello di rimettere in campo le forze emergenti, così da apportare un radicale cambiamento nei rapporti di potere vigenti. I suoi avversari, di conseguenza, avendo intenti differenti, gli remavano conto.

Nel 78 a.C. - Il primo gennaio, Marco Emilio Lepido (padre) diventa console insieme al suo avversario Quinto Lutazio Catulo e già in quella occasione entrano in conflitto sulle decisioni da prendere in merito alle festività dell'anno e alla nomina del praefectus urbis. In seguito all'abdicazione di Silla, Lepido stesso vuole diventare dittatore e per perseguire quell'intento dichiara inutile la carica tribunizia, intenzione confermata dalla sua proposta populista di Lex Aemilia frumentaria del 78-77 a.C., secondo la quale mensilmente ogni popolano avrebbe avuto il diritto di ricevere cinque modì di grano (35 kg.). Da QUI: "Il pane  rappresentava la base della dieta romana. Si calcola che il fabbisogno complessivo di grano della città, che tra la fine della repubblica e l'inizio del principato contava un milione di abitanti, fosse di 250 mila tonnellate all’anno, stimato dal consumo mensile pro capite che si aggirava intorno ai 3 modi, circa 21 kg.). Le frumentationes, precedentemente abrogate da Silla, per non concorrere all'inurbamento, erano riproposte da Lepido in quanto, distribuendo grano gratuitamente al ceto plebeo, si ergeva a campione delle richieste che erano state avanzate dai tribuni della plebe con Silla dittatore e da Silla stesso rifiutate. La proposta di legge si concluse con un nulla di fatto, a causa degli avvenimenti che seguirono. Gli ottimati erano preoccupati, in quanto avevano compreso che il console patteggiava con la parte popolare e questo non era un bene per la loro fazione."

- Solo dopo aver avuto la notizia della morte di Silla del 78 a.C., Giulio Cesare rientra a Roma. Il suo ritorno coincide con il tentativo di ribellione anti-sillana capeggiato da Marco Emilio Lepido (padre) e bloccato da Gneo Pompeo Magno. Cesare, non fidandosi delle capacità di Lepido, che pure lo aveva contattato, non partecipò alla ribellione e cominciò invece a dedicarsi alla carriera forense come pubblico accusatore. In questa fase, benché ancora giovanissimo, dimostra già una grandissima intelligenza politica, evitando di rimanere implicato in un'insurrezione male organizzata e destinata a naufragare nell'insuccesso. Cesare infatti, che non si era apertamente schierato contro la politica sillana, evitò di partecipare all'insurrezione di Lepido ma decise di sostenere l'accusa di concussione contro Gneo Cornelio Dolabella, per atti durante il suo mandato di governatore in Macedonia e quella di estorsione contro Gaio Antonio Ibrida, entrambi membri influenti del partito degli ottimati. Cesare, pur sapendo fin dall'inizio che le sue azioni legali non avrebbero avuto alcuna possibilità di riuscita, si accreditò come rappresentante della fazione dei populares, anche se l'esito negativo dei processi lo convinse a lasciare Roma una seconda volta per evitare le vendette della nobilitas sillana.

Nel 77 a.C. - Durante il viaggio che l'avrebbe condotto nella provincia Narbonese, dove doveva svolgere il proconsolato del 77 a.C., Marco Emilio Lepido (padre) si ferma in Etruria, dove le confische sillane erano state più pesanti e i contadini locali erano infuriati, poiché le loro terre erano state assegnate ai veterani di Silla. Qui le idee del console sovversivo, generano una rivolta, nei pressi di Fiesole, dove erano stanziati i veterani di Silla. Marco Emilio Lepido, alleatosi con Marco Perperna Ventone, diventa capo dei ribelli e presenta un ultimatum al Senato che prevede i quattro seguenti punti: cittadinanza romana agli abitanti della Gallia Cisalpina; restituzione dell'autorità ai tribuni della plebe; riabilitazione dei proscritti mariani; sua rielezione al consolato. Il Senato rifiuta la proposta e utilizza contro di lui il Senatus consultum ultimum (cioè "Ultima decisione del Senato"), o anche Senatus consultum de re publica defendenda (cioè "Decisione del Senato per la difesa della Repubblica"), un decreto senatorio (un Senatus consultum) emesso come extrema ratio in caso di emergenza, tipico dell'ultima fase della Repubblica di Roma con cui la fazione aristocratica degli ottimati, aveva di fatto emendato la costituzione romana con la clausola di stato di emergenzavideant consules ne quid res publica detrimenti capiat», «provvedano i consoli affinché lo stato non soffra alcun danno») con la quale il senato conferiva ai consoli pieni poteri, esautorando quindi i tribuni della plebe. Il primo ricorso a questa misura eccezionale si ebbe nel 121 a. C., durante il moto del tribuno Gaio Gracco. Il senato affida inoltre all'interré (l'interrex era una istituzione del diritto romano, nata in età regia ed evolutasi in quella repubblicana, per la quale quando veniva a mancare il potere supremo dello Stato romano, questo veniva esercitato da un interrex per un periodo limitato di tempo) Appio Claudio, al proconsole Quinto Lutazio Catulo e a Gneo Pompeo Magno, l'incarico di reprimere l'insurrezione, mentre Lepido marcia verso Roma. Sconfitto sotto le mura di Roma dal console Quinto Lutazio Catulo, Marco Emilio Lepido (padre) cerca di ripiegare sulla costa etrusca, dove venne battuto a Cosa da Gneo Pompeo che in precedenza aveva assediato e costretto alla resa a Modena il suo luogotenente Marco Giunio Bruto, il padre del futuro cesaricida. Sarà quindi costretto a fuggire in Sardegna, dove morirà nel 76 a.C..

Nel 76 a.C. - Da Gaio Giulio Cesare, Cornelia Cinna minore genera la figlia Giulia (76 a.C. - 54 a.C.), conosciuta come Giulia minore (Iulia minor) per distinguerla dalla zia Giulia maggiore, sorella di Cesare e nonna di Ottaviano. Rimasta orfana della madre, morta nel 69 o 68 a.C., Giulia fu educata dalla nonna Aurelia Cotta, madre di Cesare. Dopo una prima promessa di matrimonio con un Servilio Cepione, Cesare la diede in sposa nel 59 a.C. a Gneo Pompeo Magno. Morirà di parto ancora molto giovane nel 54 a.C. e il figlio o la figlia che dette alla luce visse solo pochi giorni. Che si sappia, gli unici figli di Cesare sono stati Giulia da Cornelia Cinna minore e Cesarione (Tolomeo XV), che ebbe da Cleopatra.


Gaio Giulio Cesare, I sec.
museo archeologico di Napoli.
Nel 74 a.C. - Giulio Cesare decide di recarsi a Rodi, vera e propria meta di pellegrinaggio per i giovani romani delle classi più alte, desiderosi di apprendere la cultura e la filosofia greca. Durante il viaggio però, è rapito dai pirati, che lo portano sull'isola di Farmacussa, una delle Sporadi meridionali a sud di Mileto. Quando questi gli chiesero di pagare venti talenti, Cesare rispose che ne avrebbe consegnati cinquanta e mandò i suoi compagni a Mileto perché ottenessero la somma di denaro con cui pagare il riscatto. Riottenuta la libertà procedette egli stesso alla loro esecuzione  facendoli crocifiggere dopo averli strangolati, in modo da evitare loro una lunga e atroce agonia. Così, secondo le fonti filocesariane, non fece altro che adempiere a ciò che aveva promesso ai pirati durante la prigionia e poté restituire i soldi che i suoi compagni avevano speso per il suo riscatto.

Anfiteatro di Capua.
Nel 73 a.C. - Dall'anfiteatro di Capua, di cui ancora è possibile ammirare l'imponente struttura, prese avvio la rivolta di Spartaco, poi annegata nel sangue. L'importanza notevole e la fama di Capua sopravviveranno tuttavia agli esiti infausti di queste vicende storiche, tanto che lo storico Livio in epoca imperiale ebbe a definirla la più grande e opulenta città dell'Italia antica e ancora nel I secolo a.C. Cicerone non esitava a definirla paragonabile all'Urbe laziale.

Per eventuali approfondimenti vedi "Storia dell'Europa n.25: dal 91 al 73 p.e.v. (a.C.)" QUI.

Carta della Gallia con le popolazioni
che la abitavano nel I sec. a.C.
Nel 72 a.C. Tribù suebiche comandate da Ariovisto entrano in Gallia, passando il medio Reno, chiamate in soccorso dai celti Sequani. I Suebi stavano poi per conquistare la Gallia intera quando nel 58 a.C. intervenne Cesare, che ricacciò Ariovisto e i suoi oltre il Reno. La Svevia (in latino Suēbĭa, in tedesco Schwaben o Schwabenland) è una regione storica e linguistica della Germania e i Suebi, poi chiamati Svevi, erano una popolazione germanica che oltre duemila anni fa si era originata in un'area vicina al Mar Baltico, che era conosciuto dai Romani come Suebicum mare. In parte a causa della sua scarsa conoscenza con i diversi popoli germanici che interagirono con Roma, lo storico Tacito si è riferito a tutti i Germani dell'Elba con il nome di Herminones o Suebi, semplificando una realtà fatta di tribù non sempre strettamente affini.

- Nello stesso anno (72 a.C.) Gaio Giulio Cesare torna a Roma dove è eletto tribuno militare per l'anno seguente, risultando addirittura il primo degli eletti. Si impegna quindi nelle battaglie politiche sostenute dai populares, ovvero l'approvazione della Lex Plotia (che avrebbe permesso il rientro in patria di coloro che erano stati esiliati dopo aver partecipato all'insurrezione di Lepido) e il ripristino dei poteri dei tribuni della plebe, il cui diritto di veto era stato notevolmente ridimensionato da Silla, che aveva voluto evitare colpi di mano da parte dei populares. Il ripristino della tribunicia potestas fu però ottenuto soltanto nel 70 a.C., l'anno del consolato di Gneo Pompeo Magno e Marco Licinio Crasso. Entrambi avevano acquisito un grande prestigio portando a termine rispettivamente la guerra contro Quinto Sertorio in Spagna, e quella contro gli schiavi guidati da Spartaco. Crasso in particolare era in stretti rapporti con Cesare (lo aiutò infatti più volte finanziandone le campagne elettorali) poiché, per quanto incredibilmente ricco grazie alle proscrizioni sillane, gli serviva l'appoggio, durante la sua campagna elettorale, del carisma di Cesare, nascente leader popolare.

Nel 69 a.C. - Cornelia Cinna minore muore di parto all'età di venticinque o ventisei anni; dell'eventuale nascituro/a non si ha notizia, mentre si sa che e la laudatio funebris di Cornelia è pronunciata dal marito Cesare. In quello stesso anno Giulio Cesare è eletto questore per quell'anno. I questori erano magistrati minori dello Stato, la cui carica (quaestura) costituiva il primo grado del cursus honorum e richiedeva come età minima 30 anni (28 per i patrizi). All'inizio possedevano giurisdizione criminale (quaestores parricidii), in seguito competenze amministrative, supervisionando e gestendo il tesoro e le finanze. Dopo il consolato di Pompeo e Crasso, il clima politico romano si stava avviando al cambiamento, grazie al quasi totale smantellamento della costituzione sillana che i due consoli avevano operato. Nel 69 a.C. Cesare pronunciò dai Rostri del Foro, secondo l'antico costume, gli elogi funebri per la zia Giulia, vedova di Gaio Mario, e per la moglie Cornelia, figlia di Lucio Cornelio Cinna. Nel farlo, mostrò per la prima volta in pubblico dal periodo sillano le immagini di Gaio Mario e del figlio Gaio Mario il giovane e il popolo le accolse plaudente. Nell'elogio per Giulia, Cesare esaltava la discendenza della zia per parte di madre da Anco Marzio, evidenziando come negli esponenti della gens Iulia scorresse ora anche il sangue regale accanto a quello divino. «Da parte di madre mia zia Giulia discende dai re; da parte di padre si ricollega con gli dei immortali. Infatti i Marzii Re, alla cui famiglia apparteneva sua madre, discendono da Anco Marzio, ma i Giuli discendono da Venere, e la mia famiglia è un ramo di quella gente. Confluiscono, quindi, nella nostra stirpe, il carattere sacro dei re, che hanno il potere supremo tra gli uomini, e la santità degli dei, da cui gli stessi re dipendono.» (Svetonio, Vite dei Cesari, Cesare, 6, traduzione di Felice Dessì). L'elogio di Cornelia parve invece piuttosto insolito, perché non era uso pronunciare discorsi in memoria di donne morte giovani, ma fu fortemente apprezzato dal popolo. Sempre nel corso del 69 a.C., Cesare si recò nella Spagna Ulteriore, governata dal propretore Antistio Vetere dove si dedicò ad un'intensa attività giudiziaria e grazie al suo grande impegno poté accattivarsi le simpatie della popolazione, che liberò dai pesi fiscali che Metello aveva imposto.


Nel 68 a.C. - Dopo la morte della prima moglie, Cornelia Cinna minore, Gaio Giulio Cesare  sposa  Pompea Silla (I secolo a.C. - ...), figlia di Gneo Pompeo Rufo (figlio di Quinto Pompeo Rufo) e di Cornelia Silla, una delle figlie di Silla, da cui non avrà figli. 

Dal 65 a.C. Roma conquista l'impero seleucide e l'Egitto, estinguendo così le ultime dinastie di stirpe macedone che si erano instaurate in quei territori come conseguenza della spartizione dell'impero di Alessandro Magno. La guerra di conquista terminerà nel 30 a.C..

Nel 63 a.C. - Giulio Cesare è eletto pontefice massimo, dopo la morte di Quinto Cecilio Metello Pio, che era stato nominato da Silla. Cesare, per quanto scettico, si era battuto perché il pontificato tornasse a essere, dopo la riforma sillana, una carica elettiva e comprendeva perfettamente quale aspetto avrebbe avuto la sua figura se insignita della carica di tutore del diritto e del culto romano. A sfidarlo c'erano però rappresentanti della fazione degli optimates  molto più anziani e già da tempo giunti al culmine del cursus honorum, quali Quinto Lutazio Catulo e Publio Servilio Vatia Isaurico. Cesare allora, aiutato anche da Marco Licinio Crasso, si procurò grandi somme di denaro che usò per corrompere l'elettorato e fu dunque costretto a pagare un prezzo altissimo per la sua elezione: il giorno del voto, uscendo di casa, promise infatti alla madre che ella lo avrebbe rivisto pontefice oppure esule. La nettissima vittoria di Cesare gettò nel panico gli optimates, mentre costituì per il neoeletto pontefice una nuova acquisizione di prestigio, in grado di assicurargli la nomina a pretore per l'anno seguente. Con Giulio Cesare il numero dei Pontefici passerà da 9 a 16 e per evidenziare l'importanza della sua carica, lasciò la casa natale nella Suburra per  trasferirsi sulla via Sacra, cominciando ad attuare una politica volta ad accattivarsi anche le simpatie di Pompeo Magno, mentre la moglie Pompea  Silla lo seguirà nell'abitazione consacrata al capo del collegio sacerdotale sulla via Sacra.


- Nello stesso 63 a.C. irrompe sulla scena politica Lucio Sergio Catilina. Nobile decaduto, tentò più volte di impadronirsi del potere, organizzando una prima congiura nel 66 o nel 65 a.C., a cui Cesare aveva preso probabilmente parte. La congiura, che avrebbe portato all'elezione di Crasso come dittatore e dello stesso Cesare come suo magister equitum, fallì per l'improvviso abbandono del progetto da parte di Crasso o forse perché Cesare si rifiutò di dare il segnale convenuto che avrebbe dovuto dare inizio al programmato assalto al Senato.
Cesare Maccari: "Cicerone accusa
Catilina" (1880) a Palazzo Madama.
Quando nel 63 a.C la seconda congiura di Catilina è scoperta da Marco Tullio Cicerone (pur non avendo prove certe) , Lucio Vezio, amico di Catilina, fa i nomi di alcuni congiurati, includendo tra essi anche Cesare. Questi sarà scagionato dalle accuse grazie al tempestivo intervento di Cicerone, ma resta assai probabile che avesse partecipato, almeno inizialmente, anche a questa seconda congiura. Ad avvalorare l'ipotesi è il discorso che lo stesso Cesare pronunciò in senato in difesa dei congiurati Lentulo e Cetego: dopo la sua fuga, Catilina aveva lasciato a loro le redini della congiura, ma i due erano stati scoperti grazie a un abile piano congegnato da Cicerone, principale accusatore di Catilina e responsabile del fallimento della congiura. Discutendo sulla pena cui condannare Lentulo e Cetego, molti senatori avevano proposto la condanna a morte ma Cesare, invitando tutti a non prendere decisioni avventate e dettate dalla paura, propose invece di confinare i congiurati e di confiscare i loro beni. Il discorso di Cesare, che aveva convinto molti senatori, fu però seguito da un altro, molto acceso, pronunciato da Marco Porcio Catone Uticense, che riuscì a reindirizzare il senato verso la condanna a morte dei congiurati Lentulo e Cetego senza che gli fosse concessa la provocatio ad populum. Il discorso di Cesare, grazie al quale si presentò come un uomo saggio e poco vendicativo, fu molto gradito al popolo; è però probabile che con le sue parole il futuro dittatore tentasse anche di salvare dalla morte amici e compagni politici con i quali aveva indubbiamente collaborato.

- Nel 63 a.C. nasce a Roma Gaio Giulio Cesare Ottaviano Augusto (Roma, 23 settembre 63 a.C. - Nola, 19 agosto 14), figlio di Gaio Ottavio, uomo d'affari che aveva ottenuto, primo della gens Octavia (ricca famiglia di Velitrae-Velletri), cariche pubbliche e un posto in Senato (era quindi un homo novus). La madre, Azia maggiore, proveniva invece da una famiglia da parecchie generazioni di rango senatorio e dagli illustri natali: era infatti imparentata sia con Cesare sia con Gneo Pompeo Magno. Azia era più precisamente la figlia della sorella di Cesare, Giulia maggiore, e di Marco Azio Balbo; Ottaviano, pertanto, era pronipote di Cesare. Nacque a Roma nove giorni prima delle Calende di ottobre prima dell'alba, in quella parte del Palatino denominata ad Capita Bubula («teste di bue»), dove dopo la sua morte venne costruito un santuario a lui dedicato. In seguito si trasferì, sempre sul Palatino, in una casa ugualmente modesta di non grande ampiezza e priva di lusso, visto che le colonne dei suoi portici piuttosto basse, erano di pietra del monte Albano, mentre nelle stanze non c'era né marmo, né mosaici. Dormì nella stessa camera per più di quarant'anni, anche d'inverno, sebbene considerasse poco adatto alla sua salute il clima invernale di Roma. Il suo nome alla nascita era Gaio Ottavio, cui fu aggiunto Turino quando era fanciullo (Gaius Octavius Thurinus), soprannome in ricordo di suo padre Ottavio, vittorioso contro gli schiavi fuggitivi (i resti delle bande di Spartaco e di Catilina) nella regione di Thurii, città panellenica fondata nel 444 a.C. accanto alle rovine dell'antica Sibari i cui resti si trovano nei pressi di Cassano allo Ionio, in provincia di Cosenza.

Nel 61 a.C. - Gaio Giulio Cesare è eletto pretore, magistrato romano dotato di imperium e iurisdictio. L'attività del Praetor si concretizzava nella concessione dell'actio, cioè lo strumento con cui si permetteva ad un cittadino romano che chiedeva tutela, nel caso in cui non ci fosse una lex che prevedesse la tutela, di agire in giudizio, e portare quindi la situazione dinanzi al magistrato. Scriveva Svetonio: “Sempre come questore gli fu assegnata la Spagna Ulteriore; qui, con delega del pretore, percorse i luoghi di riunione per amministrare la giustizia, finché giunse a Cadice dove, vista la statua di Alessandro Magno presso il tempio di Ercole, si mise a piangere, quasi vergognandosi della sua inettitudine. Pensava infatti di non aver fatto nulla di memorabile all'età in cui Alessandro aveva già sottomesso il mondo intero. Allora chiese subito un incarico a Roma per cogliere al più presto l'occasione di compiere grandi imprese. Nello stesso tempo, turbato da un sogno della notte precedente (aveva sognato infatti di violentare sua madre) fu incitato a nutrire le più grandi speranze dagli stessi indovini che gli vaticinarono il dominio del mondo quando gli spiegarono che la madre, che aveva visto giacere sotto di lui, altro non era che la terra stessa, considerata appunto madre di tutti.”(Svetonio, Vite dei Cesari, Cesare, 7). Cesare fu quindi governatore della provincia della Spagna ulteriore, dove condusse operazioni contro i Lusitani; acclamato imperator, gli fu tributato il trionfo una volta tornato a Roma. Cesare fu tuttavia costretto a rinunciarvi, in quanto per celebrare il trionfo avrebbe dovuto mantenere le sue vesti di militare e restare fuori dalla città di Roma: il propretore chiese dunque al senato il permesso di candidarsi al consolato in absentia, attraverso i suoi legati, ma Catone l'Uticense fece in modo che la richiesta fosse respinta. Cesare, posto di fronte a una scelta particolarmente importante per la sua carriera futura, preferì dunque salire il gradino successivo del cursus honorum e candidatosi nel 60 a.C. fu eletto console per l'anno 59 a.C..

- Plutarco in Vite Parallele, precisa di non voler essere uno storico ma un biografo e che non cerca di stilare un elenco di episodi a cui un personaggio storico ha partecipato ma è interessato invece a svelare comportamenti che rivelino la forma mentis del soggetto stesso. Su Cesare scrive: "Egli prima di tutto elargì senza risparmio denaro e beneficenza. Così dava a vedere di non voler ottenere dalle spedizioni di guerra ricchezze che servissero al suo lusso e al suo benessere personale, ma metteva da parte e conservava per premiare chiunque compisse un atto di valore: la sua parte di ricchezza consisteva in ciò che dava ai suoi soldati meritevoli. In secondo luogo si sottopose di sua volontà ad ogni loro rischio e non si sottrasse a nessuna delle loro fatiche. Che amasse il pericolo non stupiva i suoi uomini perché sapevano quanto era ambizioso; ma la sua resistenza ai disagi superiore alla forza apparente del suo corpo li meravigliava. Cesare era di costituzione fisica asciutta di carnagione bianca e delicata; subiva frequenti mal di testa e andava soggetto ad attacchi di epilessia: la prima manifestazione l’ebbe, sembra, a Cordova. Eppure non sfruttò la sua debolezza come un pretesto per essere trattato con riguardo; al contrario fece del servizio militare una cura della propria debolezza. Compiendo lunghe marce consumando pasti frugali dormendo costantemente a cielo aperto, sottoponendosi ad ogni genere di disagi, combatté i suoi malanni e serbò il suo corpo ben difeso dai loro assalti. Si coricava la maggior parte delle notti su qualche veicolo e nella lettiga, sfruttando il riposo per fare qualcosa. Durante il giorno si faceva portare in visita alle guarnigioni, alle città, agli accampamenti ed aveva seduto al fianco uno schiavo che era abituato a scrivere sotto dettatura anche in viaggio, e dietro, in piedi, un soldato con la spada sguainata."  (Plutarco, Vite Parallele, Vita di Cesare, 32). E ancora: "Si alleò con Crasso, il più ricco dei Romani: Cesare, che aveva ottenuto la provincia di Spagna (nel 61 a.C. Cesare divenne governatore della Spagna  ulteriore,  N.d.R.), non poteva partire prima di aver saldato i suoi debiti, mentre  Crasso aveva bisogno dell’energia e della passione di Cesare per la sua lotta contro Pompeo. Crasso accettò di pagare i creditori più pressanti e inflessibili e diede garanzie per 830 talenti e così Cesare poté partire per la provincia. A Roma 1 talento  equivaleva a 32,3 kg di metallo prezioso.
Nell’attraversare le Alpi, passando per un villaggio barbaro molto povero, di fronte agli amici che scherzando gli dicevano: "Anche qui ci sono ambizioni per arrivare al potere e contese per ottenere il promo posto e invidie dei potenti tra loro?" e Cesare, parlando sul serio, disse loro: "Vorrei essere il primo tra costoro piuttosto che il secondo a Roma". Un’altra volta, in Spagna, leggendo un libro sulle imprese di Alessandro, pianse e agli amici diceva: "Non vi pare che valga la pena di addolorarsi se  Alessandro alla mia età già regnava su tante persone, mentre io non ho ancora fatto nulla di notevole?"... Riconciliò Pompeo con Crasso, che avevano il massimo potere, e da nemici li fece diventare amici e convogliò su di  la potenza di ambedue. Non fu la discordia di Cesare e Pompeo che diede origine alle guerre civili, ma piuttosto la loro concordia, giacché si coalizzarono dapprima per distruggere l’aristocrazia e poi, allo stesso modo, litigarono tra di loro. (Plutarco, Vite Parallele, Vita di Cesare 11 e 13).

Nel 61 a.C. la seconda moglie di Cesare, Pompea Silla, è protagonista di un clamoroso  scandalo dai contorni farseschi; la notte tra il 4 e il 5 dicembre, si festeggiavano, in onore della Bona Dea, i Damia: i riti, che quell'anno si svolgevano nella casa di Cesare, pontefice massimo e neoeletto pretore, erano interdetti agli uomini e officiati dalle sole donne. Clodio, amante della moglie di Cesare, Pompea, decise di intrufolarsi nella casa mentre erano in corso i preparativi per la festa: travestitosi da flautista per mantenere nascosta la propria identità, fu accolto da un'ancella di Pompea, di nome Abra, che era al corrente della relazione. Tuttavia, quando Abra si allontanò per avvisare Pompea dell'arrivo dell'amante, Clodio fu scoperto da un'altra ancella: al suo grido, accorsero le altre donne presenti in casa, e la madre di Cesare Aurelia Cotta, che coordinava i preparativi, scacciò Clodio. Non sono chiare le motivazioni che indussero Clodio a compiere un simile atto: non sembra sufficiente il semplice ricorso alla relazione amorosa con Pompea, ma si pensa piuttosto ad una bravata giovanile o ad un atto di sfida contro il console Cicerone, cui l'anno prima era stato rivolto, secondo le vestali, un auspicio favorevole dalla Bona Dea. La vicenda non ebbe, in principio, grandi conseguenze; lo stesso Cicerone, anzi, ne parlava così in una lettera all'amico Tito Pomponio Attico: «Publio Clodio, figlio di Appio, fu colto in casa di Gaio Cesare mentre si compiva il sacrificio rituale per il popolo, in abito da donna, e riuscì a fuggire solo grazie all'aiuto di una servetta; grave scandalo; sono sicuro che anche tu ne sarai indignato.» (Cicerone, Lettere ad Attico, I, 12, 3; trad. di C. Vitali, Zanichelli.). Il giorno seguente in tutta Roma non si parlava d'altro. Cesare ripudiò Pompea. Tuttavia nel processo che seguì, citato come testimone rifiutò di deporre contro Clodio e si dichiarò convinto dell'innocenza della moglie. Quando i giudici gli chiesero perché avesse allora divorziato, rispose con la famosa frase divenuta poi proverbiale: "La moglie di Cesare deve essere al di sopra di ogni sospetto".
Publio Clodio Pulcro (Roma, 93 o 92 a.C. - Bovillae, 18 gennaio 52 a.C.) è stato un esponente dell'importante gens aristocratica dei Claudii, che vantava fra i propri antenati personaggi illustri come Appio Claudio Cieco. Si avvicinò, fin da giovane, alla politica della fazione dei populares, e si rese in più casi colpevole di atti di sovversione e corruzione. In occasione della congiura di Catilina, nel 63 a.C., collaborò con il console Marco Tullio Cicerone, che tuttavia testimoniò contro di lui nel 61 a.C., durante il processo per lo scandalo della Bona Dea, processo nel quale fu tuttavia assolto perché i giurati che avrebbero dovuto emettere la decisione furono corrotti dal ricco e potente Crasso. Deciso a perpetrare la propria vendetta, Clodio si fece adottare da una famiglia plebea e così, effettuata la transitio ad plebem, poté essere eletto tribuno della plebe per il 58 a.C.. Fu dunque promotore di un'attività legislativa particolarmente intensa, propose e fece approvare una serie di plebisciti che contribuirono nel complesso a indebolire il senato a favore delle assemblee popolari e determinò, tra l'altro, l'esilio di Marco Tullio Cicerone nel 58 a.C., dovuto all'emanazione della legge retroattiva che puniva coloro che non avessero concesso ai condannati a morte la provocatio ad populum prima di essere giustiziati (nel suo caso specifico Lentulo e Cetego).

Marco Licinio Crasso
da QUI.
Nel 60 a.C. - Primo triumvirato, accordo privato mantenuto segreto per un po' di tempo come parte del progetto politico dei Triumviri per la spartizione del potere fra Gaio Giulio Cesare e Gneo (pronuncia G dura di "ghianda") Pompeo Magno con Marco Licinio Crasso, quest'ultimi colleghi consoli nel 70 a.C., quando avevano emanato una legge per il completo ripristino dei poteri dei tribuni della plebe (Lucio Cornelio Silla aveva di fatto tolto tutti i poteri ai tribuni della plebe ad eccezione dello ius auxiliandi, il diritto di aiutare un plebeo in caso di persecuzioni da parte di un magistrato patrizio) ma che fino a quel momento avevano avuto una notevole antipatia reciproca, giacché ognuno riteneva che l'altro avesse superato i propri limiti per aumentare la sua reputazione a spese del collega. Il primo triumvirato ebbe  notevolissime ripercussioni sulla vita politica, dettandone gli sviluppi per quasi dieci anni e segnò l'inizio dell'ascesa politica di Gaio Giulio Cesare.
Crasso era l'uomo più ricco di Roma (aveva infatti finanziato la campagna elettorale di Cesare per il consolato) ed era un esponente di spicco della classe dei cavalieri. Pompeo, dopo aver brillantemente risolto la guerra in Oriente contro Mitridate e i suoi alleati, era il generale con più successi alle spalle. Il rapporto tra Crasso e Pompeo non era dei più idilliaci, ma Cesare con la sua fine abilità diplomatica seppe riappacificarli, vedendo in un'alleanza tra i due l'unico modo in cui egli stesso avrebbe potuto raggiungere i vertici del potere. Crasso serbava infatti verso Pompeo un certo rancore da quando aveva celebrato il trionfo per la guerra contro Sertorio in Spagna e la vittoria contro gli schiavi ribelli che, soffocata la rivolta di Spartaco, cercavano di fuggire dall'Italia per attraversare l'arco alpino. Ogni merito era andato a Pompeo, mentre Crasso, vero artefice della sofferta vittoria su Spartaco, aveva potuto celebrare soltanto un'ovazione.
Pompeo avrebbe dovuto sostenere la candidatura al consolato di Cesare, mentre Crasso l'avrebbe dovuta finanziare. In cambio di quest'appoggio, Cesare avrebbe fatto in modo che ai veterani di Pompeo venissero distribuite delle terre, e che il Senato ratificasse i provvedimenti presi da Pompeo in Oriente. Al contempo, com'era desiderio di Crasso e dei cavalieri, fu ridotto di un terzo il canone d'appalto delle imposte della provincia d'Asia. A rinsaldare ulteriormente quanto previsto dal triumvirato, Pompeo sposò Giulia, la figlia di Cesare.

Nel 1553 a Roma, nel vicolo dei Leutari,
presso il Palazzo della Cancelleria, è
stata rinvenuta casualmente, sotto le
fondamenta di due modeste case, la
grande statua di Gneo Pompeo Magno,
la stessa scultura che si trovava nella
curia di Pompeo e ai piedi della quale
Cesare cadde ucciso dai congiurati.
Svetonio racconta che Augusto fece
spostare la statua fuori della curia per
farla collocare di fronte alla propria
basilica. Secondo alcuni esperti la
zona corrisponde al ritrovamento.
Nel 59 a.C. - Nell'anno del suo consolato, Cesare porta al servizio dell'alleanza la sua popolarità politica e il suo prestigio e si adopera per portare avanti le riforme concordate con gli altri triumviri. Nonostante la forte opposizione del collega Marco Calpurnio Bibulo, che tentò in ogni modo di ostacolare le sue iniziative, Cesare ottenne comunque la ridistribuzione degli appezzamenti di ager publicus per i veterani di Pompeo, ma anche per alcuni dei cittadini meno abbienti. Bibulo, una volta accortosi del fallimento della sua sterile politica volta esclusivamente alla conservazione dei privilegi da parte della nobilitas senatoriale, si ritirò dalla vita politica: in questo modo pensava di frenare l'attività del collega, che invece poté attuare in tutta tranquillità il suo rivoluzionario programma. Cesare infatti programmò la fondazione di nuove colonie in Italia e per tutelare i provinciali riformò le leggi sui reati di concussione (lex Iulia de repetundis), facendo approvare allo stesso tempo delle leggi che favorissero l'ordo equestris: con la lex de publicanis egli ridusse di un terzo la somma di denaro che i cavalieri dovevano pagare allo stato, favorendo così le loro attività. Fece infine promulgare una legge che imponeva al senato di stilare le relazioni di ogni seduta (gli acta senatus). In questo modo Cesare si assicurava l'appoggio di tutta la popolazione romana, ponendo le basi per il suo futuro successo.

Nel 59 a.C., anno del suo primo consolato, Gaio Giulio Cesare sposa la sua terza e ultima moglie, Calpurnia Pisone (75 a.C. - dopo il 44 a.C.), figlia del senatore Lucio Calpurnio Pisone Cesonino. L'anno successivo al matrimonio, Cesare fece in modo di far diventare console il suocero Pisone. In precedenza, Cesare era stato sposato con Pompea, ripudiata nel 62 a.C., e prima ancora con Cornelia Cinna minore, morta di parto nel 68 a.C. Da Calpurnia Cesare non ebbe nessun figlio e che si sappia, gli unici figli di Cesare sono stati Giulia da Cornelia Cinna minore e Cesarione (Tolomeo XV) da Cleopatra. Secondo la testimonianza di Plutarco, dopo la morte del marito Calpurnia consegnò a Marco Antonio gli scritti, gli appunti e tutte le ricchezze di Cesare, che ammontavano a 300 talenti. A Roma 1 talento equivaleva a 32,3 kg di metallo prezioso.

- Nel 59 a.C., a circa a quattro anni, Ottaviano perde il  padre mentre Gneo Pompeo  Magno  sposa Giulia  (Iulia, 76 a.C. - 54 a.C.), figlia di Gaio Giulio Cesare e della sua prima moglie Cornelia Cinna minore, conosciuta come Giulia minore (Iulia minor) per distinguerla dalla zia Giulia maggiore, sorella di Cesare e nonna di Ottaviano. Giulia era rimasta orfana della madre nel 69 o 68 a.C., ed era stata educata dalla nonna Aurelia Cotta, madre di Cesare. Dopo una prima promessa di matrimonio con un Servilio Cepione, Cesare la dà in sposa nel 59 a.C. a Gneo Pompeo Magno ma morirà di parto ancora molto giovane, nel 54 a.C. e il figlio o la figlia che darà alla luce vivrà solo pochi giorni.

Durante il consolato del 59 a.C., grazie all'appoggio dei triumviri, Cesare ottiene con la lex Vatinia del 1º marzo, il proconsolato delle province della Gallia Cisalpina e dell'Illirico per cinque anni, con un esercito composto da tre legioni (VII, VIII e VIIII). Poco dopo  un  senatoconsulto gli affida anche la vicina provincia della Narbonense, il cui proconsole, Quinto Cecilio Metello Celere, era morto all'improvviso, e la X legione.

Il Senato sperava con le sue mosse di allontanare il più possibile Cesare da Roma, proprio mentre egli stava acquisendo una sempre maggiore popolarità. Quando lo stesso Cesare promise di fronte al Senato di compiere grandi azioni e riportare splendidi trionfi in Gallia, uno dei suoi detrattori, per insultarlo, urlò che ciò non sarebbe stato facile per una donna, alludendo ai costumi sessuali dell'avversario; il proconsole designato rispose allora ridendo che l'essere donna non aveva impedito a Semiramide di regnare sulla Siria e alle Amazzoni di dominare l'Asia. Cesare seppe comprendere le potenzialità che l'incarico affidatogli presentava: in Gallia avrebbe potuto conquistare immensi bottini di guerra (con i quali saldare i debiti contratti nelle campagne  elettorali), e avrebbe acquisito il prestigio necessario per attuare la sua riforma della res publica.

Nel 58 a.C. - Prima di lasciare Roma, nel marzo del 58 a.C., Cesare incarica il suo alleato politico Publio Clodio Pulcro (amante della moglie Pompea che aveva ripudiato), tribuno della plebe, di fare in modo che Cicerone fosse costretto a lasciare Roma. Clodio fece allora approvare una legge con valore retroattivo che puniva tutti coloro che avevano condannato a morte dei cittadini romani senza concedere loro la provocatio ad populum: Cicerone fu quindi condannato per il suo comportamento in occasione della congiura di Catilina, venne esiliato, e dovette lasciare Roma e la vita politica. In questo modo Cesare cercava di assicurarsi che, in sua assenza,  il Senato  non  prendesse decisioni che compromettessero la realizzazione dei suoi piani. Allo stesso scopo, Cesare si liberò anche di un altro esponente dell'aristocrazia senatoriale, Marco Porcio Catone, che venne allontanato da Roma e inviato propretore a Cipro. Per evitare inoltre di divenire oggetto delle accuse legali dei suoi avversari, si appellò alla lex Memmia, secondo la quale nessun uomo che si trovava fuori dall'Italia a servizio della res publica poteva subire un processo giuridico. Infine, affidò la gestione dei suoi affari a Lucio Cornelio Balbo, un eques di origine spagnola; per evitare che i messaggi che gli spediva cadessero nelle mani dei suoi nemici, Cesare adoperò un codice cifrato, che prese il nome di cifrario di Cesare.


Cartina dei domini di Roma nel 58 a.C.
- Gaio Giulio Cesare inizia quindi la conquista della Gallia. Il praenomen "Gaio" è forma corretta rispetto al pur comune "Caio". La forma "Caio", infatti, si è diffusa a seguito di un'errata interpretazione dell'abbreviazione epigrafica "C." (cfr., tra gli altri, Conte, Pianezzola, Ranucci, "Dizionario della lingua latina", sub voce Gaius: «il fraintendimento dell'abbr., in cui la G si scriveva, per conservazione di grafia arcaica, C., ha generato la forma "Caio").
Gaio Giulio Cesare,
da QUI.
Gaio Giulio Cesare, (Roma 100 - 44 a.C.), mentre si trovava ancora a Roma, venne a sapere che gli Elvezi, stanziati tra il lago di Costanza, il Rodano, il Giura, il Reno e le Alpi retiche, si accingevano ad attraversare il territorio della Gallia Narbonense. C'era dunque il pericolo che essi, al loro passaggio sul territorio romano, compissero razzie e incitassero alla rivolta il popolo che ivi risiedeva, gli Allobrogi; i territori che si sarebbero svuotati, potevano poi divenire meta delle migrazioni di altri popoli germanici, che si sarebbero trovati a vivere al confine con lo stato romano, dando origine a un pericolo da non sottovalutare. Il 28 marzo Cesare, avuta notizia che gli Elvezi, bruciate le loro città, erano giunti sulle rive del Rodano, fu costretto a precipitarsi in Gallia, dove giunse il 2 aprile, dopo pochissimi giorni di viaggio. Disponendo solo della decima legione, insufficiente a contrastare un popolo di 368.000 individui (tra cui si contavano 92.000 uomini in armi), fece distruggere il ponte sul Rodano per impedire che gli Elvezi lo attraversassero e cominciò a reclutare in tutta la provincia forze ausiliarie, disponendo, inoltre, la creazione di due nuove legioni nella Gallia Cisalpina e ordinando a quelle stanziate ad Aquileia di raggiungerlo al più presto. Gli Elvezi inviarono a Cesare dei messaggeri che chiesero l'autorizzazione ad attraversare pacificamente la Gallia Narbonense; Cesare, però, temendo che una volta in territorio romano quelli si abbandonassero a razzie, gliela rifiutò, dopo aver fatto fortificare la riva del Rodano. Gli Elvezi, allora, decisero di attraversare il territorio dei Sequani; Cesare tuttavia, non si disinteressò della questione e, adducendo tra i vari pretesti le devastazioni compiute dagli Elvezi stessi ai danni degli Edui, alleati dei Romani, si decise ad affrontarli, e li sconfisse irreparabilmente a Bibracte. Una volta sconfitti, agli Elvezi fu dato ordine di tornare nel loro territorio d'origine, in modo da evitare che questo venisse occupato da popoli germanici proveniente dalle zone del Reno e del Danubio. I Galli chiesero allora a Cesare la possibilità di riunirsi in un'assemblea generale per fronteggiare il problema dell'invasione dei Germani guidati da Ariovisto. Costui aveva già invaso la Gallia in precedenza ma, pur avendo ottenuto la vittoria, era stato convinto dal Senato a rientrare entro i propri confini, ottenendo il titolo di rex atque amicus populi Romani. Quando i Galli, al termine dell'assemblea, chiesero a Cesare di aiutarli a ricacciare l'invasore oltre il Reno, lo stesso Cesare propose ad Ariovisto di stipulare un accordo. Il re germano rifiutò, e Cesare decise di affrontarlo. Le legioni però, intimorite dalla fama di imbattibilità che i Germani avevano guadagnato, sembravano sul punto di rifiutare il combattimento ed ammutinarsi; Cesare allora, disse che avrebbe sfidato Ariovisto portando con sé solo la fedelissima decima legione, e le altre, per dimostrare il loro valore, accettarono quindi di seguirlo. Il generale romano avanzò verso Ariovisto, che aveva attraversato il Reno e dopo un ultimo fallimentare negoziato, si decise a dare battaglia in una piana ai piedi dei monti Vosgi, oggi compresa tra le città di Mulhouse e Cernay. I Germani, al termine dello scontro assai cruento, furono massacrati dalla cavalleria romana mentre cercavano di riattraversare il fiume Reno e lo stesso Ariovisto, il loro condottiero, scampò a stento alla morte, riuscendo a guadare il Reno insieme a pochi fedeli. Da quel momento Ariovisto scomparve dalla storia mentre Cesare, respingendo i Suebi al di là del Reno, eleggeva il fiume in quella che sarebbe stata la barriera naturale della Repubblica di Roma per molti anni a venireCon la vittoria su Ariovisto, Cesare, aveva fermato le invasioni germaniche e posto il Reno come confine tra la Gallia e la Germania, stabilendo così una propria egemonia sul quel territorio.

Nel 57 a.C. - Dopo aver svernato nella Gallia Cisalpina, avvalendosi dell'aiuto degli alleati Edui e delle due nuove legioni che aveva fatto arruolare, Cesare decide di portare la guerra nel nord della Gallia. Qui i Belgi erano da tempo pronti all'attacco, consci del fatto che se Cesare si fosse completamente impossessato della Gallia avrebbero perso la loro autonomia. Il generale, radunate le forze, marciò allora verso il nord, dove i Belgi si erano radunati in un unico esercito di oltre 300.000 uomini. Raggiuntili, diede battaglia e li sconfisse una prima volta vicino a Bibrax presso il fiume Axona, provocando loro molte perdite. Cesare avanzò ancora, quando altri Belgi, in massima parte Nervi, decisero di unirsi nuovamente per combattere l'esercito romano. Essi attaccarono di sorpresa l'esercito romano, ma Cesare seppure con grandi difficoltà riuscì a respingerli e a contrattaccare, capovolgendo le sorti della battaglia: ottenne infatti la vittoria, riuscendo a uccidere moltissimi nemici. Portate a termine altre brevi operazioni, Cesare poté dirsi padrone dell'intera Gallia Belgica e all'arrivo dell'inverno tornò nuovamente nella Gallia Cisalpina.

Nel 56 a.C. - Ad insorgere a Giulio Cesare furono i popoli della costa atlantica, dopo che Cesare stesso aveva mandato il giovane Publio Licinio Crasso a esplorare le coste della Britannia, lasciando così intuire il suo progetto di espansione verso nord-ovest. Per contrastare gli insorti, Cesare fece allestire una flotta di navi da guerra sulla Loira e dopo aver inviato i propri uomini nei punti nevralgici della Gallia per evitare ulteriori ribellioni si diresse verso la Bretagna, per combattere i Veneti. Dopo aver espugnato alcune città nemiche, egli decise di attendere la flotta appena costruita, che giunse al comando di Decimo Giunio Bruto Albino. Con essa poté facilmente avere la meglio sui Veneti presso Quiberon e, dopo averli sconfitti, li fece uccidere o ridurre in schiavitù, per punire la condotta incresciosa che avevano tenuto nei riguardi degli ambasciatori romani.
Carta con i Veneti in Armorica.
La popolazione celtica dei Veneti abitava la zona del Morbihan, in Armorica, nell'attuale Bretagna (in quella che divenne Gallia Lugdunensis). La loro città più famosa (probabilmente la loro capitale) era Darioritum (oggi nota come Vannes), menzionata nella Geografia di Tolomeo. « I Veneti sono il popolo che, lungo tutta la costa marittima, gode di maggior prestigio in assoluto, sia perché possiedono molte navi, con le quali, di solito, fanno rotta verso la Britannia, sia in quanto nella scienza e pratica della navigazione superano tutti gli altri, sia ancora perché, in quel mare molto tempestoso e aperto, pochi sono i porti della costa e tutti sottoposti al loro controllo, per cui quasi tutti i naviganti abituali di quelle acque versano loro tributi.. » (De bello Gallico, III, 8)
Le Gallie nel 58 a.C., solo Cisalpina
e Narbonensis erano Romane.
I Veneti furono una grande ed influente potenza marittima e commerciale. Avevano una forte organizzazione ed erano probabilmente dotati di un Senato. Avevano un'importante flotta per commerciare con le Isole britanniche e l'Italia, da cui diffusero l'olio e il vino; vendevano inoltre  prodotti salati e salumeria che erano ben conosciuti ed apprezzati a Roma, nonché stagno, piombo e rame provenienti dalla grande isola britannica. Più a sud dell'Armorica c'erano i Namneti, stanziati nella foce della Loira e che diedero il loro nome alla città di Nantes. I Namneti erano chiamati Sanniti da Strabone e da Tolomeo, ma furono semplicemente una tribù dei Veneti, come si evince da ciò che scrisse Giulio Cesare nel "De bello Gallico", II, c-8. « I Pictoni erano ostili ai Veneti come si può dedurre dalla loro alleanza con il proconsole Giulio Cesare nella sua prima campagna e dalle navi costruite o fornite ai Romani da parte loro, dei Santoni e da altri popoli gallici per facilitare la rovina del Veneti. » (Cesare, de bello Gallico, VIII e III, 11). Nel 56 a.C. le navi di Cesare, fornite dagli altri popoli gallici, distrussero la flotta veneta nella battaglia del Morbihan. Il parlamento fu passato per le armi e le donne ed i bambini venduti come schiavi.

Divisione della Repubblica di Roma
nel primo Triumvirato.
- Nel 56 a.C. i tre triumviri si incontrano a Lucca, dove Cesare ebbe, in qualità di proconsole, il governo della Gallia cisalpina e di quella transalpina, oltre all'Illirico ed al comando di quattro legioni, per cinque anni. Pompeo e Crasso ebbero un secondo consolato nel 55 a.C., Crasso ricevette la provincia di Siria e la direzione della campagna contro i Parti, mentre Pompeo l'Africa, le due Spagne (Ulterior e Citerior) e quattro legioni, due delle quali cedette a Cesare per la guerra gallica. Ecco come descrive Plutarco l'accordo tra i tre a Lucca: «[Cesare] stipulò un accordo con Crasso e Pompeo sulle seguenti basi: essi si sarebbero candidati al consolato, Cesare li avrebbe appoggiati mandando a votare un gran numero di soldati. Una volta eletti, i due si sarebbero fatti attribuire province ed eserciti ed avrebbero ottenuto per Cesare la conferma di quelle province che già governava (Gallia cisalpina, Narbonense e Illirico) per altri cinque anni.» (Plutarco, Pompeo, 51).

Prima della conquista della Gallia da parte di Gaio Giulio Cesare, spinte alle spalle dalla pressione dei Suebi, le tribù germaniche degli Usipeti e dei Tencteri avevano vagato per tre anni e si erano spinte a nord del fiume Meno, fino a raggiungere le regioni abitate dalla tribù celtico-gallica dei Menapi, alla foce del Reno. I Menapi possedevano, su entrambe le sponde del fiume, campi, casolari e villaggi e quindi, spaventati dall'arrivo di quella moltitudine di genti (Cesare sostiene fossero ben 430.000 persone), abbandonarono gli insediamenti a est del Reno e posero alcuni presidi lungo il fiume, per impedire ai Germani di passare in Gallia. Non riuscendo ad attraversare il fiume, Tencteri ed Usipeti simularono la ritirata per poi tornare improvvisamente di notte facendo strage dei Menapi che erano tornati nei loro villaggi. Si impadronirono quindi delle loro navi e passarono il fiume Reno, occuparono i loro villaggi in Gallia e si nutrirono per tutto l'inverno con le loro provviste. 

Carta della Gallia Belgica con
le popolazioni che la abitavano.
Nel 55 a.C. - Venuto a conoscenza di questi fatti, Cesare decise di anticipare la sua partenza per la Gallia e raggiungere le sue legioni, che svernavano nei territori della Gallia Belgica. Era venuto inoltre a sapere che alcune tribù galliche avevano invitato le tribù germaniche ad abbandonare i territori appena conquistati del basso Reno, per inoltrarsi in Gallia. « Attratti da questa speranza, i Germani si spinsero più lontano con le loro scorrerie, fino ai territori degli Eburoni e dei Condrusi, che sono un popolo cliente dei Treviri [...] Cesare dopo aver blandito ed incoraggiato i capi della Gallia, ed avergli richiesto reparti di cavalleria alleata, stabilì di portare la guerra ai Germani [...] Cesare dopo aver provveduto a raccogliere frumento ed arruolati i cavalieri si diresse verso le regioni dove si diceva si trovassero i Germani. » (Cesare, De bello Gallico, IV, 6-7,1). 

I Germani Usipeti e Tencteri, che si trovavano in una località non molto distante dall'attuale città olandese di Nimega (in olandese Nijmegen), una volta venuti a conoscenza dell'avvicinamento dell'esercito romano decisero di inviare ambasciatori a Cesare, per chiedere al generale il permesso di stanziarsi in quei territori, offrendo in cambio la loro amicizia. Gli ricordarono il motivo per cui erano stati costretti a migrare ed il loro valore in battaglia, ma Cesare negò loro il permesso di occupare territori della Gallia sostenendo che non era giusto che i Germani si impadronissero delle terre di altri popoli, proprio loro che non erano stati capaci di difendere i propri territori dalle scorrerie dei Suebi. Cesare consigliò loro di riattraversare il Reno e di occupare i territori del popolo amico degli Ubi, che avevano chiesto a Cesare di intervenire oltre il grande fiume offrendogli la loro alleanza, per potersi liberare finalmente dal giogo dei vicini Suebi

Gli Ubi (in latino Ubii) erano un'antica popolazione germanica che aveva abitato, fino al 38 a.C., la sponda destra del fiume Reno nei territori di fronte all'attuale città di Koeln (Colonia), territori che confinavano a sud con quelli dei Suebi, di cui gli Ubi dovettero diventare tributari. Appartenenti, secondo Tacito, agli Istaevones (i Germani occidentali), confinavano, nella Gallia al di là del Reno, con i Treveri, anch'esso popolo originariamente germanico. Nel 55 a.C., Giulio Cesare, poco prima di oltrepassare il Reno e compiere la prima incursione romana in territorio germanico, descriveva così questo popolo: 

«...gli Ubi, nazione che in passato fu potente e florida... È un poco più civilizzata degli altri popoli proprio perché in prossimità del fiume Reno, e sono spesso visitati dai mercanti e questa vicinanza li fa assomigliare agli usi e costumi dei vicini Galli... ed i vicini Suebi, non avendo potuto cacciarli, malgrado ci avessero provato in passato con molte guerre, proprio per l'importanza e potenza di questa nazione, li sottomisero a sé come tributari, facendoli diventare meno importanti e più deboli...» (Cesare, De bello Gallico, IV, 3, 3-4).

Nel frattempo era stata quindi stabilita una tregua fra Usipeti e Tencteri con Cesare, al fine di giungere ad una soluzione, ma durante la tregua, quei Germani si scontrarono con uno squadrone di cavalleria gallo-romana, e lo costrinsero alla fuga. Così, quando gli ambasciatori di Usipeti e Tencteri si recarono da Cesare per giustificarsi, lui li accusò di non aver rispettato l'accordo, li fece imprigionare, dopodiché con una mossa fulminea, piombò sull'accampamento germanico difeso solo da carri e bagagli, massacrò uomini donne e bambini (quasi 200.000 persone) e costrinse i superstiti alla fuga verso nord, in direzione della confluenza del Reno con la Mosa, lungo uno dei tratti finali del Reno, quello più occidentale, chiamato Waal. L'azione, particolarmente cruenta, suscitò la sdegnata reazione di Catone, che propose al senato di consegnare Cesare ai Galli, in quanto colpevole di aver violato i diritti degli ambasciatori. Il Senato invece, proclamò una lunghissima supplicatio di ringraziamento di ben quindici giorni.

Ricostruzione del ponte sul Reno fatto costruire
da Gaio Giulio Cesare, tela di John Soane del 1814,
da https://it.wikipedia.org/wiki/Ponte_di_Cesare_sul_
Reno#/media/File:Il_ponte_di_Cesare_sul_Reno.jpg
Nel 55 a.C. quindi, per rispondere alla richiesta di soccorso dei nuovi alleati Ubi e punire i loro oppressori, Cesare si decide ad attraversare il Reno ed entrare in Germania tramite la costruzione di un ponte che accedesse ai territori degli alleati Ubi, in una località identificata con Neuwied, 15 km a nord di Coblenza, per attuare un'azione dimostrativa che intimorisse e scoraggiasse  definitivamente i propositi di tribù germaniche a stanziarsi in futuro nelle Gallie e/o di fornire truppe mercenarie ai Galli, intromettendosi fra le loro vicende e Roma. Il fiume Reno si presentava allora  particolarmente largo  e profondo, inoltre la rapidità delle sue acque richiedeva una struttura molto solida per un ponte. Per questo motivo furono utilizzati come sostegni dei cavalletti a due gambe, di cui ciascuna costituita da due pali molto robusti (con un diametro di 45 cm) ricavati da robusti tronchi, uniti tra loro da traverse lunghe circa 60 cm. Questa struttura diede a ciascuna gamba l'aspetto di una scala a pioli, ma essa si opponeva efficacemente alla corrente del fiume. I pali avevano lunghezza variabile a seconda della profondità del fiume e furono calati nel fiume con apposite attrezzature, quindi messi in posizione e infissi con dei battipali. La parte che veniva appuntita veniva conficcata nel fondo del fiume e non si innalzavano perpendicolarmente al letto, ma venivano inclinati in modo che i pali a monte avessero la corrente contro, mentre quelli a valle l'avessero a favore. Una grossa trave teneva unita la coppia di piloni, completando il cavalletto. Su questa struttura poggiavano travi spesse 60 cm e lunghe quanto la distanza che vi era tra un pilone e l'altro, cioè 5 m. 
La pavimentazione era costituita di un’intelaiatura di legno poggiata su tronchi trasversali e ricoperta di tavole. Alla solidità bisognava affiancare l'elasticità, per cui non vennero utilizzati chiodi, ma legature in corda. Vennero anche approntate altre opere di rinforzo secondarie: a valle furono fissati altri pali obliqui per aumentare la resistenza alla corrente del ponte, mentre poco più a monte vennero costruite delle palizzate per attutire eventuali colpi subiti da alberi o navi che le popolazioni germaniche potevano lasciare nel fiume in modo da danneggiare il ponte. Il ponte doveva avere una carreggiata di circa 4 m ed era lungo poco meno di 500 m., con 56 campate di 8 m. che costituivano il ponte sul Reno. L'opera, secondo Cesare, fu completata in soli dieci giorni. Approntato il lungo ponte di legno sul Reno, Cesare lo attraversò con le sue truppe (composte da 8 legioni di 5/6.000 armati ciascuna) e si accamparono presso i nuovi alleati Ubi, poi per 18 giorni operarono una serie di devastazioni nei vicini territori dei Sigambri (che in seguito costituirono la confederazione dei Franchi) e dei Suebi (che in seguito costituirono la confederazione degli Alemanni o Alamanni), per fargli intendere di lasciare in pace gli Ubi, nuovi alleati di Roma. Terrorizzati a sufficienza i Germani, Gaio Giulio Cesare decise di far ritorno in Gallia, distruggendo il ponte alle proprie spalle per non lasciare facile accesso alla Gallia e fissando il confine della Gallia assoggettata alla Repubblica romana, sul Reno. (Gaio Giulio Cesare, De bello Gallico, IV, 16, 2; 18, 2; 19, 4 e Cassio Dione, Storia romana, XXXIX, 48).

La nazione dei Sigambri dunque, abitava sulla riva destra del Reno, di fronte al popolo degli Eburoni, nella regione dei fiumi Sieg e Wupper, a nord degli Ubi (Gaio Giulio Cesare, De bello Gallico, IV, 16). Alcune fonti storiche citano i Sigambri (dal latino: Sigambri o Sicambri o Sugambri) come un'antica popolazione germanica stanziata lungo la riva destra del medio corso del fiume Reno (Strabone,  Geografia VII , 2.4), tra il fiume Lippe e il Sieg, a partire dalla metà del I secolo a.C. I Sigambri  confinavano con i Marsi a est, la Gallia dei Celti a ovest, gli Usipeti a nord e i Tencteri a sud. Fredegario, uno storico franco del VII sec., narra nella sua "Cronaca" che i Franchi Sicambri venivano dai tempi remoti degli antichi Patriarchi ebrei alla sua epoca, citando numerose fonti d'informazione e di rimando, fra cui gli scritti di San Girolamo, l'arcivescovo Isidoro di Siviglia ed il vescovo Gregorio di Tours, anch'egli autore di una Storia dei Franchi. Per raggiungere tale precisione, Fredegario, che godeva di molta considerazione alla corte borgognona, approfittò della sua possibilità di accedere a svariati archivi ecclesiastici ed annali statali. Egli, dunque, racconta come i Franchi Sicambri, da cui prese nome la Francia, erano stati a loro volta chiamati così per via del loro capo Francio o Francione, morto nel II secolo a.C. La tribù, che era passata nella Scozia, affondava le sue radici nell'antica città di Troia. Tracce di questa discendenza si potrebbero trovare in alcuni nomi come quello della città di Troyes e, perfino di Parigi che porterebbe il nome del principe Paride, figlio del re Priamo di Troia. Quella dei Merovingi, quindi, sarebbe stata una dinastia discendente in linea maschile dai "Re pescatori" che corrispondevano anche ad una linea di successione femminile sicambrica. I Sicambri, prendevano il loro nome da Cambra, una regina tribale vissuta intorno al 380 a.C., originaria della Scozia ed erano chiamati anche i "nuovi parenti". La città di Cambrai, potrebbe avere ereditato il nome dalla regina Cambra.

Britannia nel I sec.a.C.
Scudo Celtico in bronzo
del I sec. a.C. ritrovato nel
Tamigi a Battersea, in
Inghilterra. Clicca
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Nell'estate del 55 a.C., Cesare decide di invadere la ricca e misteriosa Britannia. Dopo alcune operazioni preventive, salpò con ottanta navi e due legioni per sbarcare nei pressi di Dover, poco lontano da dove lo attendeva l'esercito nemico. Dopo un duro combattimento, i Britanni furono sconfitti e decisero di sottomettersi a Cesare, ma tornarono quasi subito alla ribellione, non appena appresero che parte della flotta romana era stata danneggiata dalle tempeste, che impedivano l'arrivo di rinforzi. Attaccati di nuovo i Romani, i Britanni risultarono, però, nuovamente sconfitti, e furono costretti a chiedere la pace e a consegnare numerosi ostaggi. Cesare tornò allora in Gallia, dove dislocò le legioni negli accampamenti invernali; intanto, però, molti dei Britanni si rifiutarono di inviare gli ostaggi promessi, e Cesare cominciò a programmare una nuova campagna.

- Nel 55 a.C., all'età di sedici anni, Ottaviano indossa la toga virile e ottiene alcune ricompense militari in Africa, in occasione del trionfo del prozio Gaio Giulio Cesare, senza nemmeno aver partecipato alla guerra per la giovane età.

Nel 54 a.C. - Dopo essersi assicurato la fedeltà della Gallia, Giulio Cesare salpa nuovamente verso la Britannia con ottocento navi e cinque legioni. Sbarca senza incontrare nessuna resistenza, ma, non appena si accampa, viene attaccato dai Britanni guidati da Cassivellauno. Cesare decide allora di portare la guerra nelle terre dello stesso Cassivellauno, oltre il Tamigi e attacca fulmineamente i nemici: dopo aver riportato delle facili vittorie, molte tribù gli si sottomisero e Cassivellauno, sconfitto, fu costretto ad avviare le trattative di pace, che stabilirono come avrebbe offerto ogni anno un tributo e degli ostaggi a Roma. Cesare si ritirò allora dalla Britannia stabilendo numerosi rapporti di clientela che posero la base per la conquista dell'isola nel 43 d.C.. Il proconsole dislocò le sue legioni negli hiberna (antico nome latino attribuito dai Romani all'Irlanda. Il nome Hibernia viene da fonti geografiche greche), quando già in più zone della Gallia si respirava aria di rivolta. Infatti il capo degli Eburoni Ambiorige, in particolare, decise di prendere d'assedio un accampamento e, convinti con l'inganno i soldati a uscire allo scoperto, li aggredì, massacrando quindici coorti. Spinto dal successo, attaccò un altro accampamento, retto da Quinto Cicerone; questi si comportò in modo prudente, e attese l'arrivo di Cesare, che mise in fuga l'esercito nemico di 60 000 uomini. Contemporaneamente, anche il luogotenente di Cesare, Tito Labieno, fu attaccato dai Treviri, guidati da Induziomaro ma, sebbene in svantaggio numerico, li sconfisse, uccidendo anche lo stesso capo Induziomaro.

Nel 53 a.C. - All'inizio dell'anno Cesare porta il numero delle sue legioni a dieci, arruolandone una ex novo e ricevendone un'altra da Pompeo. Fermata una rivolta nella Belgica, marciò contro Treviri, Menapi ed Eburoni, affidando parte delle truppe al luogotenente Tito Labieno. Lo stesso Cesare sottopose a crudeli razzie le terre dei Menapi, che furono costretti a sottometterglisi, mentre Labieno, mediante vari stratagemmi, poté avere facilmente la meglio sui Treviri e sugli Eburoni. Lo stesso Cesare racconta che il suo legato, Quinto Tullio Cicerone, a capo di 7 coorti legionarie della legio XIV, viene sconfitto presso Atuatuca da 2.000 guerrieri Sigambri. Cesare, venuto a conoscenza dell'accaduto, raggiunse il Reno, lo passò per la seconda volta, costruendovi un nuovo ponte e messo piede sul territorio germanico, qui lasciò 12 coorti di fanteria legionaria a guardia della riva destra del grande fiume, per ricordare ai Germani delle precedenti devastazioni e dissuaderli dal compiere nuove scorrerie nelle Gallie (Gaio Giulio Cesare, De bello Gallico, VI 35, 5 e Cassio Dione, Storia romana XL, 32). Decise così di tornare indietro lasciando in piedi il ponte (a eccezione della parte terminale) come monito della potenza romana e condusse l'intero esercito contro gli Eburoni e il loro capo Ambiorige; i popoli limitrofi, impauriti dall'entità delle forze dei Romani, accettarono di sottomettersi a Cesare e Ambiorige si ritrovò così isolato. Molti Galli anzi, si unirono ai Romani e cominciarono a combattere gli Eburoni e questi, non senza reagire, furono gradualmente sconfitti e massacrati, così che alla fine dell'estate Cesare poté ritenere vendicate le sue quindici coortiUltimo atto della guerra di Gallia fu la rivolta guidata dal capo degli Arverni Vercingetorige, attorno al quale si strinsero tutti i popoli celti, inclusi gli "storici" alleati dei Romani, gli Edui. La rivolta ebbe inizio dalle azioni dei Carnuti, ma ben presto a prenderne il comando fu Vercingetorige che, eletto re degli Arverni, si guadagnò l'alleanza di tutti i popoli limitrofi.

In rosso, gli stanziamenti delle prime
tribù dei Germani, poi le espansioni
dal 50 a.C. al 300 d.C..
- I territori delle future province di Germania inferiore Germania superiore entreranno nella sfera d'influenza romana con la conquista della Gallia da parte di Gaio Giulio Cesare.

- Dopo la morte di Crasso avvenuta in quell'anno a Carre, in Siria, mentre combatteva i Parti, Cesare si scontra con Gneo Pompeo e la fazione degli optimates per il controllo dello stato.

Nel 52 a.C. - Cesare, allertato, si affretta a tornare in Gallia, lasciando la Pianura Padana (Gallia Cisalpina) dove si trovava a svernare. Vercingetorige decise di marciargli contro ma il proconsole cinse d'assedio la città di Avarico e riuscì ad espugnarla dopo quasi un mese con l'ausilio di imponenti opere di ingegneria militare, mentre il re degli Arverni, benché potesse contare su di un esercito ben più numeroso di quello di Cesare, si sottrasse allo scontro e assistette impotente al massacro di tutta la popolazione della città (oltre 40 000 persone), mentre riuscì ad ottenere l'appoggio di altre popolazioni galliche. Affidato ai luogotenenti l'incarico di occuparsi del resto della Gallia, Cesare puntò su Gergovia, capitale degli Arverni, dove Vercingetorige si era asserragliato. Sconfitto, anche se di misura, in uno scontro, Cesare fu costretto a togliere l'assedio, preoccupato dalle voci che gli annunciavano una defezione degli Edui, suoi storici alleati. Vercingetorige, confermato al comando della guerra dall'assemblea pangallica, evitava uno scontro in campo aperto rinchiudendosi nella città di Alesia.
Statua di Vercingetorige, da QUI.
Cesare lo raggiunse e fece costruire una doppia linea di fortificazione che si estendeva per oltre 17 chilometri: egli, infatti, si aspettava l'arrivo di un esercito di rinforzo, e temeva che i suoi 50 000 legionari potessero rimanere schiacciati tra le forze nemiche. Difatti, dopo oltre un mese, a sostegno dei 60 000 assediati giunsero altri 240 000 armati, che attaccarono le dieci legioni di Cesare: egli, guidando l'esercito in prima persona assieme a Labieno, ottenne una decisiva vittoria e costrinse Vercingetorige a consegnarsi. Finiva così la ribellione gallica, e Roma poteva dirsi ormai padrona di una nuova immensa estensione territoriale. Tra il 51 e il 50 a.C., Cesare non ebbe infatti che da sedare alcune rivolte locali, e poté riconciliarsi con le tribù che aveva combattuto.

Le Gallie dopo la conquista
di Gaio Giulio Cesare.
- Il senato, intimorito dai successi di Cesare, aveva dunque deciso di favorire Pompeo, campione degli optimates, nominandolo consul sine collega nel 52 a.C., perché frenasse le ambizioni del suo vecchio alleato. Anche negli anni seguenti il senato farà in modo che i consoli eletti siano sempre appartenenti alla factio degli optimates e che osteggiassero dunque le mosse del proconsole populares di Gallia. Gaio Giulio Cesare, di contro, aveva in mente di ottenere il consolato per il 49 a.C. in modo da poter tornare a Roma senza divenire oggetto di eventuali procedure penali e, una volta rientrato nell'Urbe, impadronirsi del potere. Terminato il tribunato di Publio Clodio Pulcro, l'aristocrazia senatoria si adoperò per cancellarne gran parte delle realizzazioni, mentre attorno a Clodio si radunavano gruppi di sostenitori, reclutati tra la plebe urbana, che diedero origine a numerosi disordini, contribuendo a creare nell'Urbe un diffuso clima di tensione e violenza. Clodio, che era divenuto punto di riferimento del popolo romano, fu prima edile, e si candidò poi alla pretura per il 52 a.C., deciso ad attuare un programma rivoluzionario. Pochi giorni prima dei comizi elettorali, tuttavia, Clodio perse la vita in uno scontro tra i propri uomini e i seguaci di Tito Annio Milone, candidato al consolato per il medesimo anno e suo nemico politico. La sua figura, tra le più importanti nello scenario della crisi della repubblica romana, fu a lungo considerata come simbolo di corruzione e violenza, come appare in numerose opere di Cicerone. È stato tuttavia rivalutato dalla storiografia recente, che ha veduto in lui ora un agente dei triumviri, ora un uomo dalle geniali intuizioni politiche.
Marco Emilio Lerpido (figlio) il
triumviro, da: https://comunitaoli
vettiroma.files.wordpress.com
/2015/11/lepido.jpg
Subito dopo la morte di Publio Clodio Pulcro, Marco Emilio Lepido (figlio) è nominato interrex dal Senato (l'interrex, pl. interreges, era un magistrato nominato dal Senato romano esclusivamente per convocare i comitia centuriata, le assemblee popolari della Res Publica Romana deputate ad eleggere i nuovi consoli o i nuovi tribuni consolari, quando i loro predecessori non avevano potuto provvedere) perché  convocasse i  comitia centuriata che eleggessero i nuovi consoli. Marco Emilio Lepido (figlio), Roma, 90 a.C. circa - San Felice Circeo, 13 a.C., era figlio dell'omonimo Marco Emilio Lepido e fratello del console Lucio Emilio Paolo, membro del secondo triumvirato assieme a Ottaviano e Marco Antonio, oltre che pontefice massimo. Roma si trovava allora in uno stato di anarchia e Lepido rifiutò la convocazione dei comizi per l'elezione dei consoli; per tale motivo la sua casa venne assediata dai partigiani di Clodio e lui a stento riuscì a salvarsi. Era sposato con Giunia, sorella del cesaricida Marco Giunio Bruto ed ebbe da lei due figli maschi, Marco e Quinto.

Nel 51 a.C. - A dodici anni circa, Ottaviano pronuncia l'orazione funebre (laudatio funebris) per sua nonna Giulia (sorella di Giulio Cesare). Quando Cicerone vide Ottaviano, che il prozio Cesare aveva fatto venire a un sacrificio, disse che quel ragazzo gli era apparso in sogno.

Domini di Roma dopo la conquista
della Gallia, nel 50 a.C., da QUI.
Nel 50 a.C. - Gaio Giulio Cesare dichiara la Gallia, ormai totalmente in suo possesso, provincia romana, per cui per il 49 a.C. le sue legioni avrebbero potuto finalmente tornare in Italia. Cesare chiede al Senato la possibilità di candidarsi al consolato in absentia, ma se la vede negare, come era già successo nel 61 a.C.. Comprende quindi le intenzioni del senato e "neutralizza" il console pompeiano Lucio Emilio Paolo facendo avanzare dai suoi tribuni della plebe Marco Antonio e Gaio Scribonio Curione (che aveva attirato a sé saldandone i debiti) una proposta che prevedeva che sia lui quanto Pompeo avrebbero sciolto le loro legioni entro la fine dell'anno. Invece il Senato ingiunse ad entrambi i generali di inviare una legione a testa per la progettata spedizione contro i Parti ed elesse consoli per il 49 a.C. Lucio Cornelio Lentulo Crure e Gaio Claudio Marcello, feroci avversari di Cesare. Giulio Cesare fu dunque costretto a lasciare andare una delle sue legioni, che si radunò con quella offerta da Pompeo nel sud dell'Italia e ordinò ad Antonio e Curione di avanzare una nuova proposta in senato, chiedendo di poter restare proconsole delle Gallie conservando solo due legioni e candidandosi in absentia al consolato. Sebbene Cicerone fosse favorevole alla ricerca di un compromesso, il senato, spinto da Catone, rifiutò la proposta di Cesare, ordinando anzi che sciogliesse le sue legioni entro la fine del 50 a.C. e tornasse a Roma da privato cittadino, per evitare di divenire hostis publicus (nemico pubblico).

Alla fine della conquista della Gallia, nel 50 a.C., scriveva Plinio “Senza contare i moltissimi morti causati dalla guerra civile, provocata da Cesare col passaggio del Rubicone, quattro anni di efferata guerra fratricida dovuta all’ambizione di un uomo provocarono 1.200.000 morti, massacrati da Cesare al solo fine di conquistare la Gallia. Io non posso porre tra i suoi titoli di gloria un così grave oltraggio da lui arrecato al genere umano”. E accusa Cesare di avere per giunta occultato le cifre del grande massacro: “non rivelando l’entità del massacro causato dalle guerre civili, Cesare ha riconosciuto l’enormità del suo crimine” (VIII, 92). Secondo Cesare, alla fine del conflitto gallico furono un milione i nemici morti in combattimento e un milione i prigionieri di guerra deportati in Italia; secondo Velleio Patercolo, 400.000 morti e un numero maggiore di prigionieri. Plutarco riconosce la cifra «tonda» di un milione di vittime e un milione di prigionieri (Pompeo 67, 10; Cesare 15, 5), poi venduti come schiavi, e considerando che il prezzo di ognuno di loro si aggirava sui 1.200 - 2.500 sesterzi, indubbiamente Cesare si arricchì. Alla storia, rimane una guerra terribile, combattuta per quasi un decennio e nella quale, né da una parte né dall'altra, si risparmiarono le crudeltà.

- Nel 50 a.C. i Romani perfezionano i mulini ad acqua e le tecniche degli acquedotti.

Nel 49 a.C. - Cesare ordina ai tribuni della plebe Marco Antonio e Gaio Scribonio Curione (che aveva attirato a sé saldandone i debiti) di osteggiare, tramite il diritto di veto, il Senato, ma questi, al principio del 49 a.C., sono costretti a fuggire da Roma. Cesare allora decide di varcare con le sue legioni il confine politico della penisola italiana, il fiume Rubicone. Il 9 gennaio ordina a cinque coorti di marciare fino alla riva del fiume e il giorno successivo lo attraversa, pronunciando la storica frase "alea iacta est" (il dado è tratto o si getti il dado), scatenando la guerra civile. Il senato, di contro, si stringe attorno a Gneo Pompeo Magno e, nel tentativo di difendere le istituzioni repubblicane care agli optimates, decide di dichiarare guerra a Cesare. Dopo alterne vicende, i due contendenti si affrontarono a Farsalo, dove Cesare sconfisse irreparabilmente il rivale.

- Scriveva Plutarco: "La morte di Crasso spinse Cesare a chiudere la partita con Pompeo; nella pratica delle guerre galliche aveva allenato l’esercito e accresciuto la sua fama: il malgoverno in Roma e la nomina di Pompeo a console unico accelerarono i tempi". (Plutarco, Vite Parallele, Vita di Cesare, 28, 1-8). "Ribellandosi agli ordini del senato, Cesare fece occupare Rimini, grande città della Gallia, affidando l’esercito ad Ortensio. Successivamente, egli scese verso Rimini e giunto al Rubicone, il fiume che segnava il confine tra la Gallia Cisalpina e il resto dell’Italia, si fermò e in silenzio e a lungo tra sé e sé meditò il pro e il contro. Alla fine, con impulso, dopo aver detto "si getti il dado" si accinse ad attraversare il fiume e prima di giorno si buttò su Rimini e la conquistò. Dicono che la notte precedente il passaggio del Rubicone egli fece un sogno mostruoso: gli parve di congiungersi con sua madre." (Plutarco, Vite Parallele, Vita di Cesare, 32, 3-8).

- Con quest'atto Cesare dichiarava ufficialmente guerra al Senato e alla res publica, divenendo nemico dello stato romano. Si diresse verso sud spostandosi lungo la costa adriatica, nella speranza di poter raggiungere Pompeo prima che lasciasse l'Italia, per tentare di riconciliarsi con lui; Pompeo, al contrario, allarmato anche dalla caduta di numerose città, tra cui Corfinio, che si erano opposte a Cesare, si rifugiò in Puglia, con l'obbiettivo di raggiungere assieme alla sua flotta la penisola balcanica. L'inseguimento da parte dello stesso Cesare fu inutile, in quanto Pompeo riuscì a scappare assieme ai consoli in carica e a gran parte dei senatori a lui fedeli, e a mettersi in salvo a Durazzo. Cesare allora, rientrato il 1º aprile a Roma dopo anni di assenza, si impossessò delle ricchezze contenute nell'erario e, a una sola settimana dal ritorno, decise di marciare contro la Spagna (che gli accordi di Lucca avevano assegnato a Pompeo). Giunto in Provenza, lasciò tre legioni al comando di Decimo Bruto e Gaio Trebonio con l'incarico di assediare Marsiglia, che cadde in mano ai cesariani solo dopo mesi di assedio. Lui invece proseguì verso la penisola iberica, dove combatté contro i tre legati di Pompeo che amministravano la regione e dopo qualche mese di scontri riuscì ad avere la meglio e poté tornare in Italia.

- Gaio Giulio Cesare è stato dittatore (dictator) della Repubblica di Roma alla fine del 49 a.C., nel 47 a.C., nel 46 a.C. con carica decennale e dal 44 a.C. come dittatore perpetuo e per questo ritenuto da Svetonio il primo dei dodici Cesari, in seguito sinonimo di imperatore romano. Il dittatore non aveva alcun collega e non veniva eletto dalle assemblee popolari, come tutti gli altri magistrati, ma veniva dictus, cioè nominato, da uno dei consoli, di concerto con l'altro console e con il senato, seguendo un rituale che prevedeva la nomina di notte, in silenzio, rivolto verso oriente e in territorio romano. Cicerone e Varrone ricollegano l'etimologia del termine a questa particolare procedura di nomina. È probabile che il dittatore fosse l'antico comandante della fanteria, il magister populi, e questo spiegherebbe l'antico divieto, per lui, di montare a cavallo mentre nominava come proprio subalterno il magister equitum (il comandante della cavalleria). Alla dittatura si faceva ricorso solamente in casi straordinari (quali particolari pericoli da nemici esterni, rivolte o un impedimento grave ad operare del console che lo nominava), e il dittatore durava in carica fino a quando non avesse svolto i compiti per i quali era stato nominato e comunque non più di sei mesi; inoltre il dittatore usciva dalla propria carica una volta scaduto l'anno di carica del console che lo aveva nominato. Il dittatore era dotato di summum imperium, e cumulava in sé il potere dei due consoli; per questa ragione era accompagnato da ventiquattro littori. Inoltre non era soggetto al limite della provocatio ad populum (un istituto del diritto pubblico romano, introdotto dalla Lex Valeria de provocatione del 509 a.C. rogata dal console Publio Valerio Publicola, che prevedeva la possibilità di commutare la pena capitale di un condannato a morte in altra pena se così stabilito da un giudizio popolare) e per questo i suoi littori giravano anche all'interno del pomerium (il confine sacro e inviolabile della città di Roma) con le scuri inserite nei fasci, mentre era proibito a chiunque portare armi. Mentre tutti i magistrati erano subordinati al dittatore, iniziava a un processo di radicale riforma della società e del governo mentre la burocrazia repubblicana si centralizzava.

- Non è dato sapere il momento in cui venne dedotta la provincia romana  della Gallia  Cisalpina. La storiografia moderna oscilla fra la fine del II secolo a.C. e l'età sillana. Vero è che all'89 a.C. risale la legge di Pompeo Strabone ("Lex Pompeia de Gallia Citeriore") che conferisce alla città di Mediolanum, e ad altre, la dignità di colonia latina. Nel dicembre del 49 a.C. Cesare con la Lex Roscia concederà la cittadinanza romana agli abitanti della provincia, mentre nel 42 a.C. verrà abolita la provincia, facendo della Gallia Cisalpina  parte integrante dell'Italia romana.

Per eventuali approfondimenti vedi "Storia dell'Europa n.26: dal 73 al 49 p.e.v. (a.C)" QUI.

Nel 48 a.C. - Ottenuta l'elezione al consolato per il 48 a.C., Cesare decise di attaccare Pompeo nella penisola balcanica, salpando da Brindisi nel gennaio del 48 a.C. assieme al suo luogotenente Marco Antonio. Il primo scontro con i pompeiani si ebbe a Durazzo, dove Cesare subì una pericolosa sconfitta di cui Pompeo non seppe approfittare. Si arrivò allo scontro in campo aperto, però, solo il 9 agosto, presso Farsalo: qui le forze di Pompeo, ben più numerose, furono sconfitte e i pompeiani furono costretti a consegnarsi a Cesare, sperando nella sua clemenza, o a fuggire. Scriveva Plutarco: “(A Farsalo) i cavalieri di Pompeo si muovevano con impeto per accerchiare l’ala destra dei Cesariani; ma prima che si lanciassero all’assalto, ecco che corrono fuori le coorti di Cesare, non servendosi però, come erano solite, dei giavellotti da lanciare da lontano, né cercando di colpire da vicino la coscia o il polpaccio dei nemici, ma mirando agli occhi e cercando di colpire il volto, per ordine di Cesare che riteneva che uomini senza tanta esperienza di guerra o di ferite, giovani, fieri della loro bellezza e giovinezza, avrebbero avuto paura soprattutto di questi colpi (…) atterriti dalla prospettiva di uno sfregio permanente. Accadde proprio così: (…) si voltavano e si coprivano la testa per proteggere il volto; alla fine in gran confusione si volsero in fuga producendo vergognosamente una rovina generale. (Plutarco, Vite Parallele, Vita di Cesare, 45, 1-6)
Pompeo cercò rifugio in Egitto, presso il faraone Tolomeo XIII, suo vassallo, ma il 28 settembre, per ordine dello stesso faraone, fu ucciso e Cesare si vide presentare pochi giorni dopo la sua testa imbalsamata.
Cleopatra, museo Altes
di Berlino, da QUI.
In Egitto era in corso una contesa dinastica tra lo stesso Tolomeo XIII e la sorella Cleopatra VII. Cesare, nell'intento di punire il faraone per l'uccisione di Pompeo, decise di riconoscere come sovrana del paese Cleopatra, con la quale intrattenne una relazione amorosa e generò un figlio, Tolomeo XV, meglio noto ad Alessandria come Kaisariòn, diminutivo di Kaisar, Cesare. La scelta di Cesare non fu ben accolta dalla popolazione di Alessandria d'Egitto, che lo costrinse a rinchiudersi con Cleopatra nel palazzo reale; qui il generale romano, disponendo di pochissimi soldati, fu costretto a costruire opere di fortificazione, e a rimanere bloccato nel palazzo fino all'arrivo dei rinforzi. Tentò più volte di rompere l'assedio usando le poche navi che aveva a disposizione, ma fu sempre respinto e durante uno di questi combattimenti, addirittura, saltato giù dalla sua nave distrutta, fu costretto a mettersi in salvo a nuoto, tenendo un braccio, in cui reggeva i suoi Commentari, fuori dall'acqua. Per evitare che Achilla (generale alessandrino) si potesse impossessare delle poche navi rimaste le fece incendiare, nell'incendio venne probabilmente danneggiata la famosa biblioteca di Alessandria, che conteneva testi unici e di inestimabile valore. Dopo mesi di assedio, Cesare fu liberato e poté riprendere attivamente la guerra contro i pompeiani, che si erano ormai riorganizzati. Infatti il re del Ponto Farnace II, a suo tempo alleato di Pompeo, aveva attaccato i possedimenti romani repubblicani per conto degli optimates, mentre molti esponenti della nobilitas senatoriale rifugiavano, sotto il comando di Marco Porcio Catone Minore l'Uticense (Utica è un'antica città costiera oggi situata a 8 km dalla costa della attuale Tunisia, a pochi chilometri a Nord di Cartagine e a 27 km a Nord di Tunisi, fondata nel 1101 a.C. Secondo Plinio il Vecchio "Utica" in Fenicio significava "città vecchia", in contrasto con la successiva colonia "Cartagine", che significava "città nuova"), in Africa.

Nel 47 a.C. - Gaio Giulio Cesare annuncia la rapida vittoria riportata il 2 agosto contro l'esercito alleato degli optimates pompeiani e senatoriali di Farnace II a Zela, nel Ponto, con tre parole: Veni, vidi, vici (lett. venni, vidi, vinsi). «Subito marciò contro di lui con tre legioni e dopo una gran battaglia presso Zela lo fece fuggire (Farnace II) dal Ponto e distrusse totalmente il suo esercito. Nell'annunziare a Roma la straordinaria rapidità di questa spedizione, scrisse al suo amico Mazio tre sole parole: "Veni, vidi, vici".» (Plutarco, Vite Parallele: Alessandro e Cesare, BUR. Milano, 2004. Trad.: D. Magnino).

- Nel 47 a.C. a seguito di una relazione nata tra la regina egizia Cleopatra e il generale romano Gaio Giulio Cesare nel corso della guerra civile alessandrina, nasce Cesarione il cui nome completo è Tolomeo Filopàtore Filomètore Cesare (47 a.C. - agosto 30 a.C.), chiamato nella storiografia moderna Tolomeo XV ma meglio noto come Cesarione dal greco antico «piccolo Cesare» o Tolomeo Cesare, faraone egizio e ultimo sovrano, congiuntamente alla madre, del Regno tolemaico d'Egitto, l'ultimo regno dell'età ellenistica. La prima notizia di un incendio alla Biblioteca di Alessandria, che distrusse almeno parte del suo patrimonio librario, concerne proprio la spedizione di Giulio Cesare in Egitto. In seguito ai disordini scoppiati ad Alessandria, un incendio si sviluppò nel porto della città, danneggiando la biblioteca. Plutarco, nelle Vite parallele - Cesare, è l'unico che parla della distruzione della biblioteca riferita esplicitamente a Giulio Cesare (Vita di Cesare, 49.6). Alla nascita di Cesarione, Cleopatra regnava insieme a suo fratello minore Tolomeo XIV, di circa dodici anni. All'inizio del 46 a.C. la coppia reale si recò a Roma insieme a Cesarione, ospite in una villa di Cesare sul Gianicolo e i sovrani egizi erano ancora in città quando, il 15 marzo del 44 a.C., ebbe luogo l'assassinio di Cesare da parte di cospiratori repubblicani. La corte egizia tornò quindi ad Alessandria e poco dopo Tolomeo XIV morì, secondo alcune fonti fatto assassinare dalla stessa Cleopatra. Il 2 settembre del 44 a.C., a soli tre anni, Cesarione è nominato co-reggente dalla madre. La posizione di Tolomeo XV come sovrano d'Egitto sarà però riconosciuta dalla Repubblica romana solo nel 43 a.C. attraverso Publio Cornelio Dolabella, che combatteva i Cesaricidi in Medio Oriente.  


Nel 46 a.C. - Cesare parte per l'Africa, dove gli optimates, campioni dei patrizi "pater della patria" del senato, si erano riorganizzati sotto il comando di Catone l'Uticense e li sconfigge a Tapso. I superstiti trovarono rifugio in Spagna e Giulio Cesare, non soddisfatto di aver stupito solo il Senato, per sottolineare la vittoria davanti all'intero popolo romano, nel trionfo Pontico contro Farnace II, il terzo dei cinque che celebrò, «...tra le barelle del corteo fece portare avanti un'iscrizione di tre parole, "Veni, vidi, vici" che evidenziava non le azioni di guerra, come negli altri casi, ma la caratteristica della rapida conclusione.» (Svetonio, Vite dei Cesari, I, 37, Newton, Roma, trad.: F. Casorati).

Statua di Giulio Cesare,
che ricostruì il foro
romano nel 46 a.C., da:
QUI.
- Nello stesso 46 a.C., nell'ambito di riforme riguardanti vari settori della Repubblica (politico, edile, urbanistico, militare ecc...) Gaio Giulio Cesare promulga, nella sua qualità di pontefice massimo il calendario giuliano (da cui prende il nome), un calendario solare, cioè basato sul ciclo delle stagioni, elaborato dall'astronomo egizio Sosigene di Alessandria, con mesi di 30 e 31 giorni e l’anno bisestile, ritoccato poi da Papa Gregorio XIII nel 1582, che sarà da allora il calendario ufficiale di Roma e dei suoi domini. Il settimo mese, luglio si ricollega al latino Julius, nome proprio di Giulio Cesare che nacque il 13 di quel mese, che nel calendario romano era chiamato quintilis. Naturalmente il conto degli anni partiva dal supposto anno della fondazione di Roma, che per noi è il 753 p.e.v. (a.C.). Successivamente il suo uso si estese a tutti i Paesi d'Europa e d'America, man mano che venivano cristianizzati o conquistati dagli europei. Rispetto all'anno astronomico, ha accumulato un piccolo ritardo ogni anno fino ad arrivare a circa 10 giorni nel XVI secolo. Per questo nel 1582 è stato sostituito dal calendario gregoriano per decreto di papa Gregorio XIII; diverse nazioni tuttavia hanno continuato a utilizzare il calendario giuliano ben oltre tale data, adeguandosi poi in tempi diversi tra il XVIII e il XX secolo. Alcune Chiese appartenenti alla Chiesa ortodossa tuttora usano il calendario giuliano come proprio calendario liturgico: da ciò deriva il diverso computo della Pasqua cattolica e ortodossa.

Nel 45 a.C. - I superstiti optimates-pompeiani che avevano trovato rifugio in Spagna, sono raggiunti da Cesare che li sconfigge, questa volta definitivamente, a Munda, diventando capo indiscusso di Roma. Giulio Cesare è considerato, tanto dagli autori moderni quanto dai suoi contemporanei, il più grande genio militare della storia romana. Seppe stabilire con i suoi soldati un rapporto tale di stima e devozione appassionata, da poter mantenere la disciplina evitando sempre il ricorso alla violenza contro i suoi stessi uomini. Nel corso della campagna di Gallia, Cesare non vietò mai ai suoi soldati di far bottino, ma il legionario doveva aver sempre ben chiaro l'obiettivo finale, e le sue azioni non dovevano in nessun modo condizionare i piani operativi della campagna del suo comandante. Conscio della situazione disagiata dei soldati, che venivano di solito ricompensati al congedo con una concessione di ager publicus ma che fino a quel momento erano costretti a vivere con poco, di sua iniziativa, tra il 51 e il 50 a.C. decise di raddoppiarne la paga, che passò da 5 a 10 assi al giorno (pari a 225 denarii annui). La riforma fu così ben accolta che la paga del legionario rimase invariata fino a quando l'imperatore Domiziano (81-96) prese nuovi provvedimenti. Egli fu, inoltre, il primo a comprendere che una dislocazione di parte delle forze militari repubblicane (legioni e truppe ausiliarie) doveva costituire la base per un nuovo sistema strategico di difesa globale lungo tutti i confini, e in particolare in quelle aree "a rischio". Durante la campagna di Gallia, infatti, negli inverni posizionava le sue legioni in aree strategiche, in modo che la situazione rimanesse tranquilla nei momenti in cui non ci fosse la possibilità di intervenire prontamente in caso di necessità. Creò un cursus honorum per il centurionato, che si basava sui meriti del singolo individuo, tanto che a seguito di gesti particolari di eroismo, alcuni soldati potevano essere promossi ai primi ordines, dove al vertice si trovava il primus pilus o primipilare di legione. Inoltre, poteva anche avvenire che un primus pilus venisse promosso a tribunus militum. Si andava indebolendo, pertanto, la discriminazione tra ufficiali e sottufficiali, e si rafforzava lo spirito di gruppo e la professionalità delle unità. Egli, contrariamente a quanto avevano fatto molti dei suoi predecessori, che fornivano alle truppe donativi occasionali, reputò fosse necessario dare continuità al servizio che i soldati prestavano, e istituì il diritto a un premio per il congedo: era da tempo in uso la consuetudine di donare appezzamenti di terreno ai veterani, ma si trattava di qualcosa che, almeno fino ad allora, era sempre avvenuto a discrezione dei generali e del senato.

Marco Antonio da QUI.
- La definitiva sconfitta della fazione pompeiana procurò a Cesare le antipatie di buona parte dei sostenitori della Repubblica, che temevano l'instaurazione di un regime a carattere monarchico, che sarebbe risultato inviso a tutti i Romani. Notevoli malcontenti, tuttavia, si generarono anche all'interno dello stesso partito cesariano: alcuni dei più fidati collaboratori di Cesare, tra cui Marco Antonio e Gaio Trebonio, erano stati esclusi dalla campagna spagnola o posti in secondo piano durante le azioni belliche e covavano un certo risentimento nei confronti del loro stesso leader, cui erano stati fino ad allora profondamente devoti. Scriveva Plutarco: «Ritenendo che la monarchia fosse un sollievo ai mali delle guerre civili, i Romani elessero Cesare dittatore a vita; ciò equivaleva, per comune consenso, ad una tirannide.» ... «Dopo che ebbe posto termine alle guerre civili, si mostrò irreprensibile e i fatti dimostrano che i Romani giustamente hanno eretto il tempio della Clemenza in rendimento di grazie per la sua mitezza. Infatti lasciò liberi molti di quelli che avevano combattuto contro di lui. (…) E non tollerò che restassero abbattute le statue di Pompeo, ma le fece raddrizzare e perciò anche Cicerone disse che, erigendo le statue di Pompeo, Cesare aveva consolidato le proprie.» ... «Per quanto gli amici lo invitassero a cingersi di una guardia del corpo, non volle, affermando che è meglio morire una volta sola che aspettare sempre di morire.» ... «Ma l’odio più vibrante e che l’avrebbe portato a morte glielo produsse l’aspirazione al regno, che fu per il popolo la causa prima per odiarlo.» (Plutarco, Vite Parallele, Vita di Cesare, 57 e 60).
Andrea Camassei: Festa dei
Lupercalia (1635), Museo del
Prado, Madrid, da QUI.
 «[Marco] Antonio (durante la festa dei Lupercali) porse a Cesare un diadema intrecciato con una corona d’alloro. Si levò un applauso, non scrosciante, ma sommesso, come se fosse preparato. Cesare respinse la corona e tutto il popolo applaudì; quando di nuovo Antonio offerse al corona, pochi applaudirono e di nuovo applaudirono tutti quando Cesare la rifiutò. La prova ebbe questo risultato e Cesare, levatosi, ordinò di portare la corona sul Campidoglio. Poi si videro le sue statue adorne di diademi regali e due tribuni della plebe, Flavio e Marullo, vennero a toglierli: ricercarono poi coloro che per primi avevano salutato Cesare come re e li condussero in carcere.» ... «Quando era già in corso la congiura, alcuni denunciarono Bruto a Cesare, ma egli non prestò fede. (…) Ma coloro che aspiravano al rivolgimento di regime e guardavano a lui (= Bruto) solo o a lui per primo (…) di notte riempivano di scritte la sua tribuna e il seggio sul quale da pretore amministrava la giustizia; la maggior parte di queste scritte diceva: “Tu dormi, o Bruto”; “Non sei Bruto”.» (Plutarco, Vite Parallele, Vita di Cesare, 57 60,61 e 62).

- Nel 45 a.C., Gaio Giulio Cesare è padrone di Roma, ed è eletto dittatore a vita. Quello stesso anno, quando il suo prozio Cesare parte per la Spagna a combattere contro i figli di Pompeo, il diciottenne Ottaviano lo segue, sebbene ancora convalescente da una grave malattia. Raggiunge Cesare con una scorta ridotta, dopo aver percorso strade infestate da nemici e dopo un naufragio. Si fa subito apprezzare dal prozio per il coraggio che dimostra. Dopo aver portato a termine anche la guerra in Spagna, Cesare, che progettava una campagna militare prima contro i Daci e poi contro i Parti, lo invia ad Apollonia (sulla riva destra del fiume Voiussa, nell'attuale Albania), dove potrà dedicarsi allo studio della retorica. Svetonio racconta che durante il soggiorno ad Apollonia, Ottaviano era salito insieme al fedele amico, Marco Vipsanio Agrippa, all'osservatorio dell'astrologo Teogene. Fu Agrippa a consultarlo per primo, ricevendo splendide previsioni sulla sua vita futura, quasi incredibili. Ottaviano, temendo di essere considerato di origini oscure, preferì inizialmente non fornire i dati relativi alla propria nascita, ma dopo numerose preghiere, vi acconsentì. Teogene allora si alzò dal suo seggio e lo adorò.
Augusto, Denario, Hiberia: Colonia
Patricia , c. 18-16 a.C. AR (g 3,82;
mm 19; h 8); Testa nuda a d., Rv.
Capricorno verso s., tiene il globo
legato al timone e porta una
cornucopia sul dorso, da QUI.
Per questo motivo Ottaviano ebbe così tanta fiducia nel suo destino che fece coniare una moneta d'argento con il segno del Capricorno, segno in cui Saturno è domiciliato, durante il quale era stato concepito (momento preferito rispetto a quello della nascita per stilare un oroscopo) o segno del suo Ascendente, anche se il suo Sole di nascita era nella Bilancia, segno comunque in cui Saturno è esaltato. Ad Apollonia gli giungerà la notizia dell'omicidio di Cesare.

Il "denario" fatto coniare da Giulio
Cesare nel 44 a.C. In un lato c'è
il suo volto e nell'altro Venere che
sulla mano destra porta una Nike
(la Vittoria).
Nel 44 a.C. - L'operato di Gaio Giulio Cesare provoca la reazione dei conservatori optimates, finché un gruppo di senatori, capeggiati da Marco Giunio Bruto, Gaio Cassio Longino e Decimo Bruto, cospira contro di lui uccidendolo, alle Idi di marzo del 44 a.C. (il 15 marzo 44) nel Senato di Roma, davanti alla statua di Gneo Pompeo Magno, con decine di pugnalate. Cesare stava preparando una grande campagna militare contro i Parti con l'intenzione di ristabilire l'egemonia romana in Asia, compromessa dal disastro subito da Crasso nel 53 a.C. A Roma venne messo in giro ad arte un oracolo secondo il quale il regno dei Parti avrebbe potuto essere sconfitto solo da un re, andando ad aumentare le voci e i sospetti di aspirazioni monarchiche di Cesare, leitmotiv degli ottimati nei suoi confronti. Fu allora ordita una congiura guidata da Marco Giunio Bruto, Cassio Longino e Decimo Bruto che programmò l'attentato per il 15 marzo, in occasione di una seduta plenaria del Senato e il piano si svolse con successo. Cesare, colpito da ventitré coltellate, cadde a terra morto. Secondo Plutarco e Appiano, egli tentò di difendersi finché non vide anche Bruto snudare il pugnale, prima di colpirlo all'inguine. A quel punto si tirò la toga sul capo e si abbandonò alla violenza dei colpi. Sia Svetonio che Dione Cassio riferiscono che, secondo alcuni, le sue ultime parole, rivolte a Bruto, furono "Anche tu, figlio?". Plutarco racconta che la moglie Calpurnia ebbe una premonizione la mattina in cui Cesare fu assassinato (15 marzo 44 a.C.) e cercò inutilmente di convincere il marito a non recarsi in senato, dove più tardi avrebbe avuto luogo l'attentato. Fu Decimo Giunio Bruto Albino, uno dei congiurati, a persuadere Cesare a non ascoltare la moglie, dicendogli che avrebbe perso considerazione agli occhi dei senatori, se qualcuno avesse annunciato loro che Cesare non si era presentato alla seduta in attesa di "sogni migliori" di Calpurnia. Da lei Cesare non ebbe nessun figlio. Che si sappia,  gli unici figli di  Cesare sono stati Giulia da Cornelia Cinna minore e Cesarione  (Tolomeo XV), che ebbe da Cleopatra. Secondo la testimonianza di Plutarco, dopo la morte del marito Calpurnia consegnò a Marco Antonio gli scritti, gli appunti e tutte le ricchezze di Cesare, che ammontavano a 300 talenti. A Roma 1 talento equivaleva a 32,3 kg di metallo prezioso.

- Cesare stava preparando una grande campagna militare contro i Parti con l'intenzione di ristabilire l'egemonia romana in Asia, compromessa dal disastro subito da Crasso nel 53 a.C.. A Roma venne messo in giro ad arte un oracolo secondo il quale il regno dei Parti avrebbe potuto essere sconfitto solo da un re, andando ad aumentare le voci e i sospetti di aspirazioni monarchiche di Cesareleitmotiv degli ottimati nei suoi confronti. Fu allora ordita una congiura guidata da Marco Giunio Bruto, Cassio Longino e Decimo Bruto che programmò l'attentato per il 15 marzo, in occasione di una seduta plenaria del Senato e il piano si svolse con successo. Cesare, colpito da ventitré coltellate, cadde a terra morto. Secondo Plutarco e Appiano, egli tentò di difendersi finché non vide anche Bruto snudare il pugnale, prima di colpirlo all'inguine. A quel punto si tirò la toga sul capo e si abbandonò alla violenza dei colpi. Sia Svetonio che Dione Cassio riferiscono che, secondo alcuni, le sue ultime parole, rivolte a Bruto, furono "Anche tu, figlio?". 

Marco Giunio Bruto,
rinvenuto nel Tevere
da QUI.

- Marco Giunio Bruto (Roma, 85 a.C. o 79-78 a.C. - Filippi, 42 a.C.), ufficialmente noto dopo l'adozione come Quinto Servilio Cepione Bruto è stata una delle figure preminenti della congiura delle Idi di Marzo assieme a Gaio Cassio Longino e a Decimo Bruto. Marco Giunio Bruto era figlio di Servilia, figlia di Quinto Servilio Cepione e nipote di Marco Livio Druso e di Marco Giunio Bruto, tribuno della plebe dell'83 a.C., popularis e seguace del partito mariano, che nel 77 a.C. aveva partecipato alla sollevazione democratica dell'ex console Marco Emilio Lepido contro il Senato oligarchico, che era stata sanguinosamente repressa da Quinto Lutazio Catulo e da Gneo Pompeo Magno. Quest'ultimo assediò a Modena Marco Bruto, lo costrinse alla resa e subito dopo lo fece sommariamente uccidere. Sua madre Servilia era una donna molto affascinante e politicamente potente, la cui relazione con Gaio Giulio Cesare, nota a tutti, fu per quest'ultimo la più importante fra le sue molte relazioni sentimentali, e poiché essa era molto antica, a dire di Plutarco, Cesare aveva qualche motivo di credere che Bruto fosse suo figlio. Grande peso sulla formazione del giovane Bruto ebbe suo zio Marco Porcio Catone, fratello uterino di sua madre Servilia, avversario politico di Cesare e personalità di spicco degli ottimati, noto per i suoi costumi morigerati e irreprensibili e per l'attaccamento ai valori tradizionali. Di lui infatti Bruto volle farsi "imitatore". Tra gli antenati del giovane poi, tanto da parte di madre quanto da parte di padre, figuravano due illustri e mitici tirannicidi, Lucio Giunio Brutofondatore della repubblica, e Servilio Ahala. Gaio Servilio Ahala fu un eroe leggendario di Roma antica che secondo la tradizione avrebbe salvato Roma da Spurio Melio nel 439 a.C., uccidendolo con un pugnale celato sotto l'ascella; probabilmente un mito inventato per spiegare il cognomen "Ahala"/"Axilla", (ascella) della Gens Servilia, di origine Etrusca.

- Quando Cesare, vincitore della guerra civile, tornò a Roma e divenne dictator, Decimo Bruto si era unito alla cospirazione contro Cesare, convinto da Marco Giunio Bruto, senza che Cesare lo sospettasse minimamente, tanto che Decimo Bruto fu da lui menzionato nel suo testamento. Nel 44 a.C. fu nominato pretore peregrino da Cesare, per essere destinato ad essere governatore romano della Gallia Cisalpina nell'anno successivo e designato dal dittatore stesso al consolato del 42 a.C. al cui posto si insediò poi il triumviro Marco Emilio Lepido. Alle Idi di marzo, quando Cesare sembrava deciso di non recarsi al Senato su pressione della moglie Calpurnia, che aveva avuto cattivi presagi, fu Decimo Bruto a convincere il dittatore ad andare in Senato, allontanando le preoccupazioni della moglie. Quando Cesare arrivò nell'aula del Senato, fu attaccato e assassinato dai cospiratori. Secondo Nicolaus di Damasco, Decimo Bruto fu il terzo a colpire Cesare, pugnalandolo di lato.

- Gaio Cassio Longino (Roma, 87/86 a.C. - Filippi, 3 ottobre 42 a.C.) è stato tra i promotori della congiura che causò l'uccisione di Gaio Giulio Cesare nel 44 a.C.. Cassio apparteneva alla gens Cassia, una famiglia patrizia riuscita ad accedere al consolato agli inizi del II secolo a.C. Nel sesto decennio a.C. Cassio, dopo il matrimonio con Tertulla, figlia di Servilia, sembrò avvicinarsi al partito degli Optimates guidato da Catone Uticense. Prese parte alla guerra contro i Parti, al fianco di Marco Licinio Crasso, salvandosi dal disastro di Carre del 53 a.C., e riuscendo a respingere una loro successiva invasione che si era spinta fin sotto le mura di Antiochia. Nominato tribuno della plebe nel 49 a.C., si schierò, invece che dalla parte di Pompeo Magno come la maggior parte degli Ottimati, da quella di Cesare. Nonostante il suo rapporto con Cesare si fosse consolidato, Cassio decise di allontanarsi dai popolari per essere uno degli organizzatori del complotto che portò Cesare alla morte.

- Nonostante il successo dell'assassinio del dittatore, che aveva spinto Marco Antonio, console e braccio destro di Cesare, a scappare e aveva gettato nella confusione il partito cesariano   
dei popolari, i cesaricidi perdono ore preziose nel tentativo  di accattivarsi il sostegno  dei cittadini con discorsi sulla libertà, mentre i senatori, terrorizzati dalla vista dell'uccisione di Cesare, scappavano seminando il panico in città. Il corpo di Cesare, abbandonato nella Curia, veniva infine portato via da alcuni suoi schiavi. Abbattuto Cesare, i cesaricidi non si erano preoccupati di eliminare anche i suoi principali collaboratori, Marco Emilio Lepido (che nel 49 a.C. aveva fatto nominare Cesare dittatore, nel 46 a.C. era stato console e nel 44 a.C. era magister equitum, già destinato a divenire governatore della Gallia Norbonese e della Spagna Citeriore) e il collega di consolato di Cesare per il 44 a.C., Marco Antonio, uno dei suoi più fidati luogotenenti. Dopo il primo sbandamento, questi  incominciarono a riorganizzarsi, mentre i cesaricidi dimostrarono la totale mancanza di un programma che andasse al di là dell'assassinio di Cesare e di una generica proclamazione di aver restaurato la libertà repubblicana da lui minacciata. I congiurati trovarono a Roma un'accoglienza così fredda che preferirono ritirarsi sul Campidoglio per decidere il da farsi. Vista l'inazione dei congiurati, il partito cesariano si riorganizzò velocemente sotto la leadership di Marco Antonio, la cui vita, durante l'attentato, era stata risparmiata per decisione dello stesso Marco Giunio Bruto. In quanto console e più alta carica dello Stato, Antonio si ritrovò così a capo del governo e i congiurati, campioni della legalità e rispettosi delle istituzioni tradizionali, finirono per rimettersi alla sua autorità. Due giorni dopo Antonio, in qualità di console, convocò una riunione del Senato nel corso della quale si avviò una politica di compromesso che assicurò la pace alla città: ai congiurati - assenti - si decise, su proposta di Cicerone, di concedere l'amnistia per l'assassinio di Cesare, mentre gli atti del dittatore venivano ratificati, conservando di fatto immutata la situazione e le cariche distribuite da Cesare. Limitati sempre più nel loro potere d'azione, i congiurati - in seguito al parere decisivo di Bruto - cedettero inoltre alla proposta di Antonio di tributare pubblici e solenni funerali per Cesare. Così, il 20 marzo, il cadavere del dittatore, molto amato dal popolo, e martoriato dalle coltellate fu esposto alla vista dei cittadini. Fu data inoltre lettura del suo testamento, dove alcuni fra i congiurati erano nominati come eredi secondi o possibili tutori del figlio adottivo Ottavio, mentre al popolo lasciava, per pubblico uso, i giardini vicino al Tevere e 300 sesterzi a testa. Infine Antonio, pronunciando il suo elogio funebre, scosse vivamente l'emotività della folla e mostrando la toga insanguinata e trafitta dalle pugnalate, il dolore e l'indignazione del popolo si trasformarono rapidamente in rabbia. Ne seguì una violenta sommossa popolare durante la quale il corpo di Cesare fu cremato in un colossale rogo allestito in modo improvvisato sul luogo stesso e con il tributo di onori divini al defunto, mentre i cesaricidi erano costretti a rifugiarsi in tutta fretta nelle proprie case, assaltate poco dopo dalla folla. Appena ebbe termine il rito funebre, la plebe si diresse, con le torce, verso la casa di Bruto e di Cassio; respinta a fatica si imbatté in Elvio Cinna e scambiandolo, per un equivoco di nome, con Cornelio, quello che il giorno prima aveva pronunciato una violenta requisitoria contro Cesare, lo uccise e la sua testa, conficcata su una lancia, fu portata in giro.

- La morte di Cesare apriva una fase di grave instabilità interna alla res publica romana. Le ragioni per cui era stata ordita la congiura contro Cesare sono da ricercare nei poteri quasi monarchici che questi aveva accumulato dopo la vittoria su Pompeo, tali da scatenare una atavica avversione contro ogni forma di potere di tipo personale e assoluto, in nome delle tradizioni e delle libertà repubblicane da una parte e nel revanscismo da parte degli optimates che avevano perso i loro privilegi e parte del loro potere con le riforme cesariane, visto che Gneo Pompeo Magno, il campione del Senato, appannaggio degli optimates stessi, era stato sconfitto da Gaio Giulio Cesare. In ogni caso, l'azione dei congiurati assassini di Cesare, definiti dagli storici cesaricidi, mancava di un disegno politico preciso e coerente. Infatti il 15 marzo del 44 a.C., i senatori che si consideravano custodi e difensori della tradizione e dell'ordinamento repubblicani, che assassinarono il dittatore a vita Gaio Giulio Cesare, erano convinti che il loro gesto avrebbe avuto il sostegno del popolo ma le loro previsioni si rivelarono sbagliate. Quindi, rifugiatisi in Campidoglio, i cesaricidi decisero di attendere lì l'evolversi degli eventi, lasciando in questo modo l'iniziativa agli stretti collaboratori del defunto dittatore: Marco Antonio e Marco Emilio Lepido. Dopo lo sgomento iniziale seguito all'uccisione di Cesare, Marco Antonio prese in mano la situazione e si fece consegnare da Calpurnia, vedova del dittatore, le carte politiche e il denaro liquido di quest'ultimo. Intanto Lepido, nuovo proconsole della Gallia Narbonense e della Spagna Citeriore, lasciava ad Antonio il potere di occuparsi da solo della situazione: mentre in un primo momento aveva fatto entrare a Roma alcuni soldati della legione accampata alle porte della città con l'intento di attaccare il Campidoglio, alla fine decideva di partire per le sue province. Antonio trovava anche un'intesa con il suo vecchio nemico, Publio Cornelio Dolabella, che insieme a lui era stato designato console da Cesare. A questo punto, per guadagnare tempo, con un abile mossa Antonio permise che il senato concedesse l'amnistia ai congiurati e cercò il dialogo proprio con la massima assemblea romana. In cambio, il Senato votò la concessione dei funerali di stato per Cesare. Durante le celebrazioni accadde però che la vista del corpo del dittatore e del sangue sulla sua toga, la lettura del suo testamento generoso verso i romani e il discorso ad effetto di Antonio, accendessero d'ira l'animo del popolo contro gli assassini. Fino all'aprile del 44, Antonio mantenne comunque un atteggiamento conciliante: lasciò che i cesaricidi assumessero quelle cariche a cui Cesare li aveva designati, allontanò i veterani del defunto dittatore da Roma e propose l'abolizione della dittatura. Per sé chiese e ottenne la provincia di Macedonia (e le legioni che Cesare aveva ammassato là per la spedizione contro i parti) e per Dolabella quella di Siria. Per la loro sicurezza, Marco Antonio esortò Bruto e Cassio a lasciare la città ed essi, essendosi ritrovati isolati, privi del sostegno sia della plebe urbana che del senato filo-cesariano e dei soldati veterani, ad aprile lasciarono l'Urbe. Assecondando poi le richieste di Antonio, i due congiurati, per preservare la pace, sciolsero le bande di partigiani repubblicani che si erano riunite intorno a loro, mentre invece Antonio, per parte sua, di lì a poco, fece ritorno a Roma dalla Campania con una nutrita scorta di veterani. Nel frattempo, gli altri congiurati Decimo Bruto e Gaio Trebonio partirono in quegli stessi mesi per le provincie assegnate loro da Cesare, la Gallia Cisalpina e l'Asia. Gaio Trebonio, convinto repubblicano che si era in passato opposto alla politica popolare del tribuno della plebe Publio Clodio Pulcro per poi passare alla fazione cesariana, era stato messo da parte, dopo aver avuto un importante ruolo nell'assedio di Marsiglia, per aver fallito il tentativo di sconfiggere Gneo Pompeo il Giovane in Betica, prima dell'arrivo di Cesare. Incoraggiato probabilmente dal "sistema di potere che Cesare tentava di costruire fuoriuscendo con molte incertezze e soluzioni dalla vecchia legalità repubblicana", Trebonio aveva aderito, nell'estate del 45 a.C., mentre Cesare era ancora impegnato a completare il processo di pacificazione della Spagna, ad un progetto di congiura che mirava ad eliminare Cesare, probabilmente nato all'interno dello stesso ambiente cesariano e dunque non direttamente riconducibile alla congiura che sarebbe stata portata a compimento alle Idi di marzo del 44 a.C..

- La scena politica romana è presto dominata da Marco Antonio, che aveva facilmente marginalizzato i cesaricidi. In realtà l'abile generale di Cesare, che nel 44 a.C. ricopriva insieme a lui la carica consolare, voleva appropriarsi dell'eredità politica di Cesare e ripercorrerne le orme.

- Tornando da Apollonia, dove aveva avuto la notizia dell'omicidio del prozio, verso Roma, Ottaviano sbarca a Brindisi, dove riceve il benvenuto dalle legioni di Cesare, lì acquartierate in attesa della spedizione che voleva Cesare in Oriente, contro i Parti, e si impossessa dei circa 700 milioni di sesterzi (nel I secolo d.C. 1 sesterzio valeva circa 2 €) di denaro pubblico destinati alla guerra contro i Parti, che utilizza a questo punto per acquisire ulteriore favore tra i soldati e tra i veterani di Cesare stanziati in Campania. «Ritenendo che la cosa più importante fosse quella di vendicare la morte di suo zio e di difendere ciò che aveva fatto, appena tornò da Apollonia, decise di essere estremamente duro con Bruto e Cassio, i quali non se lo aspettavano, e quando questi capirono di essere in pericolo, fuggirono; [allora Ottaviano] li perseguì con un'azione legale atta a farli condannare per omicidio.» (Svetonio, Augustus, 10)

- Il 21 maggio del 44 a.C., Ottaviano fa il suo ingresso a Roma mentre il 1º giugno Marco Antonio fa approvare una legge che sottragga a Decimo Bruto il governo della Gallia, conferito ora allo stesso Antonio. Il 5 giugno poi, nel tentativo di allontanare Bruto e Cassio con un incarico onorifico, veniva loro offerto il compito di acquistare grano dalla Sicilia e dall'Asia. La proposta suscitò l'ira furiosa di Cassio, mentre Bruto, indeciso sul da farsi, continuò ad attendere una qualche svolta favorevole, un accordo con Antonio e di conoscere l'andamento dei giochi Apollinari a Roma, indetti a suo nome in qualità di pretore. L'incrinatura nei rapporti con Antonio arrivò infine ai primi di agosto e i due pretori, Bruto e Cassio, lanciando minacce al console Antonio, si risolsero infine a partire per le province che erano state intanto assegnate loro, Creta e Cirenaica, innocue e prive di eserciti. Cicerone, invece, fece ritorno a Roma e, dopo una latitanza di circa sei mesi, si fece rivedere in Senato dove, il 2 settembre, diede inizio alla sua battaglia contro Antonio, attraverso una serie di discorsi, le Filippiche, nel corso delle quali portò avanti un'opera di idealizzazione dell'attentato contro Cesare e sostenne politicamente l'operato di Bruto e Cassio in Oriente e di Decimo Bruto in Gallia, e inoltre del giovane Ottaviano, che, mostrando a Cicerone la sua devozione per lui e per la patria, ne otteneva il sostegno. Ottaviano inoltre, poiché i magistrati incaricati non osavano celebrare i Ludi per la vittoria del prozio Cesare, si occupò personalmente di organizzarli (dal 5 al 19 settembre del 44 a.C.). In seguito, per riuscire a portare a termine altri suoi progetti, sebbene fosse patrizio ma non ancora senatore, si presentò come candidato per sostituire un tribuno della plebe, che era appena deceduto. La sua candidatura incontrò l'opposizione di Marco Antonio, sul cui appoggio il giovane Ottaviano contava, per cui passò dalla parte degli ottimati, nemici storici dei populares cesariani.

Marco Tullio Cicerone (106
-43 a.C.), Musei
Capitolini.
- Quando nel mese di ottobre, l'appoggio del Senato a Ottaviano si fece più pressante, con Cicerone che tuonava con le sue Filippiche contro Antonio, questi decise di riprendere il controllo della situazione richiamando in Italia le legioni stanziate in Macedonia. Di fronte a quella minaccia, Ottaviano in novembre richiamò allora i veterani di Cesare a lui fedeli, ottenendo ben presto anche la diserzione di due delle legioni macedoni di Antonio, la IV e la Martia, appena sbarcate. Poi, fallito, per l'opposizione del Senato (Cicerone infatti era certo della fedeltà del giovane Ottaviano alla Res publica), il tentativo di far dichiarare Ottaviano hostis publicus per aver reclutato un esercito senza averne l'autorità (in realtà sarà Antonio a essere indicato come nemico dello Stato avendo preso d'assedio illegalmente Decimo Bruto, un legittimo propretore), il console Marco Antonio decise allora di accelerare i tempi dell'occupazione della Cisalpina, in modo da garantirsi una posizione di forza per l'anno successivo. Ricevuto il rifiuto da parte di Decimo Bruto alla cessione della Cisalpina, Antonio, grazie al consenso del Senato, poté marciare su Modena, dove strinse d'assedio Bruto mentre Ottaviano, su consiglio di alcuni ottimati, provò ad assoldare alcuni sicari perché uccidessero Antonio ma, scoperto il suo tentativo, per proteggersi arruolò una buona parte dei veterani di Cesare, facendo loro grandi elargizioni.

Statua di Augusto di
Prima Porta, Musei
Vaticani, da  QUI.
- Inizia così, alla fine del 44 a.C., la guerra civile romana, nell'ultimo complesso e confuso periodo storico della Repubblica romana, guerra civile iniziata nel 44 a.C. con l'assassinio di Cesare e terminata nel 30 a.C. con la battaglia di Azio. In occasione della morte di Cesare, Ottaviano aveva saputo di essere stato adottato per testamento dal prozio come figlio ed erede e, secondo la consuetudine, assunse il nomen gentilizio (Iulius) e il cognomen (Caesar) del padre adottivo, omettendo però di aggiungere come tradizione un secondo cognome derivato della gens di provenienza aggettivata in -anus, divenendo così Gaio Giulio Cesare (Gaius Iulius Caesar). Il nome Ottaviano venne generalmente diffuso dalla propaganda degli avversari politici, ma non risulta nei documenti ufficiali. Si narra che poco prima di venire assassinato, Cesare lo avesse nominato magister equitum in seconda, accanto a Marco Emilio Lepido, in vista della grande spedizione d'Oriente che stava preparando contro i Parti. Ottaviano, pur restando indeciso se chiamare in aiuto le legioni orientali per combattere i Parti o lasciar perdere, preferì tornare a Roma a reclamare i suoi diritti di figlio adottivo e di erede di Cesare. Ancora Svetonio racconta di un episodio curioso: «Tornando da Apollonia a Roma, dopo la morte di Cesare, nel cielo limpido e puro apparve all'improvviso un cerchio, simile all'arcobaleno, che circondò il sole, mentre la tomba di Giulia, figlia di Cesare, fu colpita più volte da un fulmine. [...] Tutti l'interpretarono come un presagio di grandezza e prosperità.» (Svetonio, Augustus, 95.) «...Ritornò però a Roma e rivendicò la sua eredità, nonostante le esitazioni di sua madre e l'energica opposizione del patrigno Marcio Filippo, ex console. Da quel tempo, procuratosi un esercito, governò lo Stato prima con Marco Antonio e Marco Lepido, poi, per circa 12 anni, con il solo Antonio (dal 42 al 30 a.C.) e infine, per 44 anni, da solo (dal 30 a.C. al 14 d.C.).» (Svetonio: Vita dei Cesari, Libro II, Augusto, 8).

Nel 43 a.C. - Il 1º gennaio, giorno dell'insediamento dei nuovi consoli Pansa e Irzio, il Senato decreta l'abrogazione della legge che assegnava ad Antonio la Gallia Cisalpina e ordina a questi di cessare immediatamente gli attacchi a Decimo Bruto. Ottenutone un netto rifiuto, i consoli sono incaricati di marciare contro Antonio assieme a Ottaviano, a cui venne conferito eccezionalmente l'imperium di pretore per legalizzare la condizione del suo esercito privato. Il 14 aprile e il 21 aprile Antonio viene sconfitto nella battaglia di Forum Gallorum e nella battaglia di Modena, nelle quali però rimangono premeditatamente uccisi i due consoli Irzio e Pansa, per cui Ottaviano, che aveva preso parte personalmente ai combattimenti del 21 aprile all'interno del campo di Antonio, alla fine rimane l'unico comandante delle legioni repubblicane. «Durante il primo scontro, se dobbiamo credere a quanto scrive Antonio, Ottaviano si diede alla fuga e ricomparve due giorni dopo, senza il suo mantello di comandante ed il cavallo; ma nella seconda sappiamo che fece il suo dovere non solo come generale, ma anche come soldato: vedendo, nel mezzo della battaglia, che l'aquilifer della sua legione era ormai ferito gravemente, prese con sé l'aquila sulle spalle e la tenne con sé per il tempo necessario.» (Svetonio, Augustus, 10). Svetonio aggiunge che corse voce allora che fosse stato Ottaviano a far uccidere Aulo Irzio e Gaio Vibio Pansa, poiché, una volta messo in fuga Antonio e tolti di mezzo entrambi i consoli, potesse rimanere unico padrone degli eserciti vincitori. Tanto è vero che da Cicerone apprendiamo che, al termine della battaglia di Forum Gallorum, Pansa si ritirò al campo ferito, ma ancora in vita e la sua morte sembrò talmente sospetta che Glicone, il suo medico, fu messo in prigione con l'accusa di aver lavato la ferita con il veleno. Aquilio Nigro sostenne infine che nella confusione della battaglia l'altro console, Irzio, fu ucciso dallo stesso Ottaviano, che quando venne a sapere che Antonio, dopo la sconfitta, era stato accolto da Marco Emilio Lepido e che anche altri comandanti, insieme ai loro eserciti, si stavano avvicinando al partito dei populares a lui avverso, abbandonò la causa degli ottimati. La tesi del complotto di Ottaviano sembra essere sostenuta anche da Tacito, che scrive: «...tolti di mezzo Irzio e Pansa (furono uccisi dai nemici? Oppure a Pansa sparsero del veleno sulla ferita e Irzio venne ucciso dai suoi soldati e per macchinazione dello stesso Augusto?), si era impadronito delle loro truppe; che aveva estorto il consolato a un senato riluttante e rivolto le armi, avute per combattere Antonio, contro lo stato...» (Tacito, Annales, I, 10). Tornato a Roma con l'esercito, infatti, malgrado la giovane età (aveva soli vent'anni), Ottaviano si fece eleggere console suffectus assieme a Quinto Pedio, ottenendo compensi per i suoi legionari e facendo approvare dal Senato la lex Pedia contro i cesaricidi. In tal modo i consoli poterono rifiutarsi di portare ulteriore soccorso a Decimo Bruto che, in fuga, venne infine ucciso nella Gallia Cisalpina da un capo gallo fedele ad Antonio. Svetonio racconta che: «[Ottaviano] A vent'anni prese il consolato, facendo avanzare minacciosamente le sue legioni verso Roma (urbem) e inviando quei [soldati] che chiedessero per lui a nome dell'esercito; quando il Senato sembrò esitante, il centurione Cornelio, capo della delegazione, gettando indietro il suo mantello e mostrando l'impugnatura del suo gladio, non esitò a dire nella Curia: "Se non lo farete [console] voi, questa [spada] lo farà".» (Svetonio, Augustus, 26). Poi, dopo aver fatto riconoscere la sua adozione (avvenuta nel 45) e mutato il nome in Gaio Giulio Cesare Ottaviano, decise di riappacificarsi con Lepido e Antonio ricomponendo i dissidi interni alla fazione cesariana, dalla sua nuova posizione di forza, come capo dello Stato romano. Ottaviano prese quindi contatti con il principale sostenitore di Antonio, il pontefice massimo Marco Emilio Lepido, già magister equitum di Cesare, con l'intenzione Con gli auspici di Lepido, ottenne dunque che fosse organizzato un incontro a tre con Antonio nei pressi di Bononia. Da quel colloquio privato nacque un accordo a tre, tra lui, Antonio e Lepido della durata di cinque anni. Si trattava del secondo triumvirato, riconosciuto legalmente dal Senato il 27 novembre di quello stesso anno con la Lex Titia, in cui veniva creata la speciale magistratura dei Triumviri rei publicae constituendae consulari potestate, ovvero "triumviri per la costituzione dello stato con potere consolare". «Per dieci anni fece parte del triumvirato, creato per dare un nuovo ordine alla Repubblica: come suo membro cercò inizialmente di impedire che si iniziassero le proscrizioni, ma quando esse cominciarono si mostrò più spietato degli altri due. [...] lui solo si batté in modo ostinato affinché non venisse risparmiato nessuno, arrivando a proscrivere anche C. Toranio, suo tutore, che era stato, inoltre, collega di suo padre come edile. [...] più tardi si pentì di questa sua ostinazione e promosse al rango di cavaliere T. Vinio Filopomeno, che sembra avesse nascosto il suo padrone, quando era proscritto.» (Svetonio, Augustus, 27).

Aureo romano ritraente l'effigi di Marco
Antonio (sinistra) e Ottaviano (destra)
emesso nel 41 a.C. per celebrare il
secondo triumvirato. Si noti l'iscrizione
'III VIR R P C' (Triumviri Rei Publicae
Constituendae Consulari Potestate) su
entrambi i lati. Da QUI.
- L'incontro fra i tre maggiori eredi di Cesare fu organizzato da Lepido su un'isoletta del fiume Reno, presso l'allora colonia romana di Bononia, l'odierna Bologna. Il patto, valido per un quinquennio, fu legalizzato ed ebbe validità istituzionale con la Lex Titia del 27 novembre 43 a.C. Ufficialmente i membri furono conosciuti come Triumviri Rei Publicae Constituendae Consulari Potestate (Triumviri per la Costituzione della Repubblica con Potere Consolare, abbreviato come "III VIR RPC"). Svetonio racconta di un episodio curioso accaduto in questa circostanza: «Quando nei pressi di Bologna si riunirono le truppe dei triumviri, un'aquila, posàtasi sulla sua tenda [di Ottaviano], sopraffece e gettò a terra due corvi che la attaccavano da una parte e dall'altra: tutto l'esercito intese che un giorno o l'altro ci sarebbe stata tra i colleghi quella discordia che poi effettivamente ci fu, e ne presagì l'esito.» (Svetonio, Augustus, 96). L'accordo fu lo sviluppo naturale a cui portava la situazione creatasi dopo la morte di Cesare. Antonio e Ottaviano erano i principali eredi politici del dittatore ucciso l'anno prima; essi si ritrovarono nella comune opposizione agli ottimati - intenzionati ad abolire le riforme cesariane - e nella volontà di dare la caccia ai cesaricidi (i quali, intanto, con Bruto e Cassio, stavano organizzando imponenti forze in Oriente). Intanto Sesto Pompeo, figlio dell'avversario di Cesare, con le forze pompeiane superstiti e una potente flotta, teneva sotto controllo Sicilia, Sardegna e Corsica, e la usava per razziare le coste dell'Italia meridionale seminando il terrore. L'accordo era necessario soprattutto per Ottaviano, il quale voleva evitare di trovarsi fra due fuochi, da una parte Antonio con 17 legioni (comprese quelle dategli da Lepido, suo partigiano) e dall'altra le già ricordate forze dei cesaricidi in Oriente. Dall'incontro uscì una spartizione delle provincie, inizialmente a lui sfavorevole: ad Antonio sarebbe spettato il proconsolato nella Gallia Cisalpina e Comata, a Lepido la Gallia Narbonense e le Spagne, ad Ottaviano l'Africa, la Sicilia, la Sardegna e la Corsica, territori minacciati dai pompeiani. Per reperire i fondi necessari per la campagna in Oriente e per vendicare la morte di Cesare, i tre redassero le "liste di proscrizione" degli avversari da eliminare ed incamerarne così i beni. A Roma e in Italia si scatenò quindi una caccia all'uomo senza eguali e in molti casi più feroce e indiscriminata di quella operata dopo la vittoria di Silla su Gaio Mario. Molte furono le vittime illustri: ben 300 senatori caddero assassinati e 2000 cavalieri ne seguirono la sorte. Tra questi fu anche Cicerone, al quale Antonio non aveva perdonato le orazioni contro di lui, raccolte nelle Filippiche. Ottaviano, pur essendo stato protetto e incoraggiato dal grande intellettuale latino, non fece nulla per salvargli la vita. Altra barbarie decisa dai triumviri fu l'uso di appendere ai rostri del foro le teste dei nemici uccisi e di dare una ricompensa proporzionale a chi le portava: 25.000 denari agli uomini liberi, 10.000 agli schiavi con l'aggiunta della manomissione (libertà) e della cittadinanza. I tre triumviri quindi, strinsero l'accordo per convenienza personale. Marco Antonio era desideroso di raccogliere e proseguire l'opera già cominciata da Cesare: riforma in senso monarchico dello stato ed espansione a Oriente dell'impero. Dopo aver dato pubblica lettura del testamento del dittatore, seppe usare per i suoi fini le ire popolari contro i cesaricidi, diventando così leader indiscusso del partito cesariano. Il suo consolato del 44 fu caratterizzato da politiche demagogiche e da una legislazione confusa. Percepì ben presto il pericolo rappresentato dal giovane Ottaviano, sia in quanto erede universale di Cesare, sia perché era ben visto dagli ottimati. Costretto, dopo la sconfitta subita a Modena, a condividere con il futuro rivale la scena politica, scatenò sanguinose rappresaglie contro i propri nemici politici. Ottaviano, figlio adottivo di Cesare, fu astuto e abile allo stesso tempo nello sfruttare la confusione creatasi dalle lotte fra i diversi partiti. Nonostante la “pericolosa parentela”, fu visto inizialmente come paladino degli ottimati, da contrapporre ad Antonio. Non a caso, in occasione della battaglia di Modena, accompagnò come propraetor i consoli Irzio e Pansa con milizie a lui fedeli. Ben presto, però, fece pentire l'aristocrazia della scelta fatta, mostrando di voler vendicare il padre adottivo e di raccoglierne l'eredità politica. Seppe raggiungere subito in maniera spregiudicata la massima magistratura della Res publica con un vero e proprio colpo di Stato e, come vedremo, una volta entrato in contrasto con Antonio, si presentò come campione del mos maiorum tanto caro all'aristocrazia senatoria e della conservazione e tutela dei valori della repubblica e delle sue istituzioni. Non fu solo bravo nel sapersi muovere nell'agone politico, ma si circondò di valenti uomini, come quel Marco Vipsanio Agrippa abile generale che gli regalò i suoi successi militari più importanti. Marco Emilio Lepido, sostenitore di Cesare e poi di Antonio subito dopo le idi di marzo, fu invece presto un comprimario, una spalla degli altri due colleghi e in molti casi poco affidabile. Di fronte al crescere della personalità e dell'importanza degli altri triumviri, egli fu sempre più relegato ai margini della scena politica.

Nel 42 a.C. - Appena due anni dopo il suo assassinio, il Senato deifica ufficialmente Gaio Giulio Cesare, elevandolo a divinità. L'eredità riformatrice e storica di Cesare è quindi raccolta da Ottaviano Augusto, suo pronipote e figlio adottivo. Gaio Giulio Cesare ha avuto un ruolo fondamentale nella transizione del sistema di governo dalla forma repubblicana a quella imperiale. Probabilmente il continuo scontro fra le due anime della Repubblica, i pochi  optimates aristocratici e i tanti populares che volevano partecipare alla vita pubblica,  non garantiva una continuità del potere per la vastità dell'impero romano nascente, continuità che invece si perpetrerà nel principato.

Grecia, ubicazione di Filippi,
da QUI.
- Nell'ottobre del 42 a.C., nei pressi di Filippi, cittadina della provincia di Macedonia, posta lungo la Via Egnatia, alle pendici del monte Pangeo, si combattè la battaglia che oppose le forze cesariane del secondo triumvirato, composto da Marco Antonio, Cesare Ottaviano e Marco Emilio Lepido, alle forze degli ottimati repubblicani di Marco Giunio Bruto e Gaio Cassio Longino, i due principali cospiratori ed assassini di Gaio Giulio Cesare. Due furono le fasi dello scontro, combattute rispettivamente il 3 e il 23 ottobre. Nella prima battaglia Bruto ottenne un brillante successo irrompendo dentro gli accampamenti di Ottaviano, ma contemporaneamente Antonio ebbe la meglio contro Cassio che, sconvolto dalla sconfitta e non informato del successo di Bruto, si suicidò. Nella seconda battaglia, combattuta con estremo accanimento dalle legioni veterane delle due parti, Marco Antonio diresse con grande energia le sue forze che finirono per sbaragliare completamente l'esercito di Bruto che a sua volta preferì suicidarsi. La guerra fu vinta dalle legioni cesariane dei triumviri soprattutto per merito di Marco Antonio mentre Ottaviano, in precarie condizioni di salute e privo di grandi doti di condottiero, ebbe un ruolo minore. Lepido invece era rimasto in Occidente per occuparsi della situazione in Italia. Plutarco scrive che Antonio coprì il corpo di Bruto con un mantello purpureo in segno di rispetto. Erano, infatti, stati amici e Bruto aveva aderito alla congiura per uccidere Cesare soltanto a patto che Antonio fosse lasciato in vita. Molti altri optimates persero la vita nella battaglia: fra i più grandi spiccano il figlio dell'oratore Quinto Ortensio Ortalo e il figlio di Marco Porcio Catone Uticense. Alcuni nobili trattarono dopo la sconfitta con i vincitori, ma nessuno volle farlo col giovane Ottaviano. I sopravvissuti dell'esercito di Bruto e Cassio furono inglobati in quello dei triumviri. Antonio rimase presso Filippi con alcuni soldati che vi fondarono poi una colonia; Ottaviano tornò a Roma col compito di trovare terre per i veterani. Alcuni terreni nel cremonese e nel mantovano (territori accusati di aver favorito Bruto e Cassio) furono espropriati e consegnati ai veterani di guerra al posto di denaro, per una grave crisi economica, come ricompensa dei servigi resi allo stato. Uno di questi terreni apparteneva alla famiglia di Virgilio, che cercherà in tutti i modi di riprendersi la proprietà. Dopo Filippi, che fu la vittoria definitiva sui cesaricidi, Marco Emilio Lepido ottenne solo l'Africa. Chiamato a sostenere Ottaviano contro Sesto Pompeo (figlio di Pompeo Magno) in Sicilia nel 36 a.C., fu un alleato poco fedele e giunse alla fine col parteggiare per esso. Abbandonato dai soldati, dovette arrendersi e chiedere perdono a Ottaviano (ormai padrone dell'Occidente). Per punizione fu costretto a rinunciare alle otto legioni giunte in Sicilia al seguito di Sesto Pompeo che aveva preso al comando, le magistrature affidategli (mantenendo solo quella di pontifex maximus, titolo puramente onorifico) e a ritirarsi a vita privata al Circeo fino alla morte (ca. 12 a.C.).

- Ottaviano, che in gioventù era stato fidanzato con la figlia di Publio Servilio Vatia Isaurico, sposa nel 42 a.C. la figliastra di Antonio, Clodia Pulcra. Clodia della gens Claudia Pulcra, nata nel 57 a.C., era figlia di P. Claudio (o Clodio) Pulcro detto “Pulchellus” e di Fulvia (donna di non nobili origini) i cui zio e cugino paterni erano stati rispettivamente consoli negli anni 79, 54 e 38 a.C. Una sua lontana cugina, nipote del console del 38 a.C., era Valeria Messalina, moglie dell’imperatore Claudio e nota per aver avuto l’alcova popolata da amanti. Quando, dopo la morte di Gaio Giulio Cesare, Marco Antonio e Ottaviano si riconciliarono dopo essersi scontrati a Modena, venne deciso, anche dietro la pressione dei soldati, di consolidare l'alleanza con un matrimonio, che avrebbe legato Ottaviano al generale di Cesare tramite la figlia acquisita. Clodia era all'epoca molto giovane. Dopo due anni di convivenza, Ottaviano rimandò indietro Clodia dalla madre, inviando con la ex-moglie anche uno scritto in cui affermava di non aver consumato il matrimonio e che Clodia era ancora vergine: da Clodia quindi, Ottaviano non ebbe figli. Ci furono voci riguardo alla mancata consumazione, tanto che alcuni sostennero che Ottaviano avesse intenzione sin dall'inizio di rompere con Marco Antonio. Subito dopo il divorzio, Ottaviano sposerà Scribonia.

- Nel 42 a.C. nasce Tiberio Giulio Cesare Augusto (Roma, 16 novembre 42 a.C. - Miseno, 16 marzo 37), il secondo imperatore romano, dal 14 al 37, appartenente alla dinastia giulio-claudia, Membro della gens Claudia, nato col nome di Tiberio Claudio Nerone (Tiberius Claudius Nero) poiché era figlio dall'omonimo Tiberio Claudio Nerone (85 a.C. - 33 a.C.), cesariano e pretore nell'anno della nascita di Tiberio, e di Livia Drusilla, di circa trent'anni più giovane del marito. Sebbene avesse combattuto con Cesare, Tiberio Claudio Nerone era un repubblicano convinto, sostenitore del partito degli ottimati e giunse anche a proporre di premiare gli assassini di Cesare nel 44 a.C., quando questi sembrava che prendessero il sopravvento. Malgrado ciò, i meriti acquisiti durante il servizio con Gaio Giulio Cesare gli permisero di venire eletto pretore nel 42 a.C.. Tanto dal ramo paterno che da quello materno, Tiberio apparteneva alla gens Claudia, un'antica famiglia patrizia giunta a Roma dalla Sabina nei primi anni della repubblica e distintasi nel corso dei secoli per il raggiungimento di numerosi onori e alte magistrature. Fin dall'origine, la gens Claudia si era divisa in numerose famiglie, tra le quali si distinse quella che assunse il cognomen Nero, che in lingua sabina significava "forte e valoroso"). Egli poteva dunque dirsi membro di una stirpe che aveva dato alla luce personalità di altissimo rilievo, come Appio Claudio Cieco e che annoverava tra i più grandi assertori della superiorità del patriziato, quindi del partito degli optimates. Tiberio padre, dopo l'omicidio di Gaio Giulio Cesare si era schierato dalla parte di Marco Antonio, luogotenente di Cesare in Gallia, entrando in contrasto con Ottaviano, erede designato dallo stesso Cesare. Dopo la costituzione del secondo triumvirato tra Ottaviano, Antonio e Marco Emilio Lepido e le conseguenti proscrizioni, i contrasti tra i sostenitori di Ottaviano e quelli di Antonio si concretizzarono in una situazione di conflitto, ma il padre di Tiberio continuerà ad appoggiare Marco Antonio. Allo scoppio del bellum Perusinum, suscitato dal console Lucio Antonio e da Fulvia, moglie di Marco Antonio, il padre di Tiberio si era unito agli antoniani, fomentando il malcontento che stava nascendo in molte regioni d'Italia. Dopo la vittoria di Ottaviano, che riuscì a sconfiggere Fulvia asserragliata a Perugia e a restaurare il proprio controllo su tutta la penisola italica, fu costretto a fuggire, portando assieme a sé la moglie e il figlioletto omonimo. La famiglia si rifugiò dunque a Napoli e partì poi alla volta della Sicilia, allora controllata da Sesto Pompeo, figlio di Pompeo Magno, il campione del partito degli optimates e zio di Scribonia, seconda moglie di Augusto. I tre furono poi costretti a raggiungere l'Acaia, dove si stavano radunando le truppe antoniane che avevano lasciato l'Italia. Il piccolo Tiberio, costretto a prendere parte alla fuga e a patire le insicurezze del viaggio, ebbe dunque un'infanzia disagevole e agitata, fino a quando gli accordi di Brindisi, che ristabilivano una pace precaria, permisero agli antoniani fuoriusciti di fare ritorno in Italia.

- Non è dato sapere il momento in cui venne dedotta la provincia romana della Gallia Cisalpina. La storiografia moderna oscilla fra la fine del II secolo a.C. e l'età sillana. Vero è che all'89 a.C. risale la legge di Pompeo Strabone ("Lex Pompeia de Gallia Citeriore") che conferisce alla città di Mediolanum, e ad altre, la dignità di colonia latina. Nel dicembre del 49 a.C. Cesare con la Lex Roscia concederà la cittadinanza romana agli abitanti della provincia, mentre nel 42 a.C. verrà abolita la provincia, facendo della Gallia Cisalpina parte integrante dell'Italia romana.


Nel 41 a.C. - Nascono i primi contrasti nel secondo triumvirato: Lucio Antonio, fratello di Marco Antonio, nel 41 a.C. si ribella a Ottaviano poiché pretendeva che anche ai veterani del fratello fossero distribuite terre in Italia (e non solo ai 170.000 veterani di Ottaviano), ma fu sconfitto a Perugia nel 40 a.C.. Svetonio racconta che durante l'assedio di Perugia, mentre stava facendo un sacrificio non molto distante dalle mura cittadine, Ottaviano per poco non fu ucciso da un gruppo di gladiatori che avevano compiuto una sortita dalla città. Non si può provare che Antonio fosse a conoscenza delle azioni del fratello ma, dopo la sconfitta di quest'ultimo, tanto Antonio come Ottaviano decisero di non dare troppo peso all'accaduto (Lucio Antonio fu risparmiato e perfino inviato in Spagna come governatore). Contemporaneamente a questi fatti, il legato di Antonio in Gallia, un certo Quinto Fufio Caleno, morì e le sue legioni passarono dalla parte di Ottaviano, che poté appropriarsi di nuove province del rivale. Svetonio aggiunge: «Dopo l'occupazione di Perugia, [Ottaviano] prese provvedimenti contro un gran numero di prigionieri e a chi chiedeva la grazia e di essere perdonato, rispose: «Si deve morire.» Altri dicono che, tra quelli che si erano arresi, ne scelse trecento tra i due ordini [senatorio e equestre] e li mandò a morte per le idi di marzo, di fronte ad un altare posto in onore del divo Giulio. Altri ancora raccontano che Ottaviano prese le armi in accordo con Antonio, per smascherare gli avversari che si nascondevano, [...] Dopo averli sconfitti, confiscò i loro beni per poter mantenere le promesse di donativa fatte ai veterani.» (Svetonio, Augustus, 15). Ottaviano a questo punto sposa Scribonia, parente di Sesto Pompeo: da questa donna ebbe la sua unica figlia, Giulia. In realtà però, né l'intesa né il matrimonio durarono a lungo.

- Al 41 a.C. risale l'incontro di Cleopatra con un altro generale romano, il triumviro Marco Antonio e anche con lui la regina ebbe una relazione amorosa, che portò alla fine del 40 a.C. alla nascita di due fratellastri di Cesarione, i gemelli Alessandro Elio e Cleopatra Selene e più tardi, nell'estate del 36 a.C. nascerà Tolomeo Filadelfo.


Nel 40 a.C. - Nell'estate, Ottaviano e Antonio vengono ad aperte ostilità: Antonio cerca di sbarcare a Brindisi con l'aiuto di Sesto Pompeo, ma la città gli chiude le porte mentre i soldati di ambedue le fazioni si rifiutano di combattere e i triumviri pertanto, mettendo da parte le discordie,  rinnovano il patto di alleanza per altri cinque anni con il trattato di Brundisium (Brindisi) del settembre del 40 a.C., in cui si ripartiscono nuovamente le province romane: ad Antonio resta l'Oriente romano da Scutari, compresa la Macedonia e l'Acaia e a Ottaviano l'Occidente, compreso l'Illirico. A Lepido, ormai fuori dai giochi di potere, l'Africa e la Numidia e a Sesto Pompeo è confermata la Sicilia, tanto per metterlo a tacere, affinché non arrechi problemi in Occidente. Il patto è sancito con i matrimoni tra Antonio, la cui moglie Fulva era morta da poco, e la sorella di Ottaviano, Ottavia minore e quello fra Ottaviano e Scribonia, del partito di Sesto Pompeo. Poco dopo Ottaviano romperà l'alleanza con Sesto Pompeo e, dopo aver ripudiato Scribonia, sposerà Livia Drusilla, madre di Tiberio e in attesa del secondo figlio Druso. 

- Nel 40 a.C. Gaio Giulio Cesare Ottaviano sposa quindi come sua seconda moglie Scribonia, nata nel 74 a.C. e della famiglia degli Scriboni, antica famiglia plebea che solo di recente, con il fratello di Scribonia, Lucio Scribonio Libone (Lucius Scribonius Libo; ... - 34 a.C.), militare e politico romano durante la Repubblica e coinvolto nelle guerre civili dalla parte di Gneo Pompeo Magno, suo consuocero, era diventata nobile. Non è noto cosa fece Lucio Scribonio Libone dopo la sconfitta e morte di Pompeo nella battaglia di Farsalo (48 a.C.), ma dopo la morte di Cesare (44 a.C.), Libone è in Spagna col genero Sesto Pompeo, ed è dunque ipotizzabile che non si fosse sottomesso a Cesare. Continuò a combattere con Sesto Pompeo e fu una delle figure di alto lignaggio che nel 40 a.C. Sesto Pompeo inviò dalla Sicilia in Grecia per scortare la madre di Marco Antonio, Giulia Antonia, che si era rifugiata presso Pompeo dopo la Guerra di Perugia. Ottaviano fu molto allarmato da questo evento, perché temeva un'alleanza tra Sesto Pompeo, che aveva il dominio sui mari, con Marco Antonio: dietro consiglio di Gaio Cilnio Mecenate e allo scopo di stringere un'alleanza con Libone e Pompeo, Ottaviano chiese la mano di Scribonia, la sorella di Libone che era molto più anziana di lui e si era già sposata due volte. Il matrimonio ebbe luogo poco dopo e aprì la strada per una pace tra i triunviri e Sesto Pompeo, che fu negoziata l'anno seguente a Miseno, in un incontro cui partecipò anche Libone. Quando la guerra riprese, nel 36 a.C., Libone si schierò ancora una volta dalla parte del genero Sesto Pompeo, ma quando capì che sarebbe stato sconfitto, lo abbandonò (nel 35 a.C.). In cambio del suo tradimento, nel 34 a.C. venne scelto dai triunviri per il consolato, da esercitare assieme a Marco Antonio, ma morì poco dopo essere entrato in carica. Pur di allearsi con Sesto Pompeo quindi, Ottaviano aveva accettato questo matrimonio anche se la moglie era molto più vecchia di lui e avesse già avuto due mariti precedenti (probabilmente un P. Cornelius ed un Marcellinus). Il matrimonio non durerà che un anno, Ottaviano ripudierà Scribonia nello stesso giorno della nascita della loro figlia Giulia, evento che genererà malumore e opposizione da parte di costei negli anni successivi del suo principato. 


Nel 39 a.C. - A Miseno (frazione del comune di Bacoli, nella città metropolitana di Napoli), Ottaviano attribuisce a Sesto Pompeo le province di Sardegna e Corsica, fondando dunque la città di Turris Libisonis, porto granario di Roma e promettendogli l'Acaia, ottenendo in cambio la ripresa dei rifornimenti a Roma (Pompeo con la sua flotta bloccava le navi provenienti dal Mediterraneo). Sesto Pompeo però, stava diventando un alleato scomodo e Ottaviano decise di disfarsene di lì a poco. Si arrivò così ad una prima serie di scontri non particolarmente felici per Ottaviano: la flotta preparata per invadere la Sicilia fu infatti distrutta sia da Sesto sia da un violento fortunale. Ottaviano decide così di divorziare dalla moglie Scribonia, che aveva sposato poiché appartenente ad una famiglia del partito di Sesto Pompeo e dalla quale avrebbe avuto il suo unico figlio naturale, Giulia, poiché intende prendere in sposa Livia Drusilla, della quale si dice fosse sinceramente innamorato, anche se era la moglie di Tiberio Claudio Nerone padre e madre del piccolo Tiberio. Le nozze avrebbero avuto sicuramente un notevole significato politico in quanto Ottaviano sperava così di riavvicinarsi alla fazione degli antoniani, mentre l'anziano padre di Tiberio intendeva, concedendo sua moglie a Ottaviano, discostarsi dal rivale di Ottaviano, Sesto Pompeo, che fra l'altro era lo zio di Scribonia, seconda moglie di Ottaviano. Il triumviro chiese per le nozze l'autorizzazione del collegio dei pontefici, dal momento che Livia aveva già un figlio (Tiberio) ed era in attesa di un secondo (Druso, che come Tiberio era figlio di Tiberio Claudio Nerone padre). I sacerdoti acconsentirono al matrimonio tra i due, ponendo, come unica clausola, che fosse accertata la paternità del nascituro.

- Nell'ottobre del 39 a.C. nasce Giulia maggiore (nota ai contemporanei come Iulia Caesaris filia o Iulia Augusti filia; ottobre 39 a.C. - 14), l'unica discendente naturale di Augusto e della sua seconda moglie Scribonia. Giulia nasceva il giorno stesso in cui il padre, allora noto come Ottaviano, divorziava dalla sua seconda moglie Scribonia, madre di Giulia, per sposare tre mesi dopo (17 gennaio del 38 a.C.) Livia Drusilla, che era sposa di Tiberio Claudio Nerone padre. Secondo la legge romana, Ottaviano ottenne la piena potestà sulla bambina, che tolse alla madre naturale e quando poi raggiunse l'età giusta, fu inviata dalla matrigna Livia Drusilla per ricevere l'educazione di una ragazza romana aristocratica, che Ottaviano volle fosse esemplare. «Augusto allevò la figlia e le nipoti con tale severità che vennero abituate al lavoro della lana e vietò loro di dire o fare qualcosa se non pubblicamente, perché ogni cosa potesse essere annotata nel diario quotidiano.» (Svetonio, Augustus, 64.). Ricevette, per volere del padre, i migliori insegnanti: Macrobio afferma che Giulia aveva un «amore per la letteratura e una considerevole cultura, qualcosa di facile da ottenere nella sua famiglia».

Nel 38 a.C. - Il 17 gennaio del 38 a.C. Ottaviano sposa Livia Drusilla, già madre di Tiberio,  che dopo tre mesi partorirà un figlio a cui è imposto il nome di Druso. Per quanto la paternità di Druso, è indubbio che Livia e Ottaviano non si conoscevano quando il bambino era stato concepito e che quindi era figlio di Tiberio Claudio Nerone, padre anche del piccolo Tiberio. Mentre Druso era allevato dalla madre nella casa di Ottaviano, Tiberio era rimasto presso l'anziano padre fino all'età di nove anni. Livia Drusilla (57 a.C. - 29 d.C.) era figlia di Alfidia e di M. Livio Druso Claudiano, proscritto dai triumviri e suicida nel 42 a.C., quando la Repubblica (della parte di Marco Antonio) era naufragata a Filippi. Sembra che questo padre provenisse o fosse imparentato con la gens Claudia Pulcra ed era sicuramente parente di Druso Libone (console del 15 a.C.). Comunque sia Livia Drusilla era figlia unica e certamente un buon partito essendo una erede della gens Livia (anche se per via adottiva). Livia Drusilla era andata in prime nozze giovanissima (età di primo matrimonio eranno considerati i 14-15 anni per il sesso femminile) sposa a Tiberio Claudio Nerone. Livia aveva seguito il primo marito nelle sue lunghe peregrinazioni durante la guerra civile, e solo nel 39 fu concesso alla famiglia Claudia a rimettere piede a Roma. Certamente un sincero amore, ma anche motivi politici furono la causa del terzo matrimonio di Ottaviano. Livia infatti apparteneva per nascita e per matrimonio alla famiglia patrizia dei Claudi e cioè alla classe aristocratica che gli era avversa e che Ottaviano premeva attirare a sé. Il primo marito non fece d’altra parte pressione contro l’importante Augusto e accettò di buon grado lo “scambio” della moglie pur di rientrare nella vita politica a Roma.

- Nel 38 a.C. Marco Vipsanio Agrippa, amico e futuro genero di Cesare Ottaviano (poi Augusto) divenuto governatore della Gallia, decide di passare il fiume Reno a causa delle continue razzie compiute da parte della tribù germanica dei Suebi che abitavano lungo la sponda destra del grande fiume. Il passaggio del fiume da parte delle armate romane avvenne nel territorio degli alleati Ubi, rimasti fedeli ai Romani fin dai tempi di Cesare e Agrippa compì così devastazioni nei territori germanici. Una volta date sufficienti dimostrazioni di forza con le armi, Agrippa tornò sulla sponda sinistra del grande fiume, permettendo agli alleati Ubi di trasferirsi in massa all'interno dei confini imperiali, garantendo così loro una maggiore protezione, riconoscente dei servigi prestati durante quell'anno di guerra e per tener lontani gli altri Germani. Una volta trasferiti all'interno dei confini dell'Impero romano, gli Ubi rimasero fedeli alleati dei Romani, fondando per l'occasione una nuova città: Ara Ubiorum, la moderna città di Köln (Colonia). In questa città, a partire dalla disfatta di Teutoburgo del 9 d.C. e almeno fino al 17-18, soggiornarono due legioni: la legio I Germanica e la legio XX Valeria Victrix.


Nel 36 a.C. - Grazie all'amico e generale Marco Vipsanio Agrippa, Ottaviano riesce a porre fine alla guerra con Sesto Pompeo, grazie anche ad alcuni rinforzi inviati da Antonio. Sesto Pompeo è sconfitto definitivamente presso Nauloco. La battaglia navale di Nauloco fu combattuta il 3 settembre del 36 a.C. tra la flotta di Sesto Pompeo, figlio di Gneo Pompeo Magno, e quella di Marco Vipsanio Agrippa, ammiraglio di Ottaviano, nei pressi di Nauloco in Sicilia. La disfatta di Sesto segnò la definitiva sconfitta dei partito pompeiano e la fine della sua opposizione al Secondo triumvirato. Sesto Pompeo si era rifugiato in Spagna con quanto restava delle armate del partito repubblicano dopo l'assassinio di Cesare. Il Senato, che l'aveva perdonato, gli aveva affidato il comando della flotta al tempo della guerra di Modena. Con questa forza navale, Sesto aveva occupato la Sicilia (nel 42 a.C.), raccogliendo intorno a sé tutti i nemici dei triumviri e aveva dato vita a un vero e proprio blocco navale contro Roma, che si era quindi trovata senza adeguati rifornimenti granari (nel 39 a.C.). Dopo un momentaneo compromesso (che però nessuno rispettò fino in fondo) tra le due parti, si riaccesero le ostilità e nel 38 a.C. Ottaviano fu battuto in mare da Sesto, riportando gravi perdite umane. Allora Ottaviano aveva richiamato dalla Gallia il suo legato, Marco Vipsanio Agrippa e aveva chiesto aiuto ad Antonio, che gli aveva concesso 120 navi in cambio di 20.000 soldati italici. Le due flotte si incontrarono tra il promontorio di Milazzo e la città di Nauloco presso la quale era ancorata l'armata di Pompeo. Entrambe le flotte erano composte da 300 navi, tutte dotate di artiglieria ma Agrippa comandava le unità più pesanti armate con l'arpagone, una versione più recente del corvo. Svetonio racconta: «[Ottaviano] al momento di combattere, fu preso da un colpo di sonno così profondo che i suoi amici faticarono molto per svegliarlo, affinché desse il segnale d'attacco. Per questo motivo Antonio, lo credo io [Svetonio], aveva tutte le sue buone ragioni per rimproverarlo, sostenendo che egli non avesse avuto neppure il coraggio di osservare una flotta schierata a battaglia, al contrario di essere rimasto sdraiato sul dorso con gli occhi rivolti al cielo, terrorizzato, rimanendo in quella posizione, senza presentarsi ai soldati, fino a quando Agrippa non mise in fuga la flotta nemica. [...] Dopo aver fatto passare in Sicilia un'armata, tornò in Italia a prendere le restanti truppe, ma fu assalito all'improvviso da Democaro e Apollofane, luogotenenti di Pompeo; fu un miracolo se riuscì a salvarsi, fuggendo su una sola imbarcazione. Un'altra volta, quando si trovava a piedi nei pressi di Locri, in direzione di Reggio, vide da lontano le navi di Pompeo lungo la costa. Convinto che fossero le sue, si diresse in spiaggia e per poco non venne fatto prigioniero. E proprio in questa circostanza, mentre fuggiva per sentieri impraticabili in compagnia di Paolo Emilio, uno schiavo di quest'ultimo, poiché lo odiava in quanto in passato [Ottaviano] aveva proscritto il padre del suo padrone, provando a vendicarsi, tentò di ucciderlo.» (Svetonio, Augustus, 16). Fuggito in Oriente, Sesto Pompeo fu catturato e giustiziato da un ufficiale di Antonio (nel 35 a.C.). Dopo la vittoria su Sesto Pompeo, Ottaviano dovette far fronte alle rivendicazioni di Lepido, il quale riteneva che la Sicilia dovesse toccare a lui, come stabilito dagli accordi dei triumviri e quindi, rompendo il patto di alleanza con Ottaviano, mosse per impossessarsene con venti legioni ma fu sconfitto rapidamente, visto che i suoi soldati lo abbandonarono e passarono dalla parte di Ottaviano. Lepido fu infine confinato al Circeo, pur conservando la carica pubblica di pontifex maximus. Il Monte Circeo (o promontorio del Circeo) è un piccolo promontorio che si erge sul Mar Tirreno, insieme al promontorio di Gaeta, come estrema propaggine meridionale della provincia di Latina, e che insieme a Capo Miseno, all'Isola d'Ischia e all'arcipelago ponziano racchiude le acque e segna il confine del golfo di Gaeta. Con la vittoria su Sesto Pompeo e la definitiva sconfitta di Marco Emilio Lepido, Ottaviano è il padrone indiscusso della parte occidentale dei domini romani.

Dal 35 a.C. - Campagne militari vittoriose di Ottaviano nell'Illirico. Quando Cesare era stato ucciso, i Dalmati tornarono a ribellarsi, pensando che il potere romano risiedesse nel dittatore appena morto e si erano opposti al pagamento del tributo al governatore dell'Illyricum, Publio Vatinio. In seguito tutte le risorse militari romane erano state impiegate nella guerra civile seguita al cesaricidio, ma ora per Ottaviano era necessario assicurarsi il controllo della strada che collegava l'Italia settentrionale (la Gallia cisalpina) con il medio/basso Danubio, fino alla frontiera orientale volendo rendere sicura l'intera area a sud del Danubio.

Nel 34 a.C. - Dopo aver conquistato l'Armenia con l'aiuto dell'esercito di Cleopatra, regina d'Egitto e sua amante, Marco Antonio celebra il trionfo nella capitale egiziana, Alessandria. In quell'occasione Marco Antonio nomina Cleopatra e il figlio Cesarione (Cesarion, piccolo Cesare, il cui padre era Giulio Cesare) reggenti di Cipro dividendo la parte orientale dei domini di Roma, che gli era stata affidata con gli accordi del secondo triumvirato, fra i tre figli avuti da Cleopatra, con quella che è nota come la «donazione di Alessandria».  In quell'occasione a Tolomeo XV (Cesarione) è attribuito il titolo di Re dei Re e gli è confermata la co-reggenza dell'Egitto. 

Nel 33 a.C. - Dopo l'eliminazione graduale di tutti i contendenti al potere su Roma nell'arco di sei anni, da Bruto e Cassio a Sesto Pompeo e Lepido, la situazione rimane nelle sole mani di Ottaviano in Occidente e Antonio in Oriente, portando un inevitabile aumento dei contrasti tra i due, ciascuno troppo ingombrante per l'altro, tanto più che i successi ottenuti nelle campagne militari di Ottaviano in Illirico (del 35-33 a.C.) e contro Lepido non erano stati compensati da Antonio in Oriente contro i Parti, limitandosi alla sola acquisizione in dote dell'Armenia. Alla sua scadenza, nel 33 a.C., il triumvirato non viene rinnovato (durò infatti 10 anni) e Antonio ripudierà Ottavia minore, (nel 32 a.C.) sorella di Ottaviano.

- Nel 33 a.C. Tiberio Claudio Nerone padre muore ed è il giovanissimo figlio Tiberio a pronunciarne la laudatio funebris dai rostri del Foro. Tiberio si trasferisce quindi nella casa di Ottaviano dov'erano la madre e il fratello, proprio mentre le tensioni tra Ottaviano e Antonio porteranno ad un nuovo conflitto, che si concluderà nel 31 a.C. con lo scontro decisivo di Azio.


Nel 32 a.C. - Il conflitto fra Ottaviano e Antonio era ora inevitabile, mancava solo il casus belli, che Ottaviano trovò Scriveva Svetonio: «La sua alleanza [di Ottaviano] con Antonio era sempre stata dubbia e poco stabile, mentre le loro continue riconciliazioni altro non erano che momentanei accomodamenti; alla fine si giunse alla rottura definitiva e per meglio dimostrare che Antonio non era più degno di essere un cittadino romano, aprì il suo testamento, da Antonio lasciato a Roma, e lo lesse davanti all'assemblea, dove designava come suoi eredi anche i figli che aveva avuto da Cleopatra.» (Svetonio, Augustus, 17). Ancora Svetonio aggiunge che Antonio aveva scritto ad Augusto in modo confidenziale, quando non era ancora scoppiata la guerra civile tra loro: «Che cosa ti ha cambiato? Il fatto che mi accoppio con una regina? È mia moglie. Non sono forse nove anni che iniziò [la nostra storia d'amore]? E tu ti accoppi solo con Drusilla? E così starai bene se quando leggerai questa lettera, non ti sarai accoppiato con Tertullia, o Terentilla, o Rufilla, o Salvia Titisenia o tutte. Giova forse dove e con chi ti accoppi?» (Svetonio, Augustus, 69.). Poiché il Senato non aveva visto di buon occhio il trionfo celebrato ad Alessandria e tantomeno la spartizione ai figli di terre che appartenevano a Roma e non ad Antonio, Ottaviano decise di forzare la mano ai senatori e, dopo aver corrotto alcuni funzionari, si impossessò del testamento del rivale e lo lesse pubblicamente all'assemblea senatoria: Antonio lasciava i territori orientali di Roma a Cleopatra VII d'Egitto e ai suoi figli, compreso Cesarione, figlio di Gaio Giulio Cesare. Si scatenò quindi la prevista reazione, per cui si dichiara Antonio nemico pubblico mentre Ottaviano gli manda i suoi parenti e i suoi amici, tra cui i consoli Gaio Sosio e Domizio Enobarbo. Poi il Senato di Roma dichiara guerra a Cleopatra, ultima regina tolemaica di Egitto, sul finire del 32 a.C.

Mappa della battaglia di Azio, da QUI
Nel 31 a.C. - Marco Antonio e Cleopatra sono sconfitti nella battaglia navale di Azio, il 2 settembre del 31 a.C. e si suicideranno entrambi l'anno successivo, in Egitto. La battaglia navale fu vinta dalla flotta di Ottaviano, guidata con abilità da Marco Vipsanio Agrippa, già decisivo contro Sesto Pompeo, soprattutto per la scarsa decisione di Marco Antonio che si fece convincere da Cleopatra a rinunciare al combattimento, mentre l'esito era ancora incerto, e a fuggire con il tesoro dell'esercito verso l'Egitto con una parte delle navi, mentre il resto della flotta antoniana rientrava in porto dopo aver subito alcune perdite. 

Nel 30 a.C. - Da alcuni anni risalivano le frizioni tra Antonio e Ottaviano, triumviro e figlio adottivo  di Cesare, quindi fratellastro adottivo dello stesso Cesarione, tensioni che erano sfociate in una guerra civile intestina della Repubblica romana tra i due generali. Nel settembre del 31 a.C. Antonio e Cleopatra erano stati sconfitti nella battaglia di Azio e si erano quindi ritirati in Egitto. Dopo il ritorno ad Alessandria dei due, Cesarione e Marco Antonio Antillo, figlio di Antonio da un precedente matrimonio, erano entrati a far parte degli efebi e il primo fu sempre più coinvolto negli affari del regno (l'efebìa, da ephebéia, era la condizione legale dei giovani al primo gradino dell'arruolamento di leva (le odierne "reclute"), che si esercitavano sotto il controllo dello stato. L'efebia era quindi il primo gradino per l'età adulta e sanciva l'uscita dall'infanzia. Ad Atene si era efebi dai diciotto ai vent'anni e ciò veniva sancito con un solenne giuramento nel tempio di Aglauro). La situazione andava però peggiorando con l'avanzata di Ottaviano in Siria e nell'estate del 30 a.C. Cleopatra, allontanatasi da Antonio, iniziò i preparativi per una sua partenza insieme a Cesarione  per l'India, così da sfuggire al figlio adottivo di Cesare, Ottaviano; i suoi piani furono però scoperti dal governatore della Siria Quinto Didio, che fece bruciare la flotta egizia di stanza nel mar Rosso. Nel luglio di quell'anno quindi, Ottaviano sbarcò in Egitto e assediò Alessandria; Antonio si suicidò il 1º agosto di quell'anno, mentre Cleopatra il 12. Dopo la morte della madre, Cesarione fu fatto uccidere per ordine di Ottaviano, convinto in tal senso da Ario Didimo, per liberarsi di uno scomodo rivale dinastico, mentre gli altri figli di Cleopatra furono condotti a Roma.

- Dopo la vittoria di Azio, Ottaviano non solo ordina quindi di uccidere il figlio di Cleopatra, Cesarione (in greco ellenistico Cesariòn, piccolo Cesare) la cui paternità veniva attribuita dalla regina a Gaio Giulio Cesare, ma decide di annettere l'Egitto a Roma, compiendo l'unificazione dell'intero bacino del Mediterraneo sotto Roma, e facendo di questa nuova acquisizione la prima provincia imperiale, governata da un proprio rappresentante, il prefetto d'Egitto. L'imperium di Ottaviano su questa provincia venne probabilmente sancito da una legge comiziale già nel 29 a.C., due anni prima della messa in opera del nuovo assetto provinciale. Svetonio racconta che quando Ottaviano si trovava ancora ad Alessandria d'Egitto: «[...] si fece mostrare il sarcofago e il corpo di Alessandro Magno, prelevato dalla sua tomba: gli rese omaggio mettendogli sul capo una corona d'oro intrecciata con fiori. E quando gli chiesero se voleva visitare anche la tomba di Tolomeo, rispose che voleva vedere un re, non dei morti.» (Svetonio, Augustus, 18). Per la storiografia moderna più datata, la nuova forma di governo provinciale riservata all'Egitto ebbe origine dal tentativo di compensare gli Egiziani della perdita del loro monarca-dio (il faraone), con la nuova figura del Princeps, primo fra gli uguali; in realtà, la scelta di Ottaviano di porre a capo della nuova provincia un prefetto plenipotenziario (figura che derivava direttamente dal prefetto della città tardo-repubblicana), il cosiddetto praefectus Alexandreae et Aegypti, titolo ufficiale attribuito al neo-governatore che aveva soppresso la Bulè di Alessandria, era stata dettata dal contesto in cui era avvenuta la conquista del paese: la guerra civile, ragioni di ordine strategico-militare nella lotta fra le due factiones tardo-repubblicane pro-occidente o pro-oriente, l'importanza del grano egiziano per l'annona di Roma e, non da ultimo, il tesoro tolemaico. L'aver, infatti, potuto mettere le mani sulle risorse finanziarie dei Tolomei consentì a Ottaviano di pagare molti debiti di guerra, nonché decine di migliaia di soldati che in tanti anni di campagne lo avevano servito, disponendone l'insediamento in numerose colonie, sparse in tutto il mondo romano. Svetonio aggiunge che Ottaviano: «[...] per meglio ricordare la vittoria di Azio, fondò nelle vicinanze la città di Nicopoli, dove vennero istituiti dei giochi quinquennali; fece ingrandire l'antico tempio di Apollo e consacrò a Nettuno e a Marte dove aveva posto gli accampamenti, adornandoli con le spoglie navali.» (Svetonio, Augustus, 18).

Aureo del 27 a.C.
col consolidamento
al potere di
Augusto da: QUI.
- Ottaviano era divenuto, di fatto, il padrone assoluto dello Stato romano, anche se formalmente Roma era ancora una repubblica e Ottaviano stesso non era ancora stato investito di alcun potere ufficiale, dato che la sua potestas di triumviro non era stata più rinnovata: nelle "Res Gestae" riconosce di aver governato in questi anni in virtù del "potitus rerum omnium per consensum universorum" ("consenso generale"), avendo per questo motivo ricevuto una sorta di perpetua tribunicia potestas (certamente un fatto extra-costituzionale). Il senato gli conferì progressivamente onori e privilegi, ma il problema che Ottaviano doveva risolvere consisteva nella trasformazione della sostanza dei rapporti istituzionali, lasciando intatta la forma repubblicana. I fondamenti del reale potere vennero individuati nell'imperium e nella tribunicia potestas: il primo, proprio dei consoli, conferiva a chi ne era titolare il potere esecutivo, legislativo e militare, mentre la seconda, propria dei tribuni della plebe, offriva la facoltà di opporsi alle decisioni del senato, controllandone la politica grazie al diritto di veto. Ottaviano cercò di ottenere tali poteri evitando di alterare le istituzioni repubblicane e dunque senza farsi eleggere a vita console e tribuno della plebe ed evitando inoltre la soluzione cesariana (Giulio Cesare era stato eletto, prima annualmente e poi a vita dictator). La carica di dittatore gli fu infatti offerta, ma egli prudentemente la rifiutò: «Il popolo con grande insistenza offrì ad Augusto la dittatura, ma lo stesso, dopo essersi inginocchiato, fece cadere la toga dalle spalle e, a petto nudo, supplicò che non gli fosse imposta.» (Svetonio, Augustus, 52). Fra l'altro Ottaviano, ora Augusto (degno di venerazione), considerava il titolo di dominus («signore») come un grave insulto e sempre lo respinse con vergogna.

Roma - Resti dei Fori Imperiali.
Nel 29 a.C. - Rimasto in Egitto per tutto l’inverno del 30 e la primavera del 29 prima dell'era Volgare (a.C.), risolto l’assetto politico in Oriente, Ottaviano fa ritorno a Roma e il 13, 14 e 15 agosto di quell'anno celebra tre magnifici trionfi delle vittorie riportate in Dalmazia, ad Azio ed in Egitto. Durante la cerimonia di un trionfo, è Tiberio a precedere il carro del vincitore, conducendo il cavallo interno di sinistra, mentre  Marcello, nipote prediletto e successore designato di Augusto, cui però premorirà (Marco Claudio Marcello, Roma 42 a.C. - Baia 23 a.C., era figlio di Gaio Claudio Marcello, console nel 50 a.C. e di Ottavia minore, sorella di Ottaviano), monta quello esterno di destra, trovandosi dunque al posto d'onore. Ottaviano concede donativi ai veterani ed ai poveri adoperando i tesori di Cleopatra e alla fine dei tre giorni di feste, consacra il tempio dedicato a Cesare. Come aveva già fatto Pompeo Magno, anche Ottaviano in quell'occasione fa coincidere il suo triplice trionfo con le feste celebrate a Roma in onore di Eracle, il 12 agosto per Heracles Invictus ed il giorno successivo in onore di Heracles Victor, l'Eracle vincitore. La memoria di quei festeggiamenti, le Ferie Augustae si è perpetrata nel nostro Ferragosto, il 15 Agosto, così come l'etimologia del nome agosto si ricollega al latino Augustus, nome dato a quel mese dall'8 a.C.

- In quell'anno Virgilio Marone (che era di Mantova, quindi di discendenza etrusca) inizia la stesura dell'"Eneide", che assegnerà antenati divini a Romolo e ad alcune "gens" Romane (Venere per la gens Julia, a cui apparteneva Giulio Cesare). Caio Giulio Cesare, che nacque il 13 luglio del 101 o il 12 luglio del 100 a.C. nella Suburra, un quartiere di Roma, dall'antica e nota famiglia patrizia della gens Iulia, annoverava tra gli antenati anche il primo e grande re romano, Romolo, che discendeva da Iulo (o Ascanio), figlio del principe troiano Enea, secondo il mito figlio a sua volta della dea Venere.

Roma antica con i nomi dei 7 colli
fino alle mura serviane del VI sec. a.C.,
l'espansione della Roma Repubblicana
e Imperiale fino alle mura aureliane del
III sec. d.C.
Nel 27 a.C. - Il 16 gennaio Ottaviano, che da qui in avanti sarà chiamato Augusto, restituisce formalmente nelle mani del senato e del popolo romano i poteri straordinari assunti per la guerra contro Marco Antonio e riceve: 1) il titolo di console da rinnovare annualmente; 2) una potestas con maggiore auctoritas  rispetto agli altri magistrati (consoli e proconsoli), poiché aveva diritto di veto in tutto l'Impero, a sua volta non assoggettato ad alcun veto da parte di qualunque altro magistrato; 3) l'imperium  proconsolare decennale, rinnovatogli poi nel 19 a.C., sulle cosiddette province "imperiali" (compreso il controllo dei tributi delle stesse), vale a dire le province dove fosse necessario un comando militare, ponendolo di fatto a capo dell'esercito; 4) il titolo di Augusto (su proposta di Lucio Munazio Planco), cioè "degno di venerazione e di onore", che sancisce la sua posizione sacra che si fondava sul consensus universorum di Senato e popolo romano; 5) l'utilizzo del titolo di Princeps ("primo cittadino"); 6) il diritto di condurre trattative con chiunque volesse, compreso il diritto di dichiarare guerra o stipulare trattati di pace con qualunque popolo straniero.
Nel 27 a.C. Augusto effettua la suddivisione dell'impero in province senatorie e imperiali.
Province senatorie e imperiali nella Roma di Augusto, da QUI
- Alcune province, in genere quelle di più antica annessione e ormai pacificate, nelle quali non era necessaria la presenza di legioni, sono affidate al controllo del Senato (province senatorie) e rette, secondo il modello dell'epoca repubblicana, da proconsoli (Proconsul provinciae) o propretori, eletti annualmente, a capo delle truppe lì stanziate a cui il senato stesso avrebbe potuto in qualunque momento emanare un senatus consultum limitandone o revocandone i poteri conferiti. La Numidia, l'Africa proconsolare, l'Asia, l'Acaia e l'Epiro, l'Illyricum, la Macedonia, la Sicilia, Creta e Cirene, Bitinia e Ponto, Sardegna e Corsica, Hispania Baetica erano province senatorie e a partire dal 22 a.C. Augusto cedette al Senato le province della Gallia Narbonense e di Cipro ottenendo in cambio quella dell'Illyricum.
- Le province imperiali erano quelle in cui il governatore era nominato direttamente ed unicamente dall'imperatore. Queste province erano spesso province di confine, strategicamente e militarmente importanti per la sicurezza dell'Impero o comunque quelle non del tutto pacificate o nelle quali erano da poco scoppiate guerre o rivolte; lo scopo ultimo, non troppo celato, era il controllo della pressoché totalità delle legioni da parte dell'imperatore. Si trattava delle province (esclusa l'Africa proconsolare) che si trovavano lungo il limes romano, in cui erano presenti delle legioni, soprattutto nei suoi tratti renano-danubiano-orientale. A questo sistema, faceva eccezione, già al tempo di Augusto, la prima provincia imperiale per costituzione, ovvero l'Egitto, che era assegnata ad un Praefectus Aegypti di rango equestre e di nomina imperiale, l'unico fra i governatori equestri che avesse al proprio comando una o più legioni. La Hispania Tarraconensis, la Hispania Lusitania, la Gallia Comata (o Tres Galliae), la Gallia Narbonensis (divenuta poi provincia senatoria dal 22 a.C.), la Siria (a cui fu unita la Cilicia e Cipro fino al 22 a.C.) e l'Egitto erano province imperiali. A partire dal 22 a.C. Augusto cedette al Senato le province della Gallia Narbonense e di Cipro ottenendo in cambio quella dell'Illyricum. Il potere dell'imperium consentiva all'imperatore di assumere direttamente il comando delle legioni stanziate nelle province "non pacatae" e di avere così costantemente a disposizione una forza militare a garanzia del suo potere, nel nesso inscindibile tra esercito e proprio comandante che era stato creato dalla riforma di Gaio Mario, ormai vecchia più di un secolo. L'imperium gli garantiva inoltre, la gestione diretta dell'amministrazione e la facoltà di emanare decreta, decisioni di carattere giurisdizionale, ed edicta, decisioni di carattere legislativo. 

Il Pantheon visto dall'alto.
- Nel 27 a.C., anno in cui Ottaviano ottenne il titolo di Augusto, Marco Vipsanio Agrippa rivestì per la terza volta il consolato insieme all'amico e futuro suocero Augusto. Quello stesso anno Vipsanio Agrippa costruì e dedicò il Pantheon, ricostruito in seguito sotto l'imperatore Adriano, che ripeté sulla trabeazione il testo dell'iscrizione dell'edificio eretto da Agrippa durante il suo terzo consolato (M·AGRIPPA·L·F·COS·TERTIVM·FECIT, ovvero"Marco Agrippa, figlio di Lucio, console per la terza volta, fece"). Il Pantheon, il tempio dedicato al culto di tutti gli dei (dal greco Pan= tutti e Theon=divinità) che sorge in piazza della rotonda, vicino a piazza Minerva, era stato concepito come Augusteum, ossia come luogo sacro dedicato al divinizzato imperatore Augusto e tempio di tutte le divinità protettrici della sua stirpe. Danneggiato nell’incendio di Roma dell’80 d.C., fu restaurato da Domiziano ed è giunto a noi quasi integro nella ricostruzione eseguita da Adriano nel 130 d.C.. Quasi tutto quello che vi si può ammirare risale all'epoca romana. La cupola, che ha un diametro interno di 44.30 m, è tuttora la più grande mai realizzata in muratura ed è costruita in un conglomerato particolarmente leggero formato da malta e da scaglie di travertino, sostituite man mano che si sale, da lapilli (pozzolana vulcanica) e pietra pomice. Alta 43,4 metri, dalla cupola la luce filtra attraverso l’oculus, l’apertura circolare con un diametro di 9 metri sulla sua sommità, illuminando l’intero edificio. In caso di pioggia, l’acqua che cade all'interno sparisce nei 22 fori quasi invisibili del pavimento, anche se nell'antichità probabilmente la pioggia veniva deviata dalle forti correnti ascensionali prodotte dalle torce accese all'interno. La massiccia porta di bronzo risale all'età romana, così come l'esterno, iscrizione compresa, del 27 a.C.. Il porticato all'interno è decorato da pregiati marmi policromi e presenta nella facciata 16 colonne monolitiche, alte ben 14 metri, di granito grigio e rosa dotate di capitelli corinzi in marmo e coronato da un frontone con timpano, originariamente decorato da un fregio di bronzo.
Il Pantheon all'interno.
Di bronzo era coperto anche il soffitto del porticato, ma tale rivestimento fu rimosso nel 1625 per volontà di Urbano VIII Barberini quindi utilizzato dal Bernini per realizzare il Baldacchino in San Pietro. L'interno presenta una pianta circolare caratterizzato dalla maestosità della cupola a cassettoni e l'unica apertura è l'oculus al suo centro, che crea un effetto luminoso che esalta la grandiosità e l'armonia del monumento. Nel 609 il tempio fu donato dall'imperatore Foca a papa Bonifacio IV e fu trasformato in chiesa, dedicata a Santa Maria dei Martiri, cosa che favorì la sua ottima conservazione fino ai giorni nostri. Dopo il 1870, demoliti i due campaniletti laterali, le cosiddette “orecchie d’asino”, fatti realizzare da Urbano VIII al Bernini, il Pantheon venne trasformato nel sacrario dei re d’Italia, e accolse le spoglie di Vittorio Emanuele II, Umberto I e Margherita di Savoia, le cui tombe si affiancarono a quelle di Baldassarre Peruzzi e di Taddeo Zuccari. Inoltre vi è il sepolcro di Raffaello Sanzio, ad ornamento del quale si trova la famosa Madonna del Sasso realizzata da Lorenzetto nel 1520, commissionatagli dallo stesso Raffaello. Nelle cappelle dell'interno si trovano distribuite numerose opere d'arte.

Per eventuali approfondimenti vedi "Storia dell'Europa n.27: dal 49 al 27 p.e.v. (a.C.)" QUI.

Dal 26 a.C. - L'imperatore Augusto inaugura una serie di campagne militari, fino all'8 a.C., per occupare tutti i territori alpini della Vindelicia e della Rezia al fine di conquistare la Germania Magna fino all'Elba.


Giulia, Altes Museum
di Berlino, di Anagoria
- Opera propria,
CC BY 3.0, QUI.
Nel 25 a.C. - All'età di quattordici anni, Giulia maggiore, figlia di Augusto, sposa il cugino Marco Claudio Marcello (figlio di Ottavia minore, sorella di Augusto), che aveva tre anni più di lei. Sebbene la sua vita sociale fosse tanto controllata che poteva parlare solo con alcune persone autorizzate dal padre, Giulia era stata una bambina molto attraente, ed era stato difficile evitarle l'attenzione della gente. Ottaviano aveva un grande amore per la figlia e Macrobio riferisce il suo commento: «Augusto affermava dinanzi ad alcuni amici che aveva due figlie dilette di cui occuparsi: la Repubblica e Giulia». La vita di Giulia fu in qualche modo legata alla carriera politica del padre. Augusto non era presente al matrimonio poiché era in Hispania, impegnato nelle guerre cantabriche ed era ammalato, così alla cerimonia presenziò il suo amico e collaboratore Marco Vipsanio Agrippa, futuro marito di Giulia esso stesso. Marcello, riguardo al quale girava la voce che fosse stato designato erede di Augusto, che organizzò degli splendidi giochi finanziati dallo stesso imperatore, morì nel settembre 23 a.C.: la coppia non aveva avuto figli, probabilmente perché Giulia, che all'epoca della morte del marito aveva sedici anni, era ancora molto giovane.

Marco Claudio Marcello
di Siren-Com, da QUI.
- Marco Claudio Marcello (Roma, 42 a.C. - Baia (Napoli), 23 a.C.) è stato un politico e militare romano, membro della dinastia giulio-claudia, nipote prediletto e successore designato di Augusto, a cui però premorì. Era figlio di Gaio Claudio Marcello, console nel 50 a.C., e di Ottavia minore, sorella dell'imperatore Augusto. Il suo bisnonno paterno era Marco Claudio Marcello, console per tre volte nel 166, 155 e nel 152 a.C.; questi era a sua volta bisnipote del più celebre Marco Claudio Marcello, il conquistatore di Siracusa durante la seconda guerra punica. La madre era invece figlia di Gaio Ottavio e di Azia maggiore, quest'ultima pronipote materna del dittatore Gaio Giulio Cesare. Ottavia minore, dopo la morte del padre di Marcello, si risposò con il triumviro Marco Antonio, dal quale ebbe Antonia maggiore e Antonia minore. Marcello aveva due sorelle, Claudia Marcella maggiore, moglie di Marco Vipsanio Agrippa, Iullo Antonio e Sesto Appuleio, e Claudia Marcella minore, moglie di Lucio Emilio Lepido Paolo e Marco Valerio Messalla Appiano. Ancora giovanissimo, nel 39 a.C., Marcello viene fatto fidanzare con Pompea Magna, per siglare la pace tra il padre di lei, Sesto Pompeo, con Marco Antonio e Ottaviano. Nel 29 a.C. Marcello apparve insieme allo zio Ottaviano nel suo trionfo per la vittoria su Antonio e Cleopatra e due anni dopo, nel 27 a.C., Ottaviano ottenne il titolo di "Augusto", dando definitivamente inizio all'Impero romano. Nel 26-25 a.C. Marcello militò in Spagna, come tribuno militare, insieme a Tiberio sotto il comando dello stesso Augusto. La sua importanza accrebbe quando fu chiaro che era uno dei primi candidati alla successione di Augusto, il quale gli concesse nella primavera del 25 a.C. di sposare la sua unica figlia, Giulia. Marcello fu istruito in campo militare da Ateneo di Seleucia, che lo accompagnò anche in Spagna, e si racconta che la madre Ottavia avesse scelto per lui un importante pedagogo come Nestore di Tarso, uno dei filosofi dell'accademia degli stoici. Sempre nel 25 a.C. potrebbe essere stato uno dei fondatori del collegio degli Arvali. Il cursus honorum di Marcello fu "accelerato" di 10 anni per decreto del Senato nel 24 a.C., in modo da scavalcare Tiberio nella linea di successione e diventare un concorrente di Agrippa. A Marcello, infatti, era concesso il diritto di diventare senatore tra gli ex pretori e di candidarsi al consolato con dieci anni di anticipo. Nel 24 a.C. fu nominato Edile e diede giochi magnifici, ma alla fine dell'anno successivo morì (nel 23 a.C.) probabilmente vittima di un'epidemia che si abbatté su Roma in quell'anno. Cassio Dione ci racconta anche che prima di morire: «[...] quando Augusto si accorse che Marcello, per via della scelta precedente [Augusto aveva consegnato ad Agrippa l'anello, simbolo del potere imperiale, all'inizio dell'anno, quando si era ammalato gravemente e disperava di poter guarire], era animato da rivalità nei confronti di Agrippa, inviò quest'ultimo con grande celerità in Siria, per scongiurare che, entrambi presenti a Roma, potesse nascere qualche contesa tra i due.» (Cassio Dione, LIII, 32, 1.). Agrippa tornò a Roma subito dopo la morte di Marcello e Augusto lo fece sposare con la figlia Giulia appena rimasta vedova di Marcello, designandolo così a essere suo successore. Scrisse Cassio Dione a proposito dei funerali di Marcello: «Augusto gli diede una sepoltura pubblica, dopo i consueti elogi lo seppellì nella tomba che fece costruire (l'Augusteo) [...] E egli ordinò anche che fossero portati nel teatro [di Marcello] una sedia curule, un ritratto e una corona d'oro durante i Ludi Romani» (Cassio Dione, LIII, 30, 5; 31, 3.). Marcello fu il primo membro della dinastia giulio-claudia a essere sepolto nel Mausoleo di Augusto, come da volontà dello zio. Livia Drusilla, moglie dell'imperatore Augusto e madre di Tiberio e Druso, fu sospettata della morte di Marcello, sulla base del movente secondo cui questi era stato preferito ai figli della stessa, insieme al nuovo erede designato Agrippa; è più plausibile che Marcello fu vittima di un'epidemia che si abbatté su Roma in quell'anno provocando molte morti. Egli fu comunque celebrato da Virgilio nel VI libro dell'Eneide e da Properzio; alla sua memoria fu intitolata la biblioteca del portico di Ottavia. Si racconta che quando Virgilio lesse ad Augusto in anteprima i versi dell'Eneide che parlavano del defunto Marcello, Ottavia svenne per l'emozione. Nel 13 a.C., quando Augusto completò il teatro iniziato da Giulio Cesare per contrapporlo a quello del rivale Pompeo, la nuova struttura prese il nome di teatro di Marcello, in onore dell'amato nipote dell'imperatore morto prematuramente.

- Se Tiberio dovette molto della sua ascesa politica alla madre Livia Drusilla, terza moglie di Augusto, restano indubbie le sue capacità militari di comandante e stratega: rimase imbattuto nel corso di tutte le sue lunghe e frequenti campagne, tanto da divenire, nel corso degli anni, uno dei migliori luogotenenti del patrigno. Data la mancanza di vere e proprie scuole militari che permettessero di fare esperienza, nel 25 a.C. Augusto decise di inviare in Hispania i sedicenni Tiberio e Marcello, in qualità di tribuni militari. Lì i due giovani, che Augusto vedeva come suoi possibili successori, parteciparono alle fasi iniziali della guerra cantabrica, iniziata dallo stesso Augusto nell'anno precedente, e portata a termine, nel 19 a.C., dal generale Marco Vipsanio Agrippa.


Aureo di Augusto del 17/
16 a.C. con il Capricorno,
domicilio di Saturno: QUI 
Nel 23 a.C. - Inizia ufficialmente il principato di Augusto, gli si conferisce la tribunicia potestas vita  (mentre secondo alcuni gli era già stata attribuita nel 28 a.C.), che diventa la vera base costituzionale del potere imperiale: comporta infatti l'inviolabilità della persona e il diritto di intervenire in tutti i rami della pubblica amministrazione, e tutto questo senza i vincoli repubblicani della collegialità della carica e della sua durata annuale. Particolarmente significativo fu il diritto di veto, che garantì ad Augusto la facoltà di bloccare qualunque iniziativa legislativa che considerasse pericolosa per la propria autorità. Nello stesso anno l'imperium di cui già godeva divenne imperium proconsolare maius et infinitum, in modo da comprendere anche le province senatorie: tutte le forze armate dello Stato romano dipendevano ora da lui. Finisce così la Repubblica di Roma, dove il potere era condiviso fra: 1) tribuni della plebe e comizi che eleggevano i consoli e proponevano leggi da parte del popolo e 2) il senato che decideva ogni altra cosa, a cui però i tribuni della plebe potevano opporre un veto, per gli ottimati (gli aristocratici). Da qui in poi, nell'impero il popolo non avrà più una rappresentanza politica e il senato degli aristocratici non avrà a disposizione la forza militare primaria, le legioni. Ora tutto il potere era nelle mani di chi disponeva dell'imperium, l'autorità sulla forza militare. L'ambizione di Augusto era quella di essere fondatore di un optimus status, facendo rivivere le più antiche tradizioni romane e nel contempo tenendo conto delle problematiche dei tempi. Il mantenimento formale delle forme repubblicane, nelle quali si inseriva il nuovo concetto della personale auctoritas del princeps (Augusto definiva il princeps come il primo degli uguali, cioè i senatori), permise di risolvere i conflitti per il potere vissuti nell'ultimo secolo della Repubblica. Egli non schiacciò affatto l'antica aristocrazia, ma le affiancò, in una più vasta cerchia del privilegio, il ceto degli uomini d'affari e dei funzionari, organizzati nell'ordine equestre, i cui membri furono spesso utilizzati dall'imperatore per controllare l'attività degli organi repubblicani e per il governo delle province imperiali. Augusto, una volta ricevuti i necessari poteri da parte di Senato e Popolo romano, cominciò ad assumere misure atte a dare all'Italia e alle Province il sospirato benessere dopo oltre un decennio di guerre civili: riordinò il cursus honorum delle magistrature repubblicane, ne creò di nuove (come la figura del curator o quella del praefectus Urbis), ripristinò la carica magistratuale del censore, aumentò il numero dei pretori e promosse leggi che frenavano il diffondersi del celibato e incoraggiavano la natalità, emanando la lex Iulia de Maritandis Ordinibus del 18 a.C. e la lex Papia Poppaea del 9 d.C. (a completamento della prima legge). Il termine imperator è un titolo originariamente denso di significati religiosi e successivamente è stato conferito ai condottieri vittoriosi, poiché contiene in sé il riferimento all'imperium, un primato nell'ambito religioso, civile e militare. Il significato del termine imperatore, che deriva dal latino imperator, ha un'origine chiara: indica colui che vive un rapporto favorevole con gli dèi. Già in epoca regale la felicitas imperatoria indicava quel re che poteva vantare un tale rapporto favorevole (pius) con gli dèi. Questa relazione unica veniva stabilita il giorno dell'inauguratio, ovvero il giorno in cui gli àuguri verificavano tale condizione del re. Con Ottaviano, che creò la struttura ideologica del principato, a tale termine venne aggiunto anche quello di Augustus ovvero detentore dell'augus (lojas in indo-iranico), detentore cioè di quella forza che unica consente di adempiere alle funzioni sacrali rispetto agli dèi e quindi di rafforzare la stessa Roma. L'imperator, nella cultura profondamente religiosa quale fu quella romana, è ricco di felix, ovvero è possessore legittimo degli auspici e quindi votato alla vittoria purché sia sempre pius cioè  collegato  correttamente con il mondo sacro degli dèi. Sempre con Ottaviano ha ingresso nella Religione romana la figura dell'imperatore. Esso diviene il "re divino", monarca universale per volere degli dèi, ricevendo, inoltre, il doppio titolo di sacer e sanctus. Le qualifiche religiose della figura imperiale ricalcano i modelli ellenistici a cui si aggiungono le peculiarità della religiosità romana, per le quali ad un beneficio ricevuto dal dio deve corrispondere sempre un atto di culto. L'imperatore è quindi sacro e per le sue virtù e per la sua condotta di vita è anche santo. Ma i due termini, sacer e sanctus, finiscono per sovrapporsi, così Gallieno e Alessandro Severo vengono indicati come sanctissimi, mentre Domiziano, Adriano e Antonino Pio vengono invece appellati come sacratissimi. Dal 13 a.C. Augusto assume la carica di Pontefice massimo, carica che gli imperatori manterranno fino al 375. L'Imperatore, nella sua qualità di Pontifex Maximus esercitava il supremo ruolo di sorveglianza e governo sul culto religioso, presiedendo il collegio dei pontefici e gli altri collegi sacerdotali, nominando le Vestali, i Flamini ed il Rex sacrorum, regolando il calendario con la scelta dei giorni fasti e nefasti ed avendo il completo controllo sul rispetto del diritto romano, della cui interpretazione era custode. In tal senso poteva anche controllare la redazione degli annales pontificum, cioè delle cronache pubbliche, e della tabula dealbata, riportante la lista dei magistrati in carica. L'Imperatore stesso era oggetto di un culto imperiale, nel quale il genio del Principe diveniva oggetto di pratiche religiose, spesso affiancandosi nei templi ad altre forme divinizzate del potere imperiale dello Stato, come la dea Roma. Il culto del genius principis, sebbene spesso percepito nelle classi elevate come una forzatura della religione tradizionale, consentiva di rivolgere al sovrano cerimonie pubbliche di valenza religiosa senza per questo infrangere i principi che vietavano il culto di persone viventi. A questo si aggiungeva la possibilità di rivolgere poi un vero e proprio culto alla persona dell'Imperatore dopo la sua morte una volta che questi fosse pubblicamente divinizzato dal Senato con il riconoscimento della sua condizione di divus. Il complesso di tali pratiche durerà fino all'anno 375, quando l'imperatore Graziano declinerà l'onore del pontificato massimo perché incompatibile con la nuova religione cristiana, anche se Costantino I non rinunciò mai a tale potere. Tuttavia anche nel nuovo ambito cristiano l'Imperatore continuò a rivestire un ruolo preminente come vicario di Cristo e rappresentazione terrena dell'ordine celeste. Questo valse soprattutto per gli imperatori romani d'Oriente, che potevano, in qualità di vicari (rappresentanti) della divinità, manovrare patriarchi, papi e vescovi oltre ad emettere editti a carattere religioso e convocare concili. Ottaviano stesso inaugura l'epopea della Pax Romana, che vede l'impero come area di civiltà che si esprime nel diritto e al cui interno non vi sono conflitti, e ricorderà che si era ritrovato una Roma costruita di mattoni e la lascerà edificata di marmi.

Nel 21 a.C. - All'età di 18 anni, Giulia sposa in seconde nozze Marco Vipsanio Agrippa, che aveva ben venticinque anni più di lei. Questo matrimonio tra la figlia di Augusto e il suo più fidato amico e generale, sarebbe stato suggerito anche da Mecenate, che riferendosi alla carriera di Agrippa iniziata in una famiglia di rango modesto, diceva ad Augusto: «Lo hai reso così grande che deve divenire tuo genero o essere ucciso». Al nome di Giulia vennero legati, sin da questo periodo, numerosi adulteri, il primo dei quali con un certo Sempronio Gracco, col quale pare abbia avuto una relazione duratura; altre voci girarono su una passione accesasi nei confronti del fratellastro, il figlio di Livia Drusilla da un precedente matrimonio e futuro imperatore, Tiberio. Gli sposi andarono a vivere in una villa urbana, forse la casa della Farnesina ritrovata nei pressi della moderna Villa Farnesina a Trastevere. Giulia diede ad Agrippa cinque figli: Gaio Vipsanio Agrippa (Gaio Cesare), Vipsania Giulia Agrippina (Giulia minore), Lucio Vipsanio Agrippa (Lucio Cesare), Vipsania Agrippina (Agrippina maggiore) e Marco Vipsanio Agrippa Postumo (Agrippa Postumo, nato dopo la morte del padre). Dal giugno 20 a.C. alla primavera 18 a.C., Agrippa fu governatore della Gallia ed è probabile che Giulia lo abbia seguito nella provincia al di là delle Alpi. Subito dopo il loro arrivo in Gallia nacque Gaio, nel 19 a.C. nacque Giulia minore e dopo il ritorno della coppia in Italia nacque Lucio.

Marco Vipsanio Agrippa
al Louvre di Parigi, di
Shawn Lipowski QUI.
- Marco Vipsanio Agrippa (Arpino, 63 a.C. circa - Campania, 12 a.C.) è stato un politico, militare e architetto romano. Amico di Ottaviano, il futuro imperatore Augusto, è stato suo fedele collaboratore e anche suo genero. Agrippa è stato artefice di molti trionfi militari di Ottaviano, il più considerevole dei quali è stata la vittoria navale nella battaglia di Azio contro le forze di Marco Antonio e Cleopatra. Di origini modeste, era nato forse ad Arpino, in Campania, ma la questione è dibattuta: alcuni studiosi, tra i quali Victor Gardthausen, David Ridgway, e R. E. A. Palmer, sostengono che la sua famiglia fosse originaria di Pisa, nell'Etruria settentrionale. Era della stessa età di Ottaviano e i due erano amici intimi dall'infanzia. Ottaviano e Agrippa avevano servito come ufficiali di cavalleria, al comando di Giulio Cesare, nella battaglia di Munda nel 45 a.C., dove Agrippa si era distinto per il suo grande valore. Dopo la battaglia e il ritorno a Roma, Cesare adottò Ottaviano come suo erede legale. Mentre le fazioni senatoriali a Roma diventavano sempre più aggressive, Cesare inviò Ottaviano e Agrippa a studiare ad Apollonia con le legioni macedoni. Cesare inviò anche il figlio di uno dei suoi amici, Gaio Cilnio Mecenate, a studiare con loro, e anch'egli si legò in amicizia con Ottaviano e Agrippa. Agrippa ottenne grande favore tra i legionari macedoni e dimostrò notevoli capacità di comando. In Grecia si occupò inoltre di architettura, acquisendo le capacità che avrebbe usato più tardi nella sua vita. Ad Apollonia li raggiunse la notizia dell'assassinio di Giulio Cesare nel 44 a.C., quando Ottaviano partì immediatamente per Roma. Dopo il ritorno di Ottaviano a Roma, Agrippa in Grecia assunse il comando delle legioni macedoni (e principalmente la Legio IIII Macedonica) e le diresse a Roma in aiuto dell'amico. Con il sostegno delle legioni, Ottaviano poté concludere il patto con Marco Antonio e Lepido noto come "Secondo triumvirato" per contrastare gli assassini di Cesare. Agrippa combatté accanto a Ottaviano e ad Antonio come il più importante generale di Ottaviano nella decisiva battaglia di Filippi (42 a.C.). Dopo il ritorno a Roma, Ottaviano inviò Agrippa (nel 41 a.C.) a dirigere la guerra contro Lucio Antonio e Fulvia Antonia, rispettivamente fratello e moglie di Marco Antonio, che si concluse con la loro cattura a Perusia (Perugia) nel 40 a.C. Due anni più tardi, si recò nelle Tres Galliae come proconsole, dove represse prima una sollevazione tra gli Aquitani, poi attraversò il Reno per punire le aggressioni delle tribù germaniche e trasferire in territorio romano quella degli Ubii con il loro consenso. Al suo ritorno rifiutò il trionfo offertogli, ma accettò il suo primo consolato (nel 37 a.C.). In quel periodo Sesto Pompeo aveva il controllo del mare sulle coste dell'Italia, per cui la prima preoccupazione Agrippa fu quella di provvedere ad un porto sicuro per le sue navi, facendo collegare il lago d'Averno al lago Lucrino, che aveva uno sbocco verso il mare, costruendo il portus Iulius. Nel 37 a.C. Agrippa sposò Pomponia, figlia di Tito Pomponio Attico, amico di Cicerone, dalla quale ebbe la sua primogenita Vipsania Agrippina. Ottaviano stesso combatté contro Sesto Pompeo, ma venne sconfitto nella battaglia navale di Messina nel 37 a.C. e di nuovo nell'agosto del 36 a.C. Agrippa, nominato comandante in capo della flotta, sottopose i suoi equipaggi ad uno stretto addestramento finché nel 36 a.C. sconfisse Sesto Pompeo a Mylae e a Nauloco: in un mese distrusse completamente la forza navale di Sesto, ricevendo la corona navale per le sue vittorie in Sicilia. Nel 33 a.C. Agrippa è eletto edile, carica in cui farà uso delle sue conoscenze di architettura. In quanto curator aquarum, inizia la costruzione del monumentale acquedotto del Serino, una delle più grandi opere architettoniche dell'intero Impero Romano, destinato a rifornire la flotta imperiale ancorata a Miseno. Fece anche restaurare gli acquedotti più antichi e ne fece costruire due nuovi per rifornire la città di Roma (l'Aqua Iulia e nel 19 a.C., l'Aqua Virgo), collocando ovunque in città nuove fontane per distribuire l'acqua, fece restaurare e ripulire la Cloaca massima e attuò la politica edilizia di Augusto nel Campo Marzio, costruendo terme, portici e giardini. Questa politica procurò ampi consensi al partito di Augusto che così poté propagandare di essersi preoccupato del benessere della città e l'aver migliorato la vita della plebe. Agrippa fu richiamato di nuovo per prendere il comando della flotta quando scoppiò la guerra contro Antonio e Cleopatra. La vittoria di Ottaviano ad Azio nel 31 a.C., che gli diede il controllo di Roma, fu principalmente dovuta ad Agrippa. Per facilitare la sua ascesa al potere, Ottaviano lo assocerà alla famiglia imperiale, costringendolo a separarsi dalla moglie Claudia Marcella maggiore sposata nel 28 a.C., per sposarsi invece nel 21 a.C. con Giulia, la figlia di Augusto, rimasta vedova, ottenendo poi un secondo consolato con Ottaviano lo stesso anno. 
Intitolazione ad Agrippa
del Pantheon, da QUI.
Nel 27 a.C., anno in cui Ottaviano ottenne il titolo di Augusto, Marco Vipsanio Agrippa riveste per la terza volta il consolato insieme all'amico e quello stesso anno costruì e dedicò il Pantheon, ricostruito in seguito sotto l'imperatore Adriano, che ripeté sulla trabeazione il testo dell'iscrizione dell'edificio eretto da Agrippa durante il suo terzo consolato: M·AGRIPPA·L·F·COS·TERTIVM·FECIT, ovvero"Marco Agrippa, figlio di Lucio, console per la terza volta, fece". Agrippa fece erigere anche il Campus Agrippae nella VII regio e a sua sorella compete invece l'erezione della Porticus Vipsania. Gli anni seguenti al suo terzo consolato, Agrippa li passò in Gallia, riformando l'amministrazione provinciale ed il sistema tributario ed occupandosi della costruzione di un efficace sistema di strade e di acquedotti. Sembra che la sua amicizia con Augusto si sia appannata a causa dei contrasti con il cognato Marco Claudio Marcello. Svetonio racconta infatti che, col pretesto di un lieve raffreddore, lasciò tutti e si ritirò a Mitilene, anche se la vera ragione era che l'imperatore gli preferiva Marcello. Nel 23 a.C., Agrippa ricevette l'imperium proconsolare e fu nominato governatore in Siria, che governò dall'isola di Lesbo tramite un legato. Alla morte di Marcello, fu richiamato a Roma da Augusto che, forse anche per consiglio di Mecenate, decise di legarlo alla famiglia imperiale rendendolo suo genero, per cui Agrippa divorziò da Marcella per sposare Giulia maggiore nel 21 a.C., da poco vedova di Marcello.

Nel 19 a.C. - Vipsanio Agrippa è impiegato sia per sedare alcune rivolte in Gallia Comata e difendersi dai Germani, sia per spegnere definitivamente una nuova rivolta dei Cantabrici in Hispania ed è nominato governatore della Siria una seconda volta nel 17 a.C. Lì la sua amministrazione giusta e a gestione prudente, gli fece guadagnare rispetto e benevolenza, particolarmente della popolazione ebraica. Agrippa inoltre ristabilì un efficace controllo romano sul Chersoneso Cimmerico (l'attuale Crimea) durante il suo governatorato. Tornato dalla Siria, Augusto gli conferì la tribunicia potestas per altri cinque anni. Nicola di Damasco e Giuseppe Flavio riportano che una volta che Giulia stava viaggiando per raggiungere Agrippa durante una campagna militare, un'improvvisa alluvione la colse vicino ad Ilio, causandone quasi la morte. Allora Agrippa, infuriato, decretò una multa di 100.000 dracme per la comunità locale: sebbene la somma fosse molto elevata, nessuno ardì presentare un appello presso Agrippa, finché il re di Giudea, Erode il Grande, non andò personalmente a chiedere il perdono per la città. 


Nel 18 a.C. - In occasione del conferimento di sacralità da parte del senato ad Augusto, questi decreta il mese di sestile (che da Augusto prenderà il nome di agosto, così come quintile da Giulio Cesare prenderà il nome di luglioFeriae Augusti, vacanze di agosto; il nostro Ferragosto.

Nel 17 a.C. - Con l'avvento del principato di Augusto inizia un lungo periodo di pace interna. Restavano da pacificare la Spagna e alcune zone della Gallia e l'imperatore portò a termine il compito con decisione, guidando alcune campagne personalmente e affidandone altre ad Agrippa, dopodichè gli eserciti furono impegnati solo nell'allargare i confini dell'Impero. Per decreto del senato, nel 17 a.C. inizia una nuova epoca, un nuovo saeculum di pace in cui si riprendeva la tradizione dei ludi saeculares, che durante la repubblica si tenevano ogni cent'anni. Con la Pax Romana, l'impero si impone come area di civiltà che si esprime nel diritto e al cui interno non sussistono conflitti. Diceva Augusto che si era ritrovato Roma costruita di mattoni e la lasciava edificata di marmi.

- Nel 17 a.C. in Gallia, la tribù dei germani  Sigambri, sotto il comando di un certo Melo (il cui fratello si chiamava Betorige, riferisce Strabone in Geografia, VII  Germania, 1.4), insieme alle tribù alleate dei germani Usipeti e Tencteri, battono un esercito romano nella Germania Magna e dopo aver catturato un certo numero di armati, impalano ben 20 centurioni (un terzo del numero complessivo di centurioni presenti in una legione), come se fosse "un giuramento o una speranza di vittoria" (Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC libri duo, 30, 23-25; Cassio Dione, Storia romana LIV, 20). Poi, dopo aver attraversato il Reno, invadono la vicina Gallia saccheggiandone i territori e provocando il pronto intervento della cavalleria romana, mandata in soccorso alle guarnigioni del limes renano. L'esito sarà disastroso per i Romani  poiché non solo la cavalleria fu sorpresa e distrutta in un agguato, ma cosa ben più grave, l'esercito accorrente del governatore della provincia, Marco Lollio, fu battuto  mentre una delle sue legioni, la V Alaudae, perdeva l'Aquila, con grande disonore per le armate romane (Velleio Patercolo,  Historiae romanae ad M. Vinicium libri duo, 97; Svetonio, Vite dei Cesari, Augusto, 23; Tacito, Annales, I, 10). Le popolazioni germaniche avevano più volte tentato di passare il Reno con grave danno per le province galliche: nel 38 a.C. (anno in cui gli alleati germani, Ubi, furono trasferiti in territorio romano), nel 29 a.C. da parte dei Suebi e nel 17 a.C. ad opera di Sigambri e dei loro alleati Tencteri ed Usipeti. È forse a questo periodo che si può attribuire la costruzione di alcuni castra militari come quelli di Folleville e Mirebeau-sur-Bèze all'interno della Gallia oppure Castra Vetera e Mogontiacum (Magonza) lungo il fiume Reno. Augusto stesso, in seguito a questi eventi, decise di partire per il fronte germanico, fermandosi in Gallia per due interi anni, per rendersi conto sul da farsi e programmando per gli anni a venire l'occupazione della Germania Magna, portando così i confini imperiali (il limes) dal fiume Reno all'Elba. D'altra parte le campagne di conquista dei territori alpini della Vindelicia e della Rezia erano state intraprese al fine di occupare la Germania Magna

Nel 16 a.C. - Sebbene Augusto, dopo la campagna in Oriente, avesse ufficialmente dichiarato in senato che avrebbe abbandonato la politica di espansione, ben sapendo che un'estensione territoriale eccessiva sarebbe stata letale per l'imperium romano, decise comunque di attuare altre campagne per rendere sicuri i confini dai Germani. Nel 16 a.C. Tiberio, appena nominato pretore, accompagnò Augusto in Gallia Comata, dove trascorse i tre anni successivi, fino al 13 a.C., per assisterlo nell'organizzazione e governo delle province galliche. Il princeps fu accompagnato dal figliastro anche in una campagna punitiva oltre il Reno, contro le tribù dei Sigambri e dei loro alleati, Tencteri ed Usipeti, che nell'inverno del 17-16 a.C. avevano causato la sconfitta del proconsole Marco Lollio e la parziale distruzione della legio V Alaudae e la perdita delle insegne legionarie. Augusto riteneva fosse giunto il momento di annettere la Germania a Roma, come aveva fatto il suo padre adottivo, Gaio Giulio Cesare, con la Gallia, desiderando spingere i confini  dell'Impero romano più ad est, spostandoli dal fiume Reno al fiume Elba. Il motivo era prettamente strategico, più che di natura economica e commerciale; del resto si trattava di territori acquitrinosi e ricoperti da interminabili foreste. Il fiume Elba avrebbe ridotto notevolmente i confini esterni dell'impero, permettendo una migliore distribuzione ed economia di forze lungo il suo tracciato. Questo significava che era necessario operare, parallelamente, sul fronte meridionale,  portando i nuovi confini dell'Illirico al medio corso del Danubio. Per conquistare la Germania comunque, era necessario occupare prima i territori alpini della Vindelicia e della Rezia e a tal fine erano mirate le campagne militari iniziate fin dal 26 a.C. 

Nerone Claudio Druso,
noto come Druso
Maggiore, a cui fu
assegnato
l'appellativo
Germanicus, anche
per i suoi discendenti,
 da QUI.
Nello stesso 16 a.C. quindi, Druso maggiore, uno dei più audaci realizzatori della politica militare di Augusto, nella carica di questore combatte contro Reti  Vindelici a nord dei passi alpini, in quella che sarà la nuova provincia di Rezia. Nerone Claudio Druso (Roma, 14 gennaio 38 a.C. - Mogontiacum, 9 a.C.), nato come Decimo Claudio Druso o Decimo Claudio Nerone e meglio conosciuto come Druso  maggiore (Drusus maior, per distinguerlo dal nipote Druso minore, figlio di Tiberio), apparteneva alla dinastia giulio-claudia in quanto figlio della terza moglie di Augusto, Livia Drusilla, madre anche di Tiberio. Secondo Svetonio, Druso nacque con il prenome di Decimus, in seguito cambiato in Nero. Era nato poco dopo il divorzio di sua madre Livia Drusilla dal padre, Tiberio Claudio Nerone, per potere sposare Augusto. Il padre adottivo Augusto aveva concesso numerosi privilegi al figliastro, che nel 19 a.C., aveva avuto la possibilità di ricoprire cariche pubbliche (cursus honorum) cinque anni prima dell'età consentita per legge.

Nel 15 a.C. - Roma sottomette i territori di Rezia e VindeliciaInsieme al fratello TiberioDruso (maggiore) conduce una campagna militare contro le popolazioni dei Reti, stanziati tra il Norico e la Gallia Comata, e Vindelici. Druso aveva già in precedenza scacciato dal territorio italico i Reti, che si erano resi colpevoli di numerose scorrerie, ma Augusto decise di inviare anche Tiberio, affinché la situazione fosse definitivamente risolta. I due, nel tentativo di accerchiare il nemico attaccandolo su due fronti senza lasciargli vie di fuga, progettarono una grande "operazione a tenaglia" (risultata fondamentale nelle successive campagne germaniche del 12-9 a.C.), che misero in pratica anche grazie all'aiuto dei loro luogotenenti: Tiberio mosse dalla Gallia Comata (da Lugdunum, Lione), passando per l'Elvezia, mentre il fratello minore da Aquileia (nella Gallia cisalpina) e raggiunta Tridentum (Trento), divise l'esercito in due colonne. Una prima colonna percorse la valle dell'Adige e dell'Isarco (alla cui confluenza costruì il Pons Drusi, presso l'attuale Bolzano), risalendo fino all'Inn; la seconda percorse quella che diventerà sotto l'imperatore Claudio la via Claudia Augusta (tracciata pertanto dal padre Druso maggiore) che attraverso la val Venosta ed il passo di Resia, raggiungeva anch'essa il fiume Inn. Tiberio, che avanzava da ovest, sconfisse i Vindelici nei pressi di Basilea e del lago di Costanza. In quel luogo i due eserciti poterono riunirsi e prepararsi a invadere la Vindelicia. Druso nel frattempo aveva sconfitto e sottomesso i popoli dei Breuni e dei Genauni. L'azione congiunta permise ai due fratelli di avanzare fino alle sorgenti del Danubio, dove ottennero l'ultima e definitiva vittoria sui Vindelici. Questi successi permisero ad Augusto di sottomettere le popolazioni dell'arco alpino fino al Danubio e gli valsero una nuova acclamazione imperatoria, mentre Druso maggiore, figliastro prediletto di Augusto, per questa vittoria ottenne gli ornamenta praetoria e il rango pretorio.


L'Impero Romano da Ottaviano
Augusto, in arancione-ocra, fino
alla sua massima estensione
nel 117 d.C.
Nel 13 a.C. - L'ultimo servizio pubblico di Vipsanio Agrippa è stata la conquista dell'intero Illyricum. Agrippa infatti, dopo aver attaccato quello stesso inverno (13/12 a.C.), spaventò talmente i Pannoni da farli desistere dalla ribellione, tanto che il generale romano decise di tornare in Campania, dove nel marzo del 12 a.C. si ammalò e morì all'età di 51 anni. «E così morì Agrippa, che si era distinto come il più nobile dei suoi contemporanei e che aveva beneficiato dell'amicizia di Ottaviano, guardando al maggior vantaggio possibile per il suo princeps e per la res publica.» (Cassio Dione, LIV, 29.1.). Dopo la sua morte nacque da Giulia l'ultimo dei suoi figli Marco Vipsanio Agrippa Postumo. Augusto onorò la sua memoria con un funerale magnifico, dove pronunciò l'orazione funebre, per poi farlo seppellire nel suo mausoleo. Si racconta che passò poi più di un mese in lutto per l'amico scomparso. Successivamente Augusto adottò i figli di Agrippa e di sua figlia Giulia, Gaio Cesare e Lucio Cesare, come suoi successori designati. «Adottò Gaio e Lucio, comprandoli in casa del padre con rito privato, e, ancora bambini, li avviò alla cura dello Stato. Quando furono designati consoli, li mandò qua e là per le province e per gli eserciti.» (Svetonio, Augustus, 64.). Agrippa si era occupato anche di geografia: sotto la sua supervisione era stata redatta una completa mappa dell'impero, che più tardi fu fatta incidere su marmo da Augusto ed in seguito esposta in un colonnato dalla sorella di Agrippa, Polla. Fra i suoi lavori è citata ancora un'autobiografia, ora perduta. Alla sua morte, lasciò al popolo romano i suoi giardini (campus Agrippae) oltre alle terme che portavano il suo nome, in modo che potesse lavarsi in modo gratuito, oltre a 400 sesterzi da distribuire ai cittadini di Roma. Lasciò quindi dei poderi all'amico fraterno Augusto, il quale a sua volta li rese pubblici, usufruibili pertanto da tutti. Agrippa ebbe numerosi figli: dalla prima moglie Cecilia Attica, ebbe una figlia Vipsania Agrippina, che divenne la prima moglie dell'imperatore Tiberio. Dalla seconda moglie Claudia Marcella maggiore, ebbe Vipsania Marcella e infine da Giulia, figlia di Augusto, ebbe tre figli, Gaio Cesare, Lucio Cesare e Agrippa Postumo oltre a due figlie, Agrippina maggiore, futura moglie di Germanico e Vipsania Giulia Agrippina (Giulia minore), che sposò Lucio Emilio Paolo. Marco Vipsanio Agrippa, con Gaio Cilnio Mecenate ed Ottaviano, fu un personaggio centrale nella creazione del principato, il sistema di governo dell'Impero romano che perdurò fino alla crisi del III secolo e la nascita del sistema della dominatio.

Gaio Cilnio Mecenate,
di Cgheyne da QUI.
- Gaio Cilnio Mecenate (Arezzo, 15 aprile 68 a.C. - 8 a.C.) è stato un influente consigliere e alleato dell'imperatore Augusto e importante protettore della nuova generazione di poeti augustei, tra i quali Orazio, Vario Rufo e Virgilio. Durante il regno di Augusto, Mecenate prestò servizio come de facto ministro della cultura, ma nonostante la ricchezza e il potere accumulati scelse di non far parte del Senato capitolino, preferendo rimanere di rango equestre, la classe sociale intermedia fra patrizi e plebei introdotta da Gaio Sempronio Gracco nel 123 a.C. Secondo la testimonianza del poeta Properzio, sembra che Mecenate avesse partecipato alle campagne di Modena, Filippi e Perugia. L'aretino traeva vanto del suo antico lignaggio etrusco e rivendicò la propria discendenza dal principesco casato dei Cilnii, all'origine della gelosia dei suoi concittadini (in quanto era notevole la ricchezza ed influenza di quest'ultimi nell'Arezzo del IV secolo a.C.). Tacito lo chiama “Cilnio Mecenate” ed è possibile che “Cilnio” fosse il nome della madre, e Mecenate il cognome. Un Gaio Mecenate è altresì menzionato da Cicerone nel 91 a.C. come membro influente dell'ordine equestre. Dalle testimonianze di Orazio e dai testi letterari dello stesso Mecenate si deduce che egli avesse beneficiato dei più alti gradi d'istruzione del tempo. Le sue ingenti ricchezze potrebbero essere state in gran parte ereditate, ma dovette la sua posizione ed influenza grazie allo stretto legame con l'imperatore Augusto. Fece la sua apparizione nella vita pubblica nel 40 a.C., quando fu incaricato di chiedere per Ottaviano la mano di Scribonia in matrimonio; in seguito partecipò ai negoziati di pace a Brindisi ed alla riconciliazione con Marco Antonio. In quanto amico e consigliere agì sempre come delegato di Augusto quando si recava all'estero. Negli ultimi anni di vita, tuttavia, le relazioni tra i due divennero più fredde, in parte probabilmente perché Augusto aveva avuto un'avventura con la moglie Terenzia. Ciononostante, prima di morire Mecenate avrebbe nominato proprio Augusto quale unico erede. Nel "viaggio verso Brindisi", svoltosi nel 37 a.C., si dice che Mecenate e Marco Cocceio Nerva, bisnonno del futuro imperatore Nerva, avessero un'importante missione, dalla quale scaturì il Trattato di Taranto: un trattato di riconciliazione tra i due grandi nemici. Durante la guerra con Sesto Pompeo, nel 36 a.C., egli tornò a Roma, e gli fu concesso il supremo controllo amministrativo in Italia. Fu vicereggente di Ottaviano durante la battaglia di Azio, quando, con grande fermezza, soffocò in gran segreto la congiura di Marco Emilio Lepido il Giovane e durante le successive assenze di Ottaviano dalle province. Formò un circolo di intellettuali e poeti che protesse, incoraggiò e sostenne nella loro produzione artistica, tra cui spiccano Orazio, Virgilio e Properzio. Con questo suo atteggiamento egli diede un efficace sostegno al regime che Augusto stava instaurando: molte delle opere prodotte con il sostegno di Mecenate contribuirono infatti ad illustrare l'immagine di Roma ed a sostenere alcune azioni della politica dell'imperatore. Fu per molti anni il migliore amico di Augusto oltreché il suo più stretto collaboratore, e per molti aspetti contribuì alla creazione della struttura data da Ottaviano allo Stato romano, nel quale le istituzioni tradizionali (Senato e magistrature in primis) furono svuotate di significato e fu istituito un apparato amministrativo fondato sul coinvolgimento degli equites, la classe sociale intermedia fra patrizi e plebei introdotta da Gaio Sempronio Gracco nel 123 a.C. Una sintesi del suo personaggio come uomo e statista proviene da Velleio Patercolo che lo descrive come "insonne nella vigilanza e nelle emergenze, lungimirante nell'agire, ma nei momenti di ritiro dagli affari più lussuoso ed effeminato di una donna". Da alcuni passi nelle Odi di Orazio si può dedurre che Mecenate non avesse la robustezza fisica richiesta alla maggior parte dei romani, e notoria fu l'intensa passione di Mecenate per un liberto di nome Batillo, un attore, poeta e mimo originario di Alessandria d'Egitto più giovane di lui di 15-20 anni. Su tale rapporto si hanno testimonianze dello pseudo Lucio Anneo Cornuto, Tacito e Dione Cassio, mentre Orazio si spinge fino a metter la vicenda in parallelo con quella dell'antico poeta lirico greco Anacreonte il quale bruciava d'amore per un altro Batillo, un efebo. Mecenate morì nell'8 a.C., lasciando tutte le sue ricchezze all'imperatore; gli imperatori successivi vollero continuare ad accumulare tesori e a patrocinare gli artisti, tanto che uno dei più importanti dipartimenti di corte – in effetti era quello del tesoro – divenne delle largitiones, letteralmente delle elargizioni, anche se la maggior parte delle spese avevano finalità più pragmatiche. Mecenate è celebre per il suo sostegno ai giovani poeti, tanto che il suo nome è divenuto nel tempo antonomasia per protettore degli artisti. Virgilio scrisse le Georgiche in suo onore e fu lui che, impressionato dalla poesia di Orazio, lo presentò a Mecenate, cosa che gli permise di iniziare la prima delle sue Odi (Odi, I,1) grazie alla direzione del suo nuovo protettore. Mecenate diede a costui pieno appoggio finanziario, come pure una proprietà nei monti della Sabina, in pieno spirito di Evergetismo. Furono altresì suoi protetti sia Properzio sia i poeti minori Lucio Vario Rufo, Cornelio Gallo, Aristio Fusco, Plozio Tucca, Valgio Rufo, Domizio Marso, Quintilio Varo, Caio Melisso e Emilio Macro. Per la sua munificenza, che rese il suo nome noto a tutti, ebbe la gratitudine degli scrittori, attestata anche dai ringraziamenti di scrittori di età successiva, come Marziale e Giovenale. Il suo patronato non fu una forma di vanità o di semplice dilettantismo letterario, ma fu interessato, vedendo nella genialità dei poeti del tempo non solo un ornamento letterario, ma un modo di promuovere e onorare il nuovo ordine politico. Il cambiamento di toni e di intenti di Virgilio tra le Ecloghe e le Georgiche fu proprio il risultato della direzione data da Mecenate al genio del poeta, così come alla luce dell'influsso di Mecenate va vista la differenza tra le prime odi di Orazio, nelle quali quest'ultimo dichiara il suo epicureismo ed una totale indifferenza per gli affari di stato, e le odi civili. Tentò inoltre di convogliare il femmineo genio di Properzio verso temi di interesse civile. Tutto ciò non minò l'affetto che provarono i suoi protetti per lui, poiché il fascino che esercitava sui letterati del suo circolo era cordiale e sincero: nella sua intimità, ammise sempre uomini di valore che trattò da eguali. Probabilmente molta della sagacia di Mecenate si può riscontrare nelle Satire e nelle Epistole di Orazio. Nessun altro patrono ebbe in sorte quello di legare il nome a delle opere eterne, come le Georgiche, i primi tre libri delle Odi, il primo libro delle Epistole. Mecenate scrisse anche opere letterarie, sia in prosa che in versi: ci sono rimasti venti frammenti che dimostrano come, in veste di autore, avesse meno successo che come protettore dei letterati. I suoi soggetti sono vari (Prometeo, Simposio - un ricevimento al quale erano presenti Virgilio, Orazio e Messalla Corvino), De cultu suo (una sorta di biografia) ed il poema In Octaviam ("Contro Ottavia") del quale non è chiaro il contenuto, ma che era stato ridicolizzato da Augusto, Quintiliano e Seneca per lo stile, l'uso di parole rare e per le goffe trasposizioni. Secondo Dione Cassio, Mecenate fu anche l'inventore di un sistema stenografico. Sebbene le opinioni sulla persona Mecenate fossero contrastanti, unanimi erano le testimonianze sulla sua capacità amministrativa e diplomatica, di fatti condivise il sogno di dare un nuovo ordinamento dell'impero, di conciliare le parti, di salvarlo dai pericoli. Gli storici ritengono che, grazie alla sua influenza, la politica di Ottaviano fosse diventata più umana dopo la sua prima alleanza con Antonio e Lepido. L'atteggiamento assunto da Mecenate è divenuto un modello: numerosi sono i regimi che si sono avvalsi dell'opera di artisti e di intellettuali per migliorare la propria immagine politica. Un esempio di mecenatismo fu quello di Cosimo il Vecchio de' Medici (1389-1464) e di suo nipote Lorenzo il Magnifico (1449-1492), che raccolsero attorno a sé i più grandi talenti dell'epoca. Il termine mecenate, in paesi come l'Italia, Francia (mécène) o Spagna (mecenas), indica una persona dotata di potere o risorse che sostiene concretamente la produzione creativa di certi letterati e artisti. Si parla di mecenatismo anche per il sostegno ad attività come il restauro di monumenti o il sostegno ad attività sportive e si usa inoltre il termine mecenate d'impresa per indicare un finanziatore di iniziative imprenditoriali con caratteristiche innovative e di rischio dalle quali non si aspetta un ritorno finanziario diretto.

Nel 13 a.C. - Augusto invia in Gallia, nel 13 a.C., uno dei suoi due figli adottivi, il generale  Druso maggiore.

- Nel 13 a.C., dopo la morte di Marco Emilio Lepido (figlio), Augusto ne assume il titolo di Pontefice massimo divenendo così anche il capo religioso di Roma. «[divenuto pontefice massimo] radunò tutte le profezie greche e latine che [...] erano tramandate tra il popolo, circa duemila, e le fece bruciare. Conservò solo i libri sibillini e, dopo un'attenta selezione, li pose in due armadi dorati ai piedi della statua di Apollo Palatino.» (Svetonio, Augustus, 31). «Ebbe il massimo rispetto per i culti stranieri, ma solo per quelli che erano stati consacrati dal tempo, tutti gli altri li disprezzò.
Ottaviano Augusto nell' Ara Pacis.
Così, ricevuta l'iniziazione ad Atene, quando in seguito a Roma, davanti al suo tribunale si trattò di una questione relativa al privilegio dei sacerdoti della Cerere Ateniese e si cominciò a svelare alcuni segreti, egli congedò il consiglio dei giudici e tutti gli assistenti e da solo seguì il dibattito. Al contrario, quando visitò l'Egitto si guardò bene dal fare la minima deviazione per andare a vedere il bue Api, e lodò vivamente suo nipote Gaio perché, attraversando la Giudea non era andato ad offrire sacrifici a Gerusalemme.» (Svetonio, Augusto, 93)

Nel 12/11 a.C. - Il generale Druso avanza nel territorio germanico, battendo i Sigambri e molte delle popolazioni germaniche loro alleate come: Usipeti e Tencteri. Nerone Claudio  Druso  (Roma, 14 gennaio 38 a.C. - Mogontiacum, 9 a.C.), nato come Decimo Claudio Druso o Decimo Claudio Nerone, fratello di Tiberio e meglio conosciuto come Druso maggiore, per distinguerlo dal nipote Druso minore, figlio di Tiberio, era appartenente alla dinastia giulio-claudia in quanto figlio della terza moglie di Augusto, Livia Drusilla e di Tiberio Claudio Nerone (85 a.C. - 33 a.C.). È proprio ad una di queste campagne che fanno cenno Floro e Cassio Dione Cocceiano, ricordando un episodio di questa guerra, quando  CherusciSuebi e Sigambri, dopo aver accerchiato Druso nelle fitte foreste della Germania (di ritorno dalla campagna dell'11 a.C.), ormai sicuri del successo, pensavano già a come spartirsi il bottino. La battaglia però volse, alla fine, a favore dei Romani che fecero dei barbari, dei loro cavalli ed armenti, bottino da vendere al mercato degli schiavi (Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC libri duo, 30, 23-25; Cassio Dione, Storia romana LIV, 33). A partire dalle campagne di Druso, la popolazione dei Sigambri cominciò a fornire truppe ausiliarie all'interno dell'esercito romano.

Nel 12 a.C. - In marzo, quando Giulia è incinta per la quinta volta, mentre si trovava in Campania, Agrippa muore improvvisamente all'età di 51 anni e le sue ceneri trovarono riposo nel Mausoleo di Augusto. Il figlio postumo di Agrippa ricevette il nome del padre, divenendo noto come Agrippa Postumo. Subito dopo la nascita dell'ultimo figlio, Augusto adottò e dichiarò suoi eredi Gaio e Lucio, che entrarono a far parte della gens Iulia, e fece inoltre fidanzare Giulia, prima della fine del lutto, per poi sposarlo, il suo fratellastro Tiberio, allo scopo di legittimarne la successione.

Nell'11 a.C. - Per poter sposare Giulia e perseguire gli interessi politici della famiglia,Tiberio divorzia da Vipsania Agrippina, la figlia di primo letto di Marco Vipsanio Agrippa, che amava profondamente e da cui aspettava un secondo figlio (dopo Druso minore), che lei perse per via dello shock del divorzio. 

Nel 10 a.C. - Tiberio sposa dunque Giulia maggiore, figlia dello stesso Augusto e quindi sua sorellastra, vedova di Agrippa. Il sodalizio con Giulia, vissuto dapprima con concordia e amore, si guastò ben presto, dopo la morte del figlio ancora infante che era nato loro ad Aquileia. Il carattere di Tiberio, particolarmente riservato, si contrapponeva inoltre a quello licenzioso di Giulia, circondata da numerosi amanti. Il figlio che ebbero morì durante l'infanzia; alla scarsa opinione che il marito aveva del carattere della moglie, Giulia rispondeva considerando Tiberio non alla sua altezza, lamentandosi di questo fatto persino attraverso una lettera, scritta da Sempronio Gracco e  destinata all'imperatore.


Nel 9 a.C. - Per celebrare il nuovo saeculum di pace decretato dal senato nel 17 a.C., è costruito nel Campo Marzio un grande altare alla Pace di Augusto, l'Ara Pacis Augustae. Intanto le tribù germaniche migravano facilmente, si scomponevano e ricomponevano assumendo nomi nuovi, o scomparivano in lotte fra loro. I Suebi, potente confederazione di tribù, cominciarono all'inizio del I secolo a lasciare le loro sedi a oriente dell'Elba, ove rimase la tribù sueba dei Semnoni, e occuparono la regione fra l'Elba, il Meno e la Selva Ercinia. I Marcomanni (uomini della marca) erano Suebi che, valicato il Meno, avevano preso possesso del paese fra il Reno e il Danubio superiore, sgombrato dagli Elvezi, che divenne così una marca di confine sueba. Fra il 9 e il 2 a.C., guidati dal re Maroboduo, passarono nella Boemia, sgombrata dai Galli Boi, e vi fondarono un potente regno che, dopo aver dominato su molte delle circostanti tribù germaniche, si era sfasciato in seguito alle lotte coi Cherusci.

Nell' 8 a.C. - Si emana la Lex Iulia maiestatis, con cui per la prima volta viene punita l'offesa alla "maestà" dell'imperatore, in seguito foriera di conseguenze negative per tutto il periodo successivo, soprattutto per i futuri cristiani. Nell' 8 a.C., una volta occupati tutti i territori delle popolazioni germaniche compresi tra i fiumi Reno e Weser, i Sigambri si dimostrarono i più restii a sottomettersi al giogo romano, anche dopo essere stati battuti pesantemente nel corso delle campagne di Tiberio dell'8-7 a.C. insieme ai vicini Suebi, oltre ad essere stati deportati, in parte, in Gallia (Svetonio, Vite dei CesariAugusto, 21, Tacito, Annales XII, 39, R.Syme, L'aristocrazia Augustea, trad.it., Milano 1993, p.477). Per questi motivi Augusto, una volta ricevutane una loro ambasceria (da parte del loro re Melo), decise con l'inganno di mandare tutti i loro membri in esilio in alcune città della Gallia (nell'8 a.C.). I Sigambri, però, mal sopportando questa situazione di prigionia, si diedero la morte volontariamente, covando un profondo sentimento di rancore verso i Romani.

Immagine del Mandylion,
considerata la prima icona
di Gesù, da QUI.
Nel 7 a.C. - Presumibile anno di nascita di colui che i cristiani chiamano  Gesù Cristo, il cui nome ebraico dovrebbe essere stato Yeshuah Ben Yossef, Gesù figlio di Giuseppe. Per il post "Gesù Cristo nel suo contesto storico" clicca QUI.

La Turbie e il Trofeo delle Alpi,
immagine di Berthold Werner
da https://it.wikipedia.org/wiki
/Trofeo_delle_Alpi#/media/
File:La_Turbie_BW_1.JPG
Nel 7/6 a.C. - Viene edificato il Trofeo delle Alpi (detto anche Trofeo di Augusto) imponente monumento romano sull'Alpe Summa (Alpis Summa), a 480 metri di altitudine, nell'attuale comune di La Turbie. Il monumento venne eretto, sulla via Julia Augusta, negli anni 7-6 a.C. in onore dell'imperatore Augusto per commemorare le vittorie riportate dai suoi generali (tra cui i figliastri Druso maggiore e Tiberio) e la definitiva sottomissione di 46 tribù alpine. L'Alpe Summa, detta anche Turbia (la Turbie in francese), che sorge nel dipartimento francese delle Alpi Marittime, a breve distanza dal Principato di Monaco, è contraddistinta da evidenti forze geomagnetiche, percepite da sempre e descritte anche nel racconto delle 12 fatiche di Ercole, quando il semidio ritorna dall'Hiberia con le mandrie di Gerione e ingaggia la battaglia dei Campi Lapidarii contro i liguri, guidati dai giganti Albione e Dercino, dove Zeus farà piovere sassi in soccorso al suo pupillo, in difficoltà nella lotta contro i liguri. Lo storico e viaggiatore greco Posidonio, vivente fino all'anno 50 e.V. nell’isola di Rodi, segnalava la presenza, fin dal secondo secolo prima di Cristo, di una strada tra Piacenza e Marsiglia, che valicava l’Alpis Summa, l’odierna Turbia, conosciuta col nome di Via Heraclea o Herculea, giacché si voleva tracciata dall’eroe greco nel corso del suo ritorno dalla decima fatica, quando andò a rapire la mandria di buoi a Gerione, nell’isola di Erizia, sulle sponde dell’Atlantico. Questo territorio d’eccezione dal punto di vista esoterico, fu eletto a sito  della celebrazione di Augusto  come imperatore di Roma, evocando ulteriormente la memoria di Ercole (il mitico semidio greco Heracle), oltre ai trionfi celebrati da Augusto il 12 agosto, giornata consacrata ad Heracles Invictus ed il giorno successivo, consacrato a Heracles Victor. Qui è stato edificato il Trofeo delle Alpi  (detto anche Trofeo di Augusto) imponente monumento romano a 480 metri di altitudine, nel comune di La Turbie. Il monumento venne eretto, sulla via Julia Augusta, negli anni 7-6 a.C. in onore dell'imperatore Augusto per commemorare le vittorie riportate dai suoi generali (tra cui i figliastri Druso maggiore e Tiberio) e la definitiva sottomissione di 46 tribù alpine. Servì inoltre a demarcare la frontiera tra l'Italia romana e la Gallia Narbonese lungo la Via Julia Augusta. Questo trofeo nel tempo segue, nelle Gallie, il trofeo di Pompeo, in Summum Pyrenaeum, quello di Briot (ora al museo di Antibes) e altri. La costruzione, parte in marmo lunense e parte in pietra locale, concepita secondo il modello architettonico vitruviano sul modello del Mausoleo di Alicarnasso, consisteva di un piedistallo quadrato misurante 38 m di lato, sulla cui facciata occidentale era apposta un'iscrizione con la dedica ad Augusto. Ai lati dell'iscrizione c'erano dei trofei. Il secondo ordine era composto da un basamento, anche questo quadrato ma di dimensione minore, su cui poggiavano 24 colonne, con capitelli dorici, poste in cerchio e adornate da un fregio dorico con alternanza di metope e triglifi. All'interno del colonnato si trovava una torre cilindrica in cui, alternate alle colonne, si trovavano delle nicchie dove erano state collocate le statue dei comandanti militari che avevano partecipato alla spedizione, tra cui quella di Druso. Sulle colonne poggiava infine una copertura conica a gradoni, coronata da una imponente statua di Augusto in bronzo dorato raffigurato nell'atto di sottomettere due barbari inginocchiati ai suoi piedi. La solenne iscrizione, di cui rimanevano solo alcuni frammenti, è stata ricostruita completamente durante il restauro del monumento curato da Jules Formigé, grazie alla menzione fattane da Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia (III, 133 segg.). Il testo riporta tutti e 46 i nomi delle tribù sconfitte in ordine cronologico e geografico ed è affiancato da due bassorilievi della Vittoria alata. Parimenti visibile è il "trofeo" in senso stretto, ossia una raffigurazione delle armi conquistate ai nemici e appese ad un tronco d'albero. Ai due lati del trofeo sono raffigurati coppie di prigionieri galli in catene. «All'imperatore Augusto, figlio del divo [Giulio] Cesare, pontefice massimo, acclamato imperatore per XIV volte, essendo investito per la XVII volta della potestà tribunizia, il senato e il popolo romano [eressero] poiché sotto la sua guida e i suoi auspici tutte le genti alpine, che si trovavano tra il mare superiore e quello inferiore sono state assoggettate all'impero del popolo romano. Genti alpine sconfitte: Triumpilini, Camunni, Venosti, Vennoneti, Isarci, Breuni, Genauni, Focunati, le quattro nazioni dei Vindelici: Cosuaneti, Rucinati, Licati e Catenati, gli Ambisonti, Rugusci, Suaneti, Caluconi, Brixeneti, Leponzi, Uberi, Nantuati, Seduni, Veragri, Salassi, Acitavoni, Medulli, Ucenni, Caturigi, Brigiani, Sogionti, Brodionti, Nemaloni, Edenati, Vesubiani, Veamini, Galliti, Triullati, Ecdini, Vergunni, Eguituri, Nematuri, Oratelli, Nerusi, Velauni, Seutri.». I lavori di riduzione in pristino sono stati resi possibili dagli studi dell'architetto Jules Formigé e dal generoso finanziamento del mecenate statunitense Edward Tuck. L'altezza del monumento misura oggi 35 metri, mentre originariamente, grazie alla statua, raggiungeva i 50 metri. Dalla sua terrazza panoramica è possibile godere d'un punto d'osservazione che, in giornate limpide, consente di spaziare visivamente dalla riviera ligure di ponente al golfo di Saint-Tropez.

Nel 6 a.C. - Augusto decide di conferire a Tiberio la tribunicia potestas (potestà tribunizia) per 5 anni, che rendeva sacra e inviolabile la persona di Tiberio oltre a conferirgli il diritto di veto. In questo modo Augusto sembrava voler avvicinare a sé il figliastro e poteva inoltre porre un freno all'esuberanza dei giovani nipoti, Gaio e Lucio Cesare, figli di Agrippa e Giulia, che aveva adottato e che apparivano come i favoriti nella successione. Malgrado questo onore, Tiberio decise di ritirarsi dalla vita politica e abbandonare la città di Roma, per andarsene in un volontario esilio sull'isola di Rodi, che lo aveva affascinato fin dai giorni in cui vi era approdato, di ritorno dall'Armenia. Alcuni, come il Grant, sostengono che fosse indignato e sconcertato dalla situazione, altri che sentiva la scarsa considerazione di Augusto nei suoi confronti per essere stato usato quale tutore dei suoi due nipoti, Gaio e Lucio Cesare, gli eredi designati, oltre ad un crescente disagio e disgusto nei confronti della nuova moglie Giulia. Per tutto il periodo della sua permanenza a Rodi (per quasi otto anni), Tiberio mantenne un atteggiamento sobrio e defilato, evitando di porsi al centro dell'attenzione o di prender parte alle vicende politiche dell'isola: se non in un unico caso, infatti, non fece mai uso dei poteri che gli derivavano dalla tribunicia potestas di cui era stato investito.

Nel 2 a.C. - Inaugurazione del tempio di Marte Ultore e del Foro di Augusto, in cui è conferito ad Augusto il titolo onorifico di "Padre della patria". «Molti abusi, particolarmente deprecabili e pericolosi per l'ordine pubblico, sussistevano ancora, o perché divenuti abitudine in seguito ai disordini delle guerre civili, o perché si erano introdotti durante la pace. Così un gran numero di briganti si mostrava in pubblico con un pugnale alla cintura, con il pretesto di difendersi; nella campagna si sequestravano i viaggiatori e si tenevano prigionieri, senza fare distinzione fra liberi e schiavi, nelle celle dei proprietari; si formavano, sotto il titolo di nuovi collegi, moltissime associazioni pronte a compiere insieme ogni sorta di azione criminosa. Augusto represse il brigantaggio collocando posti di guardia nei luoghi opportuni, fece ispezionare tutte le celle e disciolse tutte le associazioni, ad eccezione di quelle legittime e antiche. Fece bruciare le liste dei vecchi debitori dell'erario, fonte principale delle accuse calunniose; in Roma aggiudicò ai proprietari del momento i terreni che, con un diritto discutibile, lo Stato riteneva suoi; soppresse i nomi di coloro che erano perennemente tenuti nella condizione di accusati e dei quali nessuno si lamentava se non i loro nemici con un certo qual sadismo; pose inoltre questa condizione, che se qualcuno avesse voluto nuovamente perseguitare uno di costoro, andasse incontro al rischio di subire la stessa pena. Per fare in modo che nessun delitto restasse impunito e che nessun affare venisse archiviato a furia di ritardi, accordò agli atti forensi più di trenta giorni, che erano consacrati ai giochi onorari. Alle tre decurie di giudici ne aggiunse una quarta, di censo inferiore, chiamata «dei ducenari», con il compito di giudicare intorno a somme inferiori. Mise a ruolo i giudici a trent'anni, vale a dire cinque anni prima del solito. Ma poiché la maggior parte dei cittadini cercava di sottrarsi alle funzioni giudiziarie, concesse che ciascuna decuria, a turno, facesse vacanza per un anno e permise che, contrariamente all'usanza, si interrompessero i lavori in novembre e in dicembre.» (Svetonio, Augusto, 32). Considerando importante conservare la purezza della razza romana, evitando potesse mescolarsi con sangue straniero e servile, Augusto fu molto restio nel concedere la cittadinanza romana, ponendo anche precise regole riguardo all'affrancamento degli schiavi, di cui stabilì il numero, la condizione e la divisione in differenti categorie, per decidere chi potesse essere affrancato.

Denario con
Augusto da QUI.
Riorganizzò e ripulì l'ordine senatorio di quegli elementi giudicati deformi et incondita turba. Ne ridusse poi il numero alla cifra di un tempo, pari a 600, e gli restituì la sua antica dignità attraverso due selezioni: la prima era generata dai senatori stessi, in quanto ognuno sceglieva un collega; la seconda era operata dallo stesso princeps e dal fedele Marco Vipsanio Agrippa. Elevò poi il censo senatoriale, portandolo da ottocentomila a un milione e duecentomila sesterzi e diede la differenza ai senatori che non ne avevano abbastanza.  Augusto fece di Roma una monumentale città di marmo e istituì: due curatores aedium sacrarum et operum locorumque publicorum per preservare i templi e gli edifici pubblici; aumentò l'approvvigionamento idrico con la costruzione di due nuovi acquedotti e creando un corpo di tre curatores aquarum per l'approvvigionamento idrico; la divise in regiones per meglio amministrarla oltre a istituire cinque curatores riparum et alvei Tiberis, per proteggere Roma da eventuali inondazioni; curò personalmente gli approvvigionamenti di cibo necessari alla popolazione della capitale, con la creazione del praefectus annonae e di due praefecti frumenti dandi (di rango senatorio) per somministrare i sussidi. Incrementò, infine, il livello di sicurezza cittadina ponendo a salvaguardia dell'Urbe tre nuove prefetture: la praefectura vigilum per far fronte agli incendi di Roma; la praefectura Urbi al fine di mantenere l'ordine pubblico; la Guardia pretoriana, quale guardia personale del princeps.

- Nel 2 a.C., Giulia, madre di due eredi di Augusto (Lucio e Gaio) e moglie del terzo (Tiberio), viene arrestata per adulterio e tradimento. Augusto le fa recapitare una lettera a nome di Tiberio in cui il loro matrimonio veniva dichiarato nullo. L'imperatore stesso afferma in pubblico che Giulia era colpevole di aver complottato contro la vita di suo padre. Molti dei complici di Giulia verranno esiliati, tra cui Sempronio Gracco, mentre Iullo Antonio, figlio di Marco Antonio e Fulvia, sarà obbligato a suicidarsi. Anche la liberta Febe, che aveva aiutato Giulia nella congiura, si suicidò. Augusto mostrò di essere a conoscenza da tempo delle manovre dei congiurati, che si incontravano al Foro Romano, come pure della relazione amorosa tra Iullo e Giulia, forse l'unica vera tra tutte quelle attribuite alla figlia dell'imperatore. Giulia rimarrà in esilio a Ventotene per cinque anni, a seguito dell'accusa di adulterio e tradimento mossale dal padre. Augusto tentennò sull'opportunità di mandare a morte la propria figlia, decidendo poi per l'esilio. Giulia fu confinata sull'isola di Pandateria (la moderna Ventotene), dove venne accompagnata dalla madre Scribonia. Le condizioni di vita erano disagevoli: sull'isola, di meno di due chilometri quadrati, non erano ammessi uomini, mentre eventuali visitatori dovevano essere prima autorizzati da Augusto, dopo che l'imperatore fosse stato informato della loro statura, carnagione, segni particolari o cicatrici; inoltre, non era concesso a Giulia di bere vino né alcuna forma di lusso.

Tiberio, dal Museo di
Venezia QUI.
Nel 4 d.C. - Augusto adotta Tiberio e il suo nome muta in Tiberio Giulio Cesare mentre alla morte del padre adottivo, il 19 agosto 14, otterrà il nome di Tiberio Giulio Cesare Augusto e gli succederà ufficialmente nel ruolo di princeps, sebbene già dall'anno 12 fosse stato associato nel governo dell'impero. Tiberio era rientrato a Roma dall'isola di Rodi nel 2 e aveva condotto altre spedizioni nell' Illirico e in Germania. Il princeps costrinse però Tiberio ad adottare a sua volta il nipote Germanico Giulio Cesare, figlio del fratello Druso Maggiore, sebbene Tiberio avesse già un figlio, concepito dalla prima moglie, Vipsania, di nome Druso minore e più giovane di un anno soltanto. L'adozione di Tiberio, che nell'occasione prese il nome di Tiberio Giulio Cesare, è celebrata il 26 giugno del 4 con grandi festeggiamenti e Augusto ordina che si distribuiscano alle truppe oltre un milione di sesterzi. Il ritorno di Tiberio al potere supremo dava infatti, non solo al Principato una naturale stabilità, continuità e concordia interna, ma nuovo slancio alla politica augustea di conquista e gloria all'esterno dei confini imperiali.

- La successione è stata una delle più grandi preoccupazioni della vita di Augusto, spesso affetto da malattie che avevano fatto più volte temere una sua morte prematura. Il princeps aveva sposato nel 42 a.C. Clodia Pulcra, figliastra di Antonio, ma l'aveva poi ripudiata l'anno successivo (41 a.C.), per sposare prima Scribonia e, poco dopo, Livia Drusilla. Per alcuni anni Augusto sperò di avere come erede il nipote Marco Claudio Marcello, figlio di sua sorella Ottavia, che fece sposare con sua figlia Giulia, nel 25 a.C. Marcello fu così adottato, ma morì ancora in giovanissima età due anni più tardi. Augusto costrinse allora Agrippa a sposare la giovanissima Giulia, scegliendo dunque come successore il fidato amico, cui attribuì l'imperium proconsolare e la tribunicia potestas. Tuttavia anche Agrippa morì prima di Augusto, nel 12 a.C., mentre si distinguevano per le loro imprese Druso (fratello maggiore di Tiberio), favorito dello stesso Augusto, e Tiberio. Dopo la prematura morte di Druso, il princeps diede la figlia Giulia in sposa a Tiberio, ma adottò i figli di Agrippa, Gaio e Lucio Cesare: anch'essi morirono però in giovane età, non senza che si sospettasse un coinvolgimento di Livia Drusilla. Augusto, dunque, non poté che adottare Tiberio, poiché l'unico altro discendente diretto di sesso maschile ancora in vita, il figlio di Agrippa, Agrippa Postumo, appariva brutale e del tutto privo di buone qualità, ed era stato mandato al confino nell'isola di Pianosa. Secondo Svetonio, tuttavia, Augusto, per quanto affezionato al figliastro, ne biasimava spesso alcuni aspetti, ma scelse comunque di adottarlo per più motivi: «[...] E non ignoro nemmeno che, secondo alcuni, [...] acconsentì ad adottarlo solo per le preghiere di sua moglie, e anche spinto dal desiderio di farsi maggiormente rimpiangere, dandosi un simile successore. Non posso però credere che quel principe tanto circospetto e prudente abbia agito alla leggera in un caso di così grande importanza; credo piuttosto che abbia accuratamente pesato le virtù e i vizi di Tiberio e trovato maggiori le virtù, soprattutto tenendo conto che aveva giurato in assemblea di adottarlo nell'interesse dello stato, e che in molte sue lettere lo celebrò come un grande comandante militare e l'unico sostegno del popolo romano. [...]». (Svetonio, Vite dei Cesari, Tiberio, 21; trad. di Felice Dessì, Vite dei Cesare, BUR.)


Nel 4/5 d.C. Tiberio, figlio adottivo dell'imperatore Augusto, completa la  conquista  della  parte  settentrionale della Germania e doma gli ultimi focolai della rivolta dei Cherusci, illudendo i Romani che i territori compresi tra Reno ed Elba potessero diventare una nuova provincia, dopo una conquista durata quasi un ventennio.

Le 11 regioni italiche istituite
dall'imperatore Augusto.
Nel 6 d.C. - Nell'ambito di una riorganizzazione amministrativa dell'Impero Romano, Ottaviano Augusto unifica i territori della penisola italica, assorbendo la Provincia della Gallia Cisalpina, sotto l'amministrazione diretta di Roma, e li suddivide in 11 Regio (Regioni).

Nel 9 - Si combatte la battaglia della Foresta di Teutoburgoclades Variana (la disfatta di Varo) per gli storici romani, tra l'esercito romano guidato da Publio Quintilio Varo e una coalizione di tribù germaniche comandate da Arminio, ufficiale delle truppe ausiliarie di Varo, ma segretamente anche capo dei Cherusci.
Ubicazione della foresta di
Teutoburgo, da QUI.
La battaglia ebbe luogo nei pressi dell'odierna località di Kalkriese, nella Bassa Sassonia, e si risolse in una delle più gravi disfatte subite dai Romani: tre intere legioni (composte di 5/6.000 armati ciascuna), la XVII, la XVIII e la XIX, furono annientate, oltre a 6 coorti di fanteria (di circa 600 uomini ciascuna) e 3 ali di cavalleria ausiliaria (di circa 500 armati l'una). Per riscattare l'onore dell'esercito sconfitto, i Romani diedero inizio a una guerra durata sette anni, al termine della quale rinunciarono a ogni ulteriore tentativo di conquista della Germania. Il Reno si consolidò come definitivo confine nord-orientale dell'Impero per i successivi 400 anni.

- Nel 9, dopo aver brillantemente sconfitto i ribelli dalmati, Tiberio torna a Roma, dove decide di posticipare la celebrazione del trionfo che gli era stato tributato in modo tale da rispettare il lutto imposto per la disfatta di Varo. Il popolo avrebbe comunque desiderato che prendesse un soprannome, come Pannonico, Invitto o Pio, che ricordasse le sue grandi imprese; Augusto, tuttavia, respinge le richieste rispondendo che un giorno avrebbe preso anch'egli l'appellativo di Augusto, e quindi lo invia sul Reno, per evitare che il nemico germanico attaccasse la Gallia e che le province appena pacificate potessero rivoltarsi nuovamente ancora una volta in cerca dell'indipendenza. Giunto in Germania, Tiberio poté constatare la gravità della disfatta di Varo e delle sue conseguenze, che impedivano di progettare una nuova riconquista delle terre che andavano fino all'Elba. Adottò, dunque, una condotta particolarmente prudente, prendendo ogni decisione assieme al consiglio di guerra ed evitando di far ricorso, per la trasmissione di messaggi, a uomini del luogo come interpreti; sceglieva allo stesso modo con cura i luoghi in cui erigere gli accampamenti, in modo tale da fugare qualsiasi pericolo di rimanere vittima di una nuova imboscata; mantenne, infine, tra i legionari una disciplina ferrea, punendo in modo estremamente rigoroso tutti coloro che trasgredivano i suoi rigidi ordini. In questo modo poté ottenere numerose vittorie e confermare il confine lungo il fiume Reno, mantenendo fedeli a Roma i popoli germanici, tra cui Batavi, Frisi e Cauci, che abitavano quei luoghi.


Nel 14 - Augusto, quasi 76enne e ormai prossimo alla morte, chiama a sé Tiberio sull'isola di Capri: l'erede, che non c'era mai stato, ne rimane profondamente affascinato. Lì si decide che Tiberio si sarebbe nuovamente recato in Illirico per dedicarsi alla riorganizzazione amministrativa della provincia e i due ripartono assieme per Roma, ma Augusto, colto da un improvviso malore, è costretto a fermarsi nella sua villa di Nola, l'Octavianum, mentre Tiberio prosegue per l'Urbe per poi partire per l'Illirico, com'era stato concordato. Proprio mentre si avvicinava alla provincia Tiberio è urgentemente richiamato indietro perché il patrigno, che non si era più potuto spostare da Nola, era ormai in fin di vita. L'erede poté giungere da Augusto e i due tennero assieme ancora un ultimo colloquio, prima che il principe morisse (il 19 agosto). Secondo altre versioni, invece, Tiberio giunse a Nola quando Augusto era già morto. Tiberio annuncia dunque la morte di Augusto, mentre sopraggiunge anche la notizia del misterioso assassinio di Agrippa Postumo da parte del centurione addetto alla sua custodia. Temendo quindi eventuali attentati alla sua persona, Tiberio si attribuisce una scorta militare e convoca il senato per il 17 settembre, affinché si discutano le onoranze funebri da rendere ad Augusto e se ne leggesse il testamento: egli lasciava come eredi del suo patrimonio Tiberio e Livia Drusilla (che assumeva il nome di Augusta), ma assegnava numerosi donativi anche al popolo di Roma e ai legionari che militavano negli eserciti.

- A proposito della morte di Augusto: «L'ultimo giorno della sua vita, informandosi a più riprese se il suo stato provocava già animazione nella città, chiese uno specchio, si fece accomodare i capelli, rassodare le gote cascanti e, chiamati i suoi amici, domandò se sembrava loro che avesse ben recitato fino in fondo la farsa della vita, poi aggiunse anche la conclusione tradizionale: «Se il divertimento vi è piaciuto, offritegli il vostro applauso e tutti insieme manifestate la vostra gioia.» Poi li congedò tutti quanti e mentre interrogava alcune persone venute da Roma sulla malattia della figlia di Druso, improvvisamente spirò tra le braccia di Livia, dicendo: «Livia, fin che vivi ricordati della nostra unione. Addio!» Ebbe così una morte dolce, come aveva sempre desiderato. Infatti, quasi sempre quando gli si annunciava che la tale persona era morta rapidamente e senza soffrire, chiedeva agli dei per sé e per i suoi una simile «eutanasia» ( questo è il termine di cui era solito servirsi ). Prima di rendere l'anima mostrò soltanto un segno di delirio mentale, quando colto da un improvviso sudore, si lamentò di essere trascinato da quaranta giovani. Ma fu piuttosto un presagio che un effetto di delirio, perché proprio quaranta soldati pretoriani lo portarono sulla piazza pubblica.» (Svetonio, Augusto, 99). All'età di 55 anniTiberio succede ad Ottaviano Augusto alla guida dell'impero Romano. Nell'anno 14 d.C. le province senatorie erano dieci, di cui due affidate a ex-consoli (Africa e Asia). I senatori decisero allora di tributare solenni onoranze funebri al princeps defunto, il cui corpo fu cremato nel Campo Marzio, e iniziarono poi a rivolgere preghiere a Tiberio perché assumesse il ruolo e il titolo che era stato di suo padre, e guidasse dunque lo Stato romano; Tiberio inizialmente rifiutò, secondo Tacito e Svetonio volendo in realtà essere supplicato dai senatori, perché non sembrasse che il governo dello Stato subisse svolte in senso autocratico e perché il sistema repubblicano rimanesse almeno formalmente intatto. Alla fine Tiberio accettò l'offerta dei senatori, prima di irritarne gli stessi animi, probabilmente essendosi reso conto che vi era l'assoluta necessità di un'autorità centrale: il corpo (l'Impero) aveva bisogno di una testa (Tiberio). Risulta, pertanto, più probabile la tesi sostenuta dagli autori filotiberiani, che raccontano che le esitazioni di Tiberio nell'assumere la guida dello Stato erano dettate da una reale modestia, più che da una premeditata strategia. Dopo la seduta del Senato del 17 settembre del 14, dunque, Tiberio divenne il successore di Augusto alla guida dello Stato romano, mantenendo la tribunicia potestas e l'imperium proconsulare maius insieme agli altri poteri di cui aveva usufruito Augusto, e assumendo il titolo di princeps. Rimase imperatore per quasi ventitré anni, fino alla sua morte, nel 37. Il suo primo atto fu quello di ratificare la divinizzazione di suo padre adottivo, Augusto (divus Augustus), come in precedenza era stato fatto con Gaio Giulio Cesare, confermandone inoltre il lascito ai soldati. Asceso al trono all'età di quasi 56 anni, Tiberio  (Roma,16 novembre 42 a.C. - Miseno, 16 marzo 37 d.C.)  operò molte importanti riforme in ambito economico e politico e pose fine alla politica di espansione militare, limitandosi a mantenere sicuri i confini grazie anche all'opera del nipote Germanico Giulio Cesare. Dopo la morte di quest'ultimo, Tiberio favorì sempre più l'ascesa del prefetto del pretorio Seiano, allontanandosi da Roma per ritirarsi nell'isola di Capri. Quando il prefetto mostrò di volersi impadronire del potere assoluto, Tiberio lo fece destituire e uccidere, ma evitò ugualmente di rientrare nella capitale. Tiberio è stato duramente criticato dagli storici antichi, quali Tacito e Svetonio, che soprassedettero alle imprese militari che Tiberio aveva compiuto sotto Augusto e i provvedimenti politici che aveva preso nel primo periodo del suo principato, registrando invece tutte le critiche e le calunnie che i nemici gli riversavano, fornendone quindi di Tiberio una descrizione fondamentalmente negativa. Sicuramente non fu amato dal popolo romano, d'altro canto Tiberio non cercò mai di allontanare dalla sua figura critiche e sospetti, probabilmente infondati, a causa della sua personalità chiusa, malinconica e sospettosa. La sua figura però è stata rivalutata dalla storiografia moderna come quella di un politico abile e attento e impedì, con il suo governo fermo, ordinato e rispettoso delle regole poste da Augusto, che l'opera di quest'ultimo avesse un carattere di provvisorietà e andasse perduta. Egli infatti, riuscì nel corso del suo regno a dare quella continuità indispensabile al sistema del principato, ed evitare che la situazione degenerasse in nuove guerre civili, come era accaduto invece ai tempi di Mario e Silla, Giulio Cesare e Pompeo, Marco Antonio e Ottaviano.

- Nel 14 Tiberio, divenuto imperatore, toglie a Giulia le sue rendite, ordinando che sia confinata in una sola stanza e che le venga tolta ogni compagnia umana. Giulia morirà poco dopo. La morte potrebbe essere stata causata dalla malnutrizione, se Tiberio la volle morta come ritorsione per aver disonorato il loro matrimonio; è anche possibile che Giulia si sia lasciata morire dopo aver saputo dell'assassinio del suo ultimo figlio, Agrippa Postumo.

Germanico Giulio
Cesare, figlio di Druso,
da QUI.
Nel 16 - Il legato imperiale Germanico, figlio di Druso maggiore, riesce a battere Arminio in due grandi battaglie: la prima nella piana  di  Idistaviso, la seconda di fronte al Vallo angrivariano, entrambe tra la riva destra del fiume Visurgi (l'attuale Weser), le colline circostanti, la grande foresta germanica e le paludi più a nord. La battaglia di Idistaviso del 16 è considerata la rivincita alla disfatta di Varo dell'Impero romano contro i Germani. Le due battaglie di Idistaviso si conclusero positivamente per l'esercito romano; le legioni di Varo distrutte a Teutoburgo furono vendicate e Germanico riuscì anche a recuperare due delle tre aquile perdute dai romani nella disfatta, ma in realtà la campagna di Germanico non ottenne risultati decisivi. A dispetto delle asserzioni di Tacito, grande accusatore di Tiberio ed estimatore di Germanico, non fu l'invidia dell'imperatore che vanificò l'esito della battaglia di Idistaviso. Germanico non era in grado di rimanere stabilmente, nonostante le vittorie, a est del Reno; inoltre la sua flotta aveva subito forti perdite a causa di una tempesta.

Nel 19 - Muore Germanico (il cui padre era Druso maggiore, fratello di Tiberio e figlio della terza moglie di Augusto, Livia Drusilla e la madre era Antonia Minore, figlia di Marco Antonio e Ottavia, sorella di Augusto, per cui attraverso la gens Iulia, Germanico era proclamato discendente di Venere ed Enea) e per il popolo il mandante di quella morte è Tiberio. Fin dall'inizio del suo principato, Tiberio si era trovato a dover convivere con l'incredibile prestigio che Germanico, il figlio di suo fratello Druso maggiore, che egli stesso aveva adottato per ordine di Augusto, andava acquisendo presso tutto il popolo di Roma. Quando questi ebbe portato a termine le sue campagne sul fronte settentrionale, dove si era guadagnato la stima dei suoi collaboratori e dei legionari, riuscendo a recuperare due delle tre Aquile legionarie perdute nella battaglia di Teutoburgo, la sua popolarità era tale da consentirgli, se avesse voluto, di prendere il potere scacciando il padre adottivo Tiberio, che in alcuni contesti era già malvisto poiché la sua ascesa al principato era stata segnata dalla morte di tutti gli altri parenti che Augusto aveva indicato come eredi. Il risentimento spinse quindi Tiberio ad affidare al figlio adottivo uno speciale compito in Oriente, in modo da allontanarlo ulteriormente da Roma; il Senato decise di conseguenza di conferire al giovane l'imperium proconsulare maius su tutte le province orientali. Tiberio, tuttavia, non aveva fiducia in Germanico, che in Oriente si sarebbe trovato lontano da qualsiasi controllo ed esposto alle influenze dell'intraprendente moglie Agrippina maggiore, e decise dunque di affiancargli un uomo di sua fiducia: la scelta di Tiberio ricadde su Gneo Calpurnio Pisone, che era stato collega nel consolato dello stesso Tiberio nel 7 a.C., aspro e inflessibile. Germanico, dunque, partì nel 18 verso l'Oriente assieme a Pisone, che fu nominato governatore della provincia di Siria. Germanico, tornato in Siria nel 19 dopo aver soggiornato in Egitto durante l'inverno, entrò in aperto conflitto con Pisone, che aveva annullato tutti i provvedimenti che il giovane figliastro di Tiberio aveva preso; Pisone, in risposta, decise di lasciare la provincia per fare ritorno a Roma. Poco dopo la partenza di Pisone, Germanico cadde malato ad Antiochia e morì il 10 ottobre dopo lunghe sofferenze; prima di spirare, lo stesso Germanico confessò la propria convinzione di essere stato avvelenato da Pisone, e rivolse un'ultima preghiera ad Agrippina affinché vendicasse la sua morte. Officiati i funerali, dunque, Agrippina tornò con le ceneri del marito a Roma, dove grandissimo era il compianto di tutto il popolo per il defunto. Tiberio, tuttavia, evitò di manifestare pubblicamente i suoi sentimenti, e non partecipò neppure alla cerimonia in cui le ceneri di Germanico furono riposte nel mausoleo di Augusto. In effetti Germanico potrebbe essere deceduto di morte naturale, ma la popolarità crescente enfatizzò molto l'avvenimento, che comunque è anche ingigantito dallo storico Tacito. Subito, però, si manifestò il sospetto, alimentato dalle parole pronunciate da Germanico morente, che fosse stato Pisone a causarne la morte avvelenandolo. Si diffuse dunque anche la voce di un coinvolgimento dello stesso Tiberio, quasi fosse il mandante del delitto di Germanico, avendo lo stesso scelto personalmente di inviare Pisone in Siria: quando dunque lo stesso Pisone fu processato, accusato anche di aver commesso numerosi reati in precedenza, l'imperatore tenne un discorso particolarmente moderato, in cui evitò di schierarsi a favore o contro la condanna del governatore. A Pisone non poté comunque essere imputata l'accusa di veneficio, che appariva, anche agli accusatori, impossibile da dimostrare; il governatore, tuttavia, certo di dover essere condannato per gli altri reati che aveva commesso, decise di suicidarsi prima che venisse emesso un verdetto. La popolarità di Tiberio, dunque, uscì danneggiata dall'episodio, proprio perché Germanico era molto amato. Tacito scrisse così di lui, decenni dopo la sua morte: «[Germanico] ...giovane, aveva sentimenti liberali e una straordinaria affabilità, che contrastava con il linguaggio e l'atteggiamento di Tiberio, sempre arroganti e misteriosi...» (Tacito, Annales, I, 33). I due, infatti, avevano modi di fare particolarmente contrastanti: Tiberio si distingueva per la freddezza, la riservatezza e il pragmatismo, Germanico per la sua popolarità, la semplicità e il fascino.

- La morte di Germanico apriva la strada per la successione dell'unico figlio naturale di Tiberio, Druso, che aveva, fino a quel momento, accettato un ruolo secondario rispetto al cugino Germanico. Egli era soltanto di un anno più giovane del defunto, ma ugualmente abile, come risulta dal modo con cui fronteggiò la rivolta in Pannonia. Intanto, Lucio Elio Seiano, nominato prefetto del Pretorio insieme al padre nel 16, riuscì presto a conquistarsi la fiducia di Tiberio. Accanto a Druso, dunque, favorito per la successione, si andò a collocare anche la figura di Seiano, che acquisì un grande influsso sull'opera di Tiberio: il prefetto del Pretorio, infatti, che mostrava nel carattere una riservatezza del tutto simile a quella dell'imperatore, era invece animato da un forte desiderio di potere, e ambiva lui stesso a divenire il successore di Tiberio. Seiano vide inoltre crescere enormemente il suo potere quando le nove coorti pretoriane furono raggruppate nella stessa città di Roma, presso la Porta Viminalis. Tra Druso e Seiano si venne quindi a creare una situazione di aperta rivalità; il prefetto, allora, iniziò a meditare l'ipotesi di assassinare Druso e gli altri possibili successori di Tiberio, sedusse quindi la moglie dello stesso Druso, Claudia Livilla e intraprese con lei una relazione. Poco tempo dopo, nel 23, lo stesso Druso morì avvelenato; l'opinione pubblica arrivò a sospettare, pur senza alcun fondamento, che potesse essere stato Tiberio a ordinare l'assassinio di Druso, ma appariva più verosimile che vi fosse stata coinvolta Claudia Livilla. Otto anni più tardi Tiberio verrà a sapere che ad uccidere il figlio era stata proprio la nuora Livilla, insieme al suo più fidato consigliere, Seiano.


Nel 26 - Cornelio Tacito scrive dei Sigambri a proposito della guerra contro i Traci del 26, condotta da un certo Gaio Poppeo Sabino (console del 9). Sembra che in quella circostanza una loro coorte ausiliaria prese parte alla guerra dell'area balcanica (Tacito, Annales IV, 47), dopodicché i Sigambri non sono più menzionati. Ciò potrebbe significare che si fusero nella federazione di genti germaniche dei Franchi, costituitasi a ridosso del limes della Germania inferiore al principio del III secolo d.C.. A partire dalle campagne di Druso, (Nerone Claudio Druso, 39 - 9 a.C., conosciuto come Druso maggiore, militare e politico romano appartenente alla dinastia giulio-claudia in quanto figlio della terza moglie di Augusto, Livia Drusilla) la popolazione dei Sigambri aveva cominciato a fornire truppe ausiliarie all'interno dell'esercito romano. Sono citate le seguenti unità: I Claudia Sugambrorum tironum veterana, che fu prima in Mesia sotto Vespasiano (nel 77), poi in Mesia inferiore sotto Domiziano (nel 91), Nerva (nel 96-98) ed ancora sotto Antonino Pio nel 139 e nel 145. La troviamo in Siria nel 157; della II e III Sugambrorum se ne ipotizza l'esistenza in base alla presenza della IV; la IV Sugambrorum si trovava in Mauretania Caesariensis sotto Traiano nel 108. Il termine Sigambro rimase per indicare un guerriero valoroso. Secondo la tradizione il vescovo Remigio di Reims, nel battezzare Clodoveo I usò la seguente formula: "Fiero Sigambro, brucia ciò che hai adorato e adora ciò che hai bruciato!". Da "Il Santo Graal" di Michael Baigent, Richard Leigh, Henri Lincoln - 1982 Arnoldo Mondadori Editore: "I Franchi Sicambri erano gli antenati dei  Merovingi che discendevano, attraverso l'Arcadia, dalla tribù di Beniamino".

- Nel 26 Tiberio si ritrova ancora una volta, all'età di 64 anni, privo di un erede, poiché i gemelli di Druso, nati nel 19, erano troppo giovani e uno di loro era morto poco dopo il padre. Scelse allora di proporre come suoi successori i giovani figli di Germanico, che erano stati adottati da Druso e che Tiberio pose sotto la tutela dei senatori. Seiano ebbe, allora, un potere sempre maggiore, tanto da poter sperare di divenire imperatore egli stesso dopo la morte di Tiberio e iniziò una serie di persecuzioni prima contro i figli e la moglie di Germanico, Agrippina, poi verso gli amici dello stesso Germanico; molti di loro furono infatti costretti all'esilio o scelsero di darsi la morte per evitare una condanna. Tiberio, addolorato per la morte del figlio ed esasperato per l'ostilità del popolo di Roma, nel 26 decise di ritirarsi prima in Campania e l'anno successivo a Capri su consiglio dello stesso Seiano, per non fare mai più ritorno nell'Urbe. Egli aveva già sessantasette anni e sembra che il piano di allontanarsi da Roma lo accarezzasse già da diverso tempo. Si racconta che dopo aver visto il figlio morire agonizzante, avesse parlato di abdicare. Non poteva più sopportare di vedere intorno a sé gente che gli ricordava Druso, senza dimenticare che la vicinanza della madre Livia era divenuta per lui insopportabile. Una malattia che gli sfigurava il viso ne aveva, infine, aumentato la sucettibilità e l'ombrosità del carattere. Ma il suo ritiro fu un errore molto grave, sebbene Tiberio non avesse diminuito la cura con cui affrontava i problemi dell'Impero dalla villa di Capri. Il prefetto del pretorio, intanto, godendo della totale fiducia dell'imperatore, prese il controllo di tutte le attività politiche, divenendo rappresentante incontrastato del potere imperiale. Egli era riuscito, inoltre, a convincere il princeps a concentrare tutte le nove coorti pretorie, in precedenza distribuite tra Roma e altre città italiche, nell'Urbe, (all'interno dei Castra Praetoria) a sua totale disposizione, ora che Tiberio aveva lasciato Roma. Tiberio, invece, si impegnò a mantenersi informato sulla vita politica di Roma, e riceveva regolarmente missive che lo informavano delle discussioni intraprese in senato; egli stesso, grazie all'istituzione di un vero e proprio servizio postale, poteva esprimere il proprio parere, ed era anche in grado di impartire ordini ai suoi emissari nell'Urbe. L'allontanamento di Tiberio da Roma, portò comunque a una progressiva esautorazione del senato a tutto vantaggio di Seiano. Il prefetto del pretorio, infatti, iniziò a perseguitare i propri oppositori accusandoli di lesa maestà ed eliminandoli, dunque, dalla scena politica; grande credito acquisirono i delatori, ovvero coloro che fungevano da accusatori, e permettevano la condanna dell'imputato. Una tale situazione portò alla creazione di un clima di generale sospetto, che, a sua volta, fomentò ulteriormente le voci sui coinvolgimenti dell'imperatore nei numerosi processi politici intentati da Seiano e dai suoi collaboratori. 

Nel 29 - Quando Livia Drusilla, che con il suo carattere autoritario aveva sempre influenzato il governo, muore all'età di ottantasei anni, il figlio Tiberio si rifiuta di far ritorno a Roma per le esequie e ne proibisce la divinizzazione. Seiano, allora, poté procedere indisturbato in una serie di azioni contro Agrippina maggiore e il suo figlio primogenito Nerone: contro il giovane furono riversate numerose accuse infamanti, tra cui quelle di omosessualità e di tentata sovversione, ed egli fu dunque condannato al confino sull'isola di Ponza, dove morì nel 30 patendo la fame. Agrippina, invece, accusata di adulterio, fu deportata nell'isola Pandataria dove morì nel 33. Nei progetti di Seiano rientrava appunto il proposito di assicurarsi la successione nel ruolo di imperatore. Eliminati i discendenti diretti di Tiberio, il prefetto era ormai l'unico candidato alla successione: dopo aver già tentato inutilmente di imparentarsi con la famiglia imperiale sposando la vedova di Druso minore, Claudia Livilla, iniziò ad aspirare al conferimento della tribunicia potestas, che avrebbe formalmente sancito la sua successiva nomina ad imperatore, rendendo la sua persona sacra e inviolabile, e ottenne, intanto, nel 31 il consolato assieme allo stesso Tiberio. Contemporaneamente, però, la vedova di Druso maggiore, Antonia minore, facendosi portavoce dei sentimenti di gran parte della classe senatoriale, comunicò in una lettera a Tiberio tutti gli intrighi e i fatti di sangue di cui Seiano, che stava ordendo una cospirazione ai danni dello stesso imperatore, era responsabile; Tiberio, allertato decise allora di destituire il potente prefetto, e organizzò un'abile manovra con l'aiuto del prefetto dell'Urbe Macrone. Per non destare sospetti, l'imperatore nominò Seiano pontefice, promettendo di conferirgli al più presto la tribunicia potestas; contemporaneamente, però, lasciò anticipatamente la carica di console, costringendo così anche il collega a rinunciarvi. Il 17 ottobre del 31, infine, Tiberio, nominando segretamente il prefetto dell'Urbe prefetto del pretorio e capo delle coorti urbane, lo inviò a Roma con l'ordine di accordarsi con Grecinio Lacone, prefetto dei Vigiles, e col nuovo console designato Publio Memmio Regolo, affinché convocasse per il giorno successivo il Senato nel tempio di Apollo sul Palatino. In tal modo Tiberio, garantendosi il sostegno delle coorti urbane e dei vigili, si era premunito contro un'eventuale reazione dei pretoriani in favore di Seiano. Quando Seiano giunse in Senato, venne informato da Macrone dell'arrivo di una lettera di Tiberio annunciante il conferimento della potestà tribunizia. Così, mentre questi prendeva giubilante il proprio posto tra i senatori, Macrone, rimasto fuori dal tempio, allontanò i pretoriani di guardia facendoli sostituire dai vigili di Lacone. Poi, consegnata la lettera di Tiberio al console perché la leggesse al Senato, raggiunse i castra praetoria per annunciare la propria nomina a prefetto del pretorio. Nella lettera, volutamente molto lunga e vaga, Tiberio trattava di vari argomenti, di tanto in tanto intessendo le lodi di Seiano, a volte muovendogli qualche critica; solo alla fine, l'imperatore accusava all'improvviso il prefetto di tradimento, ordinandone la destituzione e l'arresto. Seiano, sbigottito per l'inatteso voltafaccia venne immediatamente condotto via in catene dai vigiles e poco dopo sommariamente processato dal Senato riunito nel tempio della Concordia: fu condannato a morte e alla damnatio memoriae. La sentenza venne eseguita nella stessa notte nel Carcere Mamertino per strangolamento, e il corpo esanime del prefetto fu poi lasciato al popolo, che ne fece scempio trascinandolo per le strade dell'Urbe. A seguito dei provvedimenti che Seiano aveva preso contro Agrippina e la famiglia di Germanico infatti, la plebe aveva sviluppato una forte avversione nei confronti del prefetto. Il Senato dichiarò il 18 ottobre festa pubblica, ordinando l'innalzamento di una statua alla Libertas con la seguente dedica: «Alla salute perpetua di Augusto e alla Libertà del popolo romano, per la Provvidenza di Tiberio Cesare, figlio di Augusto, per l'eternità della gloria di Roma, [essendo stato] eliminato il pericolosissimo nemico.». Pochi giorni più tardi furono brutalmente strangolati nel Carcere Mamertino i tre giovani figli del prefetto; la sua ex-moglie, Apicata, si suicidò dopo aver inviato una lettera a Tiberio rivelando le colpe di Seiano e Claudia Livilla in occasione della morte di Druso minore. Livilla fu dunque processata e, per evitare una sicura condanna, si lasciò morire di fame. Alla morte di Seiano e dei suoi familiari seguirono poi una serie di processi contro gli amici e i collaboratori del defunto prefetto, che furono condannati a morte o costretti al suicidio. Con la caduta di Seiano si riapriva la questione della successione.

Nel 31 - La corte imperiale va riducendosi in numero poiché Tiberio, temendo di essere al centro di continue congiure, ordina spesso esecuzioni sommarie. Quando anche Seiano è sospettato di voler aspirare al trono imperiale, Caligola entra in maniera più attiva nella vita di corte. Poco dopo la caduta di Seiano (nel 31), si riapre la questione della successione. Ed è in questa circostanza che Tiberio, ormai ritiratosi a Capri dal 26, vuole che a fargli compagnia sia il nipote Caligola. Giunto sull'isola, Gaio ricevette la toga virilis, senza che però gli fosse riservato alcun onore aggiuntivo. Il ragazzo, durante il soggiorno sull'isola, mostrò grande autocontrollo e sembrò dimenticare tutte le crudeltà che Tiberio aveva compiuto nei confronti della sua famiglia. In questa occasione l'oratore Passieno pronunciò la celebre frase: «Non c'è mai stato un servo migliore e un padrone peggiore». Svetonio racconta che, già in questo periodo, Gaio mostrò i primi segnali della sua natura crudele e viziosa, assistendo spesso e volentieri alle esecuzioni capitali, oltre a frequentare taverne e bordelli, mascherandosi per non farsi riconoscere. Tiberio che conosceva i vizi del nipote, ne tollerava la condotta e che in lui cercava la sua vendetta personale nei confronti del popolo romano, che ormai lo odiava, tanto da fargli pronunciare la frase: «Gaio vive per la rovina sua e di tutti; io educo una vipera per il popolo romano, un Fetonte per il mondo».


Nel 33 
- A Gerusalemme viene crocifisso Yeshuah Ben Yossef, Gesù figlio di Giuseppe. Nell'impero romano anche Druso Cesare, il maggiore dei figli di Germanico rimasti in vita, muore  di inedia dopo essere stato condannato al confino nel 30 con l'accusa di aver cospirato contro Tiberio. Alla morte del fratello, Gaio (Caligola) lo sostituisce prima come augure, poi come pontefice. Fin da giovane Caligola era soggetto a svenimenti improvvisi: «Divenuto adolescente, era abbastanza resistente alle fatiche, ma qualche volta, colto da un'improvvisa debolezza, poteva a mala pena camminare, stare in piedi, e a stento poteva ritornare in sé e reggersi. Lui stesso si era accorto del suo disordine mentale e più di una volta tanto che pensò spesso di ritirarsi e curare il proprio cervello.» (Svetonio, Gaio Cesare, 50). Nello stesso 33 Caligola sposa Giunia Claudia, figlia di Marco Giunio Silano, un personaggio di spicco dell'aristocrazia romana.

Nel 35 - Tiberio deposita il suo testamento in cui include il nipote Tiberio Gemello, figlio di Druso minore (nato come Nerone Claudio Druso, figlio di Tiberio Claudio Nerone e Vipsania Agrippina) e il nipote collaterale Gaio (Caligola), figlio di Germanico. Restava dunque escluso dal testamento il fratello dello stesso Germanico, Claudio, che era considerato del tutto inadatto al ruolo di princeps, in quanto debole di corpo e di dubbia sanità mentale, ma che diverrà in seguito imperatore. Il favorito nella successione apparve subito il giovane Gaio (figlio di Germanico) di venticinque anni, meglio noto come Caligola, poiché Tiberio Gemello, peraltro sospettato di essere in realtà figlio di Seiano (per le relazioni adulterine di questi con la moglie di Druso minore, Claudia Livilla), aveva dieci anni di meno, due ragioni sufficienti per non lasciargli il Principato. Il prefetto del pretorio Macrone, infatti, dimostrò subito la sua simpatia per Gaio, guadagnandosene con ogni mezzo la fiducia.


-
Nel 35, in un’antica cronaca attribuita a Flavio Lucio Destro, senatore romano e prefetto del pretorio dell’Impero Romano d’Occidente, morto nella prima metà del V secolo, troviamo una notizia importante: “Gli ebrei di Gerusalemme, scagliatisi con violenza contro i beati Lazzaro, Maddalena, Marta, Marcella, Massimo, il nobile Giuseppe d’Arimatea e numerosi altri, li caricano su di una nave senza remi, né vele, né timone e li mandano in esilio. Ed essi guidati, attraverso il mare da una forza divina, raggiungono incolumi il porto di Marsiglia”. Anche il vescovo Equilino racconta lo stesso episodio che ancora oggi è molto noto nella Provenza in Francia.
Giotto - Barca con i santi che
giunge in Francia.
La tradizione medioevale sintetizzata nella Legenda aurea di Jacopo da Varagine o Varazze, che fu arcivescovo di Genova (dove Legenda è un latinismo che sta per Testo che deve essere letto nel giorno della ricorrenza festiva), vuole che Pietro abbia affidato la Maddalena a Massimino, uno dei 72 discepoli di cui ci parla il vangelo di Luca. Massimino, la Maddalena, suo fratello Lazzaro, sua sorella Marta, la serva di Marta Martilla e Cedonio, cieco dalla nascita guarito dal Signore, catturati dagli infedeli sarebbero stati abbandonati su di una nave per farli morire, ma miracolosamente la nave sarebbe giunta a Marsiglia, in Francia. Nel 1.601, il cardinale Cesare Baronio, eminente bibliotecario del Vaticano, nei suoi "Annales Ecclesiasticae" afferma che Giuseppe di Arimatea arrivò una prima volta a Marsiglia nel 35 e da lì si recò in Inghilterra.

Gesù e Maria
Maddalena da:
http://www.prieure-de-
sion.com/1/sang_real
_1014525.html
- In un libro del 1977, "Jesus died in Kashmir: Jesus, Moses and the ten lost tribes of Israel", Andreas Faber-Kaiser esaminò la leggenda secondo cui Gesù incontrò una donna del Kashmir, la sposò ed ebbe da lei diversi figli. L'autore intervistò anche il fu Basharat Saleem il quale dichiarava di essere un discendente kashmiro di Gesù. In effetti, fra i documenti in possesso del Priorato di Sion prima degli incendi della II guerra mondiale, risultava che un figlio di Gesù e Maria Maddalena, Yeshuah-Joseph Yuz Asaf, Jésus le cadet, Joseph Harama Théo du Graal Ben Yeshuah, era nato nel 33 in Giudea e morto nel 120 in Srinagar, Cachemire, da: QUI. Michael Baigent, Richard Leigh e Henry Lincoln svilupparono e resero popolare l'ipotesi secondo cui una linea di sangue di Gesù e Maria Maddalena affluì nella dinastia Merovingia nel loro controverso saggio del 1982 "Il santo Graal".

Nel 37 - Tiberio, ormai 77enne, lascia Capri forse con l'idea di rientrare finalmente in Roma per trascorrervi i suoi ultimi giorni; intimorito però dalle reazioni che il popolo avrebbe avuto, si ferma a sole sette miglia dall'Urbe e decide di tornare indietro verso la Campania. Qui è colto da malore e, trasportato nella villa di Lucullo a Miseno, dopo un iniziale miglioramento, il 16 marzo cade in uno stato di delirio in cui è creduto morto. Mentre molti già si apprestavano a festeggiare l'ascesa di Caligola, Tiberio si riprende ancora una volta, suscitando scompiglio tra coloro che avevano già acclamato il nuovo imperatore. Il prefetto Macrone, tuttavia, mantenendo la lucidità, ordina che Tiberio sia soffocato tra le coperte: era il 16 marzo del 37. Il vecchio imperatore, debole e incapace di reagire, spira. La plebe romana reagì con grande gioia alla notizia della morte di Tiberio, festeggiandone la scomparsa. Molti monumenti che celebravano le imprese dell'imperatore furono distrutti, così come numerose statue che lo raffiguravano. In molti tentarono di far cremare il corpo di Tiberio a Miseno, ma fu comunque possibile trasportarlo a Roma, dove fu cremato nel Campo Marzio e sepolto, tra le ingiurie, nel Mausoleo di Augusto il 4 aprile, presidiato dai pretoriani. Mentre l'imperatore defunto riceveva queste modeste onoranze funebri il 29 marzo, Caligola era già stato acclamato princeps dal senato.

Gaio Cesare Caligola
da QUI.
- Alla morte di Tiberio, il 16 marzo del 37, Gaio (Caligola) era il più amato dal popolo romano. Soldati e provinciali lo ricordavano quando, ancora bambino, aveva accompagnato il padre Germanico durante le campagne militari e la plebe romana lo acclamava come unico figlio dell'amato generale. «[Si avveravano] i voti del popolo romano ed anzi del genere umano, perché era il principe sognato dalla maggior parte dei provinciali, dei soldati, molti dei quali lo avevano conosciuto da bambino, e dalla plebe romana, che era commossa dal ricordo di suo padre Germanico e di tutta la sua famiglia perseguitata». (Svetonio, Vite dei Cesari, Gaio Cesare, XIII; Aurelio Vittore, De Caesaribus, III, 2). 
Caliga, da QUI.
Gaio Giulio Cesare Augusto Germanico (Anzio, 31 agosto 12 - Roma, 24 gennaio 41), regnante con il nome di Gaio Cesare e meglio conosciuto con il soprannome di Caligola (da "piccola caliga", la calzatura dei legionari, affettuoso soprannome datogli in giovane età dai soldati del padre, ma che lui non voleva che si usasse), era il terzo figlio di Agrippina maggiore e di Germanico Giulio Cesare, generale molto amato dal popolo romano. La madre era figlia di Marco Vipsanio Agrippa (amico fraterno di Augusto) e di Giulia maggiore (figlia di primo letto di Augusto). Il padre era figlio di Druso maggiore (fratello di Tiberio e figlio di Livia Drusilla, terza moglie di Augusto) e di Antonia Minore (figlia di Marco Antonio e Ottavia, sorella di Augusto). Suo padre Germanico era stato inoltre adottato da Tiberio su richiesta di Augusto. Questa particolare situazione familiare (che attraverso Cesare e il bisnonno Augusto, ne faceva un discendente di Venere ed Enea, avevano reso Caligola il più probabile successore del prozio Tiberio. Caligola segue il corteo funebre di Tiberio e ne pronuncia l'elogio funebre. Subito dopo parte per le isole di Ventotene e Ponza, per riportare a Roma le ceneri della madre Agrippina (esiliata a Ventotene da Tiberio nel 29, che nel 33 si era lasciata morire di fame) e del fratello Nerone (relegato a Ponza da Tiberio e morto di inedia nel 31); poi salpa per Ostia e prosegue fino a Roma dove le posa nel mausoleo di Augusto. La folla al suo passaggio lo acclama, definendolo "nostra stella" e "nostro bambino". Il Senato proclama nuovo princeps Caligola il 18 marzo del 37. Nel periodo che seguì l'inizio del suo principato vennero spesso organizzate feste e banchetti gratuiti per l'intera cittadinanza di Roma (congiaria): Svetonio aggiunge che, nei tre mesi successivi alla proclamazione di Caligola, furono sacrificati oltre 160 000 animali, mentre Filone ricorda che durante i primi sette mesi del suo regno tutti i cittadini furono costantemente in festa. Per compiacere il popolo, uno dei suoi primi atti ufficiali fu concedere l'amnistia ai condannati, agli esiliati da Tiberio e a tutti coloro che erano imputati in un processo. Per tranquillizzare i testimoni nel processo di sua madre e dei suoi fratelli, fece portare nel Foro tutti gli incartamenti processuali e li bruciò. Dichiarò che i pervertiti sessuali, inventori di accoppiamenti mostruosi, fossero espulsi dall'Urbe e mandati in esilio; permise di ricercare, diffondere e leggere gli scritti, una volta banditi, di Tito Labieno, Cassio Severo e Cremuzio Cordo (che denunciavano in molti casi la classe senatoria). Attuò altre riforme per migliorare le condizioni della Repubblica, aumentare la libertà dei cittadini e combattere la corruzione. Organizzò banchetti pubblici e prolungò la festività dei Saturnalia di un giorno. Organizzò spesso spettacoli e giochi gratuiti per farsi benvolere dalla popolazione. Escogitò inoltre un nuovo tipo di spettacolo: tra Baia e Pozzuoli fece costruire un ponte, lungo più di due chilometri e mezzo, composto da due file di navi ancorate e ricoperte di terra, a somiglianza della Via Appia. A causa dell'enorme quantità di navi utilizzate, per alcuni giorni il cibo scarseggiò in tutta Roma, poiché insufficienti erano i mezzi addetti al rifornimento della città, che lungo il Tevere conducevano le derrate alimentari dalle province al porto di Ostia e da qui all'Urbe. Non solo nell'Urbe si organizzarono questo genere di manifestazioni, ma anche in Sicilia (in particolare a Siracusa) e in Gallia (a Lugdunum). Alla morte di Tiberio nelle casse del fiscus romano c'erano ben 2.700.000.000 di sesterzi, che Caligola riuscì a dilapidare in meno di un anno. Questo enorme fondo che ereditò dal suo predecessore venne dilapidato tra la fine del 38 e l'inizio del 39. Numerose furono infatti le elargizioni distribuite al popolo di Roma (congiaria), agli eserciti provinciali e alla guardia pretoriana (a cui distribuì un donativo doppio rispetto a quello promesso da Tiberio, pari a 2.000 sesterzi ciascuno), ai regni vassalli di Roma (il solo Antioco IV di Commagene ricevette 100.000.000 di sesterzi), oltre a spese a uso personale e della corte imperiale. Terminati i fondi statali iniziò ad accumulare denaro con truffe e imbrogli. Si racconta che organizzò aste obbligatorie di ogni genere; modificò testamenti per i motivi più disparati, nominandosi erede di sconosciuti; rifiutò di riconoscere la cittadinanza a moltissime persone, dichiarando che gli atti prima del principato di Tiberio fossero troppo antichi; incriminò chi aveva avuto una crescita del patrimonio da un censimento all'altro, processandolo e ottenendo enormi somme di denaro in pochissimo tempo; aumentò le tasse in modo esagerato e ne creò di totalmente nuove, come quelle sul cibo, sui processi, sulle cause, sulla prostituzione, sui matrimoni e sul gioco d'azzardo. Le nuove leggi non furono, infine, rese del tutto pubbliche in modo tale che, ignorandone l'esistenza, venivano violate, generando così pesanti multe che alimentavano le casse imperiali.

- Nell'ottobre del 37, l'imperatore Caligola è colpito da una grave malattia, notizia che turberà profondamente il popolo romano che farà voti per la salvezza del proprio princeps; Svetonio e Cassio Dione riportano il caso di un cavaliere, Atanio Secondo, che promise di combattere nell'arena come gladiatore in caso di sua guarigione: egli mantenne la promessa, combattendo, vincendo lo scontro e salvandosi la vita. Al contrario, un plebeo che fece un'identica promessa, in seguito alla guarigione di Gaio, pretese di sciogliere il voto, ma venne arrestato e morì dopo essere stato gettato dalle mura serviane. Caligola si riprese dalla malattia, anche se da questo momento in poi vi fu un netto peggioramento della sua condotta morale. Sulla malattia e sulle cause gli storici non concordano, ma tutti considerano questo evento come lo spartiacque tra il suo primo periodo di governo e il successivo, caratterizzato da una condotta folle. Osserva Filone di Alessandria: «[...] non passò molto tempo e l'uomo che era stato considerato benefattore e salvatore [...] si trasformò in essere selvaggio o piuttosto mise a nudo il carattere bestiale che aveva nascosto sotto una finta maschera» (Filone di Alessandria, De Legatione ad Gaium, 22). Per Filone, Dio si servì di Caligola, trasformandolo dopo la malattia da ottimo principe e fortunato erede di Tiberio in un pazzo carnefice destinato a compiere la vendetta divina contro i giudei e i romani, quella stessa che avrebbe poi punito il suo persecutore, liberando alla fine gli stessi israeliti. La malattia fu attribuita agli eccessi compiuti all'inizio del principato; in particolare Giovenale e Svetonio indicano come causa della pazzia di Caligola l'aver usato un afrodisiaco (poculum amatorium) a lui offerto dalla moglie Milonia Cesonia. Sono state ipotizzate dagli studiosi moderni, come cause degli sbalzi d'umore, delle allucinazioni, dell'insonnia e delle paranoie di cui soffriva l'imperatore, disturbi mentali veri e propri (schizofrenia, disturbo bipolare o altri), patologie come l'epilessia, l'ipertiroidismo (es. tiroidite di Hashimoto), l'encefalite erpetica, la neurosifilide e il saturnismo. In generale la politica giudiziaria di Caligola si può dividere in due periodi: il primo, molto liberale e filo-popolare, nel quale egli cercò anche il favore dell'ordine senatorio; il secondo, nel quale il princeps fece di tutto per accrescere il proprio potere, in una sorta di assolutismo monarchico, che egli sfruttò per accumulare ricchezze e per disporre del destino dei cittadini romani a suo piacimento, fino a nominare senatore, nel 41 d.c., Incitatus , il suo cavallo. L'imperatore massacrerà infatti numerosi oppositori interni e non risparmierà critiche nei confronti del Senato. Dato che l'ordine equestre si stava riducendo di numero, convocò da tutto l'impero, anche al di fuori d'Italia, gli uomini più importanti per stirpe e ricchezza e li iscrisse all'ordine; ad alcuni di loro, per assecondare l'aspettativa di diventare senatori, concesse di vestire l'abito senatoriale ancor prima di aver assunto cariche in quelle magistrature che davano accesso al Senato. Cercò di ristabilire, almeno formalmente, i poteri delle assemblee popolari, permettendo alla plebe di convocare nuovamente i comizi. Il fatto che Caligola appartenesse a una famiglia di importanti comandanti militari che si erano guadagnati gloria e onore con imprese belliche potrebbe aver destato in lui il desiderio di emularne le gesta. Se Druso maggiore, il nonno paterno, e Germanico, il padre, si erano concentrati in Germania, egli, per superare le loro gesta, credette di dover non solo conquistare in modo definitivo i territori compresi tra Danubio e Reno, ma anche varcare l'oceano e sbarcare in Britannia. A tal scopo, per prima cosa creò due nuove legioni, la XV Primigenia e la XXII Primigenia. Caligola assunse, subito dopo la malattia, atteggiamenti autocratici e provocatori. Fu accusato, infatti, di giacere con le mogli di importanti esponenti dell'aristocrazia romana e di vantarsene; di uccidere per puro divertimento; di dilapidare deliberatamente il patrimonio statale e di aver ordinato l'erezione di una statua colossale nel Tempio di Gerusalemme, sfidando le usanze religiose dei Giudei. Egli, al contrario, si rese popolarissimo con laute elargizioni alla plebe e costosi giochi circensi, ma anche il popolo gli si rivoltò contro quando alzò nuovamente le tasse. Se gli imperatori prima di lui avevano scelto, almeno nella parte occidentale dell'impero, di mantenere i legami con le tradizioni repubblicane, egli virò sensibilmente verso Oriente: non solo aveva in mente di trasferire la capitale imperiale ad Alessandria d'Egitto (come voleva il suo bisnonno Marco Antonio), ma anche di instaurare una forma di monarchia assoluta, a quel tempo ancora sconosciuta in Italia ma che di fatto fu posta in atto da Domiziano, Commodo e da tutti gli imperatori romani dal III secolo in poi. Adottò, pertanto, una politica volta a diventare un sovrano a cui si rendevano onori divini sul modello delle monarchie orientali, esasperando il noto processo di divinizzazione degli imperatori defunti. La sua inclinazione filo-ellenista gli fece, infine, programmare un lungo viaggio ad Alessandria, in Asia minore e Siria.

- Ad Anzio il 15 dicembre 37, da Agrippina Minore (figlia dell'acclamato condottiero Germanico e sorella dell'imperatore Caligola) e Gneo Domizio Enobarbo, nasce Lucio Domizio Enobarbo, il futuro imperatore Nerone, discendente diretto di Augusto e della Gens Giulia (dal lato materno e anche dal lato paterno, dato che il padre era un pronipote di Augusto tramite la sorella di quest'ultimo, Ottavia), e della famiglia di Tiberio, la Gens Claudia. Il padre apparteneva alla famiglia dei Domizi Enobarbi, una stirpe considerata di "nobiltà plebea", (cioè recente), mentre la madre era figlia dell'acclamato condottiero Germanico, nipote di Marco Antonio, di Agrippa e di Augusto, nonché sorella dell'imperatore Caligola che quindi era suo zio materno.

Nel 39 - Lasciata Roma all'inizio di settembre del 39, Caligola conduce il suo esercito lungo il Reno, ammassandovi numerose legioni, insieme ai relativi reparti ausiliari e un ingente quantitativo di vettovagliamenti. A ottobre, dopo aver passato in rassegna le truppe, fa uccidere Gneo Cornelio Lentulo Getulico, che era stato il governatore della Germania superiore per dieci anni, poiché ne invidiava l'ottimo rapporto che aveva con le proprie truppe. La sua impresa risultò quasi del tutto inutile, se non per il fatto che Adminio, figlio di Cunobelino re dei Britanni, scacciato dal padre, giunse nell'accampamento dell'imperatore e fece atto di sottomissione. Caligola rimase sul Reno senza però portare a termine alcuna operazione militare e rimproverò ai senatori di vivere tra i lussi mentre lui rischiava la vita in battaglia. Decise quindi di muovere le truppe verso l'Oceano, portando con sé numerose macchine da guerra. Ordinò ai suoi uomini di togliersi l'elmo e raccogliere le conchiglie sulla spiaggia, quasi fosse il bottino di una battaglia vinta contro il mare. Fece, infine, costruire in quel luogo una grande torre in memoria delle sue imprese vittoriose ed elargì ricompense ai suoi soldati. Gli storici moderni hanno avanzato alcune teorie per spiegare questo genere di azioni: il viaggio verso la Manica viene interpretato come un'esercitazione, una missione di esplorazione oppure per accettare la resa del capo britannico Adminio. Le "conchiglie" (in latino conchae) di cui racconta Svetonio, potrebbero rappresentare invece una metafora dei genitali femminili, in quanto alle truppe fu probabilmente concesso di frequentare i bordelli della zona; oppure i9ndicherebbero imbarcazioni britanne, che i soldati potrebbero aver catturato durante la breve spedizione.

- Nel 39 Caligola fa giustiziare Lepido ed esilia le proprie sorelle Agrippina minore (madre di Nerone) e Giulia Livilla. Lepido era figlio del console Marco Emilio Lepido e Vipsania Marcella, quindi fratello di Emilia Lepida (moglie di Druso Cesare), nipote di Marco Vipsanio Agrippa e bisnipote di Lucio Emilio Lepido Paolo (console nel 50 a.C. e fratello del triumviro Marco Emilio Lepido). Lepido sposò la sorella di Caligola, Drusilla, nel novembre o dicembre del 37. Drusilla, tuttavia, era già sposata con il console Lucio Cassio Longino dal 33, ma l'imperatore costrinse suo cognato a ripudiarla per poterle far sposare Lepido. A causa di ciò, Lepido divenne un amico intimo di Caligola e della sua famiglia. Dopo la morte di Tiberio Gemello nel 37, Lepido fu pubblicamente scelto da Caligola come suo erede. Alla fine del 38, quando fu arrestato il governatore dell'Egitto Aulo Avilio Flacco, Lepido persuase con successo Caligola ad esiliare Flacco ad Andros piuttosto che a Gyarus. Nel 39, tuttavia, Caligola rese pubbliche le epistole delle sorelle Agrippina minore e Giulia Livilla, nelle quali si rivelavano la loro relazione adulterina con Lepido e un complotto contro l'imperatore, a causa di ciò Lepido fu giustiziato nel 39 e le sorelle di Caligola furono esiliate. Agrippina ricevette le ossa di Lepido in un'urna e le portò a Roma, mentre Caligola inviò tre pugnali al Foro di Augusto per celebrarne la morte. Vespasiano fece una mozione in Senato, per decidere se gettare via i resti di Lepido invece che seppellirli, approvata dai senatori, i quali non concessero a Lepido una degna sepoltura. Agrippina Minore (figlia dell'acclamato condottiero Germanico e sorella dell'imperatore Caligola) madre di Lucio Domizio Enobarbo (il futuro imperatore Nerone), amante del potere e descritta da molti come spietatamente ambiziosa, è quindi scoperta coinvolta in una congiura contro il fratello Caligola e viene quindi mandata in esilio nell'isola di Pandataria nel mar Tirreno, nell'arcipelago pontino. In quegli anni il piccolo Lucio visse con la zia Domizia Lepida, che egli amò più della madre e dalla quale avrebbe imparato l'amore per lo spettacolo e per la danza. L'anno seguente il marito di lei, Gneo, morì e il suo patrimonio venne confiscato da Caligola stesso. Rimanendo la zia in una ristretta condizione economica, in questi primi anni i precettori di Nerone sono un barbiere ed un ballerino, che aiutano anch'essi Lucio a coltivare l'amore per le arti e la danza.

Nel 40 - La Mauretania era ormai da lungo tempo un regno cliente fedele a Roma, governato da Tolomeo di Mauretania, discendente di Antonio e Cleopatra e cugino di secondo grado del principe. Nel 40 Caligola invita Tolomeo a Roma e «quando venne a sapere che era ricco», lo manda a morte. Dopo l'uccisione del re di Mauritania scoppiò una rivolta guidata da un suo liberto, Edemone, che amministrava gli affari reali già dal 37, e che ebbe termine grazie all'intervento militare romano di Marco Licinio Crasso Frugi (nel 41). La Mauretania fu quindi annessa e successivamente divisa in due province, Mauretania Tingitana e Mauretania Cesariensis, separate dal fiume Mulucha (oggi Muluia). Se Plinio sostiene che la divisione fu operata da Caligola, Cassio Dione al contrario afferma che solo in seguito alla rivolta del 42, soffocata nel sangue dalle truppe romane poste sotto il comando di Gaio Svetonio Paolino e Gneo Osidio Geta, fu operata la scissione in due province indipendenti; questa confusione potrebbe essere stata generata dal fatto che fu Caligola a prendere la decisione di dividere la provincia, ma che la sua realizzazione venne rinviata a causa della successiva ribellione. Nel 40 Caligola inizia inoltre una politica molto controversa di affiancamento del titolo di principe al ruolo di divinità: inizia infatti ad apparire in pubblico vestito come i dei e semidei del pantheon romano, quali Ercole, Venere e Apollo ed inizia a riferirsi a sé stesso come dio, facendosi chiamare Giove nelle cerimonie pubbliche. Caligola cominciò a farsi adorare dai cittadini di Roma, compresi i senatori, come un dio vivente. Per quello che riguarda il rapporto con i suoi consanguinei, Caligola preferì ricevere la nonna Antonia non in privato ma alla presenza del prefetto del pretorio Macrone; successivamente secondo alcune fonti, la fece uccidere avvelenandola. Svetonio riporta che Antonia morì per una malattia causata dal trattamento ostile da parte di Caligola, anche se aggiunge che ci sono voci che sostengono che venne fatta avvelenare dal nipote, mentre secondo Dione Cassio Caligola la fece suicidare perché lo rimproverava. Fece uccidere anche il cugino Tiberio Gemello accusandolo falsamente di aver attentato alla sua vita e liberandosi così di questo scomodo rivale. Obbligò anche il suocero Marco Giunio Silano a suicidarsi, accusandolo anch'egli di aver attentato alla sua vita. In quest'ultimo caso sembra che furono "comprate" alcune testimonianze, tra cui quella del senatore Giulio Grecino, il quale però alla fine si rifiutò di confessare il falso e per questo fu messo a morte. Quanto allo zio Claudio, lo tenne in vita solo per farne un suo zimbello e oggetto di spasso. Con le tre sorelle ebbe un rapporto molto intimo, seppure complicato, in particolar modo con Drusilla; come riferisce Svetonio, si diceva che l'avesse deflorata e che fosse stato sorpreso nel letto di lei dalla nonna Antonia. Era infatti geloso di suo marito, Lucio Cassio Longino e li costrinse a divorziare; trattava la sorella Drusilla come se fosse sua moglie e quando si ammalò la nominò erede al trono imperiale. Intratteneva rapporti incestuosi con tutte e tre e non lo nascondeva pubblicamente. Quando Drusilla morì, sospese ogni genere di attività e le organizzò dei funerali pubblici, divinizzandola il giorno 23 settembre del 38 con un senatoconsulto. In seguito a questo lutto, il princeps rimase particolarmente addolorato tanto che le sue condizioni di salute peggiorarono. Riguardo invece alle altre due sorelle, non ebbe la stessa complicità che invece tenne con Drusilla. In occasione del processo di Marco Emilio Lepido, al quale aveva precedentemente promesso la successione, le condannò per adulterio e le mandò in esilio sulle Isole Ponziane.

- A proposito di rapporti, matrimoni e figli, dopo la morte della prima moglie, avvenuta intorno al 36, Caligola inizia una relazione intima con Ennia Trasilla, moglie del fedele prefetto del Pretorio Quinto Nevio Sutorio Macrone. Verso la fine del 37, durante la festa di matrimonio di Gaio Calpurnio Pisone e Livia Orestilla, Caligola ordina al marito di ripudiare la sposa per poterla risposare il giorno stesso. Accadde però che dopo pochi giorni la ripudiò, mandandola in esilio due mesi più tardi per non permetterle di risposarsi con Pisone. Nel 38 Caligola si sposa con Lollia Paolina, moglie del consolare e governatore provinciale Publio Memmio Regolo. Caligola, che aveva sentito dire che sua nonna Aurelia era stata in gioventù una donna bellissima, fece chiamare Paolina dalla provincia, la fece divorziare dal marito e la risposò. Divorziò presto anche da lei dichiarando che fosse sterile e la rimandò indietro, ordinandole però di non avere rapporti carnali con nessun altro. Sempre nel 38, quando Macrone fu nominato Prefetto d'Egitto, anche Ennia fu costretta a partire insieme al marito e ai figli. Poco prima di salpare per la nuova destinazione, Caligola, evidentemente addolorato per essersi sentito abbandonato dall'amante, ordinò a lei, al marito e ai loro figli di suicidarsi. Nel 39 Caligola inizia una relazione con Milonia Cesonia, che diverrà sua concubina e dopo aver divorziato da Paolina, la sposerà poiché era incinta. Milonia Cesonia non era né giovane né bella, ma Caligola provò per lei una vera passione. Dopo un mese di matrimonio nacque una bambina, alla quale venne dato il nome di Giulia Drusilla, in ricordo della sorella scomparsa e divinizzata alla sua morte.«Mentre tiranneggiava su tutto con la più grande avidità, licenziosità e crudeltà, fu assassinato nel Palazzo, nel ventinovesimo anno di età, nel terzo anno, decimo mese e ottavo giorno del suo regno.» (Eutropio, Breviarium ab Urbe condita, VII, 12). L'assassinio dell'imperatore fu organizzato principalmente da tre persone, tra cui il tribuno Cassio Cherea, anche se molti cavalieri, senatori e militari ne fossero a conoscenza, come pure il potente consigliere imperiale Callisto e il prefetto del pretorio. Cherea, in particolare, aveva ragioni politiche e motivazioni personali per uccidere il suo princeps: Caligola infatti si racconta che spesso, a causa dei toni acuti della sua voce, lo sbeffeggiasse sostenendo che fosse effeminato e chiamandolo "checca" (gunnis), facendo gesti osceni alle sue spalle o costringendolo a utilizzare per il suo servizio parole d'ordine come "Priapo", "Amore" o "Venere". Altri importanti cospiratori furono Lucio Annio Viniciano, che si unì alla congiura per vendicare l'amico Lepido, e il senatore Marco Cluvio Rufo.

Nel 41 - Il 24 gennaio, durante l'annuale celebrazione dei ludi palatini, un gruppo di pretoriani, guidati dai due tribuni Cherea e Cornelio Sabino, misero in atto il loro piano per assassinare il princeps. L'occasione era favorevole, in quanto i congiurati avrebbero potuto mescolarsi agli spettatori accorsi al teatro mobile tradizionalmente allestito di fronte al palazzo imperiale. Caligola giunse in teatro, si sedette e iniziò ad assistere allo spettacolo. Quando verso l'ora settima o forse la nona a seconda delle fonti pervenuteci, egli decise di andarsene e mentre percorreva un criptoportico che congiungeva il teatro al palazzo, si fermò a conversare con un gruppo di attori asiatici che avrebbero dovuto esibirsi a breve. Fu a questo punto che il principe incontrò infine la sorte temuta. Al primo tumulto, accorsero in suo aiuto i portatori della lettiga, armati di bastoni, poi i germani della sua guardia che uccisero alcuni dei suoi assassini e anche qualche senatore estraneo al delitto. Durante lo scontro il ventottenne Caligola fu pugnalato a morte. Qualche ora dopo persero la vita anche sua moglie Milonia Cesonia, pugnalata da un centurione appositamente inviato da Cherea, e la figlia piccola, Giulia Drusilla, che fu scaraventata contro un muro. Secondo Svetonio il principe fu colpito da oltre trenta pugnalate. Il suo cadavere fu portato negli Horti Lamiani, semi-bruciato e frettolosamente ricoperto di terra. Quando le sorelle tornarono dall'esilio, disseppellirono il corpo del fratello e posero le sue ceneri nel Mausoleo di Augusto. Al momento della diffusione della notizia che Caligola era morto nessuno osò festeggiare, poiché i più credevano che l'imperatore avesse messo in giro la voce per capire di chi potesse fidarsi. Quando questa comunicazione fu però confermata, non avendo i congiurati nominato alcun altro imperatore, il Senato si riunì e dichiarò di voler ripristinare la Repubblica, cancellando di fatto il governo dei precedenti principes a partire da Augusto. Cherea provò a convincere l'esercito ad appoggiare i padri coscritti, ma senza successo. Alla fine i senatori si resero conto di dover nominare un nuovo successore, che Lucio Annio Viniciano, importante senatore e cospiratore, indicò in Marco Vinicio, suo parente e marito di Giulia Livilla. Alla morte di Caligola, i membri della famiglia imperiale rimasti ancora in vita erano pochi. Tra questi vi era il cinquantenne Claudio che, appena saputo della morte del nipote Gaio, corse a nascondersi nelle sue stanze; rintracciato da un pretoriano mentre era nascosto dietro una tenda, fu condotto nel loro accampamento per essere acclamato imperatore dalle guardie pretoriane stesse mentre il Senato era occupato tra Foro e Campidoglio. Claudio venne invitato a presentarsi davanti al popolo, ma prima decise di comprarsi la fedeltà della guardia pretoriana promettendo la somma di quindicimila sesterzi (1 sesterzio equivaleva a 4 assi e nel I secolo d.C. con un asse si potevano acquistare 542 grammi di grano, due chili di lupini, un quarto di vino comune, mezzo chilo di pane, o entrare alle terme; quindi 1 asse poteva valere all'incirca 0,5 € e un 1 sesterzio circa 2 €) per ciascun pretoriano che gli prestasse giuramento. Il nuovo princeps pose quindi il proprio veto a quanto il Senato aveva appena deliberato, e cioè condannare Caligola alla damnatio memoriae. Poi, su invito del popolo romano, fece imprigionare e condannare a morte tutti i congiurati, compreso Cassio Cherea.

- Claudio ottenne così il Principato con la forza delle armi; fu quindi il primo il fra gli imperatori a comprarsi la fedeltà dei pretoriani e sarà il primo princeps a non essere eletto dal Senato.

Claudio, Museo
archeologico di
Napoli, da QUI.
- Tiberio Claudio Cesare Augusto Germanico (Lugdunum, 1º agosto 10 a.C. - Roma, 13 ottobre 54), appartenente alla dinastia giulio-claudia e il primo a nascere fuori dalla penisola italiana, fu dunque il quarto imperatore romano, dal 41 al 54. Claudio era rimasto l'unico membro superstite della famiglia Giulio-Claudia a poter essere messo sul trono imperiale. Molti suoi famigliari erano stati assassinati da tempo, mentre Claudio era riuscito a scampare ad ogni congiura perché nessuno lo aveva considerato un avversario pericoloso. Suo zio Tiberio, non si era dimostrato nei suoi confronti più disponibile di quanto lo fosse stato Augusto in passato: quando Claudio gli chiese il permesso di iniziare il cursus honorum, Tiberio gli conferì gli ornamenta consularia, i simboli del rango consolare, ma quando Claudio chiese un ruolo più attivo glielo rifiutò. Se la sua famiglia non perdeva occasione per dimostrare di non averne grande stima, il popolo romano, al contrario, pare lo tenesse in una qualche considerazione: alla morte di Augusto, infatti, l'ordine equestre lo aveva scelto come proprio patrono, mentre il Senato romano aveva proposto di ricostruire a spese pubbliche la sua casa distrutta da un incendio e di permettergli di partecipare alle proprie sedute. Proposte, peraltro, che Tiberio aveva respinto. Di fronte a questo ostracismo, Claudio abbandonò ogni aspirazione alla carriera politica e si ritirò a vita privata, dedicandosi ai suoi studi di storia. Scrisse, infatti, un trattato sugli Etruschi, andato perduto, (celebre rimane il frammento di un'iscrizione di Lione, sua città natale, che trascrive un discorso pubblico di Claudio in cui lo stesso faceva riferimento alla storia degli Etruschi, da lui stesso amata e studiata per decenni, in particolare al periodo di Servio Tullio, il sesto re di Roma, da lui nominato Mastarna: CIL XIII, 1668) di cui studiò anche la lingua; una storia su Cartagine, una difesa di Cicerone, alcuni trattati sul gioco dei dadi e sull'alfabeto, tutti andati perduti. Sempre in questo periodo sposò (nel 15) Plauzia Urgulanilla, nobildonna di origine etrusca da cui ebbe due figli: Druso Claudio, morto in giovane età, e Claudia, che però Claudio non riconobbe, accusando Plauzia di adulterio e divorziando da lei nel 28. A partire da Claudio, indifferente al potere del senato, fu creata una nuova categoria di province, cosiddette procuratorie, nelle quali il principe inviava un procurator Augusti di rango equestre, e non senatoriale, che aveva piena giurisdizione in campo militare, giudiziario e finanziario. In queste province erano stanziate solamente truppe ausiliarie, che nel tempo prevarranno nell'impero, portandolo inevitabilmente al collasso. A questo sistema, faceva eccezione, già al tempo di Augusto, la prima provincia imperiale per costituzione, ovvero l'Egitto, assegnato ad un Praefectus Aegypti di rango equestre e di nomina imperiale che, unico fra i governatori equestri, aveva al proprio comando una o più legioni.

Campagne romane
in Britannia.
Nel 43 - Romani invadono l'isola Britannica. La conquista romana della Britannia iniziò sistematicamente dal 43 d.C., per volere dell'imperatore Claudio. Tuttavia, l'attività militare romana era iniziata nelle isole britanniche già nel secolo precedente, quando nel 55 e nel 54 a.C. l'esercito di Gaio Giulio Cesare mosse dalla Gallia, dov'era impegnato nella sottomissione di queste regioni, alla volta della Britannia. Di fatto, queste operazioni militari non portarono a nessuna conquista territoriale, creando però una serie di clientele che avrebbe portato la regione, specie il sud dell'isola, nella sfera d'influenza economica e culturale di Roma. Da qui scaturirono quei rapporti commerciali e diplomatici che apriranno la strada alla conquista romana della Britannia. Il grosso delle truppe romane sarebbe salpato da Boulogne e sbarcato a Rutupiae (sulla costa orientale del Kent). Secondo Svetonio il resto delle truppe, sotto la guida dell'imperatore Claudio, salparono da Boulogne. La resistenza britannica fu guidata da Togodumno e Carataco, figli del re catuvellauno Cunobelino. Un consistente esercito britannico diede battaglia alle legioni romane vicino a Rochester, sul fiume Medway. La battaglia infuriò per due giorni e visto il ruolo decisivo da lui svolto, Osidio Geta fu insignito degli ornamenta triumphalia. I Britanni furono incalzati oltre il Tamigi dai Romani che inflissero loro gravi perdite. Togodumno morì poco dopo. In breve, i Romani dilagarono e conquistarono il sud-est dell'isola, ponendo la capitale a Camulodunum. Claudio tornò a Roma per celebrare la vittoria ed ottenere il titolo di Britannicus. Carataco scappò a ovest per continuare da lì la resistenza. Vespasiano marciò ad ovest, sottomettendo le tribù almeno fino all'Exeter, probabilmente raggiungendo Bodmin. Svetonio racconta infatti che Vespasiano sottomise l'isola di Wight (Vette) e penetrò fino ai confini del Somerset, in Inghilterra: «[...] [Vespasiano] venne trenta volte a battaglia con il nemico. Agli ordini prima di Aulo Plauzio e poi dello stesso Claudio, costrinse alla resa due fortissime tribù e più di venti oppida, conquistando l'isola di Vette, vicina alla costa della Britannia.» (Svetonio, Vita di Vespasiano 4).

Nel 48 - L'imperatore Claudio sposa la sua quarta e ultima moglie, Agrippina, di cui era lo zio e che era già madre di Nerone. Valeria Messalina, moglie di Claudio fin dalla sua ascesa al trono, gli aveva dato una figlia, Claudia Ottavia, e un figlio (nel 41) a cui il padre dette il soprannome di Britannico. Donna di grande crudeltà, aveva cospirato, insieme al suo amante, il console Gaio Silio, per uccidere Claudio e prenderne il suo posto. Ma la congiura era stata scoperta e la stessa fu messa a morte nel 48. La nuova moglie fu scelta, anche grazie al consiglio del liberto Pallante, sostenitore dei diritti di Agrippina minore, nipote di Claudio e figlia di Germanico e pronipote di Augusto. Agrippina aveva un figlio il cui nome era Lucio Domizio Enobarbo, il futuro imperatore Nerone. Il matrimonio con Claudio fu celebrato nel 48, ed Agrippina divenne la nuova Augusta, godendo ora di privilegi senza precedenti. Nello stesso tempo diede inizio ai suoi intrighi per generare discredito sul figlio di Claudio, Britannico, in favore di suo figlio Domizio Enobarbo. Ambiziosa e priva di scrupoli, Agrippina si macchiò di una serie di delitti, servendosi del veleno o di false incriminazioni. Ottenne la revoca dell'esilio di Seneca, allo scopo di servirsi del celebre filosofo quale nuovo precettore del figlio e inoltre, visto che il giovane Lucio dimostrava maggior affetto verso la zia Domizia Lepida, Agrippina, per gelosia, la fece accusare di avere complottato contro l'imperatore, ottenendone da Claudio la condanna a morte. Nell'occasione, l'undicenne Lucio fu minacciato e costretto dalla madre a testimoniare contro la zia. Poco dopo, gli fu imposto il fidanzamento con Ottavia, figlia di Claudio, di otto anni. Il figlio Lucio Nerone fu adottato da Claudio all'età di tredici anni (nel 50), quale tutore del più giovane Britannico (di cinque anni più giovane) e ottenne nel 51 la toga virilis, il titolo di Princeps Iuventutis, l'imperium  proconsolare fuori Roma, mentre nel 53 sposava Claudia Ottavia, figlia di Claudio.


Le popolazioni Germaniche nel 50,
con Claudio imperatore. Da QUI.
- Nel I secolo gran parte del territorio boemo (a cui storici di epoca romana si riferivano con Boiohaemum, terra dei Celti Boi) è teatro delle invasioni barbariche da parte sia di tribù  germaniche (probabilmente Suebi e Marcomanni) che ne conquistano la parte occidentale, che di Slavi. I Celti (Galli per i Romani) Boi si spostano per la maggior parte verso ovest, nei territori della moderna Svizzera e nel sud-est della Gallia, mentre alcuni si spingono a sud fino a conquistare Bononia, l'antica Félsina etrusca (Bologna).

Pietro e Paolo.
Nel 50 - Primo concilio dei Cristiani a Gerusalemme. Il cristianesimo delle origini si presenta con il duplice aspetto di Giudeo-cristianesimo ed Etno-cristianesimo (o Cristianesimo dei Gentili, non Ebrei), come si desume dai racconti degli Atti di Luca e da alcune lettere di Paolo (come la Lettera ai Galati e le lettere ai Corinzi). Tuttavia mostra che le due anime convivono senza alcuna scissione e di avere raggiunta una formula di concordia con il Primo Concilio di Gerusalemme (Atti 15). I cristiani assunsero dal Giudaismo le sue Sacre scritture tradotte in greco ellenistico e lette non nella maniera degli ebrei (anche a causa della prevalente origine greco-romana della maggioranza dei primi adepti), dottrine fondamentali come il monoteismo, la fede in un messia o cristo, le forme del culto (incluso il sacerdozio), i concetti di luoghi e tempi sacri, l'idea che il culto debba essere modellato secondo il modello celeste, l'uso dei Salmi nelle preghiere comuni. Forse il Cristianesimo inteso come religione distinta da quella ebraica lo possiamo individuare a partire dalla seconda metà del II secolo, dove i cristiani, che credono negli insegnamenti di Gesù, sono quasi soltanto i non ebrei. Nel concilio di Gerusalemme, fra la Chiesa di Gerusalemme e Paolo di Tarso si giunse all'accordo ufficiale sulla ripartizione delle missioni: i gerosolimitani (i seguaci di Giacomo il Minore "fratello del Signore") e Pietro per i giudeo-cristiani circoncisi e Paolo per i gentili (non ebrei) provenienti dal paganesimo. Il Concilio viene presieduto da Giacomo il Minore e da Pietro, quest'ultimo dopo un'accesa disputa tra le diverse fazioni, una che avrebbe voluto imporre la legge mosaica ai pagani convertiti e l'altra che considerava questa proposta iniqua e richiamò così tutto il collegio a rispettare la volontà di Dio, chiaramente manifestatasi in occasione della sua visita a Cornelio, dove lo Spirito Santo era disceso anche sui pagani non facendo «alcuna distinzione di persone». Dopo Pietro intervennero Paolo e Barnaba, i più attivi evangelizzatori dei Gentili (i non circoncisi). Infine prese la parola anche Giacomo il Minore, capo della Chiesa di Gerusalemme (probabilmente, in un primo tempo, il leader di quanti volevano imporre la legge mosaica, come traspare anche nella lettera di S. Paolo ai Galati) che, richiamandosi a Pietro, aggiunse la proposta di una soluzione di compromesso che prevedeva la prescrizione ai pagani convertiti di pochi divieti tra cui l'astensione dal nutrirsi di cibi immondi e dalla fornicazione. Gli Atti degli Apostoli e la Lettera ai Galati presentano, da due punti di vista diversi, il primo problema dottrinale del cristianesimo nascente. Quando Pietro ritornò da Ioppe a Gerusalemme, venne contestato dai Cristiani “circoncisi” (Atti 11:1-3) per il fatto di essere entrato in casa di pagani incirconcisi, e questo dimostra il persistere della diffidenza nei confronti degli esterni al mondo giudaico; pur tuttavia questi si rallegrarono quando egli spiegò loro che quelli avevano ricevuto la stessa Grazia e la stessa benedizione. Paolo di Tarso riferisce (Lettera ai Galati, 2) di un episodio avvenuto ad Antiochia nel corso di una visita di Pietro che, mentre prima manifestava comunione con i credenti gentili, appena arrivarono da Gerusalemme quelli provenienti da Giacomo, si intimorì e se ne stette in disparte provocando infine la dura reazione di Paolo. Nello stesso capitolo Paolo definisce Pietro apostolo dei circoncisi e se stesso quello degli incirconcisi, intendendo con ciò una vocazione più etnica che religiosa. Questo «scontro» tra Pietro e Paolo manifesta una dialettica interna alla Chiesa nascente, che andava necessariamente chiarita. Il concilio di Gerusalemme evidenzia chiaramente che tutta la problematica non nasceva da posizioni preconcette degli apostoli (che pur c'erano), ma era frutto del massiccio ingresso di Farisei convertiti nella comunità paleocristiana di Gerusalemme (Atti 15:5). La formula di concordia del concilio di Gerusalemme di Atti 15 dimostra, comunque, che il problema venne superato solo in parte, perché di fatto una divisione rimase e ne troviamo traccia nella maggior parte delle Lettere di San Paolo, nelle quali risalta la sua continua lotta contro le problematiche create nelle Chiese dai Cristiani Ebrei che volevano salvaguardare la Legge ebraica. Agli inizi dell'era cristiana, a Roma si assistette alla conversione al giudaismo di parecchi romani, soprattutto donne, poiché la pratica della circoncisione scoraggiava le adesioni maschili.

Per eventuali approfondimenti vedi "Storia dell'Europa n.28: dal 27 p.e.v. (a.C.) al 50 e.v. (d.C.)" QUI.

Nel 54 - Nonostante i suoi difetti, l'imperatore Claudio aveva dimostrato capacità e temperamento, assolse il suo ruolo meglio di altri. Morì improvvisamente a 63 anni, dopo aver mangiato un piatto di funghi letali, forse della specie Amanita phalloides o Amanita muscaria, il 13 ottobre 54, mentre venivano celebrate le Fontinalia, festività in onore del dio Fons. Non è difficile pensare che sia stato avvelenato da Agrippina per mano di Lucusta, anche se era ormai sicura della successione di Nerone: potrebbe aver desiderato vedere il figlio sul trono mentre era ancora abbastanza giovane per seguire i suoi consigli e le sue volontà. Secondo la tesi dell'avvelenamento, in un primo momento Claudio si sarebbe addormentato, e svegliatosi poco dopo vomitò tutto quello che aveva ingerito, e quindi gli fu propinato di nuovo il veleno attraverso una zuppa curativa o forse un clistere somministratogli per aiutarlo a smaltire l'indigestione. Morto Claudio, Agrippina e Nerone si preoccuparono di far sparire anche Britannico, figlio naturale di Claudio e aspirante al trono, già malato di epilessia; questo evento testimonia l'implicazione di Agrippina nella morte dell'imperatore. L'augusta però, dedicò sul Celio il tempio del Divo Claudio al defunto marito.

- L'imperatore Claudio muore per un avvelenamento da funghi, forse ordinato da Agrippina stessa e poco dopo la stessa sorte sarebbe toccata al figlio Britannico (nato, come Ottavia, dal suo precedente matrimonio con Valeria Messalina), affetto da epilessia e per questo forse escluso  dalla successione dal suo stesso padreNerone diventa quindi imperatore all'età di quasi 17 anni, inizialmente sotto la tutela della madre Agrippina e di Seneca, con Sesto Afranio Burro, pragmatico e abile politico, come prefetto del pretorio. Il primo scandalo del regno di Nerone coinciderà col suo primo matrimonio, considerato incestuoso, con la cugina di secondo grado Claudia Ottavia, figlia di suo prozio Claudio; Nerone più tardi divorzierà da lei quando essendosi innamorato di Poppea. Questa, descritta come una donna notevolmente bella, sarebbe stata coinvolta, prima del matrimonio con l'imperatore, in una storia d'amore con Marco Salvio Otone, amico di Nerone stesso, suo compagno di feste e bagordi e futuro imperatore. Otone sposò Poppea per ordine di Nerone, ma poi rifiutò che il suo matrimonio fosse solo di facciata e Nerone li fece divorziare.

Nerone, da QUI.
- Nerone Claudio Cesare Augusto Germanico (Anzio, 15 dicembre 37 - Roma, 9 giugno 68), nato come Lucio Domizio Enobarbo e meglio conosciuto semplicemente come Nerone, è stato il quinto imperatore romano, l'ultimo appartenente alla dinastia giulio-claudia. Regnò circa quattordici anni dal 54 al 68, anno in cui si fece uccidere da un suo servo. Nerone è stato un principe molto controverso nella sua epoca; ebbe alcuni innegabili meriti, soprattutto nella prima parte del suo impero, quando governava con la madre Agrippina e con l'aiuto di Seneca, filosofo stoico e di Afranio Burro, prefetto del pretorio, ma fu anche responsabile di delitti e atteggiamenti dispotici. Accusati sommariamente di congiure contro di lui o crimini vari, caddero vittime della repressione la stessa madre, la prima moglie Valeria Messalina e lo stesso Seneca, costretto a suicidarsi, oltre a vari esponenti della nobiltà romana, e molti cristiani. Per la sua politica assai favorevole al popolo, di cui conquistò i favori con elargizioni e giochi del circo e il suo disprezzo per il Senato romano, fu - come era già stato per lo zio Caligola - molto inviso alla classe aristocratica (tra i quali i suoi principali biografi, Svetonio e Tacito).

Nel 58 - Il cristianesimo compare nell'Illirico. San Paolo è segnalato predicare in Dyrrachium, odierna Durrës, in Albania centrale. Una diocesi fu fondata nel 58 d.C. Le diocesi successive sono state fondate inoltre a Apolonia, Buthrotum (oggi Butrint, nella punta del sud dell'Albania) e a Scodra (oggi Shkodër). 

Nel 59 - Muore Agrippina, madre di Nerone e Poppea è sospettata d'averne organizzato l'omicidio, mentre il marito Otone venne inviato come governatore in Lusitania, l'odierno Portogallo. La madre di Nerone era stata condannata a morte e uccisa da sicari, che precedentemente avevano tentato di simulare incidenti e suicidio, a causa delle sue trame: forse intendeva far uccidere il figlio, per poi mettere sul trono un futuro suo marito e diventarne la co-imperatrice; la condanna venne approvata anche da Seneca e da Burro, il quale ne incaricò Aniceto. Questi, alla fine, la fece pugnalare, raccontando poi che lei stessa si era uccisa, dopo la scoperta della sua congiura contro Nerone. È possibile che determinante fosse stato l'odio di Poppea per quella che sarebbe stata la sua futura suocera, che secondo Tacito aveva tentato anche l'incesto con Nerone, pur di estrometterla dal potere e garantirlo a se stessa. Nerone l'aveva così allontanata dalla corte, e, alla fine aveva approvato anche l'omicidio. Dopo un funerale nascosto e una sepoltura in un luogo non completamente noto del corpo di Agrippina, tuttavia, Nerone manifestò rimorso per la morte della madre, approvata a causa della debolezza del suo carattere e dell'ascendente che Poppea aveva su di lui. Confermò, con una lettera al Senato, "che avevano scoperto, con un'arma, il sicario Agermo, uno dei liberti più vicini ad Agrippina, e che lei, per rimorso, come se avesse preparato il delitto, aveva scontato quella colpa". L'imperatore sarà perseguitato da incubi su Agrippina per molto tempo.  


Nel 61 - Il futuro imperatore Galba riceve dall'imperatore Nerone il comando della Spagna Tarraconese. Con l'ascesa al trono di Nerone, Galba era vissuto in disparte nelle sue proprietà a Fondi e a Terracina spostandosi raramente e mai senza portare con sé la propria fortuna privata di un milione di sesterzi. Poi, nel 61, ricevette dall'imperatore il comando della Spagna Tarraconese e resse per otto anni questa provincia ma in modo discontinuo: nei primi anni fu attivo, impetuoso se non eccessivo nella repressione delle colpe tanto da far amputare le mani a un usuraio e condannando alla crocifissione un cittadino romano (fatto assai inusuale in quanto, per la sua natura infamante, la crocifissione era riservata agli schiavi), colpevole per aver ucciso il suo pupillo. In seguito tenne un atteggiamento più cauto e dimesso, essendo solito affermare "perché nessuno è costretto a rendere conto di ciò che non fa".

Nel 62 - Infine Nerone sposa Poppea dopo aver ripudiato Claudia Ottavia per sterilità e averla relegata in Campania. Alcune manifestazioni popolari in favore della prima moglie, convinsero l'imperatore delle necessità di eliminarla e dopo averla accusata di tradimento, l'aveva costretta al suicidio. Lo stesso anno Burro morì, forse avvelenato per ordine di Nerone (secondo Svetonio) o di malattia secondo altri storici, e Seneca per un lungo periodo si ritirò a vita privata, a causa dei primi dissapori con Nerone e dell'odio del popolo che lo accusava della morte di Agrippina, che era rispettata dalla plebe e dai pretoriani in quanto figlia dell'amato Germanico. La carica di prefetto del Pretorio venne assegnata a Tigellino (già esiliato da Caligola per adulterio con Agrippina), uomo senza scrupoli, che non era nemmeno cauto come Burro nel nascondere i delitti di Stato. Tigellino, di umili origini, divenne quindi molto ricco e potente. Contemporaneamente vennero introdotte una serie di leggi sul tradimento, che provocarono l'esecuzione di numerose condanne capitali. Nel 63 Nerone e Poppea ebbero una figlia, Claudia Augusta, che tuttavia morì ancora in fasce.


Nel 63 - Roma, prime persecuzioni contro i cristiani. Le persecuzioni contro i Cristiani non avevano un fondamento giuridico specifico, l'unico appiglio legale che l'autorità imperiale poteva impugnare era la lesa maestà dell'autorità divina all'imperatore, poiché rifiutandosi di offrire incenso all'immagine della sua persona, i Cristiani erano accusati di ateismo, in contrasto con i "mores", gli antichi costumi; inoltre con tale atteggiamento non potevano essere arruolati nell'esercito. Nella cultura antica, così come lo scritto era  sacro, così l'immagine evocava la presenza fisica del rappresentato. Nei tribunali, le immagini  dell'imperatore ne garantivano la presenza mentre nell'ebraismo erano proibite le raffigurazioni di immagini e idoli, come a scongiurarne l'esistenza. Nell'Islam si adotteranno le stesse misure, tanto che nel 730, l'imperatore Romano-orientale Leone III Isaurico, convinto della giustezza di tali misure, scatenerà nell'impero bizantino l'iconoclaustia, che provocherà la distruzione delle immagini sacre. I primi cristiani erano spinti a ricercare un rapporto individuale con una divinità individualizzata a sua volta. Le divinità di gruppi o popolazioni, comunemente usato nell'antichità (Atena per Atene, Venere per la corporazione dei mercanti Italici del Sannio, ecc.) lasciava posto alla ricerca individuale di una divinità che salvasse l'individuo nell'aldilà, aspetto che nelle religioni precedenti era riservato a esseri sopranaturali ed eroi. E' una tensione molto forte, che si ritrova anche nel Mitraismo, che ha somiglianze con il cristianesimo e nel culto del "Sol Invictus", la cui festività era il 25 dicembre. E' di questi tempi la raffigurazione di "Gesù Sol Invictus" che vede un giovane Gesù, raggiato, come il sole, alla guida del cocchio solare con 4 cavalli (Helios), oppure l'Iside che allatta Horus identica a quella che poi verrà chiamata Nostra Signora Madre di Gesù. Sono tempi che vengono avvertiti come gli ultimi prima di un evento che sovvertirà il mondo. In questo contesto il martirio è considerato il metodo più sicuro per salvare la propria anima nell'aldilà. Ma questa presa di coscienza individuale, di una divinità incarnata e che attraverso un martirio permettesse la salvezza della comunità non escludeva un senso di società cristiana. La comunità cristiana era ordinata, coesa, con propri vescovi e con liturgie comunitarie, ma il rapporto con il divino era mediato esclusivamente da se stessi e non da maestranze della Chiesa. 
Il limes nel sud-est nell'80, in rosa gli
stanziamenti delle legioni romane. Il
nome Palestina apparirà nel 136 con
Adriano imperatore, dopo la terza
guerra giudaica. Da QUI.
Sono tempi che vengono avvertiti come gli ultimi prima di un evento che sovvertirà il mondo. In questo contesto il martirio è considerato il metodo più sicuro  per  salvare la propria anima nell'aldilà. Ma questa presa di coscienza individuale, di una divinità incarnata e che attraverso un martirio permettesse la salvezza della comunità non escludeva un senso di società cristiana. La comunità cristiana era ordinata, coesa, con propri vescovi e con liturgie comunitarie, ma il rapporto con il divino era  mediato esclusivamente da se stessi e non da maestranze della Chiesa. 

Giuseppe d'Arimatea.
- Considerando le antiche cronache e incrociando le varie testimonianze, il 63 è il probabile anno in cui Giuseppe d'Arimatea e Yeshuah-Joseph Yuz Asaf, Jésus le cadet, Joseph Harama Théo du Graal Ben Yeshuah, (da QUI) figlio di Gesù e Maria Maddalena, sbarcano in Britannia. Gildas III (516-570), cronista delle origini, affermava nel suo "De Excidio Britanniae" che i primi precetti della cristianità vennero portati in Gran Bretagna durante gli ultimi giorni dell'imperatore Tiberio Cesare. Tiberio morì nell'anno 37 e questa data è compatibile con quanto affermò, nel 1601, il cardinale Cesare Baronio, eminente bibliotecario del Vaticano, che nei suoi "Annales Ecclesiasticae" affermò che Giuseppe di Arimatea si recò per la prima volta a Marsiglia nel 35 e di lì fu poi mandato a predicare in Inghilterra.

Nel 64 - Allo scoppio del grande incendio di Roma, l'imperatore si trovava ad Anzio, ma raggiunse immediatamente l'Urbe per conoscere l'entità del pericolo e decidere le contromisure, organizzando in modo efficiente i soccorsi, partecipando in prima persona agli sforzi per spegnere l'incendio. Nerone mise sotto accusa i Cristiani residenti a Roma, per evitare dicerie che lo accusassero direttamente. Dai duecento ai trecento cristiani vennero messi a morte. Tra i cristiani uccisi fra il 64/65 e il 67 ci saranno anche san Pietro e san Paolo: Nerone avrebbe ordinato la decapitazione di Paolo di Tarso e, più tardi (o prima), secondo la tradizione cattolica, anche la crocifissione di Pietro. Per quanto oramai gli studiosi siano abbastanza concordi nel ritenere che il grande incendio di Roma dell'anno 64 d.C. non fu causato da Nerone, che anzi si diede molto da fare per prestare soccorso alla popolazione colpita dalla tragedia e che in seguito si occupò personalmente della ricostruzione, la falsa immagine iconografica dell'imperatore che suona la lira dal punto più alto del Palatino mentre Roma bruciava è ancora assai radicata nell'immaginario collettivo. Uno studioso italiano, Dimitri Landeschi, attraverso una accurata ricostruzione storica dei drammatici avvenimenti che si svolsero a Roma negli anni 64 e 65 d.C., ha avanzato l'ipotesi che ad incendiare Roma non fosse stato Nerone ma, con ogni probabilità, un pugno di fanatici appartenenti alla frangia più estremista della comunità cristiana di Roma, con la complicità morale di taluni ambienti dell'aristocrazia senatoria, in mezzo a cui si celavano i veri ispiratori di quella scellerata operazione. L'ipotesi di Landeschi non è però condivisa dalla maggioranza degli studiosi. L'imperatore aprì addirittura i suoi giardini per mettere in salvo la popolazione e si attirò l'odio dei patrizi facendo sequestrare imponenti quantitativi di derrate alimentari per sfamarla. Gli storici antichi lo accusano o restano incerti, o criticano comunque il suo comportamento nell'accusare e punire i cristiani, pur essendo questi una setta detestata dall'opinione popolare e aristocratica. In occasione dei lavori di ricostruzione, Nerone dettò nuove e lungimiranti regole edilizie, destinate a frenare gli eccessi della speculazione (molto probabilmente furono proprio gli speculatori a causare l'incendio, forse alimentando un precedente incendio accidentale) e tracciare un nuovo impianto urbanistico, sul quale è tuttora fondata la città. In seguito all'incendio egli recuperò una vasta area distrutta, facendo realizzare il faraonico complesso edilizio noto come Domus Aurea, la sua residenza personale (sostituendo la Domus Transitoria), che giunse a comprendere il Palatino, le pendici dell'Esquilino (Oppio) e parte del Celio, per un'estensione di circa 2,5 km quadrati (250 ettari). Ciò non può essere un possibile movente, in quanto egli avrebbe potuto requisire comunque i terreni necessari e già molti erano in suo possesso. Le enormi spese per la ricostruzione della città e della dimora imperiale causarono il quasi fallimento dello Stato a cui l'imperatore cercò di rimediare ricorrendo tra l'altro a strumenti spregiudicati quali imporre alle più ricche famiglie romane la redazione di un testamento che nominasse lo Stato quale unico erede del patrimonio familiare e che veniva reso subito esecutivo con il suicidio forzato dei possidenti. «Di Nerone si diceva che, condannando a morte sei individui, fece sua mezza Africa.». Altri edifici pubblici neroniani furono il mercato del Celio (Macellum Magnum) e le Terme di Nerone del Campo Marzio, la cui pianta regolare e simmetrica fece da modello per tutti gli edifici termali futuri, inaugurando la tipologia di terme "imperiali". Si ipotizza anche una ricostruzione dopo il grande incendio del 64, contemporaneamente allo spostamento e ingrandimento della casa delle Vestali: il tempio venne infatti rappresentato in monete dell'epoca di Nerone e dei successivi imperatori Flavi. E ancora a Nerone si deve il taglio dell'istmo di Corinto e un canale lungo la costa dall'Averno a Roma. La prima opera, già tentata dal tiranno Periandro, dal Re di Macedonia Demetrio I Poliorcete, da Giulio Cesare e da Caligola sembrava non portare fortuna a chi la intraprendeva, tutti morti in modo violento. Gli scavi furono segnati da episodi nefasti e si interruppero con la morte dell'ideatore. Il canale dal lago Averno a Roma, lungo 160 miglia (237 km), ancora più mastodontico di quello di Corinto assorbì risorse umane e economiche immense e non fu mai completato a causa degli infiniti problemi tecnici e logistici. Le enormi spese per la ricostruzione della città e della dimora imperiale causarono il quasi fallimento dello Stato a cui l'imperatore cercò di rimediare ricorrendo tra l'altro a strumenti spregiudicati quali imporre alle più ricche famiglie romane la redazione di un testamento che nominasse lo Stato quale unico erede del patrimonio familiare e che veniva reso subito esecutivo con il suicidio forzato dei possidenti. «Di Nerone si diceva che, condannando a morte sei individui, fece sua mezza Africa.». Altri edifici pubblici neroniani furono il mercato del Celio (Macellum Magnum) e le Terme di Nerone del Campo Marzio, la cui pianta regolare e simmetrica fece da modello per tutti gli edifici termali futuri, inaugurando la tipologia di terme "imperiali". Si ipotizza anche una ricostruzione dopo il grande incendio del 64, contemporaneamente allo spostamento e ingrandimento della casa delle Vestali: il tempio venne infatti rappresentato in monete dell'epoca di Nerone e dei successivi imperatori Flavi. E ancora a Nerone si deve il taglio dell'istmo di Corinto e un canale lungo la costa dall'Averno a Roma. La prima opera, già tentata dal tiranno Periandro, dal Re di Macedonia Demetrio I Poliorcete, da Giulio Cesare e da Caligola sembrava non portare fortuna a chi la intraprendeva, tutti morti in modo violento. Gli scavi furono segnati da episodi nefasti e si interruppero con la morte dell'ideatore. Il canale dal lago Averno a Roma, lungo 160 miglia (237 km), ancora più mastodontico di quello di Corinto assorbì risorse umane e economiche immense e non fu mai completato a causa degli infiniti problemi tecnici e logistici. L'apocalisse del Nuovo Testamento della scuola evangelica giovannea, scritta in esilio nell'isola greca di Patmos durante una delle persecuzioni dei cristiani, probabilmente quella di Domiziano (intorno al 95-100 d.C.), alludeva però a Nerone come Anticristo. Secondo molti studiosi infatti, la persona rappresentata dal citato "Numero della Bestia" altri non è che il multi-gramma di gematria ebraica attribuibile all'imperatore Nerone, autore della persecuzione nella quale morirono sia Pietro che Paolo. Come in greco antico, così anche in alfabeto ebraico i numeri venivano scritti usando le lettere, secondo, appunto la cabala ebraica. Se quindi si utilizzano le consonanti ebraiche del nome QeSaR NeRON si ha: Q (qof) = 100, S (sameckh) = 60, R (resh) = 200, N (nun) = 50, R (resh) = 200, O (waw) = 6, N (nun) = 50 che sommate, danno appunto 666. Una sola nota merita la vocale O che è in realtà legata alla consonante W che è una mater lectionis, cioè una consonante che serviva a evitare equivoci nella lettura.

- Nerone era poco interessato alle campagne militari: se ne occupò lo stretto necessario (prese parte solo ad una spedizione in Armenia e non fu mai molto popolare nei ranghi dell'esercito. Sotto Nerone, l'Imperatore Partico Vologese I pose sul trono del regno d'Armenia il proprio fratello Tiridate, sul finire del 54. Questo avvenimento convinse Nerone che fosse necessario avviare preparativi di guerra in vista di un'imminente campagna. Domizio Corbulone fu inviato a sedare le continue scaramucce tra le popolazioni locali e sparuti gruppi di romani. In realtà non vi fu una vera guerra fino al 58 d.C. Dopo la conquista di Artaxata nel 58 e della città di Tigranocerta nel 59, pose sul trono dei parti re Tigrane VI, nel 60. Vologese, in preda all'ira, pretendendo che il trono fosse restituito a suo fratello, mosse guerra ai romani, i quali però riuscirono a prevalere ottenendo nel 66 la sottomissione di Tiridate come re cliente. Si spense così l'ultimo focolaio di guerra nell'Impero e Nerone poté fregiarsi del titolo di Imperator (Pacator) invitando a Roma il re Tiridate I. Inaugurò, nel contempo, solenni festeggiamenti per la ricorrenza del trecentesimo anniversario della prima chiusura delle porte del tempio di Giano Gemino (236 a.C.) per celebrare la "pace ecumenica" raggiunta, volendo emulare Alessandro Magno e, ancora, per far dimenticare al popolo il disastroso incendio della città del mese di luglio. Per le ingenti spese sostenute, Nerone attuò riforma del conio ed emise una nuova moneta sulla quale, nel dritto, appare la sua figura con il capo incoronato e l'aspetto fiero con la scritta: "IMP NERO CAESAR AVG GERM" e, sul rovescio, il tempio di Giano "a porte chiuse" con la scritta: "PACE P R UBIQ PARTA IANVM CLVSIT - S C -" (senatus consulto). Per la prima volta dunque, a Roma un principe si fregia del titolo ufficiale di Imperatore. Il re Tiridate, timoroso del mare, arrivò a Roma, dopo un viaggio via terra durato ben otto mesi, nell'inverno del 65 e nella primavera del 66 furono ripetuti i festeggiamenti alla presenza del popolo e dell'esercito. Nerone tolse la tiara dal capo di Tiridate, incoronandolo Re con un diadema e facendolo sedere alla sua destra. Nel corso del suo principato continuò la conquista della Britannia, anche se negli anni 60/61 fu interrotta da una rivolta capeggiata da Budicca, la regina della tribù degli Iceni. Infine, nonostante in patria fosse tollerante con gli ebrei ortodossi, su richiesta della filosemita Poppea inviò Vespasiano, che l'aveva seguito nel viaggio in Grecia e con cui aveva avuto malumori, insieme al figlio di questi Tito, a sedare le prime rivolte ebraiche nazionaliste in Giudea, convinto che solo lui ne avesse le capacità.

Nel 65/66 - Come scrive Tacito, Poppea, in attesa del secondogenito di Nerone, muore a Roma oppure nella sua villa di Oplontis, alle falde del Vesuvio, a causa di incidente di gravidanza e non a causa di un calcio sferratole dal marito come è opinione comune: difatti a quel tempo Poppea era ammalata. Secondo altri, invece, Nerone l'avrebbe ripudiata per sposare Statilia Messalina e Poppea, ritiratasi nella sua villa del Vesuviano, sarebbe morta nel 79 durante l'eruzione del Vesuvio. Svetonio lo accusa anche di numerosi altri crimini e depravazioni (come lo stupro della vestale Rubria, un crimine passibile di pena capitale) che molti storici moderni hanno ritenuto invenzioni propagandistiche. Dopo la morte di Poppea, nel 66 Nerone sposa Statilia Messalina, la sua terza e ultima moglie. Lo storico delle Vite dei Cesari attribuisce a Nerone anche alcune relazioni omosessuali. Secondo Cassio Dione (Epitome LXII, 12-13) e altri autori contemporanei, Nerone avrebbe contratto due matrimoni con maschi: il primo, con un liberto di nome Pitagora e il secondo con un liberto di nome Sporo, fatto castrare e sposato dopo la morte della moglie Poppea proprio perché straordinariamente somigliante all'imperatrice. Il matrimonio sarebbe avvenuto in Grecia e Nerone avrebbe affidato il giovincello alle cure di Calvia Crispinilla, come dama di camera. Secondo i contemporanei, "Pitagora sarebbe stato per lui un marito, Sporo sarebbe stato per lui una moglie". A Nerone sono anche attribuite frequentazioni di prostitute, tra cui Caelia Adriana, donna di cui fu perdutamente innamorato, e feste con grande dispendio di denaro pubblico, derivata dalla tassazione aumentata.

Nel 68 - Gaio Giulio Vindice, governatore della Gallia Lugdunense, si ribella dopo il ritorno dell'imperatore a Roma dalla Greca e ciò spinge Nerone ad una nuova ondata repressiva: fra gli altri ordina il suicidio al generale Servio Sulpicio Galba, allora governatore nelle province ispaniche e questi, privo di alternative e non intenzionato ad eseguire l'ordine, col sostegno del suo esercito, dichiara la sua fedeltà al Senato ed al popolo romano, non riconoscendo più l'autorità di Nerone. Si ribella quindi anche Lucio Clodio Macero, comandante della III legione Augusta in Africa, bloccando la fornitura di grano per la città di Roma. Nimfidio corruppe i pretoriani, che si ribellarono a loro volta a Nerone, con la promessa di somme di denaro da parte di Galba. Infine il Senato lo depose ufficialmente e Nerone fuggì dal suo palazzo dove era rimasto solo e senza protezione, e si suicidò il 9 giugno 68, nella villa suburbana del liberto Faonte, pugnalandosi alla gola con l'aiuto del suo segretario Epafrodito. Prima di morire, secondo Svetonio, pronunciò la frase "Qualis artifex pereo!" ("Quale artista muore con me!"). L'antichista Dimitri Landeschi fa notare, richiamandosi ad un interessante studio dello storico inglese Edward Champlin, che, diversamente da quanto affermato da alcuni storici moderni, Nerone non subì la cosiddetta damnatio memoriae, di cui non si trova traccia in alcuna opera antica, tant'è vero che furono permesse le esequie private, alla presenza di pochi fedelissimi rimasti, tra i quali l'ex amante e concubina Claudia Atte, liberta della famiglia dell'imperatore e le sue due nutrici Egloge e Alessandria. Inoltre continuarono ad affluire nel Foro anche dopo la sua morte busti e statue del defunto imperatore, senza che nessuna Autorità lo impedisse. Il corpo di Nerone fu cremato, avvolto nelle coperte bianche intessute d'oro da lui usate alle ultime Calende di gennaio e le sue ceneri deposte in un'urna di porfido sormontata da un altare di marmo lunense, nel mausoleo della famiglia paterna. Il luogo di sepoltura era il Sepolcro dei Domizi lungo la via Flaminia, sotto l'attuale basilica di Santa Maria del Popolo, ai piedi del colle Pincio. Nel XII secolo, Papa Pasquale II (1099 - 1118), superstizioso e suggestionato dai corvi che volteggiavano sul noce vicino al sepolcro, convinto di vedere in Nerone l’Anticristo descritto dalle profezie, ne fece disperdere le ceneri; in seguito, davanti alle proteste dei romani, fece diffondere la notizia di aver fatto trasferire i resti all’interno di un sarcofago lungo la Via Cassia in una zona che, da allora, prese il nome di “Tomba di Nerone”.


- Nel 68 si esaurisce  così la dinastia giulio-claudia, la famiglia alla quale appartenevano i primi cinque  imperatori romani, che governarono l'impero dal 27 a.C. al 68 d.C., quando l'ultimo della linea, Nerone, si era suicidato aiutato da un liberto. La dinastia viene così chiamata dal nomen (il nome di famiglia) di due imperatori: Gaio Giulio Cesare Ottaviano (l'imperatore Augusto, 27 a.C.-14 d.C.), adottato da Giulio Cesare e dunque membro della gens Iulia, il primo imperatore della famiglia e fondatore dell'impero e Tiberio Claudio Cesare Germanico (Claudio), quarto imperatore e membro della gens Claudia. I cinque primi imperatori sono dunque stati: 1) Gaio Giulio Cesare Ottaviano (l'imperatore Augusto, 27 a.C.-14 d.C.), figlio di Gaio Ottavio, uomo d'affari che aveva ottenuto, primo della gens Octavia (ricca famiglia di Velitrae), cariche pubbliche e un posto in Senato (era quindi un homo novus). La madre, Azia maggiore, proveniva invece da una famiglia da parecchie generazioni di rango senatorio e dagli illustri natali: era infatti imparentata sia con Cesare sia con Gneo Pompeo Magno. Azia era più precisamente la figlia della sorella di Cesare, Giulia e di Marco Azio Balbo: Ottaviano, pertanto, era pronipote di Cesare. 2) Tiberio (14-37 d.C.), discendente della gens Claudia, alla nascita aveva il nome di Tiberio Claudio Nerone. Adottato da Augusto nel 4, il suo nome era mutato in Tiberio Giulio Cesare e alla morte del padre adottivo, il 19 agosto 14 d.C., ottenne il nome di Tiberio Giulio Cesare Augusto e poté succedergli ufficialmente nel ruolo di princeps, sebbene già dall'anno 12 era stato associato nel governo dell'impero. Tiberio era nato a Roma il 16 novembre del 42 a.C. dall'omonimo Tiberio Claudio Nerone, cesariano, pretore nello stesso anno, e da Livia Drusilla, di circa trent'anni più giovane del marito. Tanto dal ramo paterno che da quello materno apparteneva alla gens Claudia, un'antica famiglia patrizia giunta a Roma dalla Sabina nei primi anni della repubblica e distintasi nel corso dei secoli per il raggiungimento di numerosi onori e alte magistrature. Fin dall'origine, la gens Claudia si era divisa in numerose famiglie, tra le quali si distinse quella che assunse il cognomen Nero (Nerone, che in lingua sabina significava "forte e valoroso"), a cui apparteneva Tiberio. 3) Caligola (37-41 d.C.), terzo imperatore della dinastia, era stato scelto da Tiberio stesso come suo successore, poiché suo pronipote. Nato come Gaio Giulio Cesare Germanico, era il terzo figlio di Agrippina maggiore e di Germanico Giulio Cesare, generale molto amato dal popolo romano. La madre era figlia di Marco Vipsanio Agrippa (amico fraterno di Augusto) e di Giulia maggiore (figlia di primo letto di Augusto). Il padre era figlio di Druso maggiore (fratello di Tiberio e figlio di Livia, moglie di Augusto) e di Antonia Minore (figlia di Marco Antonio e Ottavia, sorella di Augusto). Era conosciuto col nome di Caligola per la sua abitudine di portare particolari sandali chiamati caligae4) Claudio (41-54 d.C.) il cui nome completo era Tiberio Claudio Cesare Germanico, quarto imperatore e membro della gens Claudia, fu il primo tra i Principi a non essere adottato nella gens Iulia, poiché il suo predecessore, Caligola, aveva estinto la linea adottiva. Claudio era nato a Lugdunum (l'attuale Lione) in Gallia il 1º agosto 10 a.C. col nome di Tiberio Claudio Druso, terzo figlio di Nerone Claudio Druso (Druso maggiore) e Antonia minore, dopo Germanico e Livilla. Il padre di Claudio era figlio di Tiberio Claudio Nerone e di Livia Drusilla, ma era nato tre mesi dopo che Livia aveva sposato Ottaviano Augusto; l'imperatore Tiberio era dunque zio paterno di Claudio. Claudio era considerato dai suoi contemporanei come un candidato improbabile al ruolo di imperatore, soprattutto in considerazione di una qualche infermità da cui era affetto, tanto che la sua famiglia lo tenne lontano dalla vita pubblica fino all'età di quarantasette anni, quando tenne il consolato assieme al nipote Caligola. Fu probabilmente questa infermità e la scarsa considerazione politica di cui godeva che gli permisero di sopravvivere alle purghe che colpirono molti esponenti della nobiltà romana durante i regni di Tiberio e Caligola: alla morte di quest'ultimo, Claudio divenne imperatore proprio in quanto unico maschio adulto della dinastia giulio-claudia. Celebre rimane il frammento di un'iscrizione di Lione, sua città natale, che trascrive un discorso pubblico di Claudio in cui lo stesso faceva riferimento alla storia degli  Etruschi, da lui stesso amata e studiata per decenni, in particolare al periodo di Servio Tullio, il sesto re di Roma, da lui nominato Mastarna: CIL XIII, 1668. 5) Nerone (54-68 d.C.) Nato con il nome di Lucio Domizio Enobarbo, fu il quinto ed ultimo imperatore della dinastia Giulio-Claudia. Nato ad Anzio il 15 dicembre 37, da Agrippina Minore e Gneo Domizio Enobarbo, il futuro imperatore Nerone era discendente diretto di Augusto e della Gens Giulia: Durante il suo regno ci fu una serie di rivolte e ribellioni in tutto l'Impero: in Britannia, Armenia, Partia e Giudea. L'incapacità di Nerone di gestire le ribellioni e la sua sostanziale incompetenza divennero rapidamente evidenti fino a che nel 68, quando perfino la guardia Imperiale lo abbandonò, Nerone si suicidò. 

- Particolarmente favorevoli all'uso sessuale degli eunuchi, stando agli storici del tempo, furono alcuni imperatori come Nerone che «...dopo aver tagliato i testicoli al giovinetto Sporo cercò anche di trasformarlo in donna e se lo fece condurre in cerimonia solenne con tanto di dote e velo rosso, come nei grandi matrimoni, e lo tenne accanto come se fosse una moglie». Rapporti sessuali con eunuchi vengono riferiti anche da parte di Tito (imperatore dal 79 all'81) e Domiziano (imperatore dal 14 settembre 81 al 96)..

Nel 69 - Sono presenti quattro imperatori al trono in rapida successione: Galba, successore di Nerone in carica dal giugno 68, Otone, entrato in carica a gennaio, Vitellio, imperatore da aprile e Vespasiano, che otterrà la porpora a dicembre per tenerla saldamente per dieci anni. Galba venne eletto in Hispania, Vitellio dalle legioni germaniche, Otone dalla guardia pretoriana a Roma ed infine Vespasiano dalle legioni orientali e danubiane. La dinastia flavia fu la seconda dinastia imperiale romana e detenne il potere dal 69 al 96. I Flavii Vespasiani erano una famiglia della classe media, d'origine modesta, giunta prima all'ordine equestre grazie alla militanza fedele nell'esercito di Tito Flavio Vespasiano, che prese il potere durante l'Anno dei quattro imperatori e che imporrà la successione al trono ereditaria. La dinastia flavia è la seconda dinastia imperiale romana, che ha detenuto il potere dal 69 al 96 con Vespasiano (imperatore nel 69/79), Tito (imperatore nel 79/81) e Domiziano (imperatore nell'81/96).

- Servio Sulpicio Galba Cesare Augusto (Terracina, 24 dicembre 3 a.C. - Roma, 15 gennaio 69) noto semplicemente come Servio Sulpicio Galba o anche col cognomen Galba, aveva percorso l'intero cursus honorum fino al consolato e agli incarichi di governatore in Germania superiore, Africa proconsolare e nella Hispania Tarraconensis. Sostenne la rivolta di Gaio Giulio Vindice, ufficiale dell'esercito romano che si era ribellato contro l'imperatore romano Nerone, alla cui morte e con l'investitura del senato Galba ascese al trono, primo a regnare durante l'Anno dei quattro imperatori. Dopo appena sette mesi di governo, il 15 gennaio del 69 fu deposto e assassinato dai pretoriani che elevarono Otone come imperatore.

- Marco Salvio Otone Cesare Augusto (Ferento, 28 aprile 32 - Brixellum, 16 aprile 69), meglio conosciuto semplicemente come Otone, è stato il settimo imperatore romano, in carica per circa tre mesi, dal 15 gennaio al 16 aprile del 69. Proveniente da una nobile famiglia etrusca, aveva iniziato la sua vita pubblica sotto il principato dell'imperatore Nerone, del quale diventò intimo amico. Il rapporto fra i due si ruppe quando Otone rifiutò di divorziare dalla moglie Poppea, che Nerone voleva appunto sposare. Otone venne quindi mandato come governatore nella lontana Lusitania, dove amministrò la provincia per dieci anni. Nel 68 aiutò Galba a rovesciare Nerone e a prendere il potere imperiale, ma quando vide le sue speranze di essere designato erede andare in fumo, si rivoltò contro Galba e prese lui stesso il potere. Dopo pochi mesi di tranquillità e ordinaria amministrazione, iniziò una guerra con il ribelle Vitellio. Questi scese in Italia dalla Germania e sconfisse gli eserciti di Otone, che si suicidò per non far continuare i conflitti.

- Aulo Vitellio Germanico Augusto (Nuceria Alfaterna, 6 o 24 settembre - Roma, 20 dicembre 69), conosciuto semplicemente come Vitellio, è stato l'ottavo imperatore romano. Secondo Svetonio, Vitellio avrebbe passato la sua giovinezza a Capri, dove sarebbe stato fra i giovani amanti di Tiberio, cosa che avrebbe accelerato la carriera al padre. In realtà, mentre la reale entità delle perversioni dell'imperatore è assai dubbia, è altrettanto improbabile che sia veramente accaduto qualcosa del genere, dato che gli sforzi nella carriera politica del padre vanno più probabilmente interpretati come quelli di un homo novus in cerca di affermazione. La sua ascesa al trono sarà ostacolata dalle legioni di stanza nelle province orientali, che avevano acclamato il loro comandante Vespasiano imperatore. Nella guerra che seguì, Vitellio riportò una sconfitta nella seconda battaglia di Bedriaco, località situata nell'attuale comune di Calvatone nei pressi di Cremona. Dopo questa battaglia, essendo stato abbandonato dai suoi seguaci, Vitellio abdicò in favore di Vespasiano, ma fu comunque ucciso a Roma dai soldati di Vespasiano, il 20 dicembre 69. 

Vespasiano: Ny Carlsberg
Glyptotek, Copenhagen,
foto di Carole Raddato
da QUI.
- Con la contestazione del potere di Vitellio da parte delle legioni  orientali,  Vespasiano, inviato da Nerone a reprimere la rivolta degli ebrei in Palestina, viene scelto da esse come nuovo candidato imperatore. Lasciato il figlio Tito in Giudea, egli si recò in Egitto aspettando prudentemente a recarsi a Roma finché generali a lui fedeli sconfiggessero Vitellio nella pianura padana (seconda battaglia di Bedriaco del 69) e finché non ricevette manifestazioni di pubblica obbedienza da parte del Senato e da ogni area dell'Impero. Nella capitale stazionò intanto il figlio secondogenito Domiziano, come reggente, finché non venne raggiunto dal padre nell'estate del 70. Tito Flavio Vespasiano, meglio conosciuto come Vespasiano (Cittareale, 17 novembre 9 - Cotilia, 23 giugno 79), governò fra il 69 e il 79 con il nome di Cesare Vespasiano Augusto. Ristabilita la calma a Roma, Vespasiano, il primo principe dell'ordine equestre, poté dedicarsi a ristabilire al più presto l'ordine, riconducendo le varie istituzioni alle loro competenze originarie frenando sia le richieste dei generali, sia l'indebolimento del Senato. Anche se di fatto si riservò un potere assolutofavorì l'accesso alla carica senatoria di numerosi esponenti non italici (soprattutto Ispanici Galli), favorendo così la romanizzazione delle province. In campo economico, dopo il disastroso anno dei quattro imperatori, fu costretto a attuare una politica di rigore con misure anche impopolari, quali l'introduzione di nuove tasse. Un celebre aneddoto riferisce che egli mise una tassa sugli orinatoi (gabinetti pubblici, che da allora vengono chiamati anche vespasiani). Rimproverato dal figlio Tito, che riteneva la cosa sconveniente, gli mise sotto il naso il primo danaro ricavato, chiedendogli se l'odore gli dava fastidio («Pecunia non olet» ovvero «il denaro non ha odore», quale che ne sia la provenienza); e dopo che questi gli rispose di no, aggiunse «eppure proviene dall'orina». Attraverso l'esempio della sua semplicità di vita, mise alla gogna il lusso e la stravaganza dei nobili romani e iniziò sotto molti aspetti un marcato miglioramento del tono generale della società. Grazie alle nuove entrate venne intrapresa una notevole stagione edilizia nella capitale e nelle province che portò nuovo benessere a tutto l'Impero. Dal punto di vista militare Vespasiano cercò di consolidare ed estendere i confini, soprattutto nelle zone più strategiche, come la Britannia e la zona tra Reno e Danubio (circa l'attuale Foresta Nera). Vespasiano attuò un ristabilimento economico e sociale in tutto l'Impero che godette, grazie al suo governo, di una pax che rimarrà proverbiale. Di fatto sarà uno degli  imperatori più amati della storia romana. Vespasiano imporrà la successione al trono ereditaria.

Arco di Tito, trafugamento di
Menorah e tesoro di Gerusalemme.
Nel 70 - Dopo varie rivolte in Giudea, dove il potere di Roma era stato richiesto dai giudei stessi per sedare dissidi interni, Tito, figlio dell'imperatore Vespasiano, distrugge il secondo Tempio di Gerusalemme portandone il tesoro,  detto "di Salomone", a Roma. Inizia la diaspora del popolo Ebraico. Per le guerre giudaiche, vedi il post "Cronologia degli Ebrei: Sadducei, Farisei, Esseni, Zeloti e Sicarii, Gnostici e Cristiani"  QUI.

Tito: Glyptotek, Munich,
foto di Carole Raddato
da QUI.
Dal 79 - Tito (Roma, 30 dicembre 39 - Aquae Cutiliae, 13 settembre 81), figlio primogenito di Vespasiano, gli succede alla guida dell'impero alla sua morte e governerà per appena due anni. Per aver condotto a termine la prima guerra giudaica con l'assedio alla città di Gerusalemme, quando il padre era ormai unico imperatore a Roma, si meritò la costruzione di un arco di trionfo nel Foro romano. L'eruzione del Vesuvio del 79 (che causò la distruzione di Pompei ed Ercolano e gravissimi danni nelle città e comunità attorno al golfo di Napoli) e un rovinoso incendio divampato a Roma l'anno successivo, diedero modo a Tito di mostrare la propria generosità: in entrambi i casi contribuì con le proprie ricchezze a riparare i danni e ad alleviare le sofferenze della popolazione. L'interessamento e l'intervento immediato dell'imperatore suscitò verso di lui le simpatie degli strati sociali più umili. Questi episodi, e il fatto che durante il suo principato non fu emessa nessuna sentenza di condanna a morte, gli valsero l'appellativo presso gli storici suoi contemporanei di "delizia del genere umano".

Nell' 80 - L'imperatore Tito inaugura il Colosseo, l'anfiteatro flavio, costruzione iniziata durante il governo di suo padre Vespasiano. 

Domiziano: Musei
Capitolini, Roma,
da QUI.
Nell' 81 - Tito si ammala e muore in una villa di sua proprietà. Le fonti parlano di una forte febbre: secondo Svetonio, potrebbe essere stato colpito dalla malaria assistendo i malati, oppure avvelenato dal suo medico personale Valeno su ordine del fratello Domiziano. Dopo la prematura scomparsa di Tito sale al potere il suo fratello minore, Domiziano  (Roma, 24 ottobre 51 - Roma, 18 settembre 96), che seguirà le orme del padre in politica estera, intraprendendo alcune campagne militari tese a rafforzare i confini. Fece a tale scopo costruire una serie di fortini collegati tra loro nella regione del Reno, presidiati stabilmente da contingenti di ausiliares e nell'area danubiana stanziò stabilmente guarnigioni di legionari, dall'attuale Austria fino quasi al Mar Nero. In politica interna invece Domiziano si distanziò notevolmente dal tracciato paterno, instaurando di fatto una monarchia assoluta di stampo autocratico, accettando con piacere forme di servilismo dei senatori, come l'adulazione ostentata e il titolo di "Dominus ac deus"(signore e dio). Domiziano si rese estremamente impopolare per le sue tendenze autocratiche, che spezzarono quell'illusione, creata da Augusto, che l'imperatore fosse solo un primus inter pares, cioè il primo fra uguali. Quale censore a vita espulse dal Senato a più riprese gli elementi a lui sfavorevoli, determinando una forte situazione di attrito. Ai tentativi di congiura scoperti rispose sempre con fermezza, emettendo numerose condanne a morte che colpirono anche personaggi in vista dell'aristocrazia. Ciò non fece che accelerare i tentativi del Senato di sopprimerlo, individuando infine un liberto che aveva accesso alla sua corte come esecutore materiale e l'anziano senatore Marco Cocceio Nerva quale suo successore. Con la morte di Domiziano (96) ebbe fine la dinastia flavia. A Domiziano verrà inflitta la damnatio memoriae, con la distruzione di ogni immagine, iscrizione o dedica che lo potesse ricordare ai posteri.

Carta del limes germanico-dacico
dell'Impero Romano nell'80.
 In rosa gli stanziamenti delle
legioni. Da QUI.
Dall' 83 - Iniziano le Campagne germaniche dell'imperatore Domiziano, consistenti in azioni di guerra, condotte negli anni 83 - 84/85 circa, contro le popolazioni germaniche di Catti, Mattiaci, Vangioni, Triboci e Nemeti. L'occupazione successiva dei territori compresi tra i fiumi Reno e Danubio, diede inizio alla costruzione del sistema difensivo del limes germanico-retico, terminata solo durante il principato di Antonino Pio. Per questi successi l'imperatore Domiziano si era meritato il titolo di Germanicus. L'impero dei Flavi era cominciato un quindicennio prima con Vespasiano a cui era succeduto il figlio maggiore Tito, morto prematuramente nell'81, e quindi il fratello minore, Domiziano.
Carta del limes (confine) germanico
-retico nel 90, sotto Domiziano.
Con la fine dell'82 Domiziano, dopo l'ennesimo attacco da parte della popolazione germanica dei Catti, che poco tempo prima avevano invaso i territori della Gallia, aveva deciso di occupare l'area germanica denominata Agri decumates, racchiusa tra i due principali fiumi che costituivano il limes settentrionale dell'impero romano: Danubio e Reno. La campagna prese le mosse dal quartier generale di Mogontiacum dove era concentrato il grosso dell'esercito. L'obiettivo principale era la vicina tribù dei Catti a nord dei monti del Taunus. 
Carta del limes dell'Impero Romano
a nord-ovest nell' 80. In rosa gli
stanziamenti delle legioni. Da QUI.
I Catti furono battuti ripetutamente come ci racconta Frontino: «L'imperatore Cesare Augusto Germanico, quando i Catti scappando ripetutamente nelle foreste si sottraevano allo scontro tra cavallerie, ordinò ai suoi cavalieri, che una volta raggiunti i loro carriaggi, smontassero e combattessero a piedi. Con questo accorgimento ottenne che nessuna difficoltà di terreno compromettesse la sua vittoria. » (Frontino, Stratagemata, II, 3, 23.). Le armate romane poterono così penetrare ed occupare il territorio germanico per circa 75 chilometri a nord est di Mogontiacum (limitibus per centum viginti milia passuum actis), includendo ora il popolo alleato dei Mattiaci. Domiziano al termine delle operazioni militari (giugno/agosto dell'83), ricevette il titolo vittorioso di Germanicus e la sua quarta acclamazione ad Imperator. I due anni successivi furono dedicati alla costruzione di tutta una serie di fortini e strade militari nel Wetterau e Taunus, cominciando a creare il primo tratto fortificato del limes germanico-retico e congiungendo il fiume Lahn al fiume Meno.
Carta del limes dell'Impero Romano
nell'ovest del Mediterraneo nell' 80.
In rosa gli stanziamenti delle
legioni. Da QUI.
Sappiamo che attorno all'88, il re dei Cherusci, Chariomero, venne cacciato dal suo regno dai Catti, poiché si era dimostrato amico ed alleato dei Romani. Nel corso della rivolta dell'allora governatore della Germania superiore, Lucio Antonio Saturnino, i Catti ne approfittarono per attaccare il tratto di limes appena costituito, ma furono ancora una volta battuti e respinti. L'occupazione degli Agri Decumates, iniziata per la verità dal padre di Domiziano, Vespasiano (con le campagne del legato della Germania Superiore, Gneo Pinario Cornelio Clemente nel 73/74 per le quali ottenne gli ornamenta triumphalia) permise la creazione di una prima linea di fortificazioni artificiali nel Taunus-Wetterau, a cui se ne sarebbero aggiunte altre fino ad Antonino Pio, per un totale di 550 km. Traiano continuò la penetrazione romana nell'area sia come governatore della Germania superiore (attorno agli anni 92-96), sia come imperatore (tra il 98 ed il 100) con l'avanzamento oltre il fiume Reno verso est, fino al cosiddetto limes di Odenwald, tratto di frontiera che collegava il fiume Meno presso Wörth, con il medio Neckar a Bad Wimpfen. Il successore Adriano, contribuì all'avanzamento lungo il cosiddetto limes dell'Alb (nei pressi di Stoccarda).
Carta del limes dell'Impero Romano
nell'est del Mediterraneo nell' 80.
In rosa gli stanziamenti delle
legioni. Da QUI.
Gli Agri Decumates o Decumates Agri furono una regione della provincia romana della Germania superior, comprendente l'area della Foresta Nera tra il fiume Meno, le sorgenti del Danubio e il corso del Reno superiore fra il lago di Costanza e la sua confluenza col Meno, e corrispondente all'odierna Germania sud-occidentale (Wurttemberg, Baden e Hohenzollern). A sud-est i Decumates confinavano con la Rezia, provincia importante dal punto di vista militare. L'unica testimonianza antica del nome Agri Decumates proviene dal "De origine et situ Germanorum" di Tacito. Il significato della parola "decumates" è andato perduto ed è oggetto di contesa. Secondo lo storico britannico Michael Grant si riferiva probabilmente all'antico termine celtico indicante la suddivisione politica dell'area in "dieci cantoni". Secondo Tacito la regione era originariamente abitata dalla tribù celtica degli Elvezi ma ben presto, probabilmente sotto Ariovisto, vi si stabilirono i germanici Suebi (o Svevi), prima di emigrare, attorno al 9 a.C., nella moderna Boemia.
Legenda delle legioni romane
 e i loro siti di stanziamento.
 Da QUI.
L'area venne colonizzata sotto la dinastia flavia (69-96); la costruzione durante questo periodo di una rete di strade facilitò la comunicazione tra le legioni e migliorò la protezione contro le tribù di invasori. Lungo il percorso passante per Rheinbrohl - Arnsburg - Inheiden - Schierenhof - Gunzenhausen - Pförring furono costruite delle fortificazioni di frontiera (limes). I più importanti insediamenti romani erano Sumelocenna, Civitas Aurelia Aquensis, Lopodunum e Arae Flaviae, le odierne Rottenburg am Neckar, Baden-Baden, Ladenburg e Rottweil.

Carta delle migrazioni del III
secolo con indicati gli Agri
Decumates, Germania superiore
e Germania inferiore.
Dall' 85 - La Germania superiore (Germania superior) fu organizzata in provincia imperiale romana tra l'85 ed il 90 d.C., comprendendo vasti territori che erano appartenuti in precedenza alla Gallia Lugdunensis. Nella provincia venne incluso anche il territorio occupato dagli Elvezi e quella regione di confine racchiusa tra l'alto corso del Reno e l'alto corso del Danubio, ovvero la regione degli Agri Decumates.
- La Germania inferiore (Germania inferior) era il nome della provincia romana situata sulla riva occidentale del fiume Reno, in corrispondenza degli attuali Paesi Bassi e Germania occidentale. La Germania inferiore fu organizzata, da distretto militare qual era dopo la clades Variana del 9, in provincia imperiale romana tra l'85 ed il 90, comprendendo vasti territori che erano appartenuti in precedenza alla Gallia Belgica.

Claudio Tolomeo
Nel 90 - Nasce Claudio Tolomeo. La vita di Claudio Tolomeo si svolse indicativamente fra gli anni 90 e 170 della nostra era. Solo alcuni commentatori hanno avanzato l’ipotesi che egli fosse di stirpe egizia. Altri, prendendo spunto dal nome Claudio, eminentemente romano, hanno suggerito che egli fosse di discendenza latina, pur essendo assorbito nell'ambiente ellenistico. In genere è ritenuto di discendenza greca. Circa la località di nascita, si concorda sull’Egitto. Uno dei pochi elementi certi su di lui è che la sua attività scientifica si svolse ad Alessandria  d'Egitto. La prima osservazione astronomica a lui attribuita è dell’anno 127, l’ultima dell’anno 141. In tutte le trattazioni riguardanti la figura di questo grande scienziato non viene mai tralasciato di esporre l’argomento delle violente discussioni suscitate dalla sua attività scientifica, al punto di levare contro di lui accuse veramente gravi che hanno messo in dubbio l’onorabilità del suo senso etico. Probabilmente Tolomeo aveva a cuore l'ansia che aveva assillato Platone, preoccupato di non potere spiegare, col suo modello cosmologico, gli stazionamenti, i moti retrogradi e le apparenti variazioni di velocità visibili nei moti planetari, dovute alle orbite ellittiche dei pianeti e al fatto che al centro del sistema c'è il Sole e non la Terra. Tolomeo riuscì così ad elaborare alcune ipotesi astro-matematiche atte a spiegare il sistema cosmologico in tutte le sue espressioni e le pubblicò nell’opera "Sintassi matematica", che i greci modificarono in "La più grande sintassi matematica" di cui gli Arabi tradussero soltanto le prime parole del titolo, "al-majisti" e finalmente, con la traduzione in latino dall’arabo (nel 1175 circa, ad opera di Gherardo da Cremona) il titolo divenne "Almagesto", il canone astronomico fondamentale adottato in tutto il mondo fino al 1600.

 Da QUI.

 Per eventuali approfondimenti vedi "Storia dell'Europa n.29: dal 50 al 90 e.v. (d.C.)" QUI.


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