Senofane di Colofone.
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- Nel 540 a.C. circa si combatte la battaglia del Mar Sardo, ricordata da Erodoto (I, 166), fra Etruschi e Cartaginesi alleati contro i Focei. Il quadro storico nel quale si svolsero le vicende che videro la fondazione e il popolamento dell’insediamento sul colle di Castello a Genova, appare il risultato di un più sistematico riassetto degli equilibri di forze nel settore del Tirreno settentrionale, determinato dal dispiegarsi di interessi contrastanti di varie potenze in crescita. Fin dall’VIII secolo a.C. Greci e Fenici avevano iniziato a fondare colonie (la prima fu Pythekoussai nell’isola di Ischia ad opera di Eubei) sulle coste del mar Tirreno, in Italia meridionale e in Sicilia. Nel 600 a.C. un gruppo di coloni di Focea, città della Ionia, in Asia Minore, aveva fondato, con il consenso delle popolazioni Liguri locali, Massalia (Marsiglia), alle bocche del Rodano. In poco tempo Marsiglia aveva assunto il controllo dei traffici marittimi del Mediterraneo nord occidentale, svolgendo anche un fondamentale ruolo di mediazione con le popolazioni celtiche che gestivano lo smercio del prezioso stagno delle isole Cassiteridi, in Cornovaglia, rarissimo altrove (ne esistevano solo limitati giacimenti in Etruria) ed indispensabile per realizzare la lega di bronzo. Altre colonie focesi erano state ben presto fondate da Marsiglia ad Emporion (odierna Ampurias) in Spagna e da coloni provenienti dalla madrepatria a Kyrnos, in Corsica, nel luogo dove più tardi sorse la romana Aleria, verso il 565 a.C.. Il porto di Marsiglia era un importante scalo commerciale frequentato anche dagli Etruschi, che, dalla fine del VII secolo a.C., raggiungevano con le loro imbarcazioni le coste della Francia per smerciare i loro prodotti, in particolare vino, che era molto apprezzato dai Celti e dai Liguri, e ceramiche. Anche i Greci scambiavano vino, olio, profumi e ceramiche decorate con lo stagno, l’ambra e schiavi. La conquista delle città greche della Ionia da parte dei Persiani verso il 546 a.C. aveva costretto alla fuga i Greci. Nel 545 a.C. un gruppo di Focei, corrispondente a circa la metà della popolazione, lasciò la città occupata dai Persiani comandati da Arpago, generale di Ciro, per fondare altrove una nuova patria. Dopo alcuni tentativi falliti, gli esuli risolsero di raggiungere i compatrioti in Corsica. L’intraprendenza commerciale dimostrata dai nuovi venuti, accusati anche di pirateria nei confronti dei vicini, turbò la stabilità politica che aveva consentito fino a quel momento il pacifico sviluppo dei commerci marittimi ed ebbe come conseguenza la battaglia del Mar Sardo (circa 540 a.C.) ricordata da Erodoto (I, 166), che fu combattuta fra Etruschi e Cartaginesi alleati contro i Focei, forse con la partecipazione di Marsiglia. I Focei risultarono vittoriosi nello scontro, ma con perdite così elevate che i superstiti abbandonarono Kyrnos facendo vela verso la Calabria ed in seguito fondarono Elea (Velia) sulle coste della Campania, mentre gli Etruschi rioccuparono la Corsica. La battaglia del Mar Sardo ebbe come conseguenza la spartizione del Tirreno in sfere di influenza tra le grandi potenze che avevano partecipato al conflitto, con la definizione dei rispettivi confini politici e commerciali ed il consolidamento del sistema di porti e approdi a cui faceva capo la navigazione lungo le rotte settentrionali, perfezionato, dalla fine del VI secolo, anche mediante accordi e trattati commerciali, come il primo trattato stipulato nel 509 a.C., con giuramento, tra Roma e Cartagine. Nel testo, tramandato da Polibio (3,22 e 3,26), che aveva avuto occasione di leggerlo personalmente molti secoli dopo, sono spartiti gli spazi del Mediterraneo e introdotto il concetto di “acque territoriali”. Le ricerche archeologiche dimostrano che ogni potenza marittima si attivò per consolidare la propria autorità commerciale e politica: Marsiglia riorganizzò il settore fra Antibes e Nizza e iniziò a fabbricare anfore per commerciare il proprio vino, Cartagine operò un radicale riassetto delle colonie fondate dai fenici in Sardegna e nella Spagna meridionale. Gli Etruschi, non più soli padroni del Tirreno, diversificarono le loro attività, creando fondaci (il fondaco, pron. fóndaco, dal greco e attraverso l'arabo funduq, significa letteralmente "casa-magazzino", un edificio o un complesso di edifici che nelle città di mare svolgeva funzioni di magazzino e, spesso, anche di alloggio per i mercanti stranieri) all’interno di insediamenti indigeni in Linguadoca, come a Lattarci (odierna Lattes) e dando vita ad una rete di controllo e gestione delle più importanti vie di penetrazione commerciale marittima, fluviale e terrestre, mediante la fondazione o il potenziamento di centri ubicati in punti strategici, sia costieri, sul Tirreno, a Genova e ad Aleria in Corsica, sull’Adriatico a Spina, sia nell’entroterra padano, dove massicci spostamenti di coloni ripopolarono il fiorente centro di Felsina (Bologna) e edificarono nuove città a Marzabotto e al Forcello di Bagnolo San Vito a pochi chilometri da Mantova. Questo fenomeno di riorganizzazione, ad opera di Etruschi e Umbri, accompagnato da una capillare occupazione delle fertili campagne con fattorie e insediamenti produttivi, si protrasse a lungo, imprimendo un nuovo impulso ai commerci nell’area padana. Attraverso le comode vie d’acqua dell’asse Po-Mincio le barche cariche di merci pregiate, anfore di vino e olio, raffinate ceramiche dipinte e profumi dalla Grecia, vasellame da simposio, figurine di bronzo e gioielli dall’Etruria, ambre intagliate, incenso dall’Arabia, raggiungevano l’abitato del Forcello, vero caposaldo commerciale per il tragitto verso i territori della cultura di Golasecca, le cui popolazioni esercitavano il controllo dei valichi alpini e degli itinerari verso le regioni dell’Europa centrale abitate dai Celti. Altre vie di terra mantenevano in contatto l’Etruria padana con il Tirreno, garantendo l’approvvigionamento dei metalli attraverso i valichi appenninici che congiungevano la Romagna con la Garfagnana in direzione di Populonia e collegavano i mercati golasecchiani con la Liguria centrale lungo il percorso della Val Polcevera, poi ricalcato dalla via Postumia, che raggiungeva il porto di Genova attraversando i territori del Piemonte occupati dai Liguri dell'interno. Come testimonia Scilace (Ps.Skil. 5), nel VI secolo a.C. la costa ligure era posta sotto l’influenza etrusca con un limite ad Antion (Antibes). La realizzazione di un centro stabile a Genova sembra rispondere, come diremmo in linguaggio moderno, ad un’esigenza di mercato. La convergenza sul porto di una rete di percorsi di crinale e di fondovalle in corrispondenza di valichi, che collegavano, con il tragitto più breve in Liguria, la città ai territori padani, e la posizione costiera in un punto di tappa quasi obbligato, giustificano la nascita di un santuario emporico e la fortuna del centro, posto in una zona di cerniera tra Etruschi, Greci di Marsiglia, Celti e le popolazioni della Padana occidentale, Liguri dell’interno e Golasecchiani, che da tempo si affacciavano sulla costa ligure per i loro scambi. Come dimostrano le scoperte del Portofranco, al momento della fondazione dell’abitato sulla sommità della collina di Castello esisteva già a Genova una comunità attiva, che gestiva lo scalo e praticava scambi con merci di importazione, e i nuovi arrivati si indirizzarono perciò verso un luogo sicuro e ospitale, già noto per precedenti frequentazioni commerciali. Nelle acque di Alalia-Corsica o di Albia si scontrarono infine le tre potenze allora padrone dell’occidente: Greci (Alalioti e Massalioti) da una parte e dall’altra Etruschi (in maggioranza Ceretani) e Cartaginesi. A questi ultimi toccò la vittoria nella battaglia del mare Sardonio, dove il mondo antico subì un totale cambiamento. La talassocrazia greco-focese dovette cedere a quella degli Etruschi che ebbero mano libera nel Tirreno sino a Lipari e alle coste della Sicilia. I cartaginesi fondarono un impero nei mari dell’occidente, calando la saracinesca contro chiunque volesse violarli.
Pitagora.
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Questa scuola, forse sarebbe più opportuno chiamarla setta, aveva un circolo interno di affiliati che erano detti “matematici”. Essi vivevano permanentemente nella setta, erano privi di possessioni personali ed erano strettamente vegetariani. Dell'associazione facevano parte sia uomini che donne. I membri esterni alla setta erano detti akousmatici , vivevano nelle proprie case e non erano soggetti alle strette regole dei membri interni. Il carattere comunitario e la segretezza praticate dai membri della setta pitagorica, ha reso praticamente impossibile agli studiosi distinguere quali scoperte siano effettivamente attribuibili a lui e quali ai suoi discepoli. Per gli studiosi moderni è anche molto difficile riuscire a rendersi conto del grado di astrattezza dei problemi che i pitagorici dibattevano. Aristotele scrive: “... I Pitagorici ... pensavano che tutte le cose sono numeri ... e che l’universo è un regolo e un numero...”. Questo fascino per i numeri da parte di Pitagora si ritiene dovuto alle sue osservazioni su certi aspetti che legavano matematica, musica e astronomia. Egli aveva notato che le corde vibranti producevano tonalità armoniche se esisteva una certa legge tra lunghezza delle corde e numero delle vibrazioni. In effetti le scoperte dei pitagorici sulla teoria musicale costituirono un notevole contributo allo sviluppo della teoria della musica. Il legame di queste osservazioni con l'astronomia era dato dal fatto che i pitagorici avevano sviluppato una teoria delle sfere armoniche, per la quale i pianeti emettevano dei suoni dipendenti dalla velocità con cui ruotavano intorno alla Terra. Naturalmente oggi il nome di Pitagora è ordinariamente associato al teorema che porta il suo nome e del quale non si dispone di notizie che lo rendano a lui sicuramente attribuibile. Molti scrittori moderni attribuiscono a lui (o per lo meno alla sua Scuola), la scoperta di altre importanti nozioni matematiche. Tra queste, notevole, è quella dei numeri irrazionali e si ritiene che questa scoperta sia dovuta non a lui ma a qualche suo discepolo, perché si tratta di una scoperta che contrastava con la visione di Pitagora secondo cui “tutte le cose sono numero” (è noto che per “numero” i pitagorici intendevano il rapporto tra due interi, e quindi non potevano concepire che potesse esistere qualcosa che si sottraesse a questa regola). Si usa dire che i pitagorici si “imbatterono” nei numeri irrazionali ma rifiutarono di accettarli. Una leggenda dice che trovandosi alcuni pitagorici in viaggio su una nave, uno di loro, Ippaso da Metaponto, dimostrò ai compagni che, quale conseguenza del teorema scoperto, si aveva che il rapporto tra la diagonale di un quadrato e uno dei lati conduceva a un valore (radice quadrata di 2, un numero irrazionale) che non rientrava nella loro concezione di numero (cioè intero, senza virgola). La leggenda dice i pitagorici furono talmente sconvolti da questa affermazione da scaraventare in mare il malcapitato collega. I Pitagorici, come già i Babilonesi, ritenevano che alcuni numeri fossero sacri. Il più perfetto era il 10. Anche altri numeri possedevano un loro magico significato. Ad esempio, l'1 era considerato il numero della ragione ed il “generatore di tutti i numeri”. Il 2 era il numero “femminile” per eccellenza. Il 3, all’opposto, era il numero “maschile”. Il 4 il “portatore di giustizia”. Il 5 era il numero dello “sposalizio”, perché formato dalla unione del 2 con il 3. In astronomia è attribuita a Pitagora l’affermazione secondo cui la Terra ha forma sferica, e che anche l’orbita della Luna era inclinata rispetto all’equatore celeste. Giamblico dice che nel 513 a.C. Pitagora ritornò in Grecia, a Delo, per assistere il suo antico maestro Ferekides, prossimo a morire. Pochi mesi dopo la morte del suo maestro fece ritorno a Crotone. Nel 510 a.C. si ebbe uno scontro militare tra Crotone e la vicina Sibari e si hanno indicazioni che Pitagora abbia avuto a che fare con la disputa. Quindi, sempre Giamblico ci informa che, avendo la società pitagorica subito un attacco da parte di Cilone, un nobile di Crotone, Pitagora fu costretto a fuggire a Metaponto dove morì (alcuni dicono che commise suicidio, altri che pur di non attraversare un campo coltivato a fave si fece catturare e uccidere). Ma lo stesso Giamblico prende le distanze da queste versioni affermando che Pitagora, da Metaponto ritornò a Crotone e che la sua società riuscì a prosperare ancora per parecchi anni. Questa versione concorda con le affermazioni di altri autori secondo cui Pitagora riuscì a raggiungere un’età prossima ai cento anni, e addirittura ad avere tra i suoi discepoli Empedocle da Agrigento. Ma in genere si tende a porre la data della sua morte intorno al 500 a.C. e sicuramente le circostanze della morte di Pitagora sono avvolte nella leggenda. La società pitagorica si espanse molto dopo il 500 a.C., assumendo connotazioni politiche che la scinderanno in numerose fazioni. Nel 460 a.C. si ebbe un violento episodio di persecuzione contro i Pitagorici a Crotone. Molti loro luoghi di riunione vennero assaltati e dati alle fiamme. Si cita in particolare la “casa di Milo”, a Crotone, dove una cinquantina di Pitagorici furono assassinati. I sopravvissuti trovarono rifugio a Tebe e in altre città.
- In questo periodo viene scolpita da stele a Lemnos, con scritta etrusco-arcaica, che secondo alcuni è pelasgico.
In rosso, l'ubicazione dell'isola
di Lemnos, in Grecia.
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Stele di Lemnos, VI sec.a.C.
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La raffigurazione di guerriero con iscrizioni sulla Stele di Lemnos è databile agli ultimi decenni del VI secolo a.C., e le scritte utilizzano una versione dell'alfabeto greco occidentale simile a quello delle iscrizioni etrusche. La lingua, secondo le più recenti teorie, è etrusco arcaico con alcuni adattamenti locali. Non è però ancora chiaro se il rinvenimento nell’isola di Lemnos significa che ci sia stata una fase linguistica comune dell’area mediterranea (di cui Etruria e Lemnos sarebbero due testimonianze con la conseguente origine degli Etruschi dall’Asia Minore) o se nell’isola abbia vissuto un gruppo di Etruschi che l’hanno colonizzata. E questi ultimi potrebbero essere quei pirati del mare Tirreno che lo scrittore greco Tucidide ricorda essere stati presenti a Lemnos prima della sua conquista da parte di Atene. Nella stele è rappresentata la testa di un guerriero e riporta delle scritte, con incisioni piuttosto approssimative, che ne descrivono la vita e la probabile provenienza.
Iscrizioni lato A: holaies naphos siasi // marasm av śialchveis avis eviśtho seronaith sivai // aker tavarsio vanalaśial seronai morinail. Traduzione del lato A: “Di Colaie nipote legittimo // e magistrato eponimo, di 60 anni, nel distretto di Efestia visse // Aker Tavarsie (figlio) della Vanalasi nel territorio di Myrina.
Iscrizioni lato B: holaiesi fokasiale seronaith evistho toverona [ ] rom haralio sivai eptesio arai tis foke sivai avis sialchis maras avis aomai. Traduzione del lato B: “Sotto Colaie il Focese nel territorio di Efestia ambasciatore [..] visse, a sette anni giunse da Focea, visse anni 60, fu magistrato eponimo”.
Dal 525 a.C. - Le colonie greche e la dodecapoli etrusca in Campania (Nola, Nocera, Ercolano, Pompei, Sorrento, Marcina, Velcha, Velsu, Irnthi, Uri, Hyria e Capua) convivevano commerciando da tempo, ma già nel 525 - 524 a. C. si era giunti ad uno scontro terrestre tra la greca Cuma e l'etrusca Capua, in quella che divenne nota come prima battaglia di Cuma. L'esercito etrusco con gli alleati Umbri, Dauni e Messapi forte di 500.000 uomini (esagerazione degli storici, in questo caso di Dionigi di Alicarnasso) fu gravemente sconfitto dalla falange e dalla cavalleria greche. I rapporti divennero ancora più conflittuali in seguito, quando il commercio via terra tra l’Etruria e la Campania attraverso il Lazio fu interrotto dai Latini, dopo la caduta della monarchia della dinastia etrusca a Roma; per questo motivo la via marittima diventava sempre più strategica per gli Etruschi, che vedevano proprio nella greca Cuma, con il suo porto ben organizzato, una seria minaccia per la loro navigazione.
Nel 509 a.C. - A Roma viene cacciato l'Etrusco Tarquinio il Superbo, ultimo re di Roma, e viene proclamata la Repubblica, che adotta come epigrafe S.P.Q.R., Senatus PopolusQue Romanus, Senato e Popolo Romano. Nel latino arcaico, per popolus si intendeva la forza militare. L'ultimo re di Roma, Tarquinio il Superbo, pur avendo ottenuto il rinnovo del trattato di pace con gli Etruschi, alla fine è rovesciato, nel contesto di una più ampia esautorazione del potere etrusco nell'area dell'antico Latium vetus, e Roma, i cui possedimenti non si estendevano oltre le 15 miglia dalla città, si dà un assetto repubblicano, una forma di governo basata sulla rappresentatività popolare in contrasto con la precedente autocrazia monarchica. Nel 509 a.C., il re deposto, Tarquinio il Superbo, la cui famiglia si narra fosse originaria di Tarquinia in Etruria, ottenuto il sostegno delle città di Veio e Tarquinia, in rivalsa alle sconfitte subite in passato dai Romani, tenta di riconquistare Roma, ma i due consoli romani, Publio Valerio Publicola e Lucio Giunio Bruto, avanzano con le forze romane contro di loro e l'ultimo giorno del mese di febbraio si combatte la sanguinosa battaglia della Selva Arsia durante la quale cadono moltissimi uomini, sia da una parte che dall'altra; tra questi anche il console Bruto. Lo scontro è interrotto da una violenta e improvvisa tempesta quando l'esito della battaglia è ancora incerto e tanti sono i morti che giacciono sul campo di battaglia. Entrambe le parti reclamano la vittoria, finché «....Numeratisi poscia i cadaveri, trovati furono undicimila e trecento quelli dei nemici, e altrettanti, meno uno, quei dei Romani» (Plutarco, La vita di Publicola). La Roma repubblicana adotta un proprio alfabeto, il Latino, derivato da quello dei Greci di Cuma mentre la sua struttura economica è basata prevalentemente sulla pastorizia (il termine stesso per il denaro, "pecunia", deriva da "pecora") e sull'agricoltura, tanto che l'esercito è formato prevalentemente da allevatori e proprietari terrieri, ritenuti gli unici ad avere la motivazione per gestire la politica difensiva e/o espansionistica con le armi, i quali sono arruolati con una di leva obbligatoria: ogni membro dell'esercito deve inoltre provvedere a proprie spese al proprio equipaggiamento, generalmente composto da spada e lancia per i "pedites", i fanti, fra cui i più benestanti potranno permettersi anche le protezioni di scudo e armatura. La formazione di combattimento per quest'ultimi è la falange. I più ricchi sono gli "equites", i cavalieri, che possono mantenersi il cavallo, e dispongono di protezioni oltre alle armi offensive (elmi e corazze). Era consuetudine poi, assegnare appezzamenti dei territori conquistati ai militari congedati, nella misura proporzionale al loro grado.
Nel 527 a.C. - Ad Atene Pisistrato
muore trasmettendo il potere al figlio Ippia accompagnato dal
fratello Ipparco. Mentre Pisistrato aveva accentuato i caratteri
democratici dell'ordinamento ateniese, anche se , in chiave
populistica, i suoi figli Ippia e Ipparco si riveleranno più
dispotici del padre.
Si inaugura così una dinastia
tirannica che avrebbe segnato una nuova fase politica con il ruolo di
incubatrice per i fermenti che portarono poi alla svolta
democratica.
Carta con evidenziate Capua,
Cuma e Napoli.
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Il logo della Repubblica di Roma:
Senatus PopolusQue Romanus.
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Lucio Giunio Bruto.
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Consoli della Repubblica
di Roma.
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- eleggere direttamente i responsabili della pubblica amministrazione: dai presidenti del consiglio (almeno 2), ai ministri, ai prefetti, ai questori, ai giudici, ai procuratori, ecc.
- approvare le leggi
- giudicare alcuni casi di rilevante importanza.
Potevano partecipare alle assemblee i cittadini maschi maggiorenni (di età superiore a 16 anni). Erano esclusi gli stranieri, anche se residenti, gli schiavi, le donne. Esistevano tre assemblee:
- i comitia curiata, dove i cittadini partecipavano divisi in 30 curie, raggruppamenti di diverse gentes, a loro volta raggruppamenti di famiglie;
- i comitia tributa, dove i cittadini partecipavano divisi in 35 tribù, raggruppamenti su base territoriale;
- i comitia centuriata, dove i cittadini partecipavano divisi in 193 centuriae, raggruppamenti sulla base del censo e dell'età.
All'interno dei raggruppamenti, una sorta di circoscrizioni elettorali, vigeva il principio una testa un voto.
I raggruppamenti non erano omogenei numericamente. Ad esempio metà delle centuriae era di giovani (dai 17 ai 46 anni) e metà di anziani (superiori ai 46 anni). In tal modo si teneva conto della maggiore esperienza degli anziani. I risultati delle votazioni erano a maggioranza su base circoscrizionale (una circoscrizione un voto). Venne assicurata la segretezza del voto per evitare brogli elettorali. Il Senato fu costituito per gran parte del periodo repubblicano da 300 membri a vita. I senatori erano ex amministratori pubblici che venivano inseriti di diritto nelle liste senatoriali. Ma poiché gli amministratori erano eletti dal popolo, non poteva entrare in senato se non chi era stato eletto dal popolo. Il Senato non poteva legiferare, ma solo preparare le leggi che poi i comitia avrebbero approvato o respinto. Il popolo poteva anche approvare delle leggi nei comitia tributa senza l'intervento del Senato. Nella Roma repubblicana esisteva sostanzialmente una forma di democrazia diretta, senza l'intermediazione dei politici di professione tipica della odierna democrazia. I candidati alle cariche pubbliche (consoli, pretori, edili, questori, tribuni, ecc.) dovevano seguire un iter prestabilito con intervalli temporali minimi tra una carica e la seguente. La reiterazione della carica era solitamente proibita. Cominciando verso i 30 anni la carriera poteva concludersi con il consolato intorno ai 40-45 anni. Le cariche avevano una durata molto limitata (1 anno) ed erano attribuite ad un minimo di due persone contemporaneamente per non consentire che troppo potere fosse concentrato in un solo individuo. Le elezioni dei consoli si tenevano in genere a luglio, ma l'entrata in carica era prevista per gennaio dell'anno seguente. In tal modo i consoli avevano solo sei mesi (da gennaio a giugno) di potere indipendente, poi dovevano tener presenti i loro successori. I tribuni della plebe non appartenevano alla schiera degli amministratori, ma venivano eletti per proteggere i cittadini dagli abusi degli amministratori e ad essi i cittadini (patrizi o plebei) potevano ricorrere contro il potere costituito.
L'esercito repubblicano, come quelli precedenti, non fu costituito da forze militari professionali; al contrario si provvedeva ad una leva annuale, attraverso il meccanismo della coscrizione obbligatoria, come richiesto per ogni campagna miliare stagionale, per poi congedare tutti al termine della stessa (sebbene in alcuni casi alcune unità potevano essere mantenute durante l'inverno, e anche per alcuni anni consecutivi, durante le maggiori guerre). Per far parte dell’esercito romano si doveva avere un reddito (censo) che permettesse di pagarsi gli armamenti e i più numerosi componenti delle milizie erano pastori e piccoli proprietari terrieri.
Nel 509/508
a.C. - Primo trattato fra Cartagine e Roma,
citato da Polibio. Roma e i suoi alleati si impegnano a non navigare
oltre Capo Bello (promontorium Pulchrum, nei pressi di Cartagine) se
non a causa di una tempesta o forzati dai nemici; in ogni caso
potranno comperare solo quanto serva per effettuare riparazioni
urgenti o per partecipare a cerimonie sacre, e dovranno comunque
ripartire entro cinque giorni. I commercianti possono operare in
Sardegna e in Africa solo sotto controllo di banditori a garanzia del
venditore. Però i Romani, nella Sicilia cartaginese, hanno gli
stessi diritti dei Cartaginesi. Cartagine considera territori di sua
pertinenza la Sardegna e l'Africa, mentre per la Sicilia il trattato,
naturalmente, regolamenta solo il territorio non greco. La
contropartita di queste limitazioni era di riconoscere a Roma
la sostanziale egemonia sul Lazio, oltre a prometterle
protezione militare e copertura navale, che Cartagine poteva
dare contro eventuali attacchi di Cuma o di altre pòleis della Magna
Grecia, vere avversarie della città africana a quel tempo. La
repubblica era appena nata e impegnata nelle guerre contro le
popolazioni italiche e gli Etruschi, che con Porsenna
cercavano di riportare al potere i Tarquini. La città, all'epoca,
non aveva interessi espansionistici a sud del Lazio e, in ogni caso,
la marina commerciale romana era pressoché inesistente, al pari di
quella militare che sembra sia stata costituita solo nel 311 a.C..
Questo trattato definiva così le
rispettive aree di influenza, testimoniando bene la situazione
politica e commerciale di Cartagine nell'Occidente mediterraneo.
Cartagine poteva quindi evitare di operare militarmente nel
Lazio, impegnata com'era nelle guerre contro i Greci. La città
punica era maggiormente interessata a tutelare i traffici
commerciali e marittimi nella propria sfera d'influenza, che era
il Mediterraneo occidentale. Massimo Pallottino aggiunge che
il testo del trattato riportato da Polibio, rivela una preminenza di
fatto della posizione di Cartagine sul teatro delle rispettive
interferenze con Roma. A parte le limitazioni commerciali
imposte alla navigazione ed alle attività commerciali romane, gli
accordi riguardanti Roma sembrano mostrare un carattere difensivo
rispetto alle iniziative cartaginesi. Questi divieti
rispecchierebbero una situazione di parziale dominio di Roma sul
Lazio, che corrisponderebbe a quanto descritto per il regno di
Tarquinio il Superbo. Si evidenzia, quindi, una palese inferiorità
del contraente romano-latino nei confronti di quello cartaginese, non
molto dissimile da quanto esisteva già nei confronti dell'alleato
etrusco. Possiamo osservare come Cartagine non rinunciasse ad altro
che ad azioni belliche entro un piccolo territorio (il Lazio), dove
comunque non aveva interessi, e mantenesse le mani libere per le
azioni contro i Greci, concorrenti commerciali e militari ben più
noti, potenti e pericolosi. Non dimentichiamo poi che con gli alleati
Etruschi, Cartagine si era già in precedenza divisa il Tirreno per
aree di influenza: agli Etruschi era stata attribuita l'area
che dalle Alpi giungeva in Campania, mentre ai
Cartaginesi, l'arco che chiudeva a sud-est la zona dell'occupazione
greca, ora che la via di Corsica e Sardegna era stata chiusa
all'espansione politica e commerciale dei Greci pur avendo Massalia
(Marsiglia) una notevole influenza marinara nel Mediterraneo
nord-occidentale.
Fin dalle sue origini Genova
appare legata alle vicende del porto, creato in uno degli
approdi più favorevoli e protetti dell’arco costiero ligure, lungo
le rotte battute dalle navi mercantili, etrusche e
greche, in direzione dei mercati della Francia meridionale.
Nel 508 a.C. - Tarquinio il
Superbo, non essendo riuscito a riconquistare il trono insieme
agli alleati Etruschi delle città-stato di Tarquinia e Veio, cerca
aiuto in Lars Porsenna, lucumone della potente
città etrusca di Chiusi, (nel 508 a.C., durante il consolato
di Tito Lucrezio Tricipitino e Publio Valerio Publicola). Il Senato
romano, venuto a sapere che l'esercito di Porsenna si stava
avvicinando, temendo che il popolo di Roma potesse, per la paura,
accogliere di nuovo il re Tarquinio in città, prese una serie di
provvedimenti che rafforzassero la voglia da parte della plebe
di resistere di fronte all'imminente assedio. Si provvedette,
pertanto, ad avere cura, prima di tutto, dell'annona, inviando
emissari tanto ai Volsci quanto a Cuma con l'obiettivo di procurare
frumento; il commercio del sale, il cui prezzo era ormai
aumentato alle stelle, fu sottratto ai privati e divenne monopolio
di stato; la plebe venne esentata da dazi e tributi
mentre le classi abbienti dovettero sostituirsi fiscalmente ai plebei
nella misura in cui fossero in grado di farlo. Queste misure ebbero
successo, tanto che la popolazione di Roma prese animo, pronta
a combattere contro il nemico. Secondo la leggenda, Porsenna assediò
Roma, ma pieno di ammirazione per gli atti di valore di Orazio
Coclite, Muzio Scevola e Clelia, desistette dal
conquistarla, facendo ritorno a Chiusi. Questo secondo quanto
raccontano gli storici favorevoli alla tradizione romana come Tito
Livio o Floro, probabilmente per nascondere una possibile disfatta
romana. Secondo la versione di Dionigi di Alicarnasso, dopo la
partenza di Porsenna il senato romano inviò al re etrusco un trono
d'avorio, uno scettro, una corona d'oro e una veste trionfale, che
rappresentava l'insegna dei re.
Clistene, da: https://com mons.wikimedia.org/w/ index.php?curid=6207775 |
Una volta assunto saldamente il
potere, Clistene in un primo momento si limitò a ripristinare
integralmente la costituzione di Solone, poi però, ottenendo il
supporto popolare necessario, attuò diverse riforme al fine di
consolidare le ancor traballanti istituzioni ateniesi.
In primo luogo, conscio che la rivalità
tra le quattro tribù, basate sul censo familiare, era stata
una delle cause maggiori del fallimento della costituzione di Solone
e della instaurazione della tirannide, Clistene le abolì per
sostituirle con dieci tribù, ognuna delle quali, a sua volta,
era costituita da diversi demi, che a loro volta si suddividevano in
gruppi di tre, comprendendo sia una regione costiera, sia una
pianeggiante sia una collinare. Inoltre, per aumentare il senso di
coesione territoriale e scardinare quello familiare, Clistene abolì
i patronimici e li sostituì con il nome del demo di residenza o
nascita. Il demo (in greco antico dêmos) era una
suddivisione del territorio dell'Attica, la regione della città di
Atene, entrata in vigore sotto l'acme ("apice, il punto più
alto" in lingua greca) di Clistene. Dopo aver attuato la riforma delle
tribù, Clistene sostituì il consiglio dei 400 di Solone con la
Boulé, un consiglio di 500 membri, 50 per tribù,
scelti non mediante elezione bensì per sorteggio in modo da
garantire la massima partecipazione possibile e inoltre sancì che
ogni membro del consiglio, all'assunzione della carica dovesse
giurare "di consigliare, nell'osservanza delle leggi, ciò che è
meglio per il popolo". La Bulé era uno degli organi principali
della politica ateniese e aveva il compito di organizzare l'Ecclesia
(l'assemblea del popolo che votava le leggi scritte dalla Boulé
stessa) e di controllare il lavoro dei magistrati (i funzionari
investiti delle funzioni di giudice) e dei nove arconti, i magistrati
supremi. Sulla stessa base, riformò il sistema
giudiziario, istituendo un sistema di giurie, composte da 201
fino a 5001 giurati, sorteggiati da un campione posto da ogni singola
tribù e dispose che l'iniziativa legislativa spettasse alla Boulé e
che poi l'assemblea di tutti i cittadini aventi diritto di voto si
dovesse convocare quaranta volte l'anno per discutere, approvare,
emendare o respingere le proposte della Boulé. Infine, Clistene, onde prevenire per
sempre il fenomeno della tirannide, introdusse l'ostracismo
(usato per la prima volta nel 487 a.C.) mediante il quale un voto
qualificato di almeno 6.001 cittadini avrebbe potuto esiliare per
dieci anni un cittadino che fosse ritenuto una minaccia per la
democrazia (senza che però le sue proprietà fossero confiscate).
Tale sistema, tuttavia, ben presto generò abusi, visto che ogni uomo
politico poteva essere soggetto a tale misura, dal momento che non
era necessario provare l'effettiva e concreta pericolosità per la
democrazia del soggetto che avrebbe dovuto subire l'esilio. Clistene, infine, definì tali riforme
isonomia, termine traducibile come "uguaglianza di fronte
alla legge". Quanto a Clistene, alcuni storici riportano che fu
il primo a subire l'ostracismo. Clistene fu lo zio di Agariste, moglie
dell'ammiraglio Santippo e madre di Pericle. Non è nota la data della sua morte.
Nel 507/506 a.C. - Sul finire del VI secolo a.C. si arresta l'espansionismo etrusco. Prima Roma si era liberata dalla supremazia dei Tarquini, poi si liberarono dagli Etruschi i Latini che, sostenuti dal greco Aristodemo di Cuma, ad Ariccia nel 507/506 a.C. li sconfissero in battaglia. Livio racconta che, abbandonata la guerra contro Roma, Porsenna, per evitare di subire critiche al suo ritorno, inviò il proprio figlio Arrunte ad assediare Aricia con parte dell'esercito. Inizialmente sembra che l'attacco colse gli abitanti alla sprovvista, poi ricevuti i rinforzi dalle vicine città latine e dai Greci di Cuma, ebbero la meglio sulle truppe etrusche. I pochissimi superstiti, privi del loro comandante, riuscirono a raggiungere Roma. Qui, supplici, vennero accolti benignamente e ospitati dai Romani. Alcuni più tardi fecero ritorno alle loro abitazioni, molti invece rimasero a Roma, per l'affetto che ormai li legava alla città. Il quartiere che venne loro assegnato prese il nome di "Vicus Tuscus". La sconfitta etrusca ad Aricia poneva, in definitiva, gli avamposti degli Etruschi in Campania isolati. Più tardi, dopo la successiva sconfitta navale ad opera sempre di Cuma nel 474 a.C. (v. battaglia di Cuma), andarono via via perduti, tanto che a partire dal 423 a.C. la stessa Capua venne occupata dagli Osci.
Nel 505/504
a.C. - Scoppia una nuova guerra tra Roma e i Sabini
e benché Livio non faccia alcuna menzione del coinvolgimento degli
Etruschi, i Fasti triumphales registrano che il console Publio
Valerio Publicola celebrò un trionfo sia sui Sabini che sui Veienti
nel maggio del 504 a.C..
Foro rurale ad Altilia, presso
l'antica Sepino, in Molise.
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Nel 500 a.C. - Si ha la massima espansione del commercio Fenicio.
- Dal V° secolo a.C. Tartesso, citata più volte nelle scritture ebraiche ('Tarshish', conosciuta anche come 'Tarsis' o 'Tarsisch') , non esisterà più: non ci è noto il motivo, se naturale o per assoggettamento da parte dei Cartaginesi. Nella Bibbia Tartesso è citata in ventuno paragrafi, undici volte nei libri dei Profeti e sei volte in altri libri. Sembra quindi che la parola Tartesso sia di origine semitica, e potrebbe significare "fine della terra". E' singolare il continuo rimando biblico alle cosiddette "navi di Tarsis", in cui si portavano enormi tesori e che riuscivano a fare viaggi lunghi e difficili. Ezechiele 27, 12 dice: "Tarschisch commerciava con te (Tiro), a causa della moltitudine di mercanzie di cui disponeva: argento, ferro, stagno e piombo." Tartesso, indicata come Tarsis (o Tarshish, o Tarsish) nei testi biblici:
- "I re di Tarsis e delle isole deve offrire i loro doni ..." - Bibbia, Libro Secondo dei Salmi, 72,10.
- "Tutti i calici di re Salomone erano d'oro (...) Non c'era argento, nessun caso ha fatto nulla di tutto questo nei giorni di Salomone, quando il re aveva in mare le navi di Tarsis con Hiram e ogni tre anni venivano le navi di Tarsis portando oro, argento, avorio, scimmie e pavoni." E segue: "Hiram, re di Tiro (969-936 a.C.) di potenza fenicia, successore di Sidone. Questo re aveva stabilito accordi con il re Davide, durante la costruzione del Palazzo Reale e il Tempio di Gerusalemme, e poi con Salomone." - Bibbia, I Re, 10, 21-22.
- "Perché gli dèi delle nazioni sono vane: un albero del bosco, il lavoro delle mani del maestro con l'ascia lo interruppe con argento e oro impreziosisce, provenienti da Tarsis laminato argento, oro di Ofir e maestro lavorazione mani orafo, di blu e porpora e di scarlatto è il suo vestito, tutti sono il lavoro degli artigiani. Con il martello e chiodi che tengono in modo che non si muova. Sono come spaventapasseri nei campi, che non parlano. Bisogna portarli, perché non possono camminare. Non abbiate paura di loro, perché non fanno nulla di buono o cattivo." - Bibbia, in Geremia, (nato nel 645 a.C.) 10, 3.
Nave da guerra assira di produzione
fenicia, VII secolo a.C.,
da Ninive, Palazzo Sud-Ovest, stanza
VII, pannello 11
(Londra, British Museum), da: https://it.wikipedia.org
CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.
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- "(Descrizione di Tiro e di ricchezza). Tarsis commerciava con te in abbondanza tutti i tipi di prodotti: argento, ferro, stagno e piombo per la vostra merce (...) Le navi di Tarsis erano le tue carovane che portano merci. Così si diventa ricchi e ricchi nel cuore dei mari." - Bibbia, Ezechiele, (inizio sec. VI a.C.) 27, 12.
- "Giona si levò per fuggire a Tarsis, lontano dal Signore, scese a Giaffa, dove trovò una nave che doveva andare a Tarsis. Ha pagato il prezzo della corsa e scese in essa per andare con loro in Tarsis dal Signore." - Bibbia, Giona, (IV sec. a.C.) 1, 3.
per il post "Tartesso: prima i Liguri, poi Fenici e Greci", clicca QUI.
Per il post "Ercole e altri miti a Tartesso", clicca QUI.
Per il post "Tartesso: l'Economia", clicca QUI.
Carta delle popolazioni Celtiche in
Europa.
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- Dal V al I secolo a.C., i Germani premettero costantemente verso sud, venendo a contatto (e spesso in conflitto) con i Celti e, in seguito, con i Romani. Lo spostamento verso sud fu probabilmente influenzato da un peggioramento delle condizioni climatiche in Scandinavia tra il 600 a.C. e il 300 a.C. circa. Il clima mite e secco della Scandinavia meridionale (una temperatura di due-tre gradi più elevata di quella attuale) peggiorò considerevolmente, il che non solo modificò drammaticamente la vegetazione, ma spinse le popolazioni a cambiare modi di vivere e ad abbandonare gli insediamenti. Intorno a tale periodo questa cultura scoprì come estrarre il "ferro di palude" (limonite) dal minerale nelle paludi di torba. Il possesso della tecnologia adatta ad ottenere minerale di ferro dalle fonti locali può aver favorito l'espansione in nuovi territori. Nell'area di contatto con i Celti, lungo il Reno, i due popoli entrarono in conflitto. Sebbene portatori di una civiltà più articolata, i Galli subirono l'insediamento di avamposti germanici nel loro territorio, che diedero origine a processi di sovrapposizione tra i due popoli: insediamenti appartenenti all'uno o all'altro ceppo si alternavano e penetravano, anche profondamente, nelle rispettive aree d'origine. Sul lungo periodo, a uscire vincitori dal confronto furono i Germani, che qualche secolo più tardi sarebbero dilagati a occidente del Reno. Identico processo si sarebbe verificato, a sud, lungo l'altro argine naturale alla loro espansione, il Danubio. Dal Blog "Sanremo Mediterranea": Per il post "Dal Ligure al Celtico, dagli antichi alfabeti dell'Italia Settentrionale al Runico", clicca QUI
Carta della Venetia, X Regio della Roma
Imperiale.
Clicca sull'immagine per ingrandirla.
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Cavallo degli antichi Veneti o
Venetici.
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Il cavallo, chiamato Ekvo dai Veneti antichi, animale-totem della protostoria dell'Europa, giocò nella loro cultura un ruolo di prim'ordine. Questi animali erano allevati per la loro valenza economica e come simbolo di predominio aristocratico e militare. I cavalli dei Veneti erano noti per la loro abilità nella corsa ed erano spesso riprodotti negli ex voto, nelle aree più sacre. Centinaia di bronzetti a forma di cavallo o di cavaliere su cavallo provengono dai luoghi di culto dei Veneti. Al cavallo erano riservati appositi spazi di sepoltura nelle necropoli. Il cavallo compare in vari manufatti come immagine simbolica o elemento decorativo
- In Grecia, le due città greche più importanti, Atene e Sparta, erano divise quasi su tutto: avevano diversi interessi, diversi rapporti fra le classi, diversa concezione della vita e della cultura. E anche, naturalmente, una diversa concezione della guerra.
Opliti Spartiati. Clicca sull'immagine
per ingrandirla.
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Costituzione di Sparta. Clicca per
ingrandire.
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Le armi di un oplita del 500
a.C.: elmo, corazza, lancia,
di cui si vede solo la punta,
spada. Clicca sull'immagine
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Diversa era la situazione ad Atene all'inizio del V secolo. Lì non si passava la vita sotto le armi, anzi, non c'era nessuno che facesse il soldato per professione: i cittadini venivano chiamati di volta in volta alle armi, in caso di necessità, sotto il comando di capi militari (gli strateghi) che venivano eletti di anno in anno. Nonostante che, dopo la riforma di Clistene, le cariche pubbliche venissero sorteggiate fra tutti gli aventi diritto, a quella di stratega veniva attribuita una componente di competenza tecnica, per cui era riservata, per comune consenso, alle persone riconosciute più esperte. Una cosa però accomunava le tecniche di guerra di Ateniesi e Spartani (e in realtà di quasi tutti i Greci) al momento dell'invasione persiana: per gli uni come per gli altri, il nerbo dei rispettivi eserciti era costituito dalla fanteria oplitica.
Gli opliti (da Yoplon, lo scudo tondo del diametro di un metro, in legno ricurvo corazzato in bronzo od ottone) erano cittadini liberi, appartenenti per lo meno al ceto medio, i quali potevano permettersi di equipaggiarsi con la pesante armatura di bronzo adottata dalle armate greche fin dalla fine dell'VIII secolo a.C. L'equipaggiamento difensivo (chiamato panoplia) era composto da una corazza, sagomata in modo da avere la forma di un torso maschile, a protezione del busto; da un elmo, sempre di bronzo, che riparava anche il naso e le guance; da protezioni metalliche per la parte inferiore delle gambe; infine dal grande scudo argivo (Yoplon), da cui derivava appunto il termine 'oplita'. Le armi offensive erano una lancia e una spada di ferro. La fanteria oplitica combatteva in formazione serrata e pertanto si muoveva con lentezza, ma con efficacia, ed era in grado di resistere anche a una carica di cavalleria. L'armatura di bronzo bastava spesso a proteggere i soldati dalle frecce scagliate da lontano, o anche da una lancia scagliata senza sufficiente forza e precisione. Per sconfiggere gli opliti, dunque, era necessario affrontarli a distanza ravvicinata.
Costituzione di Atene. Clicca
sull'immagine per ingrandirla.
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Modalità dell'ostracismo, praticato ad
Atene.
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L'introduzione di questo modo di combattere soppiantò i combattimenti individuali sui carri trainati da cavalli e i duelli tra aristocratici raccontati da Omero nelle gesta degli eroi Micenei. Poiché per costruire una falange occorreva un gran numero di uomini e grazie al fatto che l'oplita non aveva bisogno del cavallo, che doveva essere spesato dal cavaliere, quindi un'aristocratico, artigiani e mercanti entrarono a far parte dell'esercito ottenendo il diritto di cittadinanza: questo permise che il potere militare finisse nelle mani dei comuni cittadini. Pertanto l'introduzione della guerra oplitica fu uno dei fattori che contribuì a minare il primato dell'aristocrazia, che perse il predominio sulla forza militare. Alla lunga la nuova tecnica di combattimento finì con il creare tensioni anche all'interno della disciplinatissima società spartana. Comunque ad Atene e in molte altre città il potere politico era passato nelle mani dell'assemblea dei cittadini.
La falange greca, formazione serrata
con cui
combattevano gli Opliti dell'antica
Grecia.
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- Ecateo di Mileto, (Mileto, 550 - 476 a.C.) è stato un geografo e storico greco antico. Visse attorno al 500 a.C. e fu tra i primi autori di scritti di storia e geografia in prosa del mondo greco. I logografi erano uomini che viaggiavano molto e descrivevano i paesi che visitavano nei loro vari aspetti: cultura, storia, geografia del luogo in cui vivevano, tradizioni, usi, costumi, religione. Grazie ai suoi numerosi viaggi lungo l'ecumene, la terra abitata conosciuta allora e formata dall'impero persiano, dalla Grecia, dall'Egitto, dal bacino del Mediterraneo, egli disegnò una carta geografica che perfezionava quella di Anassimandro e fu autore di una Periégesis, forse conosciuta da Erodoto. Essa rappresenta la fase intermedia tra poesia epica e storiografia. Figlio di Egesandro, aristocratico, si vantava, secondo quanto racconta Erodoto (Storie, II, 143), di avere avuto, nella propria genealogia, un dio per antenato della sedicesima generazione: i sacerdoti egiziani del dio Amon gli mostrarono nel tempio ben 345 statue di sacerdoti della stessa stirpe e il più antico di essi era ancora un uomo. Il senso dell'episodio sembra essere che egli cominciasse a considerare razionalmente i miti e a basarsi sui fatti per valutare le tradizioni. Sempre Erodoto (Storie, V, 36) racconta che al tempo della rivolta delle città ioniche contro i persiani (500 - 494 a.C.) Ecateo consigliò di costruire una flotta utilizzando il tesoro del tempio dei Branchidi per poter combattere con successo e fu poi tra gli ambasciatori che trattarono la pace col satrapo Artaferne; anche questo episodio mostrerebbe la sua spregiudicatezza e la sua noncuranza per ciò che allora era considerato sacro e inviolabile. Le Genealogie (Geneelogiai) sono una sua opera in 4 libri di natura storica, con un'esposizione di avvenimenti mitici ordinati cronologicamente per generazioni, in cui una generazione corrisponde a circa quarant'anni. Probabilmente Ecateo considerava il periodo dai deucalionidi, da Prometeo a Eracle. Restano una trentina di frammenti dai quali non si può ricavare carattere e distribuzione della materia trattata anche se sono considerate un tentativo di razionalizzare gli elementi mitici della storia primitiva della Grecia. Nel II libro erano narrati alcuni miti di Eracle e nel IV delle leggende milesie, del popolo degl'Itali e dei Morgeti. Restano frammenti anche del Giro della Terra (Periegesis), opera di natura geografica, pubblicata alla fine del VI secolo, in due libri riguardanti l'Europa e l'Asia, una descrizione di luoghi visitati, con indicazione delle distanze e osservazioni etnografiche: secondo Erodoto, disegnò una carta geografica che rappresentava la Terra come un disco rotondo circondato dall'Oceano, concezione del resto a lui anteriore.
Ecumene di Ecateo di Mileto.
Clicca sull'immagine per ingrandirla.
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Esordisce nelle Genealogie con la perifrasi "os emoi dokei", "io scrivo cose che credo vere; invece molti racconti greci sono ridicoli". Questa fu una delle prime individualizzazioni dell'autore nella storia della letteratura, mentre in precedenza (basti pensare ai poemi omerici) lo scrittore non compare nell'opera, anzi essa è raccontata dalla musa per mezzo del poeta, non è frutto della fantasia o dell'abilità del poeta stesso. Considerando leggende molte tradizioni della sua terra, cerca di comprendere i miti, razionalizzandoli: così, per esempio, spiega la leggenda di Eracle che, nel capo Tenaro, scende nell'Ade per portare il cane infernale Cerbero a Euristeo, verificando che in quel luogo non c'è nessuna strada sotterranea e nessun ingresso all'Ade; dunque, secondo lui, Eracle ha semplicemente catturato in quel luogo un comune serpente chiamato, per la sua velenosità, cane dell'Ade. In questo modo il mito viene adattato ai tempi ma mantenuto, perché Ecateo non interpreta e mantiene reali Eracle e l'Ade, che sono i fondamenti della leggenda. È il limite di ogni razionalizzazione: in realtà le mitologie vanno spiegate storicizzandole, cioè comprendendo come e perché siano sorte, altrimenti vengono soltanto modificate, creandone altre, come infatti la storia insegna. Ma Ecateo non poteva “storicizzare”, proprio a causa dell'inesistenza, ai suoi tempi, di una storiografia e perciò di una metodologia storiografica e tuttavia, per il suo sforzo di mettere in discussione le narrazioni del passato, per la ricerca della verosimiglianza dei fatti e il rifiuto dell'autorità, merita il nome di padre della storiografia greca.
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