Mappa della Roma repubblicana (Ca.150 a.C.) |
Asse dell'antica Roma repubblicana, caratterizzato dalla testa di Giano al diritto e da una prua di una galea al rovescio, da https://it.wikipedia.org /wiki/Asse_(moneta)#/media/ File:Eckhel_i_3.jpg. |
Senatore Romano con laticlavio. Immagine di Dennishidalgo - Opera propria CC Y-SA 3.0, https:// commons.wikimedia. org/w/index.php? curid=30112996 |
Roma nel Latium vetus da: https ://upload.wikimedia.org/wikipe dia/commons/3/30/Carte_Guerr esRomanoVeies_482avJC.png. |
Nel 508 a.C. - Il Senato, strumento di potere dell'aristocrazia, per ottenere che la plebe si schierasse in armi contro l'invasore etrusco, ne aveva migliorato le condizioni: «Il senato fu largo, dunque, di concessioni alla plebe, in quel periodo. La prima preoccupazione riguardò l'approvvigionamento dei viveri: per far scorta di frumento furono mandati emissari tra i Volsci e a Cuma. Il commercio del sale [...] fu tolto ai privati e assunto dallo stato; la plebe fu esentata dai dazi e dall'imposta di guerra.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 9.)
Nel 495 a.C. - A Roma, la pace fra i due ordini non dura a lungo. L'anno dopo la battaglia del Lago Regillo (496 a.C. circa), dove i Romani avevano ottenuto una significativa vittoria sui Tarquini e la Lega latina, che sosteneva le loro rivendicazioni monarchiche, alla notizia della morte di Tarquinio il Superbo nel suo esilio di Cuma, ospite di Aristodemo: «gioirono i senatori e gioì anche la plebe. Ma i festeggiamenti dei senatori degenerarono in licenza e abusi; e la plebe, che fino a quel giorno era stata blandita in ogni modo, cominciò a patire dei torti» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 21.)
Tito Livio. Da http://commons.wikimedia. org/wiki/File:Titus_Livius.png# mediaviewer/File:Titus_Livius.png |
Denario emesso da Gaio Cassio Longino nel 63 a.C.; un elettore ad un plebiscito che deposita la tabella col voto, contrassegnata da una V che sta per 'Vti rogas', equivalente ad un 'sì'. Da https: //commons.wikimedia.org/ wiki/File:Roman_Election.jpg. |
Nel 491 a.C. - In quell'anno troviamo Appio Claudio Sabino Inregillense, capostipite della gens Claudia e console nel 495 a.C., noto provocatore che aveva costretto la plebe alla secessione, ad intervenire nuovamente contro la plebe nel processo contro Coriolano. Come Claudio, Coriolano era un aristocratico rigido e ostile alla plebe e sperava perfino di riportare la situazione dei plebei a quella antecedente la nascita del tribunato della plebe. Quando i plebei chiesero una legge che riducesse i costi del grano, Coriolano si oppose e così i tribuni lo citarono in giudizio. Secondo Livio fu lo stesso Coriolano a non volersi sottoporre al giudizio dei plebei e ad andarsene presso i Volsci, ma secondo Plutarco invece, fu proprio questo Claudio a definire indecente che un patrizio fosse giudicato da gente inferiore per rango e a chiedere che il processo non si svolgesse. Claudio ebbe un particolare primato nell'Urbe che ben s'addice al suo carattere. Fu il primo infatti a esporre in un luogo pubblico le immagini dei suoi antenati, come a volere dimostrare pubblicamente cosa lo differenziasse dalla comune plebe. L'esposizione avvenne presso il tempio di Bellona, secondo quanto dice Plinio. Claudio ebbe due figli, entrambi divenuti consoli, Appio Claudio Sabino Inregillense (console nel 471 a.C., il primo ad ordinare una decimazione nella legione) e Gaio Claudio Sabino Inregillense, console nel 460 con il collega Publio Valerio Publicola. L'Appio Claudio Crasso eletto console nel 451 a.C. e poi decemviro sia per quell'anno che per l'anno seguente, che si macchiò d'infamia per lussuria, e che causò la seconda secessione della plebe, era figlio dell'Appio Claudio console nel 471 a.C., infatti sia nel resoconto di Tito Livio che in quello di Dionigi d'Alicarnasso, Gaio Claudio è suo zio paterno, poiché fratello del padre.
Palazzo pubblico di Siena, esecuzione di Spurio Cassio Vecellino. By Domenico di Pace Beccafumi https://commo ns.wikimedia.org/w/in dex.php?curid=147767. |
Nel 486 a.C. - Spurio Cassio Vecellino è eletto console per la terza volta, assieme a Proculo Verginio Tricosto Rutilo. Cassio marciò contro i Volsci e gli Ernici ma poiché i nemici chiesero ed ottennero la pace, non si ebbe nessuna battaglia. Nonostante ciò Cassio ottenne un secondo trionfo, che è registrato nei fasti trionfali. Con il foedus cassianum, che aveva stipulato con i Latini durante il suo secondo consolato e con questo patto di alleanza con gli Ernici, Cassio era riuscito a formare una "federazione" virtuale, soggetta a Roma, che le restituiva il prestigio che aveva durante l'ultimo periodo monarchico.
Nel 485 a.C. - Cassio è portato in giudizio con l'accusa di aspirare ai poteri di re; i due accusatori, i questori Cesone Fabio Vibulano e Lucio Valerio Potito, sarebbero poi diventati consoli, rispettivamente nel 484 a.C. e nel 483 a.C. Processato, Cassio è quindi condannato e fatto precipitare dai due questori dalla Rupe Tarpea. La sua casa fu distrutta e lo spazio rimasto, di fronte al tempio della dea Tellus, fu lasciato libero. Con i beni sequestrati fu eretta una statua di bronzo nel Tempio di Cerere, con un'iscrizione che ricordava la provenienza delle somme usate (ex Cassiana familia datum). Cassio lasciò tre figli che furono risparmiati dal Senato.
Nel 484 a.C. - Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 42: «Il risentimento popolare nei confronti di Cassio non durò a lungo. La legge agraria, già allettante di per se stessa, ora che era scomparso il suo promulgatore, affascinava tutti e il desiderio che se ne provava fu accresciuto dalla meschinità dei senatori, i quali, quell'anno, dopo una vittoria sui Volsci e sugli Ernici, privarono i soldati del bottino. Tutto ciò che fu tolto al nemico il console Fabio lo mise all'incanto e ne trasferì i proventi nelle casse dello Stato. Il nome dei Fabi era impopolarissimo proprio a causa di quest'ultimo console. Ciò nonostante, i consoli riuscirono a ottenere che insieme a Lucio Emilio venisse eletto console Cesone Fabio. Questo incrementò il rancore dei plebei che, a seguito dei disordini causati in patria, fecero scoppiare un conflitto all'estero. E con la guerra le discordie civili conobbero una tregua: patrizi e plebei uniti, agli ordini di Emilio con una brillante vittoria sedarono una ribellione dei Volsci e degli Equi. I nemici, tuttavia, ebbero più perdite durante la ritirata che durante lo scontro, tanta fu l'ostinazione con la quale i cavalieri li inseguirono mentre fuggivano sparpagliati. Il quindici luglio di quello stesso anno venne consacrato a Castore il tempio promesso dal dittatore Postumio durante la guerra latina: lo dedicò suo figlio, eletto duumviro espressamente per questo ufficio. Anche quell'anno la plebe cedette al richiamo allettante della legge agraria. I tribuni della plebe cercavano di rinforzare la loro autorità popolare con una legge popolare: i senatori, trovando che era già sufficiente la violenza spontanea della plebe, vedevano le donazioni come un rischioso stimolo alla temerarietà. I fautori più accesi dell'opposizione senatoriale furono i consoli. Così la spuntarono proprio questi ultimi, e non solo nella circostanza presente: infatti, l'anno successivo, (il 483 a.C., N.d.R.) riuscirono anche a portare al consolato Marco Fabio (Vibulano, N.d.R.), fratello di Cesone, e un personaggio ancora più impopolare, Lucio Valerio (Potito, N.d.R.), l'uomo cioè che aveva accusato Spurio Cassio. Anche in quell'anno ci fu una grande battaglia coi tribuni. La legge subì uno scacco totale, così come lo subirono quanti l'avevano proposta promettendo cose immantenibili. La famiglia dei Fabi si conquistò una grande stima con quei tre consolati consecutivi, tutti caratterizzati da continui conflitti coi tribuni. Così, visto che era considerato in mani sicure, l'incarico rimase abbastanza a lungo presso quella famiglia.»
Nel 482 a.C. - Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 43: «Quinto Fabio Vibulano e Gaio Giulio furono eletti consoli. Quell'anno la lotta di classe che dilaniava la città non fu meno accanita e accesa della guerra combattuta all'estero. Gli Equi presero le armi; le scorribande dei Veienti arrivarono fino all'agro romano.»
Nel 481 a.C. - Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 43: « La crescente inquietudine dovuta a queste campagne è l'atmosfera in cui vengono eletti consoli Cesone Fabio e Spurio Furio Medullino Fuso. Gli Equi stavano assediando Ortona, una città latina. I Veienti, già carichi di bottino, minacciavano di attaccare Roma stessa. Tutti questi campanelli d'allarme, invece di sedare l'animosità dei plebei, la incrementarono ulteriormente. E ricominciarono con la politica del boicottaggio del servizio militare, anche se non spontaneamente: infatti il tribuno della plebe Spurio Licinio, vedendo nella crisi del momento un'occasione propizia per imporre ai patrizi la promulgazione di una legge agraria, si era messo in testa di ostacolare i preparativi di guerra. Da quel momento in poi il tradizionale odio nei confronti del tribunato si concentrò esclusivamente sulla sua persona: i consoli non lo attaccarono meno animosamente dei suoi stessi colleghi e fu proprio grazie al loro sostegno che riuscirono a organizzare la leva militare. Si reclutarono truppe per due campagne contemporanee: Fabio sarebbe stato il comandante della spedizione contro gli Equi, Furio di quella contro i Veienti. Quest'ultima non fece registrare niente che meriti di essere ricordato. Nella campagna contro gli Equi, Fabio ebbe in qualche modo più problemi con i suoi effettivi che con i nemici. Fu soltanto quella grande figura, il console stesso, che resse le sorti dello Stato, tradito in tutti i modi possibili dai soldati i quali lo detestavano. Un solo esempio: dopo aver dimostrato in molte altre occasioni grande abilità nella strategia e nella condotta delle operazioni, quando il console operò una mossa che gli permise di sbaragliare le linee nemiche con un assalto della sola cavalleria, la fanteria si rifiutò di lanciarsi all'inseguimento dei fuggiaschi; e né l'incitamento dell'odiato generale, né il disonore loro e la vergogna che in quel momento ricadeva su tutti, né il rischio che il nemico potesse riprendere coraggio e tornare sui propri passi, nessuno di questi fattori li spinse ad accelerare l'andatura o, se non altro, a mantenersi allineati. Così, nonostante gli ordini, ritornarono indietro e, con facce che avresti detto di vinti, rientrano alla base maledicendo a turno il generale e l'efficienza della cavalleria. Il comandante non riuscì a rimediare in nessun modo a questo episodio, per quanto rovinoso fosse stato, e ciò dimostra che le menti superiori hanno spesso maggiori problemi a imporre la propria volontà politica ai cittadini che la propria legge militare ai nemici. Il console ritorna quindi a Roma, non tanto carico di gloria conquistata sul campo, quanto dell'odio esacerbato e dell'esasperazione dei soldati nei suoi confronti. Ciò nonostante, i senatori ottennero che il consolato rimanesse presso la famiglia dei Fabi; nominano console (per il 480 a.C., N.d.R.) Marco Fabio (Vibulano N.d.R.) cui viene affiancato come collega Gneo Manlio (Cincinnato, N.d.R.).»
Nel 480 a.C. - Visti i precedenti, per quell'anno l'aristocrazia cambia tattica: sotto l'impulso di Appio Claudio (figlio dell'omonimo Appio Claudio Sabino Inregillense, console nel 495 a.C.), il senato inizia a cercare la complicità di almeno uno dei tribuni della plebe, per metterlo contro il collega e neutralizzare così, con una forza uguale e contraria, le rivendicazioni della plebe. L'evento si verifica in una delle molte ripresentazioni della legge agraria di Spurio Cassio, che voleva contrastare lo strapotere dei ricchi possidenti. Questi, per potenza economica e/o politica, riuscivano spesso ad impossessarsi dei terreni conquistati dall'esercito, destinando gli sforzi dell'intera popolazione, verso le proprie tasche.
Nel 479 a.C. - Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 48: «48 Poi entrambe le parti, patrizi e plebei, mostrano un'uguale propensione nel voler nominare console Cesone Fabio (Vibulano N.d.R.) accanto a Tito Verginio (Tricosto Rutilo, N.d.R.). Il primo, all'inizio del suo mandato, lasciando da parte guerra, leva militare e ogni altro problema governativo, si concentrò esclusivamente sulla realizzazione del suo progetto, fino a quel momento solo abbozzato, della riconciliazione tra plebe e patriziato. Così, nei primi mesi di quell'anno, per evitare che un qualche tribuno saltasse fuori con proposte di legge agraria, suggerì ai senatori di giocare d'anticipo e di agire autonomamente distribuendo alla plebe la terra conquistata e facendolo nella massima imparzialità possibile. Era giusto diventasse proprietà di quanti avevano dato sangue e sudore per conquistarla. I senatori bocciarono la proposta e, anzi, alcuni di loro arrivarono a dire che l'eccesso di gloria aveva insuperbito e offuscato la mente di Cesone una volta molto lucida. In seguito il conflitto tra le classi urbane conobbe un periodo di stallo. I Latini erano tormentati dalle incursioni degli Equi. Cesone si recò allora con un esercito nel territorio degli Equi per compiervi delle razzie. Gli Equi si arroccarono nella loro città, al riparo delle fortificazioni, e fu per questo che non ci fu nessuno scontro particolarmente memorabile. Coi Veienti, invece, si registrò una disfatta solo a causa della temerarietà dell'altro console: l'esercito sarebbe stato distrutto, se Cesone Fabio non fosse arrivato per tempo in aiuto. Dopo questo episodio, i rapporti coi Veienti non furono né pacifici né bellicosi, ma si limitarono a una sorta di reciproca scorrettezza.»
Nel 472 a.C. - Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 56: «56 Alle elezioni successive, Volerone, divenuto un beniamino della plebe, fu nominato suo tribuno per quell'anno che ebbe come consoli Lucio Pinario (Mamercino, N.d.R.) e Publio Furio (Medullino, N.d.R.). Contrariamente a quanto tutti si aspettavano, e cioè che egli avrebbe usufruito della carica per dare addosso ai consoli uscenti, Volerone diede invece la precedenza all'interesse popolare rispetto al risentimento privato e, senza il benché minimo attacco verbale ai consoli, presentò al popolo un progetto di legge secondo il quale i magistrati della plebe avrebbero dovuto essere eletti dai comizi tributi. Benché a prima vista sembrasse un provvedimento del tutto innocuo, si trattava di cosa serissima perché avrebbe tolto al patriziato la possibilità di far eleggere i tribuni di suo gradimento attraverso il voto dei clienti. Questa proposta, salutata con entusiasmo dalla plebe, si scontrò con l'opposizione incrollabile dei senatori; dato però che né l'influenza dei consoli né quella dei cittadini più in vista riuscì a ottenere il veto di uno dei membri del collegio (ed era questo l'unico tipo di ostruzionismo praticabile), la questione, a causa della sua intrinseca delicatezza, fu il principale argomento di discussione per l'intera durata dell'anno.»
Nel 471 a.C. - Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 56-58: «La plebe rielegge Volerone tribuno: i senatori, pensando che si sarebbe arrivati ai ferri corti, eleggono console Appio Claudio, figlio di Appio (l'omonimo Appio Claudio Sabino Inregillense, console nel 495 a.C., N.d.R.) e già subito detestato e malvisto dalla plebe per le battaglie antidemocratiche sostenute dal padre. Come collega gli assegnano Tito Quinzio (Barbato, N.d.R.). All'inizio dell'anno non si parlava d'altro che di quella legge. E come Volerone ne era stato il promotore, così il suo collega Letorio la sosteneva con ancora più entusiasmo e pertinacia. Era fierissimo del suo prestigioso servizio militare perché come soldato dava dei punti a tutti i coetanei. Mentre Volerone non aveva altro argomento che la legge ma si asteneva da ogni forma di attacco contro le persone dei consoli, Letorio, invece, lanciatosi in una filippica contro Appio e le crudeltà antipopolari della sua arrogantissima famiglia, arrivò ad accusare i patrizi di aver eletto non un console ma un carnefice chiamato a torturare e a fare a pezzi la plebe; solo che la rozzezza del suo linguaggio da caserma non era in grado di sostenere la franchezza del suo sentire. Così, mancandogli le parole, disse: “Visto che i gran discorsi non sono il mio forte, o Quiriti, vediamo di mettere in pratica quel che ho detto e troviamoci qui domani. Quanto a me, o vi morirò davanti agli occhi, o farò passare la legge.” Il giorno successivo i tribuni occupano i rostri, mentre i consoli e i patrizi rimangono in piedi in mezzo alla gente, col preciso intento di impedire l'approvazione della legge. Letorio ordina di allontanare tutti i non aventi diritto di voto. I giovani nobili rimanevano al loro posto senza dar retta agli uscieri. Allora Letorio ordina di arrestarne qualcuno. Il console Appio replicò che l'autorità dei tribuni era ristretta alla plebe in quanto non si trattava di una magistratura del popolo ma della plebe; se anche poi si fosse trattato di una magistratura del popolo, stando alla tradizione, non aveva alcun diritto di ordinare l'allontanamento di nessuno in quanto la formula era questa: “Se non vi dispiace, Quiriti, allontanatevi.” Spostando la discussione sulla sfera del diritto e facendolo in maniera sprezzante, Appio poteva facilmente provocare Letorio. Così, livido dalla rabbia, il tribuno inviò il suo messo al console, mentre quest'ultimo gli mandò un littore gridando che Letorio era soltanto un privato cittadino senza alcun potere o magistratura. E il tribuno avrebbe perso la propria inviolabilità, se l'intera assemblea non avesse preso le sue parti dando minacciosamente addosso al console, e una folla coi nervi a fior di pelle non si fosse riversata nel foro da tutti i quartieri della città. Ciò nonostante, Appio si ostinava a tener testa a un tumulto di quelle proporzioni e la cosa sarebbe finita in un bagno di sangue se Quinzio, l'altro console, non avesse incaricato gli ex-consoli di afferrare il collega e di trascinarlo fuori dal foro con la forza (nel caso fosse stato necessario), e se egli stesso non avesse ora supplicato la folla di calmarsi, ora richiesto ai tribuni di aggiornare la seduta, in modo da far sbollire i furori. Il tempo non li avrebbe privati della forza: anzi, ad essa avrebbe aggiunto la capacità di riflettere e i senatori avrebbero fatto la volontà del popolo come il console quella del senato.
Nel 470 a.C. - Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 61: «61 L'anno successivo, sotto i consoli Lucio Valerio (Potito, il questore che nel 485 a.C. aveva spinto Spurio Cassio dalla rupe Tarpea, N.d.R.) e Tito Emilio, ci furono disordini più gravi, dovuti tanto allo scontro tra le classi in materia di legge agraria, quanto al processo a carico di Appio Claudio. Acerrimo avversario della legge e sostenitore della causa di coloro che avevano il possesso dell'agro pubblico, come se fosse stato un terzo console, fu citato in giudizio da Marco Duilio e da Gneo Siccio. Di fronte al popolo, in passato, non era mai stato processato nessun imputato così inviso alla plebe e carico come lui era del risentimento procuratosi di persona e di quello suscitato dal padre. I patrizi, da parte loro, non si erano mai dati tanto da fare per nessun altro. E non a caso, visto che in lui vedevano il difensore del senato, il guardiano della loro autorità e l'uomo che si era opposto a tutte le agitazioni dei tribuni e dei plebei, lo stesso personaggio che in quel momento era esposto alle ire della plebe, soltanto per avere oltrepassato la misura nel mezzo dello scontro. Uno solo tra i senatori, lo stesso Appio Claudio, aveva un atteggiamento di completa indifferenza nei confronti dei tribuni, della plebe e del suo processo. Né le minacce della plebe né le suppliche del senato ebbero su di lui alcun effetto: infatti non soltanto rimase vestito com'era e rifiutò di andare a implorare la pietà della gente, ma, all'atto di presentare la propria difesa di fronte all'assemblea, non si peritò neppure di smorzare o almeno di contenere la sua notissima virulenza verbale. Stessa espressione disegnata sul viso, stessa smorfia arrogante sulle labbra e stessa veemenza infiammata nella parola: il tutto così esasperato che gran parte della plebe temeva Appio da imputato non meno di quanto lo avesse temuto da console. Perorò la propria causa in una sola circostanza, ma con quello stesso tono accusatorio che era la sua caratteristica peculiare in ogni circostanza. E la fermezza dimostrata impressionò a tal punto plebe e tribuni da portarli ad aggiornare la seduta di propria spontanea volontà e a permettere che la pratica si trascinasse per le lunghe. Non passò tuttavia molto tempo: prima però della data stabilita, Appio si ammalò gravemente e morì. Dato che un tribuno cercò di impedire che se ne pronunciasse l'orazione funebre, la plebe non volle che una personalità simile fosse privata dell'onore solenne proprio l'ultimo giorno e non solo ne ascoltò il suo elogio funebre con la stessa attenzione con cui aveva ascoltato l'accusa contro di lui quando era vivo, ma partecipò in massa al suo funerale.»
Nel 469 a.C. - Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 63-64: «63 Durante queste guerre e con gli scontri di classe ancora in atto a Roma, vennero eletti consoli Tito Numicio Prisco e Aulo Verginio (Tricosto Celiomontano, N.d.R.). Era chiaro che la plebe non avrebbe tollerato ulteriori dilazioni alla legge agraria e si sarebbe decisa a un'azione di forza definitiva, quando le colonne di fumo che si alzavano dalle fattorie in fiamme e il fuggi-fuggi dei contadini preannunciarono l'avvicinarsi dei Volsci. Questa notizia soffocò sul nascere i fermenti di rivolta ormai prossimi a un'imminente esplosione. I consoli, chiamati d'urgenza dal senato a occuparsi della spedizione difensiva, guidando fuori Roma la gioventù, contribuirono a portare una certa tranquillità nel resto della plebe...
Nel 467 a.C. - Tito Livio, Ab Urbe condita libri, III, 1: «1 Dopo la presa di Anzio, vengono eletti consoli Tito Emilio e Quinto Fabio (Vibulano, N.d.R.). Quest'ultimo era quel Fabio unico superstite della famiglia andata distrutta presso il Cremera. Nel suo precedente consolato, Emilio si era già fatto promotore della donazione di terre alla plebe; e proprio per questo, anche durante il suo secondo mandato, i fautori della distribuzione agraria avevano ricominciato a sperare nella legge e i tribuni, pensando di poter ottenere con l'aiuto di un console quello che non avevano ottenuto per l'opposizione dei consoli, li sostenevano. Tito Emilio rimaneva della sua idea. I proprietari terrieri e gran parte dei senatori, lamentandosi che il più autorevole cittadino assumesse atteggiamenti tribunizi e si conquistasse la popolarità con elargizioni di proprietà altrui, avevano trasferito dalle persone dei tribuni a quella del console il risentimento provocato dall'intera faccenda. E di lì a poco lo scontro sarebbe diventato durissimo, se Fabio non avesse risolto la questione con una proposta che non scontentava nessuna delle parti in causa: sotto il comando e gli auspici di Tito Quinzio, l'anno prima era stata tolta ai Volsci una notevole porzione di terra. Ad Anzio, centro strategico sulla vicina costa, si poteva fondare una colonia. Così facendo la plebe avrebbe ottenuto la terra senza suscitare le proteste dei proprietari e per la città sarebbe stata la pace interna. Questa proposta fu accolta. In qualità di triumviri addetti alla distribuzione delle terre Fabio nomina Tito Quinzio, Aulo Verginio e Publio Furio. L'ordine era che gli interessati all'assegnazione di un appezzamento andassero a dare il proprio nome. Ma, come spesso accade, l'abbondanza delle terre a disposizione creò una sorta di ripulsa e le iscrizioni furono così limitate che si dovettero aggiungere dei coloni volsci per completare il numero. Il resto del popolo preferì chiedere la terra a Roma piuttosto che riceverne altrove. Gli Equi cercarono di ottenere la pace da Quinto Fabio - egli era giunto là con l'esercito -, ma poi furono loro stessi a mandare tutto in fumo con un'improvvisa incursione in terra latina.»
Nel 465 a.C. - Tito Livio, Ab Urbe condita libri, III, 3: «Col ritorno in città del console Quinzio ebbe fine anche la sospensione delle attività giudiziarie, rimasta in vigore per quattro giorni. In seguito venne fatto il censimento e Quinzio ne celebrò il sacrificio conclusivo. Pare che i cittadini registrati - fatta eccezione per orfani e vedove - ammontassero a 104.714.»
Nel 462 a.C. - Mentre si sta concludendo una serie di vittoriose battaglie con i vicini, Roma sta per entrare in una fase di pace esterna che subito permette lo scoppio di violenti contrasti politici fra patrizi e plebei, inseribili nel contesto del conflitto degli ordini.
Fra l'altro in quei tempi, non esistevano leggi scritte e quindi il diritto era gestito in massima parte dal patriziato attraverso la loro conoscenza e la loro interpretazione. E l'interpretazione spesso veniva sovrapposta a pratiche religiose quali gli auguria. In sintesi le leggi non erano ancora state codificate nelle famose Leggi delle XII tavole. Sappiamo inoltre, che a Roma una legge, quando era posta in discussione, doveva terminare il suo iter; se non veniva approvata non poteva essere ripresentata fino all'elezione di nuovi consoli.
Nel 462 a.C. quindi, alla presentazione della legge, l'ovvia resistenza patrizia è condotta dal pretore Quinto Fabio. Questi, con discorsi nel Foro e cavillando sull'assenza dei consoli impegnati in battaglie con i "soliti" nemici, riesce a fermare la discussione. Poi tornò il console Lucio Lucrezio Tricipitino, che con Tito Veturio Gemino Cicurino era sceso in campo contro i Volsci e gli Equi. Lucrezio riportò a Roma un abbondante bottino e la plebe gli attribuì il trionfo (a Veturio solo l'ovazione). Della Lex Terentilia, per quell'anno, non si parlò più.
Il successivo 461 a.C., con consoli Publio Volumnio Amintino Gallo e Servio Sulpicio Camerino Cornuto, tutti i tribuni della plebe ripresentarono la Lex Terentilia. Ma ancora una volta giunse la voce che Volsci ed Equi, facendo base ad Anzio, avessero ripreso le armi. I consoli indissero la consueta leva militare e, di conseguenza, fu sospesa la discussione legislativa. I tribuni della plebe sbraitavano che questa era una mossa dei patrizi per fermare la discussione della legge, che i nemici erano appena stati pesantemente sconfitti e certo non volevano ricominciare le ostilità. Dunque vararono una generale retinenza alla leva, difendendo quelli che su indicazione nominativa dei consoli venivano afferrati dai littori. L'agone interno di Roma divenne rapidamente rovente. In questo quadro si inseriscono il processo, la condanna e la fuga di Cesone Quinzio, figlio di Lucio Quinzio Cincinnato. Tito Livio, lo storico padovano del I secolo così ce lo presenta:
«Vi era un giovane, Cesone Quinzio, fiero della sua nobile discendenza e della sua corporatura imponente e robusta. A questi doni divini egli aveva saputo aggiungere molti meriti militari e un'arte oratoria che lo rendeva capace di parlare nel Foro: nessuno era considerato, in tutta la città, più pronto di lingua e di mano. Quando si piazzava in mezzo al gruppo dei patrizi egli torreggiava tra gli altri quasi che nelle sue parole e nella sua forza, fossero radunati tutti i consolati e tutte le dittature; lui, da solo, sosteneva tutti gli attacchi dei tribuni e del popolo. Più volte, quando egli ebbe in mano la situazione, i tribuni furono cacciati dal Foro, più volte la plebe (il popolo) fu dispersa e messa in fuga. Chi osava tenergli testa se ne andava malconcio e privo di ogni difesa ed era evidente che, se gli fosse stato permesso di agire in quel modo, per la legge non c'era speranza.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, III, 11., Newton Compton, Roma, trad.: G.D. Mazzocato)
I tribuni della plebe non erano certo dei "chierichetti" ma ben presto quasi tutti furono ridotti al silenzio. A contrattaccare fu l'ultimo rimasto, Aulo Virginio, che mise Cesone sotto processo per capitis; omicidio. Nessun imprigionamento per Cesone; il giovane Quinzio fu lasciato libero di peggiorare la sua situazione. L'accusa lo fece diventare ancora più veemente nelle sue resistenze alla lex Terentilia. Virginio ogni tanto ripresentava la stessa legge, non tanto perché fosse approvata ma per dare esca alle reazioni di Cesone Quinzio che sembrava aver dichiarato guerra a tutta la plebe. Virginio aveva così facile agio nel sobillare poi i plebei, generando una vera e propria escalation di azioni violente e votazioni contrastate. Secondo Livio, questo era una delle argomentazioni di Virginio: «Quiriti, non vi rendete conto che è impossibile avere contemporaneamente Cesone come concittadino e la legge approvata? Ma cosa parlo di legge, lui è nemico della libertà e batte in superbia tutti i Tarquini. Aspettate che diventi console o dittatore, questo che è un privato cittadino e si comporta, come potete constatare da re prepotente e tracotante.» (Ibid., III, 11.) Livio continua: Adsentiebantur multi... molti assentivano.
Nell'avvicinarsi del giorno del processo Cesone cominciò a capire che, se fosse stato condannato sarebbe stata in gioco la sua libertà e che era giunto il momento di cambiare politica. Iniziò la ricerca di alleati e "cum multa indignitate prensabat singulos"; cioè "mortificandosi andava in giro a raccomandarsi". E non gli mancavano né gli alleati né supporti oggettivi. «Tito Quinzio Capitolino Barbato, che era stato tre volte console, ricordava i molti titoli di merito di Cesone e della famiglia, affermando che mai nemmeno a Roma si era avuto un ingegno così grande e precoce valore. Cesone era stato suo soldato di prima fila e aveva combattuto il nemico proprio sotto i suoi occhi. Spurio Furio ricordava che Cesone, mandato da Quinzio Capitolino era corso in suo aiuto in un frangente di grande pericolo; si diceva convinto, anche che nessuno più di Cesone avesse contribuito a risollevare le sorti della battaglia. Lucio Lucrezio, console l'anno precedente, e le cui gloriose imprese erano ancora ben vive nella memoria di tutti, divideva i suoi meriti con Cesone, ricordava gli scontri, enumerava le sue splendide azioni in missione e sul campo di battaglia.» (Tito Livio, ''Ibid., III, 12)
Il padre, Lucio Quinzio detto Cincinnato (riccioluto) chiedeva semplicemente comprensione per gli errori giovanili e un perdono basato sul fatto che lui Lucio Quinzio non aveva mai fatto male ad alcuno. I risultati furono poco incoraggianti e molti dei bastonati promettevano un giudizio poco clemente. Come si nota, nessuna accusa e nessuna difesa per l'omicidio. A Roma si parlava d'altro. Quello che contava era la popolarità personale e la potenza politica della famiglia.
Marco Volscio Fittore era stato tribuno della plebe qualche anno prima, e testimoniava che durante la peste, un gruppo di giovani vagabondava per la Suburra con intenzioni poco raccomandabili. Era nata una rissa e il fratello di Marco Volscio, colpito da un pugno di Cesone, era caduto ed era stato portato a braccia a casa sua dove era morto. Marco Volscio era convinto che fosse morto per il colpo subito ma non era stato possibile ottenere giustizia dai consoli degli anni precedenti.
«Volscio gridava queste accuse in tutte le occasioni, e l'animo della gente ne fu tanto inasprito che poco mancò che Cesone fosse linciato dal popolo. Virginio ordina che sia arrestato e messo in carcere. I Patrizi oppongono violenza a violenza.» (Ibid., III, 13.)
Tito Quinzio dichiara che essendo ancora non condannato non si poteva imprigionare Cesone. Il tribuno per contro lo vuole imprigionare con la scusa di evitare che si sottragga al processo con la fuga. «I tribuni cui Cesone si era appellato esercitano il diritto di intercessione con una decisione che accontenta tutti: si oppongono alla sua carcerazione, deliberano che l'imputato compaia in giudizio e che, in previsione di una sua possibile fuga, fornisca una garanzia in denaro al popolo.» (Ibid., III, 13.)
Per fissare l'importo della cauzione si dovette ricorrere al Senato e fino a quando non si fosse deliberato, Cesone Quinzio doveva essere tenuto nel Foro. Fu deliberato che Cesone dovesse essere garantito da dieci mallevadori che versassero ognuno una cauzione di tremila assi. A quanto scrive Livio, questo fu il primo caso di malleveria fornita, al pubblico erario di Roma, da un imputato in un processo. A Cesone fu concesso di allontanarsi dal Foro e lui, durante la notte, andò esule in Etruria. Il giorno del processo Cesone non si presentò e fu giustificato, in quanto esule volontario. Ma la vendetta dei tribuni della plebe non mancò di colpire: «Virginio volle tenere lo stesso i comizi, ma i suoi colleghi cui era stato interposto appello, sciolsero l'adunanza. Con grande rigore la cauzione fu richiesta al padre il quale fu costretto a vendere tutti i suoi beni e ad andare a vivere per un po' di tempo in un tugurio, oltre il Tevere, quasi fosse stato condannato al confino.» (Ibid., III, 13.)
E in quel tugurio, solo pochi mesi dopo, i senatori di Roma trovarono Cincinnato e la moglie quando dovettero nominare un dittatore, qualcuno di così bravo ed integro da sconfiggere i nemici della città ed evitare di vendicarsi.
Nel 460 a.C. la situazione esterna migliorò. Equi e Volsci non presero le armi contro Roma e puntualmente la lex Terentilia fu presentata alla discussione. In tale anno ci fu la rivolta guidata dal Appio Erdonio. I patrizi, naturalmente, presero la palla al balzo per fermare la discussione e far cadere la legge. Il console Publio Valerio Publicola abbandonò la seduta per esortare il popolo alla reazione contro i rivoltosi. I tribuni della plebe minimizzavano (forse a ragione) la portata della rivolta asserendo che i ribelli erano clientes e ospiti dei patrizi e che, una volta approvata la legge e resa inutile la loro azione, sarebbero scomparsi alla chetichella. Lo stallo fu eliminato dalla comparsa a Roma del dittatore di Tusculum, città alleata dei Romani, Lucio Mamilio, che in pratica costrinse i romani a liberare il loro stesso Campidoglio. Nell'azione Publio Valerio cadde colpito a morte ma prima di iniziare la battaglia aveva promesso che non si sarebbe opposto all'adunanza della plebe. Ovvio che il patriziato non avrebbe mantenuto la promessa; chi aveva promesso era morto e gli altri non avevano promesso nulla. L'altro console Gaio Claudio (fratello di Appio Claudio console nel 471 a.C.) non volle accettare la discussione con il pretesto di aspettare l'elezione di un collega. In dicembre, dopo mesi di roventi e inutili discussioni fu eletto console Lucio Quinzio Cincinnato, proprio il padre del giovane Cesone processato l'anno precedente. Cincinnato dichiarò che avrebbe mosso guerra a Volsci ed Equi e quindi la discussione delle leggi sarebbe stata sospesa; i romani sarebbero stati soggetti alla legislazione militare. L'esercito fu convocato al Lago Regillo.
La questione si infiammò fra diatribe che vedevano protagonisti i tribuni della plebe da una parte e i consoli dall'altra. Argomento: "Cincinnato era un privato cittadino quando Publio Valerio aveva guidato la riscossa contro Erdonio impegnando la plebe col giuramento di obbedienza, quindi Cincinnato non poteva costringere il popolo ad obbedire in forza dello stesso giuramento"; si diceva inoltre che Cincinnato volesse portare al Lago Regillo anche degli auguri per consacrare il luogo della riunione. Questo, secondo le leggi in vigore, avrebbe potuto dare al patriziato la possibilità di far abrogare dai comizi centuriati quanto deciso a Roma. Un miglio fuori Roma non esisteva diritto di appello; perfino i tribuni che in città erano sacrosancti (intoccabili) fuori dal pomerio sarebbero ridiventati cittadini comuni. I littori con le loro scuri potevano operare senza limitazioni legali. Portata in Senato la questione, i patres salomonicamente decretarono che per quell'anno la legge non sarebbe stata presentata ma che i consoli (Cincinnato) non facessero uscire l'esercito dalla città. Uno stentato pareggio.
Nel 459 a.C. i nuovi consoli, Quinto Fabio Vibulano e Lucio Cornelio Maluginense riuscirono a sottrarsi alla pressione dei tribuni e furono "costretti" a portare l'esercito ad Anzio, una colonia che, sotto l'attacco di Volsci ed Equi rischiava di passare al nemico. Eliminato che fu quel pericolo si apprese che gli Equi erano entrati a Tusculo e Roma, che appena l'anno precedente era stata aiutata dai Tuscolani contro Appio Erdonio non poté nemmeno pensare di non aiutare i socii. L'esercito fu dirottato e riportò una chiara vittoria.
Ai fini di politica interna i tribuni della plebe continuarono a ribadire che l'esercito era tenuto fuori dalla città con delle scuse proprio per bloccare l'iter della legge ma che avrebbero continuato lo stesso a operare per la discussione. Il prefetto della città Lucio Lucrezio ottenne di attendere il ritorno dei consoli. Inoltre si scoprì che il processo a Cesone Quinzio era stato supportato da false accuse e che il figlio di Cincinnato era innocente. I tribuni contestarono l'apertura del processo a Volscio, (tribuno della plebe quando aveva lanciato l'accusa a Cesone Quinzio) come trucco per fermare la discussione della lex Terentilia. Della legge non si parlò più per tutto l'anno perché i tribuni si concentrarono nella campagna elettorale per la loro rielezione.
L'anno successivo, il 458 a.C., vide il consolato di Gaio Nauzio Rutilo e Lucio Minucio Esquilino Augurino. Questi si ritrovarono con due questioni in sospeso: il processo a Volscio, contestato dalla plebe e l'ormai annosa presentazione della lex Terentilia contestata dal patriziato. La battaglia politica infuriava con l'entrata in scena anche di Tito Quinzio Capitolino, questore, che era stato console tre volte e che perseguiva l'accusatore del nipote con grande decisione. Sul versante opposto il tribuno Virginio si distingueva come il più accanito difensore della lex Terentilia. Si arrivò alla concessione di due mesi ai consoli perché studiassero la legge e ne comprendessero gli inganni nascosti. Questo riportò la pace interna a Roma.
A far fermare tutto furono nuovamente gli Equi, comandati da Gracco Clelio attaccarono Tusculo. I tuscolani chiesero aiuto a Roma. I consoli indissero la leva e i tribuni come prassi quasi automatica- si preparavano a bloccarne lo svolgimento. Arrivarono però anche i Sabini che presero a saccheggiare il territorio fino quasi alle porte di Roma. Nonostante le proteste dei tribuni, la plebe prese le armi. I consoli in carica, però non furono in grado di guidare l'esercito in maniera efficace. Venne eletto dittatore Lucio Quinzio Cincinnato. Questo è il momento del famoso episodio della visita dei senatori a Cincinnato che trovano intento a lavorare i campi. Dopo la battaglia del Monte Algido Cincinnato ritornò vincitore a Roma e, come si sa depose la carica di dittatore. (Celebrato per secoli per quest'atto, non viene ricordato che Cincinnato, per deporre la carica, attese l'esito del processo a Volscio che -ovviamente anche se, pare, giustamente - fu dichiarato colpevole ed esiliato). Altre battaglie sull'Algido e ad Ereto permisero al patriziato di rinviare ancora la discussione della Terentilia col pretesto dell'assenza da Roma dei consoli.
L'anno seguente, 457 a.C., tutto ricominciò. La plebe era riuscita a far eleggere gli stessi tribuni. e fu ripresentata la stessa legge. Gli Equi attaccarono e distrussero il presidio romano di Corbione. I consoli ricevettero l'incarico di portare la guerra agli Equi. La legge fu bloccata. Ma i tribuni con la scusa che per cinque anni erano stati presi in giro, chiesero che il loro numero fosse portato a dieci. I patrizi, sotto la pressione esterna dovettero accettare chiedendo in cambio di non vedere sempre eletti gli stessi tribuni. Le guerre esterne furono combattute e della lex Terentilia non si parlò.
Il 456 a.C. vide consoli Marco Valerio Massimo Lettuca e Spurio Verginio Tricosto Celiomontano che ebbero la fortuna di non vedere i tribuni presentare la Terentilia ma ne fu approvata la lex Icilia de Aventino pubblicando che permetteva a tutti di costruirsi una casa sull'Aventino.
Nel 455 a.C. gli stessi dieci tribuni dell'anno prima presentarono ai nuovi consoli Tito Romilio Roco Vaticano e Gaio Veturio Cicurino la proposta della lex Terentilia dicendo che si vergognavano, in dieci di vedere bloccata la legge per un biennio dopo che per cinque anni se ne era discusso. La lotta politica-legislativa venne al solito fermata dall'attacco degli Equi ai Tusculani. L'esercito fu spedito sull'Algido e tornò con un ingente bottino. La lex Terentilia non fu, naturalmente, messa in discussione.
Il 454 a.C. vide come fatti salienti il processo intestato agli ex consoli dell'anno precedente. Il bottino preso agli Equi sul monte Algido era stato versato alle esauste casse dell'Erario. Questo non fu gradito alla plebe. I consoli appena usciti di carica furono portati in tribunale. Nonostante l'accanita difesa da parte dei patrizi furono condannati. Tito Romilio dovette pagare una multa di 10.000 assi e Gaio Veturio ne dovette pagare 15.000. Il risultato del processo non intimorì i nuovi consoli Spurio Tarpeio Montano Capitolino e Aulo Aternio Varo Fontinale i quali affermarono che a costo di dover pagare anch'essi enormi cifre, non avrebbero permesso l'approvazione della legge.
«E la legge Terentilia finì con l'essere definitivamente accantonata perché, a forza di essere continuamente presentata, era divenuta inadeguata. [...] Tuttavia tutti convenivano sull'opportunità di avere leggi comuni [..] Fu mandata ad Atene una commissione formata da Spurio Postumio Albo, Aulo Manlio e Publio Sulpicio Camerino perché fossero copiate le famose leggi di Solone.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, III, 33, Newton Compton, Roma, trad.: G.D. Mazzocato)
Nel 451 a.C. è eletto console con Tito Genucio Augurino, Appio Claudio Crasso, figlio del famigerato Appio Claudio che era stato console nel 471 a.C. e che nel 486 a.C. aveva determinato la condanna a morte di Spurio Crassio Vecellino, console dell'anno precedente, reo di avere proposto la legge Cassia agraria, osteggiata dai patrizi con in testa lo stesso Appio Claudio Inregillense, nonno di questo Appio Claudio.
Fu allora che esplose l'esigenza di pubblicare i mos, gli usi e costumi tramandati oralmente fra i patrizi, e di promulgarli quindi come le ''leggi delle XII tavole'', mentre il solo studio delle Leggi rappresentava un altro importante fattore di discordia. Affidate alle nozioni orali, le leggi erano poco "trasparenti" e le sentenze potevano variare di molto in relazione a chi era accusato o accusatore.
Nello stesso 451 a.C. quindi, è istituito il primo decemvirato (= dieci uomini da vir=uomo) per cui, per compensare la perdita della carica consolare, i nuovi consoli sono inseriti nel decemvirato, che assume il potere assoluto mentre tutte le altre magistrature restano vacanti durante il loro incarico, a cui è affidato il compito di mettere per scritto gli antichi mores (usi e costumi) romani in quelle che prenderanno il nome di 'Leggi delle XII tavole', che in precedenza solo i patrizi potevano conoscere e tramandarsi oralmente, promuovendole come leggi dell'ordinamento romano.
Uccisione di Virginia (1882) di Camillo Miola (1840-1919). Napoli, museo di Capodimonte. |
Roma quando l'Aventino non era ancora stato urbanizzato. |
Questo evento scatenò gravi tumulti, prima fra la folla presente, ma poi questi si estesero all'esercito accampato fuori Roma, che marciò quindi sulla città prendendo possesso dell'Aventino.
E comunque, dopo la caduta dei decemviri e ristabilite le prerogative delle istituzioni repubblicane, con i consoli Lucio Valerio Potito e Marco Orazio Barbato e i vari Tribuni della plebe, Appio Claudio fu accusato da Lucio Verginio, primo degli eletti tra i Tribuni, di aver falsamente affermato che una cittadina romana, sua figlia Verginia, fosse una schiava.
Al di là dell'arroganza dei secondi decemviri, la redazione scritta delle Leggi delle XII tavole (Duodecim tabularum leges, 451-450 a.C.), è stato un importante passo avanti per il diritto romano, ha limitato le interpretazioni di parte e soprattutto le ha rese pubbliche, essendo affisse nel Foro pubblico, mentre in precedenza solo i patrizi conoscevano, tramandandoseli oralmente, tali mos (= usi e costumi). Proprio per questo esse furono determinanti per lo stato di diritto nel popolo romano, anche se ci si era solo limitati alla pubblicazione dei mos in ius: prevedevano per esempio ancora il divieto di matrimonio tra patrizi e plebei. Tale divieto sarà abolito nel 445 a.C. con la promulgazione della Lex Canuleia.
Il popolo, ad ogni modo, riprese almeno una parte del potere che aveva perduto durante il periodo di Decemviri tanto che dopo l'ennesima battaglia sul monte Algido contro Sabini ed Equi, per la prima volta venne decisa dal popolo l'attribuzione del trionfo ai consoli.
Nel 445 a.C. è approvata la legge, la Lex Canuleia, che permetteva matrimoni "misti" fra patrizi e plebei, vietati dai Decemviri. Come ricorda Cicerone: «(I decemviri)... stabilirono una legge disumana che fu abrogata dalla legge Canuleia» (Marco Tullio Cicerone, de re publica, II, 63)
Nel 431 a.C. ricominciano anche le azioni contro i Volsci e gli Equi. Questi, dopo aver quasi vinto, ricevono una solenne sconfitta nella battaglia del Monte Algido da parte del dittatore Cincinnato. La tranquillità dei Veienti diede a Roma quindi, la possibilità di operare nei quadranti meridionale e orientale senza temere attacchi dal nord. E, ogni volta che il nemico si ritirava, scoppiavano liti politiche in città. Cesone Quinzio, il figlio di Cincinnato, che si opponeva alla promulgazione della lex Terentilia, fu accusato di omicidio e costretto all'esilio (in Etruria), il padre, per pagare la mallevadoria, dovette trasferirsi ad arare personalmente i suoi campi oltre il Tevere.
Dal 409 a.C. la carica di questore divenne accessibile alla plebe: si trattava di una conquista importante, perché, dalla riforma di Silla del 81 a.C. in poi, chi era stato questore entrava a far parte di diritto del Senato.
Nel 406 a.C. i Romani iniziano una guerra contro Veio che durerà dieci anni e che si concluderà con la distruzione della città etrusca (data probabilmente anticipata di qualche anno rispetto agli eventi reali) e conquistano inoltre Anxur (Terracina).
Una battaglia politica si scatenò fra i tribuni della plebe e il tribuno militare con potestà consolare Appio Claudio Crasso (discendente della famigerata stirpe dei Claudii), lasciato a Roma proprio per contrastarli nel Foro. Infine furono i Veienti ad aiutare il patrizio; con un contrattacco notturno distrussero le macchine da assedio e i terrapieni di Roma, ricompattando per l'ennesima volta la città. Alcuni appartenenti all'ordine equestre si dissero disposti a combattere pagandosi il cavallo, al che molti plebei si dissero appartenere all'ordine pedestre e di voler combattere volontariamente.
I contrasti fra gli ordini proseguirono comunque per anni finché nel 367 a.C. i tribuni della plebe Gaio Licinio Stolone e Lucio Sestio Laterano riuscirono a far promulgare le leges Liciniae Sextiae con cui, fra le altre norme, si stabiliva che uno dei due consoli potesse essere plebeo.
Consoli Romani. |
- imperium (potere di stampo militare che, come denuncia il suffisso -ium, ha natura dinamica, e che conferisce al suo titolare la facoltà di impartire ordini ai quali i destinatari non possono sottrarsi, con conseguente potere di sottoporre i recalcitranti a pene coercitive di natura fisica (fustigazione o, nei casi più gravi, decapitazione) o patrimoniale (multe); simboli esteriori di questo potere sono i fasci littori) e
Tivoli, tempio romano a Ercole vincitore. |
Concerto di flauto e la moglie di Diomede (1861) di Goustave Boulanger. |
I fratelli Gracchi. |
La principale divisione politico-sociale a Roma era stata quella tra patrizi e plebei, ma nel 123 a.C. Gaio Sempronio Gracco introduce tra le due classi una terza, l'Ordo Equestris. La Lex Sempronia iudiciaria stabiliva infatti che i giudici dovessero essere scelti tra i cittadini di censo equestre e cioè di età tra i trenta e i sessant'anni, essere o essere stato un eques o comunque avere il denaro per acquistare e mantenere un cavallo e non essere un senatore. Il termine equites perciò, dall'iniziale identificazione di soldati a cavallo, passò prima a indicare chi quel cavallo avesse o avrebbe avuto la possibilità di acquistarlo per poi indicare chi avesse la possibilità di essere eletto come giudice. La corruzione delle province era ormai un cancro diffuso. I governatori, d'accordo con i Pubblicani (appaltatori delle imposte, pagavano allo stato un canone per esigere per proprio conto le tasse) gonfiavano i tributi da riscuotere e se ne intascavano i profitti. I governatori erano sottoposti al controllo del Senato ma spesso erano loro stessi senatori e a nulla era valso, nel 149 a.C. un tribunale creato proprio per questi casi. Gaio Gracco propose che i tribunali fossero assegnati all'ordine equestre, sfruttando la forte rivalità esistente tra le due fazioni.
Nel 121 a.C. Gaio Sempronio Gracco aveva perso molta della sua popolarità, non era stato rieletto al tribunato e dovette difendersi da accuse pretestuose, come quella di aver dedotto nuovamente Cartagine, atto che gli indovini avevano dichiarato come infausto. Gaio il giorno della votazione relativa all'abrogazione proposta dal senato della legge riguardante la fondazione delle colonie, si presentò all'assemblea per difenderla. I nobili, capeggiati da Publio Cornelio Scipione Nasica Corculo gli gettarono contro il collega Marco Livio Druso e il triumviro Gaio Papirio Carbone. Scoppiarono una serie di disordini che il nuovo console Opimio, eletto dal partito oligarchico, ebbe mano libera per reprimere. Gaio e i suoi sostenitori si rifugiarono sull'Aventino per resistere armati, ma quando Opimio promise l'impunità a chi si fosse arreso e consegnato, l'ex tribuno, rimasto quasi solo, si fece uccidere dal suo schiavo Filocrate nel lucus Furrinae sul Gianicolo. Una feroce repressione portò alla morte nelle carceri di quasi 3.000 dei suoi partigiani. La memoria dei Gracchi fu maledetta e alla madre fu proibito d'indossare le vesti a lutto per il figlio defunto. «La sconfitta dei Gracchi consolidò apparentemente il potere dell'aristocrazia, ma dimostrò anche che questa, rifiutandosi a qualsiasi soddisfazione delle esigenze dei plebei e degli Italici, non si reggeva ormai più che con la violenza.» (Enciclopedia Italiana Treccani alla voce "Gracco, Gaio Sempronio").
Come ricompensa per avere sventato il pericolo dell'invasione barbarica di Cimbri, Teutoni e Ambroni, Gaio Mario viene rieletto console anche per l'anno 100 a.C. Gli avvenimenti di quell'anno, tuttavia, non gli furono propizi. Nel corso di questo anno il tribuno della plebe Lucio Appuleio Saturnino richiese con forza che si varassero riforme simili a quelle per cui si erano in passato battuti i Gracchi. Propose quindi una legge per l'assegnazione di terre ai veterani della guerra appena conclusasi e per la distribuzione da parte dello stato di grano a prezzo inferiore a quello di mercato. Il senato si oppose a queste misure, provocando così lo scoppio di violente proteste, che presto sfociarono in una vera e propria rivolta popolare, e a Mario, come console in carica, fu chiesto di reprimerla. Sebbene egli fosse vicino al partito popolare, il supremo interesse della repubblica e l'alta magistratura da lui rivestita gli imposero di assolvere, sebbene riluttante, a questo compito. Dopodiché lasciò ogni carica pubblica e partì per un viaggio in Oriente e Roma conobbe alcuni anni di relativa tranquillità.
Nell'89 a.C., dopo le Guerre Sociali con gli italici, che ha rischiato di perdere, Roma concede la cittadinanza romana alle popolazioni italiche mentre Gaio Mario, contrariamente alle prescrizioni della legge, riceve il mandato di Console per l'ennesima volta. Gaio Mario (in latino: Gaius Marius, nelle epigrafi: C·MARIVS·C·F·C·N; Cereatae, Arpinium, 157 a.C. - Roma, 13 gennaio 86 a.C.) è stato un militare e politico romano, per sette volte console della Repubblica romana. La carriera di Gaio Mario è particolarmente emblematica della situazione nella tarda repubblica, in quanto si sviluppa attraverso fatti e circostanze che, in seguito, porteranno alla caduta della Repubblica romana.
Nonostante le origini aristocratiche, la famiglia di Giulio Cesare non era ricca per gli standard della nobiltà romana, né particolarmente influente. Ciò rappresentò inizialmente un grande ostacolo alla sua carriera politica e militare, e Cesare dovette contrarre ingenti debiti per ottenere le sue prime cariche politiche. Inoltre, negli anni della giovinezza dello stesso Cesare, lo zio Gaio Mario si era attirato le antipatie della nobilitas repubblicana (anche se successivamente Cesare riuscì a riabilitarne il nome) e questo metteva anche lo stesso Cesare in cattiva luce agli occhi degli optimates. Il padre, suo omonimo, era stato pretore nel 92 a.C. e aveva probabilmente un fratello, Sesto Giulio Cesare, che era stato console nel 91 a.C. e una sorella, Giulia, che aveva sposato Gaio Mario intorno al 110 a.C.. Sua madre era Aurelia Cotta, proveniente da una famiglia che aveva dato a Roma numerosi consoli. Il futuro dittatore ebbe due sorelle, entrambe di nome Giulia: Giulia maggiore, probabilmente madre di due dei nipoti di Cesare, Lucio Pinario e Quinto Pedio, menzionati insieme a Ottaviano nel suo testamento, e Giulia minore, sposata con Marco Azio Balbo, madre di Azia minore e di Azia maggiore, a sua volta madre di Ottaviano.
Nell'88 a.C. inizia la Guerra Civile Romana, che nell' 82 a.C. vedrà il conflitto tra la fazione degli ottimati, guidata da Silla, e quella dei populares, o mariani perché seguaci del sette volte console Gaio Mario morto nell'86 a.C., guidata dai consoli Gaio Mario il Giovane e Gneo Papirio Carbone. Quando nell'88 a.C. Mario fu dichiarato nemico pubblico da Silla e costretto a fuggire da Roma, si rifugiò tra le paludi di Minturnae. I magistrati locali decretarono la sua morte per mano di uno schiavo Cimbro il quale, tuttavia, mosso a compassione o intimorito non diede corso alla esecuzione. Il busto bronzeo di Gaio Mario si trova collocato attualmente nel Municipio di Minturno. Plutarco, in “Marium”, scrisse che i Minturnesi, mossi a compassione, lo aiutarono a imbarcarsi sulla nave di Beleo, diretta verso l'Africa. Mentre Silla conduceva la sua campagna militare in Grecia, a Roma il confronto fra la fazione conservatrice di Ottavio, rimasto fedele a Silla, e quella popolare e radicale di Cinna fedele a Mario si inasprì sfociando in aperto scontro. A questo punto, nel tentativo di avere la meglio su Ottavio, Mario, insieme al figlio, rientrò dall'Africa con un esercito ivi raccolto e unì le proprie forze a quelle di Cinna, che aveva radunato truppe filomariane ancora impegnate in Campania contro gli ultimi socii ribelli. Gli eserciti alleati entrarono in Roma, di modo che Cinna fu eletto console per la seconda volta e Mario per la settima. Seguì una feroce repressione contro gli esponenti del partito conservatore: Silla fu proscritto, le sue case distrutte e i suoi beni confiscati. L'armata di Silla, dopo aver concluso vittoriosamente la campagna nel Ponto, rientrò in Italia sbarcando a Brindisi nell'83 a.C., e sconfisse il figlio di Mario, Gaio Mario il Giovane, che morì in combattimento a Preneste, a circa 50 chilometri da Roma. Gaio Giulio Cesare, nipote della moglie di Mario, sposò una delle figlie di Cinna. Dopo il ritorno di Silla a Roma si instaurò un regime di restaurazione che perpetrò le più feroci repressioni, tanto che Giulio Cesare fu costretto a fuggire in Cilicia, dove rimase fino alla morte di Silla, nel 78 a.C.
Il logo della Repubblica di Roma, Senatus Popolus Quirites Romani. |
Verso la fine della Repubblica si assistette a casi di passaggi di membri del patriziato all'ordine plebeo; famoso quello di Publio Clodio Pulcro intorno al 60 a.C. in quanto, mentre ai plebei era concesso di salire a tutte le cariche, ai patrizi non era consentito essere eletti tribuni della plebe e ciò, paradossalmente, era una limitazione delle possibilità del cursus honorum.
Pollice verso (1872) - Jean-Léon Gérôme. |
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