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martedì 22 gennaio 2019

Storia dell'Europa n.12: dal 1.320 al 1.200 p.e.v. (a.C.)

Maschera in oro del re miceneo
Agamennone. Clicca sull'immagine
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Dal 1.320 a.C. - Apogeo della Civiltà Elladica, o Micenea. Nei miti e leggende della cultura micenea, l'epopea di Teseo, Arianna e del Minotauro, indica pesanti tributi imposti da Creta, nella fase minoica, ad Atene. Così, il mito di Giasone e degli argonauti alla ricerca del vello d'oro, indica l'esplorazione elladico-micenea delle coste del Mar Nero a bordo di natanti, nel mito rappresentati dalla nave Argo, probabilmente una pentecontera. La pentecontera era una nave a propulsione mista, essendo sospinta sia dalla vela che da remi e fu la prima imbarcazione adatta alle lunghe navigazioni. Il suo nome deriva proprio dai cinquanta vogatori disposti, venticinque per lato e in un unico ordine, sui due fianchi della nave.
Antica pentecontera greca.
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L'esemplare più famoso appartiene al mito: la nave Argo e i suoi (circa) cinquanta Argonauti. In seguito il termine andò a designare un'intera classe di navi, anche più potenti, sia a un ordine (monere) che a due (diere), dotate anche di più di 50 rematori. Si trattava sostanzialmente di una nave da guerra, a fondo piatto e dotata di un rostro per le manovre di speronamento. Le sue dimensioni sono stimate in circa 38 metri di lunghezza per 5 metri di larghezza.

Europa intorno al 1.300 a.C. con i territori dei Liguri, Celti, Italici (Umbri,
Opici, Ausoni, Japigi, Enotri, liguri Siculi e Sicani), Germani, Slavi
(Venedi-Sclavini e Orientali) Traci, Frigi, Illiri (fra cui i Venetici), Greci
(Elleni e Pelasgi), Baltici, Sciti (Indo-Iraniani, Sarmati e Alani) e Anatolici.

Dal 1.300 a.C. 
- Tucidide (Alimunte in Attica, 460 a.C. circa - dopo il 404 a.C., o secondo altri, dopo il 399 a.C.) riferisce come i Sicani si sarebbero stabiliti in Sicilia scacciati dai Liguri dal loro territorio originario presso il fiume Sicano (l'attuale Xùcar, Jùcar in castigliano, a sud di Valencia, vedi la mappa dei 7 fiumi di seguito) nella penisola iberica, prima della guerra di Troia. I Sicani, avrebbero addirittura preceduto in Trinacria i Ciclopi e i Lestrigoni, e da più fonti risulta che fossero in realtà Iberi stanziati presso il fiume Sikanos in Iberia (Stefano di Bisanzio ed Ecateo di Mileto, 550 - 476 a.C., ricordavano anche una città iberica chiamata "Sikanè"), da dove i Liguri li avrebbero scacciati. Da loro l'isola, che prima si chiamava Trinacria, finì col prendere il nome di Sicania. 
Carta geografica dei sette fiumi importanti per la storia dei
Liguri e dei confini delle loro aree di influenza:
Guadalquivir (l'antico Tartesso o Betis) , Jùcar
o Axucar (l'antico Sicano), Ebro, Rodano, Var (Varo),
Magra e Arno. Clicca sull'immagine per ingrandirla.
Ai tempi di Tucidide i Sicani avrebbero abitato la parte occidentale della Sicilia. Dionigi di Alicarnasso, storico greco del I secolo a.C., nelle Antichità romane, parlando degli aborigeni italici, riporta l'opinione di alcuni secondo i quali essi sarebbero stati coloni dei Liguri e definisce questi ultimi "vicini degli Umbri", riportando che abiterebbero "molte parti dell'Italia e alcune parti della Gallia" ma che non si conosce il loro luogo di origine. Riferisce inoltre dei versi del "Trittolemo" di Sofocle, che enumera i Liguri lungo la costa tirrenica a nord dei Tirreni e ancora riprende la notizia di Tucidide, riferendo come i Sicani fossero una popolazione di origine iberica, scacciata dal loro originario territorio dai Liguri, mentre, secondo Filisto da Siracusa, gli stessi Siculi sarebbero stati Liguri, cacciati dalla loro terra dagli Umbri e dai Pelasgi, che passarono in Sicilia sotto la guida di Siculo, tre generazioni o ottant' anni prima della guerra di Troia, avvenuta presumibilmente nel 1.194/1.184 a.C. Infine riferisce che i Liguri occupavano i passi delle Alpi e avrebbero combattuto contro Ercole (o contro Prometeo, secondo il "Prometeo liberato" di Eschilo). Nell'Eneide i Liguri sono una delle pochissime popolazioni che combattono al fianco di Enea nella guerra contro i Rutuli. Virgilio nomina anche i loro due re, Cunaro e il giovane Cupavone, il figlio e successore di Cicno, figura già nota nella mitologia greca.

Sarcofago di Ahiram, tomba V del
XIII sec. a.C., ora al National Museum
di Beirut, e proveniente dalla
necropoli regale di Biblo.
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- Sono del XIII secolo a.C. le prove che i Fenici adottarono, primi fra tutti, una scrittura alfabetica, usando un alfabeto fonetico.
Fenici hanno abitato le coste orientali del mediterraneo dal 2100 al 539 a.C. ed erano un popolo di navigatori e commercianti; il loro nome deriva dal colore rosso porpora, di cui erano esperti produttori. La parte più a sud del loro territorio corrisponde alla terra di Canaan, abitata anticamente dai Cananei, spesso nominati nella Bibbia. Inizialmente i fenici scrivevano in cuneiforme, ma poi, a partire dal XIII secolo a.C., svilupparono, primi fra tutti, una scrittura alfabetica.
Sarcofago di Ahiram, particolare
dell'iscrizione. Clicca sull'immagine
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I fenici scrivevano su righe da destra a sinistra. Il loro alfabeto comprendeva 22 segni consonantici, mentre per le vocali non si usava alcun segno (è un abjad, termine che indica un alfabeto solo consonantico);
Alfabeto Canaanita Fenicio, da cui il Greco,
il tardo Greco e il Latino. Clicca
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 in effetti la loro lingua, come del resto le lingue semitiche in genere, non aveva un vocalismo molto complesso e non era necessario scrivere le vocali perché si potevano facilmente dedurre dal contesto. Le lettere dell’alfabeto furono ricavate dagli antichi segni pittografici: si scelse una parola che iniziava con una determinata consonante; il suo simbolo venne poi semplificato e usato per rappresentare sempre quella consonante. Il sistema alfabetico era molto più semplice rispetto alle scritture pittografiche e ideografiche diffuse a quel tempo, come l’egiziano o il cuneiforme; permetteva di essere compreso e scritto più facilmente da tutti, non solo dagli scribi e dalla casta regale e sacerdotale.Il più antico reperto che riporta iscrizioni in alfabeto fenicio è il sarcofago di Ahiram, un'antico re fenicio, che fu ritrovato a Byblos nel 1923 e che risale al XIII° secolo a.C., ma non ci sono pervenuti molti documenti, a parte qualche iscrizione di carattere religioso e ufficiale; molto di ciò che hanno scritto i fenici è andato perduto. I fenici diffusero il loro sistema presso molte altre popolazioni con cui vennero a contatto durante i loro viaggi per mare: l’alfabeto Aramaico Greco mostrano chiari segni di derivazione dal fenicio; e perfino scritture dell’India e dell’Asia ne portano traccia. In pratica, l’alfabeto fenicio è la radice comune da cui si sono sviluppati quasi tutti i moderni alfabeti.

Carta del mondo con la diffusione dei caratteri degli alfabeti
usati: il Latino in azzurro, l'arabo in verde, il cirillico in viola,
il sanscrito in giallo ocra, altri caratteri indi in giallo, e
tutti i caratteri usati nel mondo.
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Alcuni studiosi Albanesi sostengono come dai Pelasgi siano derivati Tirreni ed Etruschi oltre a Illiri Albanesi e come i linguaggi di questi popoli siano quindi affini. Seguono alcune ipotesi di uno di loro, Nermin Vlora Falaski da http://www.thelosttruth.altervista.org/SitoItalian/CasoPelasgico.html: "I Pelasgi adottano l'alfabeto fonetico fenicio, adattandolo alla loro lingua: si definirà poi alfabeto Etrusco. Diodoro Siculo ci informa che i poeti preomerici si esprimevano in lingua Pelasgica, e dalla stessa fonte, apprendiamo che almeno nel 1.000 a.C. si usava quella stessa scrittura. Inoltre Diodoro riferisce che furono i Pelasgi a portare per primi l’alfabeto in Italia e nel resto dell’Europa. Plinio il Vecchio conferma le informazioni di Diodoro. Virgilio (Eneide, VIII, V. 62-63), scrive: “Si dice che i primi abitatori della nostra Italia furono i Pelasgi”. Dagli autori dell’antichità abbiamo appreso che prima dell’arrivo delle popolazioni indoeuropee che sarebbero divenuti i Greci (Ioni, Achei, Eoli e Dori), il territorio dove si stabilirono si chiamava Pelasgia. Le varie fonti ci informano inoltre, che i Greci impararono dai Pelasgi non solo l’arte della lavorazione dei metalli, della costruzione delle mura, ma appresero, perfezionandolo, il loro modo di scrivere e facendo proprie le loro divinità. Varie popolazioni, ma in particolar modo quella pelasgica, hanno dato al paese il loro nome. Pausania (Arcadia, Libro VIII, 1,4,6) scrive: “Gli Arcadi dicono che Pelago fu il primo a nascere nella terra dell’Arcadia. Dato che Pelago divenne re, il paese si chiamò Pelasgia in suo onore”. Pindaro (Carminia, Fragmenta Selecta, I, 240) scrive: “Portando un bel dono, la Terra fece nascere per primo l’essere umano nell’Arcadia, il Divino Pelasgo, molto prima della luna”. La citazione di Pindaro potrebbe apparire valida solo come ispirazione poetica, forse perfino mitologica, però malgrado ciò, scienziati posteriori hanno dimostrato che la luna è un frammento staccato dal nostro globo. Omero menziona i Pelasgi fra gli alleati dei Troiani, (Illiade, II, 840-843) e narra che Achille pregava lo “ZEUS PELASGICO DI DODONA” (Iliade, XVI, 223). Omero li menziona anche come “POPOLI di CRETA” , (Odissea, XIX, 177). Lo storico Eforo riferisce di un brano di Esiodo che attesta la tradizione di un popolo dei Pelasgi in Arcadia e sviluppa la teoria che fosse un popolo di guerrieri diffusosi da una "patria" che aveva annesso e colonizzato tutte le regioni della Grecia in cui gli autori antichi fanno cenno a loro, da Dodona a Creta alla Triade fino in Italia, dove i loro insediamenti sono ben riconoscibili ancora nel tempo degli Elleni e sono in stretta relazione con i "Tirreni" (da cui derivarono gli Etruschi). La caratteristica struttura della muratura della cittadella di Atene ha fatto sì che tutte le costruzioni in blocchi non squadrati e senza l'uso di malta abbiano avuto il nome, di "muratura pelasgica" esattamente come talvolta sono dette "mura ciclopiche", cioè costruite dai Pelasgi: coloro che insegnarono ai greci i metodi delle costruzioni, il modo di scrivere e la cultura. Nermin Vlora Falaski, nel suo libro "Patrimonio linguistico e genetico", ha decifrato iscrizioni Etrusche e Pelasgiche con l'odierna lingua Albanese. Questo proverebbe che gli Albanesi (discendenti degli Illiri) siano discendenti dei Pelasgi, una delle più antiche stirpi che popolò l’Europa. Ecco alcune traduzioni di Falaski:
"Dunque, in Italia esiste la località dei TOSCHI (la Toscana), così come i Toschi abitano nella “Toskeria”, nell’Albania meridionale. (Molti autori sostengono che la parola Tosk, oppure Tok, sia il sinonimo di DHE, tanto che oggi in albanese si usa indifferentemente la parola DHE che quella TOK per dire “terra”).
In Toscana si trova un’antichissima città, verosimilmente fondata dai Pelasgi, che si chiama Cortona, (nota: in Albanese: COR= raccolti, TONA= nostri, cioè “i nostri raccolti”). Dalla vasta e fertile pianura della Val di Chiana si accede a una ripida collina, in cima alla quale si trova un bellissimo castello, trasformato in museo archeologico. In mezzo ad un grosso patrimonio epigrafico, vi è anche una iscrizione particolarmente bella e interessante, su un sarcofago con addobbi floreali.
Su questo sarcofago appare la seguente scritta:
Scritta Etrusca tradotta con la lingua albanese, che testimonia la
derivazione comune delle lingue Etrusca e Illirico-Albanese.
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La voce verbale â o âsht (in Italiano è) si usa ancora nel dialetto dell’Albania settentrionale e nel Kossovo, mentre nel sud e nella lingua ufficiale, che è quella dei Toschi, si impiega la voce ësht. Le varie fonti ci informano che i Greci impararono dai Pelasgi non solo l’arte della lavorazione dei metalli, della costruzione delle mura, ma appresero, perfezionandolo, il loro modo di scrivere e fecero proprie le loro divinità, come per esempio DE-MITRA (Dhe = terra, Mitra = utero, cioè la DEA MADRE TERRA), la greca Demetra, nonché AFER-DITA (Afer = vicino, Dita = Giorno), la greca Afrodite, più tardi chiamata Venus dai Romani, oggi Venere). I Pelasgi furono chiamati anche Popoli del Mare”, poiché erano abili e liberi navigatori. I geroglifici egizi di Medinet Habu, parlano dei Popoli del Mare, ed elencano fra gli invasori anche i Twrs, nome che è stato confrontato con il greco Turs-anòi (dorico) e Tyrs-enòi (ionico) e Tyrrh-enoi (attico) e con il latino Tus-ci (da Turs-ci) ed E-trus-ci. Tutte queste scoperte avvalorano l'ipotesi della derivazione di IlliriTirreni ed  Etruschi dai Pelasgi, le prime popolazioni indeuropee a raggiungere il Mediterraneo e l'Europa". L'Arcadia stessa rimase un territorio abitato dai discendenti dei Pelasgi.

- Queste ipotesi hanno scatenato discussioni anche violente, e riporto anche alcune considerazioni tratte da http://wikipedia.sapere.virgilio.it/wikipedia/wiki/Discussione:Pelasgi: "Un'affinità tra la lingua etrusca/lemnia con la lingua albanese è stata avanzata da Zacharia Mayani, e la stessa somiglianza è stata notata in precedenza da altri studiosi come G. I. Ascoli, 1877, É. Schneider, 1889, J. Thomopoulos, 1912, G. Buonamici, 1919. A mio avviso non bisogna mettere in discredito una teoria riconosciuta da molti eminenti studiosi. La spiegazione potrebbe essere molto semplice. Oggi molti linguisti riconoscono un'affinità dell'albanese più con la Lingua tracica che con le lingue dell'Illiria. La regione originaria degli albanesi potrebbe essere dunque la valle del fiume Strimone nel sudovest dell'attuale Bulgaria, dalla quale emigrarono nell'attuale Albania nel XI sec. d.C., a causa delle invasioni dei popoli slavi. Secondo lo storico tedesco G. Schramm gli albanesi potrebbero essere i discendenti della tribù tracia dei Bessi, sopravvissuta con la sua lingua fino almeno al VI sec d.C.. Sappiamo da Erodoto, che la regione Crestonia sulla costa alle foci dello Strimone, a nord del mare Egeo, era abitata ai suoi tempi dai pelasgi e dai tirreni. Quindi è abbastanza logico pensare che nella sua formazione la lingua albanese abbia preso in prestito molte parole da lingue affini all'etrusco."

- Con estremo interesse vanno lette le iscrizioni in geroglifico del tempio funerario del faraone Ramses III (1193-1155 a.C.) di Medinet Habu, che potrebbero contenere un chiaro riferimento, forse l'unico, archeologicamente documentato, dell'esistenza reale del popolo dei Pelasgi, chiamati dagli egizi: Peleset.
Antica raffigurazione dei Peleset, i Pelasgi che si
insediarono nel Canaan, chiamati poi Filistei,
da cui il nome Palestina.
L’iscrizione descrive un attacco effettuato nell’8º anno di regno del faraone Ramses III (il 1186 a.C.) da un’alleanza di cinque popoli, stretta dopo che ebbero distrutto la città di Ugarit (in Siria): tra costoro compaiono i Peleset (i Pelasgi), oltre agli Šekeleš (probabilmente  i Siculi), i Tjeker, gli Wešeš e i Denyen, con al seguito donne, bambini e masserizie. I popoli vengono complessivamente denominati "Popoli del mare, del nord e delle isole". Secondo l'iscrizione, gli Egizi respinsero gli invasori a Djahy, una località nella terra di Canaan. L'origine egea dei Peleset (e quella dei Tjeker e dei Denyen) è attestata dall'iconografia dei guerrieri riprodotti, che indossano un elmo piumato, trattenuto alla gola da una fascetta di cuoio e hanno in dotazione spade di tipo acheo. L'elmo piumato, infatti, trova riscontri anche nell'ambito egeo dell'età del bronzo e nel cretese disco di Festo. I Peleset si sarebbero poi stabiliti nel Canaan, dove avrebbero formato il popolo dei Filistei.

- A seguito degli accordi delle popolazioni italiche di origine indoeuropea (anche se definiti Aborigeni dagli storici antichi), con gli Umbri in prima fila, con i Pelasgi, dopo le loro campagne vittoriose contro i Liguri (chiamati Siculi), avvenute orientativamente alla fine dell'età del bronzo, gli Italici avrebbero concesso ai Pelasgi il popolamento dell'Etruria, che era stata dei Liguri, dove si sarebbero insediati e da cui sarebbe scaturita la civiltà Etrusca. Complessivamente, si è attribuita ai Pelasgi una vocazione migratoria e, in particolare, marinara: Eusebio, nel "Chronicon", considerava quella dei Pelasgi una "talassocrazia" che potrebbe essere stata la protagonista dell'avvicendamento al governo della Tartesso iberica, appannaggio dei liguri arcaici, che passerà poi sotto il controllo dei Cartaginesi nell'VIII secolo a.C., e gli riconosceva il dominio del Mar Mediterraneo, in un periodo che sarebbe iniziato novantanove anni dopo la caduta di Troia (quindi intorno al 1080 a.C.) e sarebbe durato altri ottantacinque, quindi fino al 995 a.C. circa (secondo la cronologia di Eratostene di Cirene, tra il 1082 e il 997 a.C.). Non a caso l'alfabeto adottato a Tartesso ha ispirato i 5 alfabeti nord-italici del V secolo, che vennero invece attribuiti a nuove adozioni dell'alfabeto etrusco: se i Pelasgi, considerati "Tirreni", avevano sottomesso Tartesso intorno al 1200 a.C. e da loro erano derivati gli Etruschi italici, il cerchio si chiude. Per il post "Dal linguaggio ligure al celtico nell'Italia settentrionale antica, i 5 alfabeti usati e il runico germanico", clicca QUI

- Il XIII sec. a.C. vede la fine degli abitati palafitticoli a Fiavè, in Trentino e non se ne conosce il motivo. Il periodo interglaciale che stiamo attualmente attraversando (periodo postglaciale) è iniziato circa 10 - 12.000 anni fa e la sua analisi avviene per mezzo di cronologie molto accurate grazie soprattutto agli studi di dendroclimatologia, in particolare per l'Europa. La preistoria è così divisa in 5 grandi periodi climatici che, a partire dall'ultima glaciazione (di Würm, terminata 15.000 anni fa) corrispondono a consistenti variazioni delle temperature che possiamo così riassumere:
- Preboreale 11.000-5.000 anni fa (B.P. = prima del presente), improvviso innalzamento della temperatura ma comunque fredda, più del presente,
- Boreale 9.000 -7.500 anni fa, variazioni climatiche simili a quelle odierne, temperature più calde ed inverni miti,
- Atlantico 7.500 -5.500 anni fa, periodo più caldo e più umido, + 4°C rispetto al presente,
- Subboreale 5.500-2.800 anni fa, ritorno ad un clima più freddo e piovoso,
- Subatlantico da 2.800 anni fa, caratterizzato da temperature superiori a quelle attuali.
All'interno del periodo Subboreale, un raffreddamento rispetto al periodo precedente comportò l'avanzata dei ghiacciai e precisamente questo si verificò intorno al 1.500 a.C. in Svizzera e intorno al 1.280 a.C. in nord Italia. Queste fasi coincidono straordinariamente con quelle della scomparsa dei ritrovamenti archeologici di palafitte nelle rispettive regioni. Forse, durante le fasi più calde del periodo contraddistinto come Subboreale, le coste lacustri furono densamente abitate da genti che attuavano uno stratagemma per mettere al riparo gli edifici dalle repentine e stagionali trasgressioni del livello dei laghi. Il problema che ci si pone allo stato attuale, riguarda la motivazione dell'esaurimento del fenomeno palafitticolo. In Emilia e Lombardia meridionale il fenomeno delle costruzioni palafitticole è leggermente sfasato cronologicamente rispetto alle zone alpine, è più tardo e passa sotto il nome di "terramare': il collasso dei due sistemi è tuttavia sincronico e allo stato attuale inspiegabile.

Ubicazione della cultura proto-celtica di Canegrate e
di quella propriamente celtica di Golasecca, con
indicati i nomi delle genti liguri, celtoliguri
e celtiche stanziate in quei territori e di quelle
che si stanziarono successivamente.
- Nel XIII secolo a.e.v., sulle sponde dell'Olona, fiorisce la cultura proto-celtica di Canegrate, che ispirerà la conseguente cultura di Golasecca. 

Nel 1.270 a.C. - Popolazioni Liguri chiamate Siculi, poiché guidate dal re Siculo, figlio di Italo, approdano in Sicilia, che da allora da loro prende il nome. Dalle popolazioni Liguri che rimasero nel continente, il cui re era stato Italo, l'Italia prenderà il suo nome. Tucidide narrava che dopo l'arrivo in Trinacria dei Sicani (che da loro prese il nome di Sicania) e successivamente degli Elimi dopo la caduta di Ilio (Troia), i Siculi, spinti dagli Opici sul continente, sarebbero giunti in Sicilia numerosi, e avrebbero vinto e respinto i Sicani nella parte meridionale e occidentale dell'isola, impadronendosi della parte migliore della Sicilia (che da loro prese il suo nome definitivo) 300 anni prima della colonizzazione greca. Gli Opici erano un antico popolo di ceppo latino falisco (o protolatino) stanziato nella Campania pre-romana, nella regione che da loro prese il nome di "Opicia". Probabilmente provenienti dalla Puglia e Lucania, si insediarono nell'area nel contesto del primo processo di indoeuropeizzazione dell'Italia peninsulare, quello che portò all'ingresso nella penisola dei Protolatini (II millennio a.C.) e comunque non dopo l'XI secolo a.C. Gli Opici arrivarono in Campania dopo aver in un primo momento sospinto i Siculi verso la Sicilia e a loro volta essere stati poi premuti dagli Enotri. Nei primi secoli del I millennio a.C. furono sopraffatti e assimilati dall'irruzione nella loro area da diverse popolazioni: dapprima gli Etruschi (verosimilmente derivati dai Pelasgi) e successivamente nuovi nuclei indoeuropei, questa volta di ceppo osco-umbro: gli Osci, originatisi dai Sabini attraverso un rito di "primavera sacra", una ricorrenza rituale di origine italica, praticata poi da diversi popoli dell'Italia antica, che comportava la deduzione di nuove colonie. Veniva celebrata in occasione di carestie e in momenti difficili, o per scongiurare un pericolo particolarmente grave. Un altro fattore importante era la pressione demografica, per cui tramite questo rituale si favorivano i processi migratori. E ancora: « La regione, che ora chiamasi Italia, anticamente tennero gli Enotri; un certo tempo il loro re era Italo, e allora mutarono il loro nome in Itali; succedendo ad Italo Morgete, furono detti Morgeti; dopo venne un Siculo, che divise le genti, che furono quindi Siculi e Morgeti; e Itali furono quelli che erano Enotri » (Antioco di Siracusa, in Dionigi di Alicarnasso 1, 12). Dionigi di Alicarnasso ricorda l’opinione di Ellanico di Lesbo e Filisto di Siracusa, i quali collocavano l’evento rispettivamente tre generazioni o ottant'anni anni prima della guerra di Troia, cioè intorno al 1270 a.C.; per Tucidide invece, la discesa dei Siculi in Sicilia sarebbe avvenuta 300 anni prima dello stanziamento dei coloni greci, quindi nell’XI sec. a.C. 
Dionigi riferisce anche la testimonianza di Ellanico di Mitilene, che non soltanto localizza l'avvenimento del passaggio dei Siculi a tre generazioni (una generazione sono trent'anni) prima della guerra troiana (nel 26º anno del sacerdozio di Alcione ad Argo) ma indica anche che due flotte passarono in Sicilia a cinque anni di distanza l'una dall'altra, la prima degli Elimi cacciati dagli Enotri, la seconda degli Ausoni respinti dagli Iapigi; loro re sarebbe stato Sikelòs che avrebbe dato il nome all'isola.
Popoli della Sicilia dopo
la Guerra di Troia.
Allo stesso modo Filisto di Siracusa ha datato l'immigrazione dei Siculi in quella che allora si chiamava Sicania, nell'ottantesimo anno prima della guerra di Troia. In Filisto, Sichelo viene definito eponimo del popolo dei Siculi, che egli stesso guida verso la Sicilia. Afferma lo storico siracusano che Sichelo (o Siculo) era figlio del re Italo. Un ligure, poiché per Filisto i Siculi sono in realtà Liguri che, cacciati dagli Umbri e dai Pelasgi (coloro che fondarono Spina e che verosimilmente originarono gli Etruschi), mutano il loro nome dopo la traversata nell'isola mediterranea, avvenuta 80 anni prima della Guerra di Troia. (Filisto FGrHist 556 F 46)
E ancora: « La regione, che ora chiamasi Italia, anticamente tennero gli Enotri; un certo tempo il loro re era Italo, e allora mutarono il loro nome in Itali; succedendo ad Italo Morgete, furono detti Morgeti; dopo venne un Siculo, che divise le genti, che furono quindi Siculi e Morgeti; e Itali furono quelli che erano Enotri » (Antioco di Siracusa, in Dionigi di Alicarnasso 1, 12). Da altre fonti pare che, alla fine della guerra di Troia (svoltasi nel 1.194/1.184 a.C.) un gruppo di Troiani, scampati su navi e alla caccia di Achei, sarebbero approdati nelle coste occidentali della Sicilia e stabilita la loro sede ai confini con i Sicani, sarebbero stati tutti compresi sotto il nome di Elimi, e le loro città sarebbero state chiamate Erice e Segesta; inoltre si sarebbero stanziati presso di loro anche un gruppo di greci originari della Focide, reduci anch'essi da Troia.

Dal 1.250 a.C. - Per i coltivatori dell'epoca, bastava che qualcosa andasse storto nel precario equilibrio dell'agricoltura di sussistenza, che non si otteneva nessun raccolto e popoli interi subivano la fame e la disperazione. Fu per primo il classicista Rhys Carpenter ad elaborare una sconvolgente teoria, nel 1966, che successivamente è stata confermata dai climatologi Bryson, Reid e Lamb, studiando gli inverni greci degli anni '50. I minimi depressionari invernali sul Mediterraneo occidentale si portarono più ad ovest del normale, e sulla Turchia si rafforzava sempre più l'anticiclone. Le vie dei temporali, che normalmente portano pioggia alla Grecia meridionale, deviarono bruscamente verso nord. Atene e l'Attica ebbero quindi un clima più umido del solito; Peloponneso meridionale e Beozia avrebbero avuto, come buona parte dell'Anatolia e della Libia (con conseguenze anche su Sicilia e Sardegna), un crollo delle precipitazioni pari al 50-60%. In quei posti e in quei climi, questo significa solo una cosa: desertificazione. In Grecia, in estate, il sole ed il vento secco e asciutto di Melteni, sottopongono i terreni ad uno stress idrico molto violento, che normalmente le piogge e la neve (più frequente che da noi per quanto più meridionali) tendono a recuperare, ma in mancanza di questa è crisi, crisi finisce solo con il ritorno delle piogge, quando le comunità costrette al nomadismo dalla fame possono ritornare stanziali. Quello è stato l'inizio di una serie di gravi periodi di siccità succedutisi nell'arco di 150 anni, tra il 1.250 e il 1.100 a.C. circa. 
Dal National Geographic Italia: "Gli scienziati hanno notato che intorno al 1.250 a.C., nel levante dell'area mediterranea si è verificato un netto calo di querce, pini e carrubi, la tradizionale flora del Mediterraneo durante l'Età del Bronzo, e un aumento delle piante che si trovano di solito in regioni semi-aride. Si notava anche una grossa diminuzione degli ulivi, segno di una crisi dell'agricoltura. Tutto insomma faceva pensare che la regione fosse afflitta da siccità gravi e prolungate. Gli anni fondamentali per il crollo furono probabilmente quelli tra il 1185 e il 1130 a.C., ma si trattò di un processo che avvenne su un arco di tempo abbastanza lungo. Il cambiamento climatico agì come una scintilla che diede il via a una serie di eventi a catena. Il crollo dei raccolti costrinse alcuni gruppi che abitavano nelle regioni settentrionali a migrare in cerca di cibo, combattendo con altre comunità che a loro volta si spostarono per terra e per mare. Questa reazione a catena suscitò guerre e distruzioni e mise in crisi il delicato sistema commerciale dell'epoca. Le conclusioni raggiunte dagli scienziati, anche grazie alla datazione al radiocarbonio, coincidono quasi alla perfezione con i pochi resoconti storici del periodo, che appunto narrano di carestie, interruzioni delle rotte commerciali, tumulti, saccheggi e guerre per impadronirsi delle scarse risorse."  
Mario Liverani nel manuale Antico Oriente - Storia società economia: “...Guerre e deportazioni, spopolamento e crisi produttiva, portano carestie e pestilenze (...) particolarmente alla metà del XIV secolo e poi alla fine del XIII a.C. Gli affannati richiami degli ultimi re hittiti ai loro residui vassalli, per ottenere a qualunque costo del grano, o l'intervento dell'Egitto 'per mantenere in vita il miserabile paese di Hatti' mostrano una situazione di gravità eccezionale.
Le carestie nel Mediterraneo iniziate con una siccità locale che aveva coinvolto solo alcune zone del Peloponneso e dell'Anatolia, scatenarono una serie di guerre e di migrazioni a catena di interi  popoli
La struttura di comando della civiltà micenea ne fu spazzata via, i grandi palazzi di Pilo, Tirinto, Micene abbattuti e dati alle fiamme. 
Delle civiltà acquatiche delle Terramare padane rimarranno cumuli di terra mentre Peloponnesiaci,
LibiciAnatolici occidentaliSiculi e Sardi formarono una lega di popoli, uniti dalla fame e dalla disperazione, che si lanciò come un colpo di maglio contro i più potenti imperi di allora: quello Ittita (che fu distrutto) e quello egiziano (che resse, dopo una serie di terribili battaglie nel Delta del Nilo).
La tarda Età del Bronzo è caratterizzata quindi da bande di predoni, detti "Popoli del mare" che attaccano e razziano le coste del Mediterraneo orientale.

Nel 1.208 a.C. - Nella "Grande iscrizione di Karnak", Merenptah, tredicesimo figlio di Ramesse II e faraone dal 1212 al 1202 a.C., ricorda la sua vittoria su una prima ondata di invasione dei cosiddetti "Popoli del Mare", nella quale avrebbe ucciso 6.000 nemici e fatto 9.000 prigionieri. L'attacco venne condotto da una coalizione composta da tre tribù Libiche (Libu, Kehek e Mushuash) e dai "popoli del mare", composti da cinque gruppi:
Grande iscrizione di Karnak.
- Eqweš o Akawaša,
- Tereš o Turša o Twrs o Twrshna o Tursha,
- Lukka,
- Šardana o Šerden e
- Šekeleš.
Nell'iscrizione, il faraone egizio Merenptah parla di "nazioni (o popoli) stranieri del mare". I Popoli del Mare erano una confederazione di predoni del mare provenienti dall'Europa meridionale che insidiavano il Mar Mediterraneo orientale. Sul finire dell'età del bronzo invasero l'Anatolia, la Siria, Canaan, Cipro e l'Egitto. Le tavolette egee in lineare B di Pylos risalenti alla tarda età del bronzo dimostrano la diffusione, in quel periodo storico, di bande di guerrieri mercenari e la migrazioni di popolazioni (alcuni autori si sono chiesti quali fossero i motivi). Tuttavia la precisa identità di queste "popolazioni del mare" è ancora un enigma per gli studiosi. Alcuni indizi suggeriscono che per gli antichi egizi l'identità e le motivazioni di queste popolazioni non erano sconosciute, infatti molte avevano cercato ingaggio presso gli Egiziani o avevano intrattenuto relazioni diplomatiche con essi a partire almeno dalla media età del bronzo. Per esempio alcuni Popoli del Mare, come gli Shardana, furono utilizzati come mercenari dal faraone Ramses II. Le iscrizioni in geroglifico del tempio funerario del faraone Ramses III (1193-1155 a.C.) di Medinet Habu, nei pressi di Tebe, racconta che, circa venti anni più tardi, Ramesse III dovette respingere una seconda invasione degli "Haunebu", i "Popoli del mare" in egizio. I popoli del mare si erano coalizzati questa volta con i Pelasgi-Filistei (i Peleset) ed erano composti da Peleset, Zeker o Tjeker, Šekeleš (Siculi), Danuna o Denyen, Šerden e Wešeš. Segue un'elenco dei presunti "Popoli del mare":

Bronzetto di
Guerriero Sardo
nuragico.
Nave Shardana.
- I Shardana sono citati per la prima volta dalle fonti egizie nelle lettere di Amarna (1.350 a.C. circa) durante il regno di Akhenaton. Compaiono poi durante il regno di Ramses II, Merenptah e Ramses III con i quali ingaggiarono numerose battaglie navali.
Gli Shardana fecero parte della guardia reale del faraone Ramses II durante la battaglia di Qadeš e, sempre in qualità di mercenari, furono stanziati in colonie in Medio e Alto Egitto fino alla fine dell'età ramesside come testimoniato da vari documenti amministrativi databili al regno di Ramses V e di Ramses XI. Nelle raffigurazioni utilizzano lunghe spade triangolari, pugnali, lance e uno scudo tondo. Il gonnellino è corto, sono dotati di corazza e di un elmo provvisto di corna. Le generiche similitudini fra il corredo bellico dei guerrieri Shardana e quello dei nuragici della Sardegna, nonché l'assonanza del nome Shardana con quello di Sardi-Sardegna, hanno fatto ipotizzare, ad alcuni, che gli Shardana fossero una popolazione proveniente dalla Sardegna o che si fosse insediata nell'isola in seguito alla tentata invasione dell'Egitto.

- Šekeleš, un tempo anche scritto Sakalasa o, più correttamente, Shakalasha (Shklsh). Sono stati associati ai Siculi, popolazione di probabile etnia Ligure che si stanziò nella tarda età del bronzo in Sicilia orientale, scacciando verso occidente i Sicani. Questi Liguri erano denominati Siculi, dal nome di un loro capotribù, Siculo o Siculos o Sikelòs. "I Šekeleš erano uno dei popoli del Mare, che nel nome ricordano appunto il termine greco Sikelioi, i Siculi: questo popolo di pirati/invasori, coalizzato con altri Popoli del Mare, fu sconfitto e ricacciato dall’Egitto nel 1176 a.C. dal Faraone Ramses III ("Storica" del National Geographic, numero 42, agosto 2012, pagg. 45-56)".

Carta dei territori di Canaan
occupati dalle 12 tribù di
Israele e del territorio
occupato dai Filistei:
l'attuale striscia di Gaza.
Clicca sull'immagine
per ingrandirla.
- I Peleset (i Pelasgi) chiamati poi Filistei  dopo il loro insediamento nel Canaan, raffigurati con il caratteristico elmo piumato delle genti egee, documentati anche nella Bibbia, secondo cui provenivano da Kaftor, forse identificabile con Creta. I Filistei si insediarono sul finire dell'età del bronzo in Palestina dove costituirono varie città-stato; i ritrovamenti archeologici farebbero ipotizzare un'origine egea di questa popolazione, probabilmente micenea. Alcune recenti scoperte hanno permesso di stabilire una loro presenza in Sardegna in concomitanza (o in un periodo antecedente) ai Fenici. Secondo la Bibbia quindi, i Filistei sono uno dei popoli del mare, che probabilmente arrivavano da Creta, e secondo gli storici furono una popolazione molto antica, di origine indoeuropea, che si stanziò tra il 1200 e l'800 a.C. nell'attuale Palestina (nome che deriva da Philastinia); secondo altri invece, il nome Palestina deriva dalle popolazioni migrate dalla valle dell'Indo nel 3.250 a.C., quelli che noi chiamiamo Fenici e che erano gli stessi che poi abitarono sulle coste orientali dell’italia meridionale, che allora presero il nome di Yoni poiché portavano un bastone biforcuto a forma di Y per simbolizzare i genitali femminili (erano infatti portatori di una cultura matriarcale). Quando proseguirono per il medio oriente li chiamarono Pallis (palo, bastone, pastori), a causa del bastone, e dopo che si insediarono nel territorio circostante le rive del giordano denominarono quella terra “Pallis-tan” (tan = terra), che significa “Terra dei Pastori”, italianizzato in Palestina. Comunque sia, dopo la repressione della rivolta giudaica guidata da Bar Kochava nel 135, l'Imperatore Adriano intese cancellare il nome di Judea sostituendolo con quello di Palestina. Quando i Filistei, fondendosi con la popolazione cananea preesistente, ne adottarono il pantheon, scelsero (come tutti i popoli loro vicini) una divinità in particolare quale loro "dio nazionale": Dagon, il padre di Baal. Questa divinità, denominata Ba' al Zəbûl, Il signore della Soglia (dell'Aldilà), è entrata a far parte della mitologia ebraica, cristiana ed islamica con il nome con cui la definisce la Bibbia, tramite uno sprezzante gioco di parole: Ba' al Zebub, "Il signore delle mosche". Da qui deriva il nome dell'entità diabolica suprema: Belzebù, uno dei "sette prìncipi dell'Inferno", identificato anche dalla tradizione cristiana come un demone. La Bibbia parla di un tempio dedicato a Dagon ad Ekron (a soli 35 km da Gerusalemme), descrivendolo come un tempio cananeo puntellato da due pilastri centrali. La narrazione biblica descrive infatti l'atto di Sansone che, ottenuta da Yahweh una forza sovrumanaabbatte i due pilastri, provocando il crollo dell'intero tempio. Sansone muore schiacciato assieme ai filistei presenti nel tempio di Dagon. Da qui il celebre detto "Muoia Sansone con tutti i Filistei".

Zeker o Tjeker, menzionati anche dai documenti ittiti sembrano costituire insieme ai Peleset un gruppo omogeneo, distinti solo in quanto dediti alle attività marinare. Sono stati anche messi in relazione con i Teucri.

- I Libu, popolo identificato con nome Libici, si insediarono sotto la Cirenaica. Nelle rappresentazioni Egizie i "Libu/i" , vengono rappresentati con caratteristiche somatiche "europee" , carnagione rosea, occhi chiari e barba biondiccia (forse di derivazione Mechta-Afalou).

- I Lukka dovevano occupare la costa meridionale dell'Anatolia e l'isola di Cipro ed erano considerati nei documenti ittiti un vero e proprio stato con dominio sul mare. Successivamente si stanziarono forse nella regione anatolica della Licia. Con i Licii stessi vengono identificati, e si tratterebbe allora di una popolazione greco-indoeuropea. Il nome di tale popolazione viene fatto derivare dalla radice indoeuropea leuk- luk- ("luce").

- Gli Eqweš o Akawaša, forse identificabili con gli Ahhiyawa degli archivi ittiti di Ḫattuša e Ugarit, ossia probabilmente gli "Achei", micenei di stirpe greca, che dovevano essersi già stabiliti sulla costa occidentale dell'Anatolia: la Millawanda dei testi ittiti potrebbe essere identificata con Mileto, mentre Wiluša indicherebbe forse Ilio, Troia. Un ostacolo a questa identificazione tra Eqweš e Ahhiyawa, o Achei, consiste tuttavia nel fatto che i primi sembra praticassero la circoncisione e che quest'uso è piuttosto insolito tra le popolazioni indoeuropee, di cui gli Achei fanno parte.

- I Tereš Turša o Twrs (Twrshna, o Tursha) possono essere identificati con con le genti chiamate dai greci Turs-anòi (in dorico), Tyrs-enòi (in ionico), Tyrrh-enoi (in attico) e dai latini Tus-ci (da Turs-ci) ed E-trus-ci. Nelle lingue antiche la "c" e la "g" erano dure, come in cane e gallo, per cui Tusci si pronuncia "tuschi" ed Etrusci si pronuncia "etruschi". Questa identificazione sembra avvalorare il racconto di Erodoto circa l'origine anatolica di questo popolo, ma soprattutto la mitica parentela degli Etruschi con i Troiani cantata da Virgilio nell'Eneide. Rapporti dei Tirreni o Etruschi col mondo Mediterraneo orientale dell'isola di Lemno (che si trova a poche miglia dinanzi a Troia) sembrerebbero esistere in seguito al ritrovamento della cosiddetta Stele di Lemno, un'iscrizione rinvenuta nel 1885, in cui è attestata la Lingua lemnia un dialetto simile all'etrusco. Tale stele è comunque al vaglio degli studiosi in quanto sembrerebbe ascrivibile al VI secolo a.C. In alternativa alcuni studiosi mettono in relazione il loro nome con l'ebraico Taršiš e con l'iberico Tartessos. Tuttavia dei Tirreno-Etruschi, nei testi d'epoca Miceneo-Ittita e nei poemi classici Odissea e Iliade, non si trova traccia.

Danuna o Denyen, di provenienza anatolica, è stata proposta una loro identificazione con i Dauni e i Danai, altro nome dei Micenei di stirpe greca.

Wešeš, forse in relazione con la città di Wiluša, che a sua volta è forse identificabile con Troia.

Dal 1.200 a.C. - Si sviluppa in Europa un'Età del Ferro i cui maggiori centri sono Halstatt, Huttenberg e Cnosso.
- Mario Liverani in "Mutamenti climatici nell’antichità vicino-orientale e mediterranea", Torino 17-18 maggio 2012 afferma: "I dati climatici (in particolare le sequenze dendrocronologiche e polliniche) mostrano un episodio di brusca aridità, breve ma intensa, intorno al 1200 a.C. seguita poi da una fase di prolungata instabilità e aridità fino alla metà del IX secolo. I dati archeologici mostrano una serie di distruzioni dei centri urbani e palatini in Grecia (è il collasso della civiltà micenea), in Anatolia e nel Levante siro-palestinese all’inizio del XII secolo, e poi una prolungata fase di localismo, dimensione di villaggio e campi pastorali per tutta la prima età del Ferro, fino appunto alla metà del IX secolo. E i testi documentano bene sia la carestia alla fine del XIII secolo, sia la famosa invasione dei cosiddetti “Popoli del Mare” - genti di provenienza balcanica che si riversano dapprima nell’Egeo (è quella che le tradizioni classiche definivano l’invasione dorica) e poi in Anatolia e nel Levante - nel 1190 a.C., con il crollo dell’impero hittita e il restringimento di quello egiziano. Infine i testi documentano bene il successivo “effetto domino” anche nelle zone ad est dell’Eufrate (Assiria e Babilonia) ma con un décalage di un secolo buono rispetto all’invasione dei Popoli del Mare. In questo caso dunque le coincidenze sembrano già così ben documentate e circostanziate da renderci sicuri della spiegazione.
Località di rilievo nelle civiltà dei metalli europee: dopo la
civiltà del Rame, la civiltà del Bronzo dal II millennio,
civiltà del Ferro dal XII secolo a.C., i cui maggiori centri 
in Europa sono: Halstatt, Huttenberg e Cnosso.
Ovviamente la presentazione di questi casi andrebbe meglio articolata, e altri casi si potrebbero e dovrebbero aggiungere, sia per l’area circum-sahariana, sia per quella dell’Indo, sia per quella dell’Asia centrale. Ma l’esemplificazione mi pare già così sufficiente per chiarire come gli studi di proto-storia e di storia antica del mondo mediterraneo e vicino-orientale abbiano ormai ben superato il tabù della storiografia idealistica, si stiano attrezzando per metabolizzare le procedure (e comunque i risultati) di ambito scientifico, e stiano contribuendo alla costruzione di una storia delle società umane in cui il fattore ambientale e le variazioni climatiche occupano il posto che loro compete. Resta escluso, almeno spero, ogni riduzionismo: i processi e gli eventi messi in moto dai fattori climatici hanno una loro complessità di concause, di meccanismi e di effetti di natura sociale e tecnologica, economica e politica, culturale e simbolica, nonché le loro peculiarità regionali e diacroniche, che costituiscono il valore della storia nel suo senso più pieno."

- Il periodo che va  dal  1.200 a.C. al 1.000 a.C. è perciò abbastanza oscuro, ma ci si sta convincendo che la carestia del 1.200 a.C. sia stato l'evento scatenante il riassetto del quadro politico mediterraneo e mediorientale: secondo la ricerca di David Kaniewski, dell’Università Tolosa III - Paul Sabatier, effettuata assieme a colleghi di altre istituzioni e pubblicata sulla rivista on-line PlosONE, i ricercatori sono giunti alla conclusione che la crisi della tarda età del bronzo, piuttosto che imputabile ad una serie di eventi non correlati, sia stata provocata dal cambiamento radicale del clima, scatenante una siccità a cui sarebbero seguite carestie, inevitabili conflittualità politiche e invasioni dal mare da parte di popoli in cerca di fonti di sostentamento. Gli studiosi sottolineano anche che questo evento è in stretto rapporto con la sensibilità alle variazioni climatiche delle società dipendenti dalle proprie risorse agricole. Sensibilità e struttura economica, un binomio che, con il variare del clima, avrebbe portato inevitabilmente alla rovina. Pare del resto che la sequenza dendrologica di Gordion (la città, oggi turca di Gordio, del famoso nodo sciolto da Alessandro Magno con un colpo di spada) registri intorno al 1.200 a.C. un seguito di sette-otto anni particolarmente secchi: ciò che spiegherebbe la rovinosa carestia che investe una Anatolia già in difficoltà. Altrove, in bassa Mesopotamia, è stato il progressivo collasso della rete dei canali mettere in crisi l'agricoltura.
Tutto il Mediterraneo stava vivendo un periodo caratterizzato da catastrofi naturali con conseguenti migrazioni di popoli e da oriente giunse l'ultima ondata di tribù indoeuropee che, con lo sviluppo del fenomeno celtico, completò l'opera di mutamento culturale destinato a modificare per sempre il volto dell'Europa, in cui l'economia era ridotta a pastorizia e agricoltura.

- Dal National Geographic Italia: "Gli anni fondamentali per il crollo furono probabilmente quelli tra il 1.185 e il 1.130 a.C., ma si trattò di un processo che avvenne su un arco di tempo abbastanza lungo. Il cambiamento climatico agì come una scintilla che diede il via a una serie di eventi a catena. Il crollo dei raccolti costrinse alcuni gruppi che abitavano nelle regioni settentrionali a migrare in cerca di cibo, combattendo con altre comunità che a loro volta si spostarono per terra e per mare. Questa reazione a catena suscitò guerre e distruzioni e mise in crisi il delicato sistema commerciale dell'epoca. Le conclusioni raggiunte dagli scienziati, anche grazie alla datazione al radiocarbonio, coincidono quasi alla perfezione con i pochi resoconti storici del periodo, che appunto narrano di carestie, interruzioni delle rotte commerciali, tumulti, saccheggi e guerre per impadronirsi delle scarse risorse."

- Da https://ilbolive.unipd.it/it/news/cambiamenti-climatici-territorio-terramare: "Nella fase finale dell'età del bronzo recente, che va dalla fine del XIII all'inizio del XII a. C., c'era una provincia del mondo terramaricolo, ovvero quella della bassa pianura veronese, il cui centro fondamentale è il Fondo Paviani, che metteva in rapporto diretto i navigatori egei e levantini.
I principali centri di commercio delle Terramare
prima e dopo le carestie del 1.200 a.C.
Questi ultimi, in un momento storico che corrisponde al collasso della civiltà micenea, arrivarono fino al delta del Po, e risalendo il fiume entrarono in contatto con i gruppi terramaricoli delle pianure veronesi. Il loro scopo non era tanto l'approvvigionamento del metallo, materiale di cui si rifornivano sull'isola di Cipro, bensì quello dell'ambra. Si tratta di una resina fossile che si trova soprattutto sulle coste del Mar Baltico e del Mare del Nord. È una materia prima inutile, ma di grande lusso. Poiché la civiltà delle terramare controllava l'afflusso di queste materie prime fondamentali, aveva raggiunto il suo apice anche dal punto di vista della pressione insediativa. Tutta la pianura e le fasce collinari, pedemontane, pedeappenniniche e appenniniche erano state completamente occupate grazie agli avanzatissimi sistemi di gestione delle acque. La deforestazione aveva raggiunto un punto limite. L'abbattimento della copertura forestale per far spazio ai campi, ai pascoli e agli insediamenti aveva causato problemi di carattere geomorfologico, come il degrado dei suoli e il ruscellamento. I terreni venivano ipersfruttati anche dal punto di vista della produzione, poiché c'era un'enormità di gente da sfamare, e ciò aveva provocato un impoverimento dei suoli. Tutto questo ha innescato una sorta di effetto domino che ha progressivamente reso il sistema delle terramare non più sostenibile. A questo si è aggiunto anche un aspetto di carattere climatico non dipendente dall'impatto antropico, al contrario di ciò che invece accade oggi. Sulla base dei dati archeologici, archeobotanici e geomorfologici possiamo osservare che nella Pianura padana e nell'intera Europa, intorno al 1200 a.C. si verificò un'oscillazione climatica in senso arido piuttosto rapida, la quale determinò anche l'abbassamento delle falde acquifere
Questa sorta di “tempesta perfetta”, in parte autoindotta, perché dovuta all'autodistruzione a cui i terramaricoli erano andati incontro inconsapevolmente dopo aver raggiunto il loro apice, e in parte eteroindotta, derivante da questa oscillazione arida, determinò l'impossibilità di portare avanti un sistema che aveva funzionato per centinaia di anni.
C'è da dire, comunque , che la risposta a questa crisi fu diversa tra l'area a nord del Po e quella a sud. Quest'ultima, quella dell'Emilia, fu completamente spopolata. Ci sono evidenze che confermano che gli ultimi gruppi terramaricoli migrarono da questi territori, in cui era diventato difficile vivere, verso l'Italia centro-meridionale.
Nelle zone a nord del Po, invece, vennero messe in campo delle strategie di resilienza: il territorio era solcato infatti da grandi fiumi di risorgiva che subivano meno gli effetti negativi della transizione climatica in senso arido. Per questo, il sistema delle terramare nord padane non collassò, ma attraverso un processo di iperselezione e iperconcentrazione del popolamento, diede vita a un nuovo sistema, che vide nel Po e nell'Adige i due assi fluviali fondamentali, composto però da pochi insediamenti, il più importante dei quali fu quello di Frattesina di Fratta Polesine, che ereditò dal sito di Fondo Paviani e dall'area delle valli veronesi quella vocazione a diventare centro di scambio internazionale".


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