Ora, alla fine del 2008, è arrivata la notizia della ricostruzione completa dell’antico apparecchio, curata da Michael Wright, un ingegnere del Museo delle Scienze di Londra. E’ una copia esatta del’originale, con le stesse dimensioni e gli stessi materiali. Il nuovo modello è contenuto in una scatola di legno poco più piccola di una scatola da scarpe. Di fronte ci sono due quadranti sovrapposti che riportano lo zodiaco e i giorni dell’anno. Punte di metallo indicano la posizione del Sole, della Luna e dei cinque pianeti. Il quadrante superiore, spiega Wright, rappresenta il ciclo Metonico, cioè il ciclo dei 19 anni. In questo modo è possibile mantenere un calendario sincronizzato sia al corso del sole, sia a quello della luna. Il quadrante inferiore è stato diviso invece in 223 parti con riferimento al cosiddetto ciclo di Saros, usato per prevedere le eclissi. La Macchina di Antikythera conferma l’alto livello tecnologico raggiunto dalla Grecia nel secondo secolo a. C. E non c’è bisogno di scomodare gli extraterrestri per spiegare la presenza, in quel periodo, di una macchina così raffinata. Non ci sono misteri da chiarire. Si tratta soltanto di una prova ulteriore dei danni irreparabili provocati da chi, nei secoli più oscuri della nostra storia, tentò di cancellare il pensiero greco, distruggendone le più preziose testimonianze.
- Nelle province romane d'
Hiberia, la
guerriglia scatenata dal capo lusitano Viriato culmina con la presa della città celtibera di
Numanzia nel 133 a.C. Solo al termine di tali eventi bellici (a cavallo fra la fine del II e i primi anni del I secolo a.C.), che successivamente si salderanno con le guerre civili della tarda età repubblicana, combattute in parte in Iberia, il potere romano sulle due province (Lusitania e Tarraconiensis) poté considerarsi pienamente consolidato, anche se si estenderà a tutta la penisola solo dopo l'assoggettamento dei Cantabri in età augustea.
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Le province iberiche romane con
indicati gli anni delle
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L'occupazione romana culmina con la creazione delle province hispaniche. Il nome
Hispania o Ispania deriva dal termine di probabile
origine punica (cartaginese) che significa
terra di conigli. Appare in letteratura e in storiografia fin dalla tarda età repubblicana: anche Tito Livio utilizza i termini di Hispania e di Hispani (o Hispanici) per designare il territorio iberico e i popoli che lo abitavano.
Nel 134 a.C. - Il romano
Gaio Mario si distingue per le notevoli
attitudini militari dimostrate in occasione dell'assedio di Numanzia, in Spagna, tanto da farsi notare da Publio Cornelio Scipione Emiliano (in seguito soprannominato Emiliano o Africano Minore). Non è dato sapere con certezza se venne in Spagna al seguito dell'esercito di Scipione oppure se si trovasse già in precedenza a servire nel contingente che, con scarso successo, da tempo cingeva d'assedio Numanzia. Sta di fatto che Mario parve fin dall'inizio
molto interessato a far carriera politica in Roma stessa. Infatti si candidò per la carica di tribuno militare di una delle 4 prime legioni (in tutto i tribuni elettivi erano 24, mentre tutti gli altri venivano nominati dai magistrati preposti agli arruolamenti). Lo storico Sallustio ci informa che il suo nome era del tutto sconosciuto agli elettori, ma che alla fine i rappresentanti delle tribù lo elessero per merito del suo eccellente stato di servizio e
su raccomandazione di Scipione Emiliano. Successivamente si ha notizia di una sua candidatura alla carica di questore ad Arpino. È probabile che egli utilizzasse le posizioni di comando ad Arpino per raccogliere dietro di sé un consistente numero di clienti su cui fare affidamento per le successive mosse che aveva in animo di compiere. Tuttavia sono solo congetture in quanto nulla si conosce della sua attività come questore.
Nel 133 a.C. -
Dopo vent'anni di scontri, l'esercito romano della “Tarraconense”
comandato da Publio Cornelio
Scipione
Emiliano
conquista
Numanzia, antica roccaforte celtiberica (in spagnolo:
Numancia, in latino Numantia), situata nell'attuale provincia di
Soria, in Spagna, nei pressi di Milles de la Polvorosa dove il Tera
affluisce nell'Esla, (in epoca romana conosciuto come Astura, nella
Cordigliera Cantabrica) a sua volta affluente del Duero. È passata
alla storia per l'autodistruzione operata dai suoi abitanti che,
gelosi della loro indipendenza, non intendevano in nessun modo
sottomettersi al potere dei Romani, conquistatori della penisola
iberica. Venne fondata con ogni probabilità nel IV secolo a.C. dal
popolo celtibero degli
Arevaci. Dopo essere
entrata nella sfera punica negli ultimi decenni del III secolo a.C.,
pur senza mai venir conquistata dai Cartaginesi, divenne, nel II
secolo a.C., baluardo della resistenza iberica contro l'espansionismo
romano in Hispania. Nell'anno 153 a.C. un esercito numantino, sotto
la guida di un certo Segeda Caro, era riuscito a battere un esercito
romano di 30.000 armati, guidato dal console Quinto Fulvio Nobiliore.
Nel 137 a.C., mentre era in corso la
terza guerra
celtibera, Gaio Ostilio Mancino era divenuto console con Marco
Emilio Lepido Porcina, pertanto a Mancino venne affidato il comando
delle truppe di Roma nella Spagna Citeriore, con il compito di
espugnare Numanzia che già da diversi anni teneva in
scacco i romani. Purtroppo questa esperienza si rivelò fallimentare;
infatti fu sconfitto in diverse occasioni finché, completamente
circondato dai nemici, fu costretto a negoziare un trattato di pace
per evitare l'annientamento delle sue truppe. In questo trattato
Mancino fu supportato dal suo questore
Tiberio Gracco,
che godeva di grande rispetto presso i numantini poiché memori delle
gesta del padre, che in passato era stato loro alleato. Fra l'altro
Tiberio Gracco accettò di trattare con i Numantini anche per
recuperare il diario e le tavole del suo ufficio di questore che
erano state rubate nel saccheggio successivo alla fuga romana.
Tornato a Roma fu accusato e biasimato per il suo gesto, ma il
popolo
e le
famiglie dei
soldati (20.000 vite furono
risparmiate) scampati al massacro
lo acclamarono come
un salvatore. Dalla compagine dei senatori venne invece una reazione
ostile per il fatto che i romani erano usciti piegati dallo scontro
con Numanzia e patteggiato una pace non da vincitori ma da vinti. Il
senato rimandò così a Numanzia Gaio Ostilio Mancino come
prigioniero, consegnato nudo e legato in segno di
rifiuto del
trattato che Tiberio aveva formulato. Nel 134 a.C., dopo vent'anni di
guerre ininterrotte fra gli Arevaci, appoggiati dalle altre tribù
celtibere e i Romani, che per ben cinque volte avevano tentato senza
successo di espugnare la città, l'esercito romano della
“Tarraconense” fu affidato a Publio Cornelio
Scipione
Emiliano, nipote dell'eroe della seconda guerra punica vincitore di
Cartagine e a sua volta generale della terza guerra punica. Costui,
dopo aver saccheggiato il paese dei Vaccei, cinse d'assedio Numanzia
nel 134 - 133 a.C. L'armata comandata da Scipione era integrata da un
nutrito contingente di cavalleria numidica, fornita dall'alleato
Micipsa, al cui comando si trovava il giovane nipote del re,
Giugurta. Per prima cosa, Scipione si adoperò per rincuorare
e riorganizzare l'esercito scoraggiato dall'ostinata ed efficace
resistenza della città ribelle; poi, nella certezza che la
cittadella poteva essere presa solo per fame, fece costruire una
doppia circonvallazione atta a isolare Numanzia e a privarla di
qualsiasi aiuto esterno. Il console si adoperò poi a scoraggiare gli
Iberi dal portare aiuto alla città ribelle, presentandosi con
l'esercito alle porte della città di Lutia e obbligandola alla
sottomissione e alla consegna di ostaggi. Dopo quasi un anno di
assedio (l'assedio di Numanzia ispirò a Cervantes un dramma, “El
cerco de Numancia”), i numantini, ridotti alla fame, cercarono un
abboccamento con Scipione ma, saputo che questi non avrebbe accettato
altro che una resa incondizionata, i pochi uomini in condizione di
combattere preferirono gettarsi in un ultimo, disperato assalto
contro le fortificazioni romane. Il fallimento della sortita spinse i
superstiti, secondo la leggenda, a bruciare la città e a gettarsi
fra le fiamme. Non tutti però persero la vita; alcuni, ridotti in
schiavitù, sfilarono a Roma durante il trionfo di Scipione. La città
fu rasa al suolo come Cartagine. Il
bellum numantinum acquista
particolare importanza perché segna il pieno affermarsi dell'
egemonia romana nell'Hispania
centro-settentrionale e la definitiva pacificazione della massima
parte della penisola iberica.
- Le grandi conquiste
produrranno a Roma profonde trasformazioni
economico-sociali: 1)
Prima delle guerre d'oltremare, i terreni conquistati
venivano distribuiti ai soldati ma nel caso delle guerre puniche, in
cui erano stati occupati territori vasti e molto importanti, i
senatori e gli ufficiali, approfittando del proprio
potere, si riservarono i terreni più vasti e fertili, divenendo così
latifondisti, violando una disposizione a favore dei plebei. Inoltre
poterono acquistarono terreni a basso prezzo dai piccoli proprietari,
rovinati dalla loro partecipazione a lunghe guerre. A Roma, fino al
200 a.C., l'esercito era formato leve annuali,
attraverso il meccanismo della coscrizione obbligatoria, per poi
congedare tutti. Per far parte dell’esercito romano
si doveva avere un reddito (censo) che permettesse di pagarsi gli
armamenti e i più numerosi componenti delle milizie erano allevatori
e piccoli proprietari terrieri,
che durante queste guerre erano stati costretti, dovendosi
arruolare, a lasciare incolti i loro terreni. Mal pagati per il
servizio militare prestato ed esclusi dagli aristocratici
dalla divisione del bottino, al loro ritorno si
ritrovavano sommersi dai
debiti che le loro famiglie avevano contratto per
sopravvivere e secondo le leggi delle “dodici tavole”, nella Roma
antica il creditore poteva rendere schiavo il debitore ed anche
ucciderlo se questi non avesse ripagato il suo debito; dunque molti
piccoli proprietari terrieri rischiavano di diventare
schiavi. Per ripagare i debiti, molti di
loro finirono o per svendere i loro possedimenti o a
lavorare come braccianti. In ogni caso il grano prodotto dai
piccoli proprietari terrieri nella Repubblica non era più
conveniente: dalla Sicilia e dall'Africa giungevano cereali a prezzi
molto contenuti ottenuti con la manodopera degli schiavi, fenomeno
che si stava affermando anche nel suolo italico. Per potersi
risollevare i piccioli agricoltori avrebbero dovuto smettere di
coltivare grano e convertire le piantagioni in vigne e uliveti ben
più redditizi, ma non disponevano dei capitali necessari per
effettuare queste trasformazioni. In alcuni casi restavano a lavorare
i campi come braccianti con paghe bassissime e in altri si
trasferivano in città in cerca di fortuna, dando così vita al
fenomeno della proletarizzazione urbana. In città
conducevano una vita molto misera, ricevendo delle elargizioni di
grano dallo Stato (le frumentazioni) o vivendo grazie all'appoggio di
qualche famiglia potente, delinquendo e/o vendendo
il proprio voto al miglior offerente. 2) Per contro, questi nuovi proletari
non potevano legalmente entrare nell'esercito, poiché non
possedevano il censo per accedervi e questo, insieme alla mancanza di
suolo pubblico da assegnare in
cambio del servizio militare e agli ammutinamenti avvenuti
nella guerra Numantina, causava problemi di reclutamento e la carenza
di truppe. Per questo i fratelli Gracchi avrebbero mirato alla
bonifica delle terre pubbliche incolte da parte dei
membri benestanti della classe senatoria, il loro affidamento agli ex
militari e ai contadini sfollati, sovvenzionare
la produzione di grano per i bisognosi e per avere la
paga Repubblica per l'abbigliamento dei suoi soldati
più poveri affinchè potessero far parte dell'esercito. 3) L'afflusso di sempre più
schiavi e le prime rivolte. Dopo la conquista dell’Epiro
,150.000 abitanti furono venduti come schiavi. Con la conquista della
Grecia, potevano giungere anche 10.000 schiavi in un solo giorno da
Delo, dove il mercato degli schiavi era gestito da cittadini romani e
da italici senza cittadinanza romana. Da Cartagine sconfitta
definitivamente, furono condotti a Roma 50.000 prigionieri. I
latifondisti,
oltre alle nuove conquiste potevano così acquistare i terreni
dei piccoli proprietari indebitati a basso prezzo e facevano
coltivare i loro terreni dagli schiavi, al posto dei contadini
e piccoli proprietari, generando così la «proletarizzazione» di
una vasta mole di persone, costrette a riversarsi nella città in
cerca di espedienti ed elargizioni pubbliche. 4) Alle popolazioni italiche
federate con Roma, che occupavano il resto della penisola, pur avendo
partecipato come socii ai vari conflitti, non era stata
riconosciuta la cittadinanza romana, che avrebbe permesso loro
gli stessi diritti dei Romani e inferiori spese daziali e tributarie.
Il risentimento nei confronti del dominatore romano
cresceva tra gli alleati italici, poiché erano trattati come
una classe sociale di seconda scelta nel sistema romano. In
particolare, non avendo la cittadinanza romana, non potevano
usufruire dei benefici dei cittadini romani, come la distribuzione su
larga scala dei terreni pubblici (ager publicus), sia nei
confronti del grande e del piccolo proprietario terriero, sulla base
delle riforme agrarie portate avanti dai fratelli Gracchi a partire
dal 133 a.C.. Non a caso le riforme portarono a chiedere da parte di
molte popolazioni italiche tra i socii che fosse loro concessa la
cittadinanza romana. Ma sembra dalle fonti frammentarie che la
maggioranza conservatrice del Senato romano riuscì, anche attraverso
l'eliminazione degli stessi Gracchi, a bloccare qualsiasi
significativa espansione della cittadinanza tra i socii nel periodo
successivo alla legge agraria del 133 a.C.
|
I fratelli Gracchi.
|
- Nel
133 a.C.
Tiberio Sempronio Gracco (Roma, 163 a.C.-
Roma, 132 a.C.) della fazione dei
Populares, è eletto
tribuno
della plebe. Figlio maggiore dell'omonimo Tiberio
Sempronio Gracco di origine plebea, che aveva avuto un ruolo
importante nelle guerre di Spagna e di Cornelia, figlia di Publio
Cornelio Scipione Africano di antica famiglia aristocratica, Tiberio
Sempronio, grazie alla provenienza paterna dalla
gens plebea,
ottiene l'ascesa al tribunato. Poco più che fanciullo, aveva fatto
parte dei sacerdoti
auguri grazie anche all'approvazione
dell'influente senatore Appio Claudio Pulcro, che poco più tardi gli
aveva dato in moglie la figlia Claudia, da cui non ebbe nessun
figlio. Nel 146 a.C., all'età di diciassette anni, aveva militato in
Libia sotto il comando del cognato Scipione Emiliano e nove anni
dopo, al suo ritorno a Roma, era stato eletto questore, dovendo così
partire per la
terza guerra celtibera sotto il
comando del console Gaio Ostilio Mancino che aveva ricevuto il
compito di
espugnare Numanzia,
che già da diversi anni teneva in scacco i romani. Il tentativo si
rivelò fallimentare; infatti il console fu sconfitto in diverse
occasioni finché, completamente circondato dai nemici, fu costretto
a negoziare un trattato di pace per evitare l'annientamento delle sue
truppe. In questo trattato Mancino fu supportato dal suo questore
Tiberio Gracco, che godeva di grande rispetto presso i
numantini poiché memori delle
gesta del
padre, che in
passato era stato loro alleato. Fra l'altro Tiberio Gracco accettò
di trattare con i Numantini anche per recuperare il diario e le
tavole del suo ufficio di questore che erano state rubate nel
saccheggio successivo alla fuga romana. Tornato a Roma fu accusato e
biasimato per il suo gesto, ma il
popolo e le
famiglie
dei
soldati (20.000 vite furono risparmiate) scampati al
massacro
lo acclamarono come un salvatore. Dalla
compagine dei senatori venne invece una reazione ostile per il fatto
che i romani erano usciti piegati dallo scontro con Numanzia e
patteggiato una pace non da vincitori ma da vinti. Il
senato
rimandò così a Numanzia Gaio Ostilio Mancino come prigioniero,
consegnato nudo e legato in segno di
rifiuto del
trattato
che Tiberio aveva formulato. Come tribuno della plebe, Tiberio
Gracco voleva risolvere la grande povertà di cui soffriva la
popolazione romana dai tempi delle guerre puniche. Solitamente
i
terreni conquistati venivano distribuiti ai soldati ma nel caso
delle guerre puniche, in cui erano stati occupati territori
vasti
e molto importanti, i
senatori e gli
ufficiali,
approfittando del proprio potere, si riservarono i terreni più vasti
e fertili. Inoltre poterono acquistarono terreni a basso prezzo dai
piccoli proprietari rovinati dalle lunghe guerre, così i terreni
prima coltivati da umili contadini diventarono latifondi coltivati da
schiavi e quindi era
cambiata completamente la
società.
I contadini disoccupati si recavano nelle città con la speranza di
trovare un lavoro ma molti diventavano delinquenti per contrastare la
fame. Con queste distribuzioni di terreni veniva anche violata una
disposizione a favore dei plebei. Per porre
fine alla crescente
povertà del
popolo,
il neo eletto tribuno della plebe Tiberio Gracco cercò di far
approvare una
legge di
riforma agraria, la
lex
agraria detta legge Sempronia, con l'aiuto del suo
parente Publio Licinio Crasso Dive Muciano, pontefice massimo e del
console Publio Muzio Scevola, per la redistribuzione delle terre del
suolo italico, usurpate dai ricchi ai più poveri e offerte ai
forestieri per la lavorazione. La legge prevedeva che nessuno potesse
possedere più di 500 iugeri di
terre pubbliche (pari a
125 ettari visto che 1 iugero = 0,252 ettari). A questi se ne
potevano aggiungere altri 250 iugeri per ogni figlio maschio ma non
si potevano superare i 1.000 iugeri di terreni pubblici in proprio
possesso. Chi possedeva
maggiori terre pubbliche
doveva
restituire l'eccedenza allo Stato. Era comunque
previsto un compenso a chi sarebbero state espropriate le terre.
Nessun limite era invece posto ai terreni di
proprietà
privata. Lo
Stato
avrebbe
suddiviso i
terreni restituiti, in
quanto eccedenti le quantità massime che potevano essere detenute,
in piccoli fondi da 30 iugeri (7,5 ettari), da
assegnare ai
cittadini romani
poveri. Una commissione formata da tre
membri eletti dai Comizi tribuni doveva controllare la correttezza
delle operazioni relative a tali terreni. Questa
riforma aveva
il vantaggio di consentire ai ricchi di continuare a detenere grandi
estensioni di terreni ma al tempo stesso avrebbe
permesso ai
disoccupati, poveri e agitati, di tornare ad essere tranquilli
contadini. Per evitare che i piccoli proprietari terrieri si
ritrovassero di nuovo ad essere nullatenenti veniva stabilita
l'
impossibilità di
vendere i
terreni che
fossero stati loro assegnati. La legge fu approvata ma incontrò
gravi difficoltà; ad esempio, molti
italici, che erano
rimasti sui terreni come affittuari, temevano di perdere tutto con la
legge di Tiberio, così come alcune comunità alleate di Roma. Il
dibattito sull'assegnazione delle terre era
collegato alla
questione del
diritto di
cittadinanza: gli abitanti
alleati avevano interessi a ottenere gli
stessi diritti
dei cittadini romani. Per gli
Optimates questa riforma
avrebbe rappresentato sia la
perdita di loro
possedimenti
pubblici che la perdita del
controllo di una
massa
di persone che, potendo tornare al proprio lavoro nei campi, non
poteva più essere
manovrata durante le
elezioni. La
nobiltà, allora, portò dalla propria parte il tribuno della plebe
Marco Ottavio Cecina, che oppose il veto alla riforma. Tiberio si
rivolse ai Comizi chiedendo la deposizione del tribuno che aveva
avuto un comportamento contrario agli interessi del popolo. La
proposta di
deporre il tribuno
Ottavio Cecina fu
approvata all'
unanimità
dalle 35 tribù: era questo, però, un atto incostituzionale
dato che i Comizi non potevano revocare la nomina di un tributo. Dopo
la deposizione di Ottavio Cecina la
riforma agraria fu
a
pprovata e venne creata la commissione che doveva occuparsi
della redistribuzione delle terre pubbliche. Tuttavia, l'applicazione
della legge fu piuttosto difficile dato che i contadini non avevano i
mezzi necessari per mettere a coltura i terreni che venivano loro
assegnati e c'era quindi
bisogno di concedere loro dei
finanziamenti affinché potessero acquistare attrezzi, sementi
e bestiame per far rinascere la piccola proprietà terriera. Proprio
nel 133 a.C. Attalo III, non avendo figli, lascia in eredità il suo
regno di Pergamo e i suoi averi a Roma, che Tiberio Gracco pensava di
utilizzare per finanziare la ricostruzione delle fattorie dei piccoli
contadini. Fece così una proposta in tal senso ai Comizi ma ancora
una volta sembrò al Senato come un tentativo di scavalcare la
propria autorità: infatti si trattava di una decisione di politica
estera che competeva al Senato e non ai Comizi. Temendo che la legge
agraria potesse non trovare una piena applicazione, Tiberio fu
riproposto candidato come tribuno per l'anno successivo ma gli
optimates replicarono che la
Lex Villia del 180 a.C.
prevedeva che tra una magistratura e l'altra dovesse trascorrere un
lasso di tempo. Per questa ragione fu mossa contro di lui l'accusa di
voler diventare un tiranno. Il
contrasto tra gli
Optimates
e
Tiberio Gracco si concluderà con la morte
di quest'ultimo,
assassinato al Campidoglio in
occasione della carneficina ordinata mediante la formula del
tumultus
dal pontefice massimo Publio Cornelio Scipione Nasica Serapioneuna,
carneficina nella quale persero la vita oltre trecento cittadini
romani oltre allo stesso Tiberio, ucciso pare a colpi di sgabello. Il
suo
cadavere fu gettato nel
Tevere e i suoi amici
condannati a morte o esiliati senza processo. Il senato non si oppose
però alla spartizione delle terre ed elesse come nuovo esecutore il
suo parente Publio Licinio Crasso Dive Muciano. Nasica fu
ripetutamente offeso e minacciato ed il senato decise di mandarlo in
Asia per precauzione. L'opera di Tiberio venne poi portata avanti dal
fratello Gaio.
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Il Regno di Pergamo nel 133 a.C. |
- Nel
133 a.C.,
Roma riceve in eredità da Attalo
il Regno di Pergamo, in Asia Minore.
Nel 123 a.C.
- Gaio Sempronio Gracco (Roma, 154 a.C. - Roma,
121 a.C.), dieci anni dopo la morte del fratello maggiore Tiberio, è
eletto tribuno della plebe, carica nella quale
sarà confermato anche l'anno seguente. Gaio
Sempronio Gracco avrebbe voluto da tempo riprendere l'opera di
riforma sociale del fratello Tiberio, ma gli ottimati invece, lo
avevano nominato questore, inviandolo in Sardegna ad amministrare le
finanze, in modo che la sua distanza da Roma, unita al fatto di
ricoprire già un incarico politico, lo dissuadesse dal candidarsi a
tribuno della plebe. Gaio era rimasto nella provincia sarda per due
anni, per poi tornare a Roma a candidarsi ed essere eletto tribuno
della plebe. Gaio cercò di opporsi al potere
esercitato dal senato romano e dall'aristocrazia
attuando una serie di riforme favorevoli
ai Populares, ovvero la plebe, che si erano riversati
nell'Urbe dopo l'espansione territoriale delle guerre puniche,
composti in parte dagli abitanti delle nuove province
conquistate e dai piccoli agricoltori italici e romani
che non potevano competere con i bassi prezzi delle derrate
provenienti dalle provincie (Sicilia, Sardegna, Nord Africa). Durante
il suo secondo tribunato, Gaio Gracco proseguì la politica agraria
del fratello, permettendo la vendita di grano a prezzo
ridotto. Promosse inoltre varie colonie ma la rilevanza
storica di Gaio è legata tuttavia essenzialmente alle sue leges
Semproniae,
approvate tramite plebisciti, tra le quali: Lex Sempronia agraria
che dava maggior vigore a quella del fratello mai abrogata,
assegnando ai cittadini romani indigenti porzioni dell'agro pubblico
romano in Italia, compreso quello dei privati proprietari di terre
oltre i 500-1000 iugeri; Lex de viis muniendis,
piano di costruzioni di strade per agevolare i commerci e dare
lavoro alla plebe con un programma di opere pubbliche; De tribunis
reficiendis, con cui si stabiliva la rieleggibilità dei tribuni
della plebe; Rogatio de abactis, con cui si
toglieva l'elettorato passivo al tribuno destituito dal popolo. Era
questa una legge indirizzata a colpire il tribuno Caio Ottavio che si
era opposto alla lex Sempronia agraria, ma lo stesso Gaio
ritirò questa legge; Lex de provocatione, che vietava la
condanna capitale di un cittadino senza regolare processo; Lex
frumentaria, che disponeva la distribuzione di grano a basso
prezzo ai cittadini bisognosi di Roma; Lex
iudiciaria, che trasferiva la carica di giudice dai
senatori ai cavalieri. Gaio Sempronio Gracco introduceva così
tra le due classi di patrizi e plebei, la terza, l'Ordo
Equestris; Lex de coloniis deducendis per la
deduzione di nuove colonie; Lex de provinciis consularibus,
che imponeva al senato di stabilire prima delle elezioni dei consoli
quali provincie dovessero essere loro assegnate per impedire che un
console avverso al senato fosse allontanato da Roma; Lex
militaris, che stabiliva che l'equipaggiamento dei soldati
fosse a carico dello Stato e vietava l'arruolamento
prima dei 18 anni; Lex Sempronia de capite civis, che era tesa
a vietare la formazione di corti straordinarie (quaestiones
extraordinariae) per Senatus consultum riportando la
decisione su tale materia al popolo (provocatio ad populum);
Lex Sempronia de provincia Asia, che mirava a cercare
l'appoggio dei cavalieri. Rendeva infatti i terreni
della provincia d'Asia ager publicus populi romani e sottraeva
l'appalto delle tasse ai governatori assegnandolo a pubblicani
facenti parte dell'ordine equestre. Poi, in seguito all'introduzione
dei comizi tributi (in cui si riunivano i cittadini ripartiti per le
35 tribù, 4 urbane e 31 rustiche, in cui ognuna esprimeva un voto.
Eleggevano i magistrati minori, come questori e edili e avevano
competenza giudiziaria per reati che prevedessero multe) ed
all'assegnazione delle province, Gaio Gracco propose nel
maggio del 122 a.C. la concessione della cittadinanza romana
ai latini e di quella latina agli italici. L'opposizione al
suo disegno di legge trovò concordi il Senato (che trovava così il
modo di liberarsi di lui), la maggior parte dei cavalieri e
pressoché tutta la plebe, gelosa dei propri
privilegi.
- La principale divisione
politico-sociale a Roma era stata quella tra patrizi e plebei, ma nel
123 a.C. Gaio Sempronio Gracco introduce tra le due classi
una terza, l'Ordo Equestris.
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Lapide di eques da QUI.
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La
Lex Sempronia iudiciaria
stabiliva infatti che i giudici dovessero essere scelti
tra i cittadini di censo equestre e cioè di età tra i trenta e i
sessant'anni, essere o essere stato un
eques o comunque
avere
il
denaro per acquistare e mantenere un
cavallo e non
essere un senatore. Il termine
equites perciò,
dall'iniziale identificazione di soldati a cavallo, passò prima a
indicare chi quel cavallo avesse o avrebbe avuto la
possibilità
di acquistarlo per poi indicare chi avesse la possibilità di essere
eletto come
giudice. La
corruzione delle province era
ormai un cancro diffuso. I governatori, d'accordo con i Pubblicani
(appaltatori delle imposte, pagavano allo stato un canone per esigere
per proprio conto le tasse) gonfiavano i tributi da riscuotere e se
ne intascavano i profitti. I governatori erano sottoposti al
controllo del Senato ma spesso erano loro stessi senatori e a nulla
era valso, nel 149 a.C. un tribunale creato proprio per questi casi.
Gaio Gracco propose che i
tribunali fossero
assegnati
all'
ordine equestre, sfruttando la forte rivalità
esistente tra le due fazioni.
Nel 121 a.C.
- Gaio Sempronio
Gracco aveva perso
molta della sua popolarità, non era stato rieletto al tribunato e
dovette difendersi da accuse pretestuose, come quella di aver dedotto
nuovamente Cartagine, atto che gli indovini avevano dichiarato come
infausto. Gaio il giorno della votazione relativa all'abrogazione
proposta dal senato della legge riguardante la fondazione delle
colonie, si presentò all'assemblea per difenderla. I nobili,
capeggiati da Publio Cornelio Scipione Nasica Corculo gli gettarono
contro il collega Marco Livio Druso e il triumviro Gaio Papirio
Carbone. Scoppiarono una serie di disordini che il nuovo console
Opimio, eletto dal partito oligarchico, ebbe mano libera per
reprimere.
Gaio e i
suoi sostenitori si rifugiarono sull'Aventino per resistere armati,
ma quando Opimio promise l'impunità a chi si fosse arreso e
consegnato, l'ex tribuno, rimasto
quasi solo, si
fece uccidere
dal suo schiavo
Filocrate nel lucus Furrinae sul Gianicolo. Una feroce repressione
portò alla morte nelle carceri di quasi 3.000 dei suoi partigiani. La
memoria dei Gracchi fu maledetta e alla madre fu proibito d'indossare
le vesti a lutto per il figlio defunto. «La sconfitta
dei Gracchi consolidò
apparentemente il potere dell'aristocrazia,
ma dimostrò anche che questa, rifiutandosi a qualsiasi soddisfazione
delle esigenze dei plebei e degli Italici, non si
reggeva ormai più
che con la violenza.»
(Enciclopedia Italiana Treccani alla voce "Gracco, Gaio
Sempronio").
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La provincia romana narbonense, da
cui nascerà il nome Provenza.
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Nel 121 a.C. - La
Gallia Narbonense diventa
provincia romana col nome originario di Gallia Transalpina (ossia "Gallia al di là delle Alpi", nota anche come Gallia ulterior e Gallia comata, in contrapposizione alla Gallia Cisalpina ossia "Gallia al di qua delle Alpi", nota anche come Gallia citerior e Gallia togata). Dopo la fondazione della città di Narbo Martius, o Narbona, (l'attuale Narbona), nel 118 a.C., la provincia fu rinominata Gallia Narbonensis, o Gallia bracata, con la nuova colonia costiera come capitale. La nuova provincia romana corrispondeva all'incirca alle due odierne regioni amministrative francesi di Linguadoca-Rossiglione e Provenza-Alpi-Costa Azzurra, situate nella Francia meridionale. Precedentemente conosciuta come Gallia Transalpina (o Gallia meridionale), in epoca romana era chiamata anche Provincia Nostra o semplicemente Provincia. L'eco di questo termine ancora permane nel nome dell'attuale regione francese (Provence o
Provenza). Con la riforma dioclezianea, la Gallia narbonese perse la sua parte più settentrionale, che assunse il nome di Gallia Viennensis. Poco dopo la provincia venne ulteriormente divisa, in "Narbonensis prima" (ad occidente del Rodano), e "Narbonensis secunda" (a oriente del Rodano). Insieme all'Aquitania prima, all'Aquitania secunda, alla Novempopulana (da Novempopuli, il resto del sud-ovest della Gallia) e alle Alpi Marittime andò a formare la Diocesi denominata "Septem Provinciae", da cui derivò il termine postumo di "
Settimania".
Nel 120 a.C. - Gaio Mario è eletto tribuno della plebe per il 119 a.C. A quanto sembra si era già candidato alla carica nel 121 a.C., ma senza successo. Un ruolo determinante ebbe, nell'occasione, il sostegno della potente famiglia dei Cecilii Metelli, verso i quali probabilmente aveva un rapporto di clientela. Durante il suo tribunato Mario perseguì una linea vicina alla fazione dei popolari, facendo in modo che venisse approvata, fra l'altro, una legge che limitava l'influenza delle persone di censo elevato nelle elezioni. Negli anni intorno al 130 a.C. si era introdotto il metodo del ballottaggio scritto nelle elezioni per le nomine dei magistrati, per l'approvazione delle leggi e per l'emanazione delle sentenze legali, in sostituzione del metodo tradizionale di votazione orale. Poiché i nobiles cercavano sistematicamente di influenzare l'esito dei ballottaggi con la minaccia di controlli ed ispezioni, Mario fece approvare un'apposita legge per far costruire uno stretto corridoio da cui i votanti dovevano passare per depositare il proprio voto nell'urna al riparo dagli sguardi indiscreti degli astanti. In conseguenza di ciò Mario si alienò la potente famiglia dei Metelli, che da quel momento in poi diventarono suoi fieri oppositori. Successivamente Mario si candidò per la carica di edile plebeo, ma senza successo.
- Nello stesso 120 a.C. la tribù dei Cimbri abbandona lo
Jutland e anche i loro vicini Teutoni decidono di spostarsi a sud, attraverso la Germania. La fortezza romana di Teutoburgium, circa 19 chilometri a nord della città moderna di Vukovar, viene spesso citata come prova della loro presenza. Non è tuttavia chiaro se i Teutoni si fossero subito uniti ai Cimbri o se li seguissero ad una certa distanza. I
Cimbri erano una tribù germanica, anche se alcuni ritengono che fosse di origine celtica, la cui sede originaria pare fosse nel nord dello Jutland, nell'attuale Danimarca, che nell'antichità era chiamata penisola cimbra. Probabilmente sia Ambroni che Cimbri avevano
radici miste celto-germaniche, infatti durante il loro breve e sanguinario attraversamento dell'Europa, i
Cimbri erano guidati da Boiorix, un nome
celtico che significa "Re dei Boi". I
Tèutoni erano secondo fonti romane un popolo germanico che originariamente viveva nello Jutland. Il nome Teutones o Teutoni tramandato dalle fonti greche e romane non permette di riconoscerne una provenienza certa, potrebbe essere tanto di origine celtica quanto protogermanica poiché esisteva una grande quantità di lessemi simili e non è possibile tracciare un collegamento ad una località precisa. Il termine è stato spesso collegato con l'etnonimo Deutsche ("tedeschi"), che risale ai termini in alto tedesco antico "theodisk" e "diutsc", che possedevano la radice germanica "theoda", che significa "popolo" o "tribù" ma che significava originariamente "appartenente al popolo" e "che parla la lingua del popolo". I geografi antichi riconoscevano nella denominazione "
Teutoni" un nome collettivo per gli abitanti non celtici della costa del Mare del Nord o anche per l'interezza dei
Germani. L'autore romano Plinio il Vecchio è stato il primo a riportare che i Teutoni vivessero sulla costa occidentale dello Jutland, verosimilmente a sud dei Cimbri e che in quei luoghi praticavano il commercio dell'ambra; da notare che il prefisso Amb è usuale in molti nomi tribali celtici. Secondo gli autori antichi, una devastante marea costrinse i Teutoni ad abbandonare le loro aree di insediamento. La tribù degli
Ambroni (o Ambrones) appare brevemente nelle fonti romane relative al II secolo a.C.. La loro posizione originaria pare fosse lungo la costa dell'Europa settentrionale, a nord del Rhinemouth (la foce del Reno), nelle Isole Frisone, regione oggi occupata dai resti dello Zuider Zee e dallo Jutland, che gli Ambroni condivisero con i propri vicini Cimbri e Teutoni. Lo Zuiderzee (in italiano Mare del Sud) era un golfo dei Paesi Bassi, lungo le coste del Mare del Nord dove in epoca romana c'era il Lago Flevo, separato dal mare dalla presenza di dune. Nel XIII secolo, a seguito di inondazioni il mare aveva invaso il lago, trasformandolo in golfo marino. Al fine di ampliare e garantire il loro territorio, gli olandesi all'inizio nel XIX secolo avviarono un grande progetto per la creazione di polder (i Zuiderzeewerken), tratti di mare asciugato artificialmente attraverso dighe e sistemi di drenaggio dell'acqua. Il prefisso
Amb è usuale in molti nomi tribali celtici, per cui si potrebbe pensare che gli Ambroni fossero di origine celtica, ma esistono prove a sostegno dell'ipotesi che Ambroni e Cimbri avessero
radici miste celto-germaniche. Queste etnie miste, probabilmente in origine celtiche ma assimilate dai Germani, suggeriscono d'altra parte come in quel periodo le tribù germaniche fossero pesantemente influenzate dalla cultura celtica. La potenza dei
Celti in Europa stava
declinando nel corso del II - I secolo a.C. mentre i
Germani cominciavano a premere per attraversare i due grandi fiumi europei, il
Reno ad occidente per invadere la Gallia e la penisola iberica ed il
Danubio a sud sud-est per poi spingersi fino ai Balcani, in cerca di una nuova sistemazione. La grande
migrazione delle genti
germaniche che ne seguì comportò lo spostamento di intere popolazioni, comprese donne, bambini ed anziani, carriaggi e mandrie, mentre un buon numero di Celti erano scacciati dai loro insediamenti nel centro europeo, come i Boi che prima erano in Boemia e poi erano passati in Baviera (Baiovara), dove erano ricordati in quei toponimi, per cui di Celti ne rimarranno in Italia Settentrionale, alcuni fondendosi con gli antichi Liguri, in Francia, nella Galizia iberica mischiati agli Iberici, in tutta la Britannia (Scozia inclusa) e Irlanda, alcuni fino all'Asia Minore (i Galati). Secondo gli autori antichi, una devastante marea aveva costretto i Teutoni ad abbandonare le loro aree di insediamento e forse gli Ambroni erano stati convinti ad emigrare dalle recenti alluvioni dello Zuider Zee; comunque
Cimbri,
Teutoni e
Ambroni in una prima fase, non miravano a scontrarsi coi Romani, al contrario il loro
disegno originario potrebbe essere stato quello di attraversare il fiume Danubio per stanziarsi nei
Balcani. Si trattava di circa 300.000 uomini delle tre tribù, dei quali 30.000 erano Ambroni. La migrazione si trasformò ben presto in
razzie. Mentre puntavano verso la Boemia, vennero bloccati dai Boi, che in quel periodo abitavano le terre che ancora oggi portano il loro nome e si creò forte
preoccupazione nelle genti alleate ai
Romani del
Norico, che ne richiesero l'
intervento a propria salvaguardia.
Nel 116 a.C. - Gaio
Mario riesce, di stretta misura, a farsi eleggere
pretore per l'anno successivo
(a quanto pare si classificò solo al sesto posto su sei), ed è immediatamente accusato di brogli elettorali (il termine latino è
ambitus.) Riuscito a malapena a farsi assolvere da questa accusa, esercitò la carica senza che si verificassero avvenimenti degni di particolare menzione.
Terminato il mandato ricevette il
governatorato della
Spagna ulteriore, dove fu necessario intraprendere alcune campagne militari contro le popolazioni celtiberiche mai del tutto sottomesse.
Il governatorato e le guerre gli fruttarono ingenti ricchezze personali, come sempre accadeva ai comandanti romani. Le vittorie ottenute gli permisero, tornato
a Roma, di richiedere ed
ottenere il
trionfo.
Dal 113 a.C. al 101 a.C. - Si combattono le guerre cimbriche fra la Repubblica romana e la coalizione delle tribù germanico-celtiche di Cimbri, Teutoni ed Ambroni, che si riveleranno una questione assai ben più seria del recente conflitto celtico del 121 a.C. e generarono un grande timore a Roma che, per la prima volta dopo la seconda guerra punica, si sentiva seriamente minacciata. All'inizio dei conflitti, i Romani subirono pesanti perdite anche a causa della rivalità tra i consoli al comando. La prima sconfitta avvenne con il console Gneo Papirio Carbone (Perseus, Carbo No. 4). Strabone racconta che i Celti Boi avevano respinto, in Boemia, gli attacchi dei Cimbri, che avevano poi proseguito la loro marcia, insieme a Teutoni ed Ambroni, girando attorno ai Boi ed entrando in Serbia ed in Bosnia, oltrepassando il Sava e la Morava. Ben presto però avevano lasciato quei territori montuosi seguendo un tragitto che passava a nord delle Alpi e dei pericolosi Romani, verso la Pannonia e il Norico. Il console Gneo Papirio Carbone vista l'avanzata delle genti germaniche, di cui egli stesso sapeva poco, temendo che potessero invadere l'Italia come era accaduto tre secoli prima con il sacco di Roma, decise di sorprendere gli invasori, ma subì un'autentica disfatta nei pressi di Noreia (l'attuale Krainburg) nel 113 a.C., battaglia che segnò così l'esordio delle guerre romano-germaniche che si susseguirono per i sei secoli successivi fino alla caduta dell'Impero romano d'Occidente. La partecipazione dei Teutoni alla battaglia di Noreia nel 113 a.C. è attestata in diverse fonti antiche. Dopo il successo nella battaglia di Noreia, Cimbri, Teutoni ed Ambroni attraversano poi il Reno e i territori degli Elvezi per poi giungere nei verdi pascoli della Gallia, devastandola, come riporterà Cesare nel suo "De bello Gallico". La seconda sconfitta romana avverrà con Marco Giunio Silano Torquato (Perseus, Silanus, Junius No. 17) in Gallia nel 109 a.C., una terza con Gaio Cassio Longino nel 107 a.C. ed una quarta con Quinto Servilio Cepione e Gneo Mallio Massimo nel 105 a.C. (Battaglia di Arausio). Le forze romane che si alternarono negli anni del conflitto furono ingenti: 4 legioni (composte di 5 000÷6 000 armati ciascuna) nel 109 a.C.; 6 legioni e 6.000 cavalieri nel 107 a.C.; 8 legioni nel 106 a.C.; 9 nel 105 a.C. oltre a 5.000 cavalieri circa; 7 legioni e 3.000 cavalieri con Gaio Mario nello scontro di Aquae Sextiae. Riguardo alle forze germaniche, sulla base di quanto ipotizzato da Gaio Giulio Cesare nella conquista della Gallia, i guerrieri potevano essere attorno ai 25/30.000 per singolo popolo mentre secondo altre fonti gli uomini delle tre tribù erano circa 300.000, dei quali 30.000 erano Ambroni.
Nel 110 a.C. - La carriera di
Gaio Mario non sembrava destinata a grandi successi fino al 110 a.C.. In quell'anno gli fu proposto un
matrimonio con una giovane esponente dell'aristocrazia,
Giulia Maggiore, sorella del senatore Gaio Giulio Cesare il vecchio e futura zia di Giulio Cesare. Mario accettò, divorziando dalla sua prima moglie Grania di Pozzuoli. La
gens Iulia era una famiglia patrizia di antichissime origini (faceva risalire la propria discendenza a Iulo, figlio di Enea, e a Venere, dea della bellezza), ma nonostante ciò, i suoi appartenenti avevano, per ragioni finanziarie, notevoli difficoltà a ricoprire cariche più elevate di quella di pretore (solamente una volta, nel 157 a.C. un Giulio Cesare era stato console).
Il matrimonio permise alla famiglia patrizia di rimettere in sesto le proprie finanze e diede
a Mario la
legittimità per
candidarsi al consolato. Il figlio che ne nacque, Gaio Mario il Giovane, vide la luce nel 109 (o 108) a.C., quindi il matrimonio probabilmente fu contratto nel
110 a.C.. La famiglia di Mario era per tradizione cliente dei Metelli, e Cecilio Metello aveva appoggiato la campagna elettorale di Mario per il tribunato. Sebbene i rapporti con i Metelli si fossero in seguito deteriorati, la rottura non dovette essere definitiva, tanto è vero che Q. Cecilio Metello, console nel 109 a.C., prese con sé
Mario come suo
legato nella campagna militare contro
Giugurta. I legati erano originariamente semplici rappresentanti del Senato, ma, gradualmente, era invalso l'uso di adibirli a compiti di comando alle dipendenze dei comandanti generali. Quindi, molto probabilmente, Metello ottenne che il Senato nominasse Mario legato, in modo che potesse servire alle sue dipendenze nella spedizione che si accingeva a compiere in Numidia. Nel lungo e dettagliato racconto che Sallustio ci fa di questa campagna militare, non si fa menzione di altri legati, e ciò lascia pensare che Mario fosse quello di rango più elevato, nonché braccio destro dello stesso Metello. Questo rapporto conveniva ad entrambi, in quanto, mentre Metello si avvantaggiava dell'esperienza militare di Mario, questi rafforzava le sue possibilità di aspirare in seguito al consolato. Va osservato che, se la gravità della rottura con Metello del 119 a.C., alla luce di quanto avvenne in seguito, fu probabilmente riferita in modo esagerato, quella che si determinò riguardo alla condotta della guerra in Numidia fu invece molto più seria e foriera di conseguenze.
Nel 109 a.C. - La migrazione di Cimbri, Teutoni ed Ambroni viene affrontata dal proconsole romano Marco Giunio Silano, al comando di 4 legioni (composte di 5 000÷6 000 armati l'una) ma è sconfitto nelle terre dei Sequani, evento che provoca un inizio di ribellione da parte delle tribù celtiche che erano state di recente assoggettate dai Romani nella parte meridionale del paese. La coalizione celto-germanica subisce poi una sconfitta da parte dei Celti Belgi.
Nel 108 a.C. - Gaio Mario si convince che i tempi siano maturi per candidarsi alla carica di console. A quanto pare chiese a Metello il permesso di recarsi a Roma per portare a termine il proprio proposito, ma Metello gli raccomandò di astenersi, e probabilmente gli consigliò di aspettare il tempo necessario per potersi candidare insieme al figlio ventenne dello stesso Metello, cosa che avrebbe rimandato tutto di almeno venti anni. Mario fu costretto a fare buon viso a cattivo gioco, ma nel frattempo, durante tutta l'estate del 107, fece in modo di guadagnarsi il favore della truppa, allentando notevolmente la rigida disciplina militare, e di accattivarsi anche i commercianti italici del posto, ansiosi di intraprendere i propri lucrosi traffici, assicurando a tutti che, se avesse avuto mano libera, avrebbe potuto, in pochi giorni e con la metà delle forze a disposizione di Metello, concludere vittoriosamente la campagna con la cattura di Giugurta. Entrambi questi influenti gruppi si affrettarono a inviare a Roma messaggi in appoggio di Mario, con cui si suggeriva di affidargli il comando, e si criticava Metello per il modo lento e inconcludente con cui stava conducendo la campagna militare. In effetti la strategia di Metello prevedeva una lenta, metodica e capillare sottomissione di tutto il territorio. Alla fine Metello dovette cedere, rendendosi conto, a ragione, che non gli conveniva mettersi contro un subordinato tanto influente e vendicativo.
In queste circostanze è facile immaginare il modo trionfale con cui Mario, alla fine del 108, fu eletto console per l'anno successivo. La sua campagna elettorale fece leva sull'accusa, rivolta a Metello, di scarsa risolutezza nel condurre la guerra contro Giugurta. Viste le ripetute sconfitte militari subite negli anni fra il 113 e il 109, nonché le accuse di spudorata corruzione rivolte a molti esponenti dell'oligarchia dominante, è facile comprendere come l'onesto uomo fattosi da sé, e affermatosi percorrendo faticosamente tutti i gradini della carriera, fu eletto a furor di popolo, essendo visto come l'unica alternativa ad una nobiltà divenuta corrotta e incapace. Tuttavia il Senato aveva ancora un asso nella manica. Infatti la lex Sempronia stabiliva che il Senato aveva facoltà di decidere ogni anno quali province dovessero essere affidate ai consoli per l'anno successivo. Alla fine dell'anno, e appena prima delle elezioni, il Senato decise di sospendere le operazioni contro Giugurta e di prorogare a Metello il comando in Numidia. Mario non si perse d'animo e si servì di un espediente già sperimentato nell'anno 131 a.C. In quell'anno si era stati infatti in disaccordo su chi avrebbe dovuto comandare la guerra contro Aristonico in Asia, e un tribuno aveva fatto approvare una legge che autorizzava un'apposita elezione per decidere a chi affidare il comando (e per la verità c'era stato un'ulteriore precedente in occasione della seconda guerra punica). Mario fece approvare una legge simile anche in quell'anno (il 108 a.C.), risultando eletto a grande maggioranza. Metello ne fu profondamente offeso, tanto che, al suo ritorno, non volle nemmeno incontrarsi con Mario, dovendosi accontentare del trionfo e del titolo di Numidico che gli vennero generosamente concessi. Mario riformò l'esercito dell'epoca allargando il reclutamento a tutti i cittadini romani: aveva un estremo bisogno di raccogliere truppe fresche e, a questo scopo, introdusse una profonda riforma del sistema di reclutamento, foriera di conseguenze di un'importanza di cui lui stesso, al momento, probabilmente non comprese la portata. Tutte le riforme agrarie attuate dai Gracchi si basavano sul tradizionale principio secondo cui erano esclusi dal servizio di leva i cittadini il cui reddito era inferiore a quello stabilito per la quinta classe di censo. I Gracchi, con le loro riforme, avevano cercato di favorire i piccoli proprietari terrieri, che da sempre avevano costituito il nerbo degli eserciti romani, in modo da fare aumentare il numero di quelli che avevano i requisiti per essere arruolati. Nonostante i loro sforzi, tuttavia, la riforma agraria non risolse la crisi del sistema di arruolamento, che aveva avuto lontana origine dalle sanguinose guerre puniche del secolo precedente. Si cercò quindi di trovare una soluzione semplicemente abbassando la soglia minima di reddito per appartenere alla quinta classe da 11.000 a 3.000 sesterzi, ma nemmeno questo fu sufficiente, tanto che già nel 109 a.C. i consoli erano stati costretti a derogare dalle restrizioni sugli arruolamenti imposte dalle leggi graccane.
Nel 107 a.C. - Gaio Mario ruppe ogni indugio e decise l'arruolamento senza alcuna restrizione riguardo al censo e alle proprietà fondiarie dei potenziali soldati. D'ora in avanti le legioni di Roma saranno composte prevalentemente da cittadini poveri, il cui futuro, al termine del servizio, dipendeva unicamente dai successi conseguiti dal proprio comandante, che era solito loro assegnare parte delle terre frutto delle vittorie riportate. Di conseguenza i soldati avevano il massimo interesse ad appoggiare il proprio comandante, anche quando si scontrava con i voleri del Senato, composto dai rappresentanti dell'oligarchia dominante, ed anche quando andava contro il pubblico interesse, che, a quell'epoca, veniva di fatto impersonato dal Senato stesso.
Va notato che Mario, persona fondamentalmente corretta e fedele alle tradizioni, non si avvalse mai di questa potenziale enorme fonte di potere, ma passeranno meno di vent'anni che il suo ex questore Silla, lo farà per imporsi contro il Senato e contro lo stesso Mario. Ben presto Mario si rese conto che concludere la guerra non era così facile come egli stesso si era in precedenza vantato di poter fare. Dopo essere sbarcato in Africa verso la fine del 107 a.C. costrinse Giugurta a ritirarsi in direzione Sud-Ovest verso la Mauritania.
Nello stesso 107, suo questore era stato nominato Lucio Cornelio Silla, rampollo di una nobile famiglia patrizia caduta economicamente in disgrazia. A quanto pare Mario non fu contento di avere alle proprie dipendenze un simile giovane dissoluto ma, inaspettatamente, Silla dimostrò sul campo di possedere grandi qualità di comandante militare. Nel 105 a.C. Bocco, re di Mauritania e suocero di Giugurta, nonché suo riluttante alleato, si trovò di fronte l'esercito romano in avanzata. I romani gli fecero sapere di essere disponibili ad una pace separata e Bocco invitò Silla nella sua capitale per condurvi le trattative. Anche in questa circostanza Silla si dimostrò particolarmente abile e coraggioso; in effetti, Bocco rimase a lungo dubbioso se consegnare Silla a Giugurta oppure, come poi avvenne, Giugurta a Silla. Alla fine, Bocco fu convinto a tradire Giugurta, che fu subito consegnato nelle mani dello stesso Silla. La guerra era così conclusa. Poiché Mario era il comandante dotato di imperium e Silla militava alle sue dirette dipendenze, l'onore della cattura di Giugurta spettava interamente a Mario, ma era chiaro che gran parte del merito andava riconosciuto personalmente a Silla, tanto che gli fu consegnato un anello con un sigillo commemorativo dell'evento. Al momento la cosa non fece particolarmente scalpore, ma in seguito Silla si vanterà di essere stato il vero artefice della conclusione vittoriosa della guerra. Mario, intanto, si guadagnava fama di eroe del momento. Il suo valore stava per essere messo alla prova da un'altra grave emergenza che incombeva su Roma e sull'Italia. L'arrivo in Gallia del popolo dei Cimbri e la vittoria da loro conseguita su Marco Giunio Silano nel 109 a.C., il cui esercito era stato totalmente annientato, aveva provocato un inizio di ribellione da parte delle tribù celtiche che erano state di recente assoggettate dai romani nella parte meridionale del paese, la Gallia Narbonense. Nel 107 a.C. il console Lucio Cassio Longino venne completamente sconfitto da una tribù locale, e l'ufficiale di grado più elevato fra quelli sopravvissuti (Gaio Popilio Lenate), figlio del console dell'anno 132, riuscì a mettere in salvo quanto restava delle forze romane solo dopo aver ceduto metà degli equipaggiamenti ed aver subito l'umiliazione di far marciare il proprio esercito sotto il giogo, in mezzo allo scherno dei vincitori.
Nel 106 a.C. - Il console Quinto Servilio Cepione marcia da Narbona, alla testa di ben 8 legioni (composte di 5 000÷6 000 armati l'una), contro delle tribù ribellatesi a Roma stanziate nella zona di Tolosa. Si racconta che Cepione cercasse, all'interno della città di Tolosa e per diversi giorni, il tesoro di cui narrava una leggenda, un'enorme quantità di oro che pare fosse custodita nei santuari dei templi (il cosiddetto Oro di Tolosa o Aurum Tolosanum). Non trovando nulla, decise di prosciugare i laghi vicini alla città e ritrovò così sotto la melma 50.000 lingotti d'oro, 10.000 lingotti d'argento e macine interamente in argento, una fortuna incredibile. Durante il trasporto verso Massilia (l'odierna Marsiglia), nel tratto tra Tolosa e Narbona, dove avrebbe dovuto essere imbarcato), 1.000 predoni si impadronirono dei 450 carri che trasportavano i soli lingotti d'oro. A Roma si sospettò dello stesso Cepione, che però fu confermato nel comando anche per l'anno successivo, ma si unì a lui nelle operazioni in Gallia meridionale anche uno dei due nuovi consoli, Gneo Mallio Massimo. Al pari di Gaio Mario, anche Mallio era un uomo nuovo, che non faceva cioè parte di alcuna élite romana e la collaborazione fra i due si dimostrò fin da subito impossibile.
Nel 105 a.C. - Al pari di Gaio Mario, anche Mallio era un uomo nuovo, che non faceva cioè parte di alcuna élite romana e la collaborazione fra lui e Cepione si dimostrò fin da subito impossibile. Cimbri, Teutoni e Ambroni erano apparsi sul corso del fiume Rodano proprio mentre l'esercito di Mallio si trovava nella stessa zona. Cepione, che era accampato sulla riva opposta del fiume, si rifiutò in un primo momento di venire in soccorso del collega minacciato, decidendosi ad attraversare il fiume solo dopo che il Senato gli aveva ordinato di cooperare con Mallio. Tuttavia si rifiutò di unire le forze dei due eserciti mantenendosi a debita distanza dal collega. I Germani approfittarono della situazione e, dopo aver sbaragliato Cepione, distrussero anche l'esercito di Mallio il 6 ottobre del 105 a.C. presso la città di Arausio. I Romani dovettero combattere con il fiume alle spalle che impediva loro la ritirata e, stando alle cronache, furono uccisi 80.000 soldati e 40.000 ausiliari. Le perdite subite nel decennio precedente erano state molto gravi ma questa sconfitta, provocata soprattutto dall'arroganza della nobiltà che si rifiutava di collaborare con i più capaci capi militari non nobili, fu la goccia che fece traboccare il vaso. Non soltanto le perdite umane erano state enormi, ma l'Italia stessa era ormai esposta all'invasione delle orde barbariche. Il malcontento del popolo contro l'aristocrazia stava raggiungendo ormai l'esasperazione e così nell'autunno del 105, mentre si trovava ancora in Africa, il populares Mario fu rieletto console. L'elezione in absentia era una cosa abbastanza rara, e inoltre una legge successiva all'anno 152 a.C. imponeva un intervallo di almeno 10 anni fra due consolati successivi, mentre una del 135 a.C. sembra che proibisse addirittura che questa carica potesse essere rivestita per due volte dalla stessa persona. La grave minaccia incombente dal nord fece tuttavia passare sopra ad ogni legge e consuetudine, e Mario, ritenuto il più abile comandante disponibile, fu rieletto console per ben 5 volte consecutive (dal 104 al 100 a.C.), cosa mai avvenuta in precedenza.
Nel 104 a.C. - Al suo ritorno a Roma, il 1º febbraio 104 a.C.,
Gaio Mario vi celebrò il
trionfo su Giugurta, che fu prima portato come un trofeo in processione, e infine giustiziato in carcere. Nel frattempo i Cimbri si erano diretti verso la Spagna, mentre i Teutoni vagavano senza una meta precisa nella Gallia settentrionale, lasciando a Mario il tempo di approntare il proprio esercito, curandone in modo molto attento l'addestramento e la disciplina. Uno dei suoi legati era ancora Lucio Cornelio Silla, e questo dimostra che in quel momento i rapporti fra i due non si erano ancora deteriorati. Sebbene avesse potuto continuare a comandare l'esercito in qualità di proconsole, Mario preferì farsi rieleggere
console fino all'anno 100 a.C., in quanto questa posizione lo metteva al riparo da eventuali attacchi di altri consoli in carica. L'
influenza di Mario divenne in quel periodo talmente grande che era addirittura
in grado di influenzare la scelta dei consoli che in ogni anno dovevano essere eletti insieme a lui, e pare che egli facesse in modo che venissero scelti quelli che riteneva più malleabili.
Nel 103 a.C. - I Germani indugiavano ancora nelle proprie scorribande in Spagna ed in Gallia e questo fatto, insieme alla morte del console collega Lucio Aurelio Oreste, consentì a Gaio Mario, che stava già marciando verso nord contro i Germani, di rientrare a Roma per venirvi confermato console per l'anno 102 a.C., insieme ad un nuovo collega, Quinto Lutazio Càtulo.
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Aquilifer con aquila, di Marten 253, da QUI. |
- Sallustio narra che
Gaio Mario usò per la
prima volta l'
aquila come insegna delle legioni romani nella guerra contro i Cimbri, consegnandone una ad
ogni legione. In battaglia e durante le marce era tenuta in consegna dall'aquilifer (aquilifero) e strenuamente difesa. La sua perdita era motivo di disonore e poteva causare lo scioglimento dell'unità. L'aquila, nel periodo antico, rappresentava l'Icona di
Giove, padre di tutti gli dei e protettore dello stato. Come tale fungeva da simbolo del potere di Roma e del suo impero e venne utilizzata da allora come insegna da parte dell'esercito. Ai tempi di Gaio Giulio Cesare, l'aquila delle legioni era d'argento e oro ma a partire dalla riforma augustea il materiale utilizzato fu il solo
oro. L'aquila era custodita dalla prima centuria della prima coorte, conservata presso l'accampamento (assieme ai
signa militaria) all'interno dell'
aedes signorum, uno degli edifici dei
Principia (quartier generale della legione). L'aquila usciva dall'accampamento romano solo in occasione dei trasferimenti dell'intera legione, sotto la responsabilità di un sottufficiale legionario, l'Aquilifer che, oltre a doverne garantire la custodia, era incaricato di portarla in battaglia e difenderla anche a costo della propria vita. In tal senso, l'
aquilifer può essere paragonato ad un alfiere, quindi un giovane ufficiale dei moderni eserciti e la stessa aquila può essere considerata come una bandiera di guerra o uno stendardo. Era segno di grave disfatta la sua perdita, evento che accadde in rare occasioni, come nel corso della battaglia della foresta di Teutoburgo nel 9 d.C., quando ben tre aquilae caddero nelle mani del nemico germanico.
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Carta geografica dell'invasione di Cimbri, Teutoni e Ambroni, con le relative battaglie, nel II sec. a.C. |
Nel 102 a.C. - I Cimbri dall'Hispania tornano in Gallia e insieme ai Teutoni e agli Ambroni, decidono un attacco congiunto alla Repubblica romana. Dalla Gallia, i Teutoni e gli Ambroni avrebbero dovuto puntare a sud-est dirigendosi verso le coste del Mediterraneo, mentre i Cimbri dovevano penetrare nell'Italia Settentrionale da nord-est attraversando il passo del Brennero. Infine i Tigurini, la tribù celtica loro alleata che aveva sconfitto Longino nel 107, progettava di attraversare le Alpi provenendo da nord-ovest. La decisione di dividere in questo modo le loro forze si sarebbe dimostrata fatale, poiché diede ai Romani, avvantaggiati anche dalle linee di approvvigionamento molto più corte, la possibilità di affrontare separatamente i vari contingenti, concentrando le proprie forze laddove era di volta in volta necessario. Così mentre Ambroni e Teutoni transitavano nella Gallia Narbonense (a est di Marsiglia) verso l'Italia, i Cimbri si dirigevano verso il passo del Brennero (”per alpes Rhaeticas”) per poi entrare da lì in Italia. Il console Gaio Mario decise di affrontare Teutoni e Ambroni, che si trovavano in quel momento nella provincia della Gallia Narbonense e si stavano dirigendo verso le Alpi alla volta dell'Italia, stabilendo un campo sul loro percorso. Gli Ambroni e i Teutoni, guidati dal loro re Teutobod, assaltarono il campo romano venendo respinti e decisero quindi di proseguire verso l'Italia aggirando il campo, ma Mario li seguì per poi accamparsi vicino a quella che sarebbe passata alla storia col nome di battaglia di Aquae Sextiae (l'attuale Aix en Provence), un insediamento fondato dal console nel 109 a.C. Gaio Sestio Calvo, in modo da sbarrare il cammino agli invasori. Gaio Mario aveva organizzato nel migliore dei modi la propria armata. I soldati erano stati sottoposti ad un addestramento che mai in precedenza si era visto, ed erano abituati a sopportare senza lamentarsi le fatiche delle lunghe marce di avvicinamento, dell'allestimento degli accampamenti e delle macchine da guerra, tanto da meritarsi il soprannome di muli di Mario. Ad Aquae Sextiae, alcuni contingenti di Ambroni, l'avanguardia dell'esercito dei Germani, si lanciarono avventatamente all'attacco delle posizioni romane, senza aspettare l'arrivo di rinforzi, attaccando i Romani mentre stavano attingendo acqua da un vicino fiume. I Liguri, alleati dei Romani, accorsero ad aiutarli ricacciando gli Ambroni al di là del fiume. Gli Ambroni seguivano i costumi celtici, urlando il nome della propria tribù durante le entrate in battaglia e secondo Plutarco, in occasione della battaglia di Aquae Sextiae del 102 a.C., quando i Liguri alleati dei romani urlarono "Ambrones!" come grido di battaglia ottennero in risposta lo stesso grido dal fronte opposto dei Celti Ambroni; da ciò deriva l'ipotesi di una origine comune coi Liguri (la cui originaria espansione si estendeva presumibilmente dalla penisola italica a quella iberica e nella Francia meridionale prima dell'espansione dei Celti, mentre i Romani consideravano gli Ambroni Germani, non Celti. Queste circostanze suggeriscono la presenza di etnie miste, probabilmente in origine liguri poi celtiche così come etnie celtiche assimilate poi dai Germani. Non solo gli Ambroni provenivano da una regione settentrionale recentemente germanizzata, ma in quel periodo le tribù germaniche venivano pesantemente influenzate dalla cultura celtica. Nella battaglia di Aquae Sextiae (Aix-en-Provence), i Romani ricompattarono i ranghi rigettando gli Ambroni che tentavano di nuovo di oltrepassare il fiume e lì gli Ambroni persero buona parte delle loro forze. Gaio Mario schierò poi un contingente di 30.000 uomini per tendere un'imboscata al grosso dell'esercito dei Teutoni che, presi alle spalle e attaccati frontalmente, furono completamente sterminati e persero 100.000 uomini, mentre quasi altrettanti ne furono catturati. Gli Ambroni furono annientati e fondendosi con i Celti locali, diedero vita ad una nuova tribù, gli Aduatuci, storia che si può trovare nella vita di Gaio Mario nell'opera "Vite Parallele" di Plutarco scritta nell'80. Dopo la battaglia i Teutoni non vengono più nominati nelle fonti romane. Le parti dell'esercito teutone sopravvissute alla sconfitta si stabilirono presso la Mosa sotto il nome, anch'essi, di Aduatuci. Verosimilmente, ancora nel II - III secolo d.C. essi risiedevano nei dintorni del Meno. Dalle loro prime vittorie contro gli eserciti romani, si creò un collegamento fra i Teutoni ed il terrore che avevano generato, così che gli storici romani parlavano di furor teutonicus, furore teutonico. A partire dalla tarda età carolingia, l'aggettivo latino teutonicus venne utilizzato per indicare la popolazione residente nell'Impero carolingio che non parlava una lingua romanza e nel corso del Medioevo, venne utilizzato come traduzione per deutsch, tedesco (ad esempio, Ordo Teutonicus, o ordine dei Cavalieri Teutonici, è la traduzione di Deutscher Orden). A volte, un "tedesco tipico" viene indicato anche come teutone o teutonico, o nel senso di "un uomo di forma possente e robusta", o di deutschtümelnd, ovvero un individuo che accenti eccezionalmente i propri tratti caratteriali di tedesco, concetti usati a scopo ironico.
- Il console collega di Mario, Quinto Lutazio Càtulo, console nel 102, non ebbe altrettanta fortuna, non riuscendo a impedire che i Cimbri forzassero il passo del Brennero e avanzassero nell'Italia settentrionale verso il finire del 102 a.C. Mario apprese la notizia mentre si trovava a Roma, dove fu rieletto console per l'anno 101 a.C. Il senato gli accordò il trionfo ma lui rifiutò perché ne voleva fare partecipe anche l'esercito, quindi lo posticipò ad una vittoria contro i Cimbri. Immediatamente si mise in marcia per ricongiungersi con Catulo, il cui comando fu prorogato anche per il 101 a.C. mentre i Cimbri proseguivano verso Vercellae.
Nel 101 a.C. - Nell'estate di quell'anno, a Vercelli, nella Gallia Cisalpina, in una località allora chiamata Campi Raudii, ebbe luogo lo scontro decisivo fra Romani e Cimbri. Ancora una volta la ferrea disciplina dei Romani ebbe la meglio sull'impeto dei barbari, e almeno 65.000 di loro (o forse 100.000) perirono, mentre tutti i sopravvissuti furono ridotti in schiavitù. I Tigurini, a questo punto, rinunciarono al loro proposito di penetrare in Italia da Nord-Ovest e rientrarono nelle proprie sedi. Catulo e Mario, come consoli in carica, celebrarono insieme uno splendido trionfo, ma, nell'opinione popolare, tutto il merito venne attribuito a Mario. In seguito Catulo si trovò in contrasto con Mario, divenendone uno dei più acerrimi rivali.
- Gaio Giulio Cesare nasce il 13 luglio del 101 o il 12 luglio del 100 a.C. nella Suburra, un quartiere di Roma, da un'antica e nota famiglia patrizia, la gens Iulia che secondo il mito, annoverava tra gli antenati anche il primo e grande re romano Romolo e discendeva da Iulo (o Ascanio), figlio del principe troiano Enea, figlio a sua volta della dea Venere. Il ramo della gens Iulia che portava il cognomen "Caesar" discendeva, secondo il racconto di Plinio il Vecchio, da un uomo venuto alla luce in seguito a un taglio cesareo. La Storia Augusta suggerisce invece tre possibili spiegazioni sull'origine del nome: «Le congetture cui ha dato luogo il nome di Cesare, l'unico di cui il principe del quale racconto la vita si sia mai fregiato, mi sembrano degne di essere riferite. Secondo l'opinione dei più dotti e informati, la parola deriva dal fatto che il primo dei Cesari fu chiamato così per aver ucciso in combattimento un elefante, animale chiamato kaesa dai Mauri.
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Denarius del 49/48 a.C. con nome e
simbolo di Giulio Cesare
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Altra opinione è che il termine derivi dal fatto che, per darlo a luce, fu necessario sottoporre la madre, che era morta prima di partorire, a un'operazione di parto cesareo (dal verbo latino caedo-ĕre, 'tagliare'). Si crede inoltre che la parola possa derivare dal fatto che il primo dei Cesari nacque con i capelli lunghi o dal fatto che aveva degli occhi celesti incredibilmente vispi (dal latino oculis caesiis). Bisogna comunque considerare felice la circostanza, quale che fu, che diede origine a un nome tanto famoso, che durerà in eterno.» (Elio Sparziano, Historia Augusta, II,3). Visto il denarius che Giulio Cesare farà coniare nel 49/48 a.C. con il suo simbolo, un elefante che calpesta un serpente, è probabile che la prima ipotesi sia quella esatta.
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Posidonio di Rodi.
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Nel 100 a.C. -
Posidonio di Rodi
(135 - 50 a.C. circa) viene nominato capo della
scuola filosofica Stoica di Rodi. Posidonio fu un grande filosofo, rappresentante della Scuola Stoica. Talvolta viene denominato Posidonio di Apamea, dal nome della località della Siria in cui nacque. All'inizio della sua attività di studio, compì numerosi viaggi nel Mediterraneo, dedicandosi a studi di astronomia, geografia e geologia. Ricoprì incarichi pubblici, uno dei quali lo portò come ambasciatore di Rodi a Roma, dove ebbe modo di intrattenersi, fra gli altri, con Cicerone, che era stato suo allievo a Rodi. Tra le altre personalità romane che gli accordarono la loro ammirazione e l'amicizia ricordiamo il generale Caio Mario, che fu console sette volte, e Pompeo il Grande, triunviro con Cesare e Crasso. Nessuno dei suoi scritti ci è pervenuto. Si conoscono frammenti delle sue opere solo attraverso citazioni di contemporanei o di successori. Cicerone dà notizia di una “sfera” costruita da Posidonio che doveva essere del tipo delle due costruite un secolo prima da Archimede. E’ probabile che queste sfere avessero una funzione unicamente didattica.
Cleomede dedica una buona parte del suo libro per descrivere il calcolo che Posidonio fece della circonferenza terrestre. Basandosi sul fatto che la stella Canopo si rendeva appena visibile a Rodi, alla culminazione meridiana, mentre ad Alessandria raggiungeva un’altezza meridiana di 1/48 di circonferenza (7º 30'). Stimando in 5000 stadi la distanza tra Rodi ed Alessandria, Posidonio concluse che la circonferenza terrestre doveva essere di 48 x 5000 = 240.000 stadi. Pur ammettendo che questo risultato sia abbastanza accurato, vale la pena osservare che era affetto da almeno tre errori. Anzitutto le due località erano piuttosto scostate in longitudine. Poi l'altezza effettiva di Canopo era di 5º 15' e infine la distanza effettiva tra Rodi ed Alessandria era minore. Posidonio eseguì anche misure e calcoli su distanze e dimensioni di Luna e Sole, ottenendo invero risultati piuttosto imprecisi. Scrisse anche di meteorologia e storia.
- Come ricompensa per avere sventato il pericolo dell'invasione barbarica, Gaio Mario venne rieletto console anche per l'anno 100 a.C. Gli avvenimenti di quell'anno, tuttavia, non gli furono propizi. Nel corso di questo anno il tribuno della plebe Lucio Appuleio Saturnino richiese con forza che si varassero riforme simili a quelle per cui si erano in passato battuti i Gracchi. Propose quindi una legge per l'assegnazione di terre ai veterani della guerra appena conclusasi e per la distribuzione da parte dello stato di grano a prezzo inferiore a quello di mercato. Il senato si oppose a queste misure, provocando così lo scoppio di violente proteste, che presto sfociarono in una vera e propria rivolta popolare, e a Mario, come console in carica, fu chiesto di reprimerla.
Sebbene egli fosse vicino al partito popolare, il supremo interesse della repubblica e l'alta magistratura da lui rivestita gli imposero di assolvere, sebbene riluttante, a questo compito. Dopodiché lasciò ogni carica pubblica e partì per un viaggio in Oriente. Durante gli anni di assenza di Mario da Roma, e subito dopo il suo ritorno, Roma conobbe alcuni anni di relativa tranquillità.
Nel 95 a.C. - Nella Repubblica di Roma viene approvata una legge che decreta l'espulsione da Roma di chi non avesse la cittadinanza romana, che perlopiù erano coloro che provenivano da altre città italiche.
Nel 91 a.C. - Marco Livio Druso è eletto tribuno e propone una grande distribuzione di terre appartenenti allo Stato, l'allargamento del Senato e la concessione della cittadinanza romana a tutti gli uomini liberi di tutte le città italiche. Il successivo assassinio di Druso provoca l'immediata insurrezione delle città-Stato italiche contro Roma e la Guerra sociale degli anni 91/88 a.C. in cui Gaio Mario sarà chiamato ad assumere, insieme a Lucio Cornelio Silla, il comando degli eserciti per sedare la pericolosa rivolta.
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A sinistra testa laureata,
personificazione dell'Italia
con legenda latina ITALIA, in alfabeto
latino.
Si tratta della prima documentazione
epigrafica del
nome Italia. A destra, giovane
inginocchiato a uno
stendardo, tiene un maiale al quale
otto soldati
(4 per lato) puntano le loro spade; "P"
in esergo.
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- Nelle
Guerre Sociali fra
Roma e i
popoli Italici appare il nome
Italia. Già i Greci chiamavano la penisola "Italia", che nel loro linguaggio significava "
curva convessa", dalla linea della costa per chi arrivava per mare da est e Italia era definita il
dominio del condottiero ligure del XIII sec. a.C.
Italo, padre di Siculo, che era rimasto sull'estremo della Calabria mentre il figlio con le sue genti approdava in quella che da lui prese il nome di Sicilia. Durante le guerre sociali gli italici, alleati in una Lega, fondarono due nuove città di cui una, considerata la capitale della Lega stessa, prese il nome di Italia, (
Vitelia in osco). Al tempo dei Gracchi a Roma si avanzarono proposte d'estensione dei diritti di cittadinanza anche ad altri popoli italici fino ad allora federati, ma senza successo. La situazione si avviava al punto di rottura quando, nel 95 a.C., Lucio Licinio Crasso e Quinto Muzio Scevola proposero una legge che istituiva un tribunale giudicante a chi si fosse abusivamente inserito tra i
cives romani (
Lex Licinia Mucia). Legge, questa, che accrebbe il malcontento dei ceti elevati italici, che miravano alla partecipazione diretta alla gestione politica. Marco Livio Druso, si schierò per la causa italica avanzando proposte di legge a favore dell'estensione della cittadinanza, ma la proposta non piacque né ai senatori né ai cavalieri. Il più accanito rivale di Druso fu il console Lucio Marcio Filippo, che dichiarò illegale la procedura seguita per le leggi di Druso, cosicché queste non vennero nemmeno votate. Nel novembre del 91 a.C. seguaci estremisti di Marcio Filippo mandarono un sicario ad assassinare Druso. Questa fu la scintilla che fece scoppiare la guerra sociale.
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A sinistra, testa laureata dell'Italia
con legenda osca
retrograda UILETIV (Víteliú,
l'Italia),"A" in esergo
A destra, un soldato elmato stante, di
fronte che
tiene una lancia puntata in terra con
il piede destro
su uno stendardo e alla sua sinistra,
un toro a terra.
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Dopo l'uccisione di Livio Druso gli italici - esclusi gli Etruschi e gli Umbri - si ribellarono a Roma, capeggiati dal sannita Papio Mutilo. La rivolta scoppiò ad Ascoli, nel Piceno, dove un pretore e tutti i Romani residenti in città furono massacrati. Si organizzarono in una libera Lega con un proprio esercito, e stabilirono, dapprima a Corfinium (oggi Corfinio) poi ad Isernia la loro capitale, dove crearono la sede del senato comune e mutarono il loro nome da Lega Sociale a
Lega Italica. Coniarono persino una propria moneta che recava la scritta Italia, nella quale era raffigurato un toro che abbatteva la lupa romana. Benché Gaio Mario e Gneo Pompeo Strabone riportassero alcune vittorie sui ribelli, nel 90 a.C. il console Lucio Giulio Cesare decise di promulgare la
Lex Iulia, con la quale si concedeva la cittadinanza agli italici che non si erano ribellati e a quelli che avrebbero deposto le armi. Seguì nel 89 a.C. la
Lex Plautia Papiria che concedeva il diritto di cittadinanza romana a tutti gli italici a sud del Po.
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Bronzetto raffigurante un Guerriero
Sannita.
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Il risultato fu di dividere i rivoltosi: gran parte deposero le armi, mentre altri continuarono a resistere. Roma spese ancora due anni per sconfiggere le città in armi grazie all'intervento di Silla e di Strabone. Tuttavia, lo scopo che gli Italici si erano proposti era stato raggiunto: essi potevano divenire a pieno titolo cittadini romani. Con la concessione della cittadinanza, l'Italia peninsulare divenne ager romanus. Il territorio venne riorganizzato col sistema dei municipia e nelle comunità italiche venne avviato un grande processo di urbanizzazione che si sviluppò lungo tutto il I secolo a.C., poiché l'esercizio dei diritti civici richiedeva specifiche strutture urbane (foro, tempio alla triade capitolina, luogo di riunione per il senato locale). Tuttavia la cittadinanza romana e il diritto a votare erano limitate, come sempre nel mondo antico, dall'obbligo della presenza fisica nel giorno di voto. E per la gente di città lontane, in particolare per le classi meno abbienti, non era certo facile recarsi a Roma per votare nelle assemblee popolari. Così talvolta i candidati pagavano parte delle spese del viaggio per permettere ai loro sostenitori di partecipare al voto. Di fatto, comunque, a
beneficiare della cittadinanza furono soprattutto le "
borghesie"
italiche, che conquistarono anche la possibilità di accedere alle magistrature.
- L'onomastica romana è lo studio dei nomi propri di persona, delle loro origini e dei processi di denominazione nella Roma antica. L'
onomastica latina prevedeva che i nomi maschili tipici contenessero
tre nomi propri (
tria nomina) che erano indicati come
praenomen (il nome proprio come intendiamo oggi),
nomen (equivalente al nostro cognome che individuava la
gens, ovvero era il cosiddetto "gentilizio") e
cognomen (che indicava la famiglia in senso nucleare, all'interno della gens). Talvolta si aggiungeva un "secondo
cognomen", chiamato
agnomen. Un uomo che veniva adottato, mostrava nel nome anche quello di adozione (come nel caso dell'imperatore Augusto). Per i nomi femminili, c'erano poche differenze.
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Stele di due fratelli della gens
Cornelia. Le prime
due righe significano: C=Gaius, un
prenomen;
CORNELIUS= il nomen o gentilizio (la
gens),
C=Gaius, altro prenomen,
F=filius, filiazione o patronimico,
VOT=Voturia, la tribù,
CALVOS= il cognomen.
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Il sistema dei tria nomina era il modo tradizionale latino, dall'epoca tardo repubblicana, di nominare una persona, anche se nella Roma arcaica vi era un sistema uninominale (es. Romolo, Numitore ed altri) ed il sistema binomio entrò in uso dopo l'inclusione dei Sabini (il sistema nominale costituito da praenomen e nomen era tipico dei Sabini). Molto del sistema dei tria nomina è dunque dovuto all'influenza che tale popolo esercitò su Roma, dopo la leggendaria coreggenza di Romolo e Tito Tazio. Sono relativamente pochi i
praenomina usati nella Roma repubblicana e nella Roma imperiale, generalmente legati alla tradizione. Solo alcuni di questi, come "Marco", "Tiberio", "Lucio" (anche con la versione femminile "Lucia") sono ancora in uso. Ultimamente riscoperto anche "Gaia", femminile di "Gaio" o "
Caio", che in realtà
è la versione non corretta di "
Gaio". La corruzione di Gaio in Caio deriva dalla tradizione latina che abbreviava con C. il
praenomen Gaius (Gaio) e con Cn. il
praenomen Gnaeus (Gneo). Tali tradizionali abbreviazioni derivano a loro volta dal fatto che gli Etruschi, che esercitarono una forte influenza sulla prima fase storica di Roma, non distinguevano fra la "G" e la "C". Emerge dallo studio delle iscrizioni lapidarie che nei tempi più antichi si usava la versione al femminile anche dei
praenomina e che i nomi delle donne presumibilmente consistevano in un
praenomen ed un
nomen seguito da un patronimico.
In periodo storico della Repubblica le donne non ebbero più praenomen. In effetti, sull'esistenza del
praenomen femminile le opinioni sono discordi. Taluni ritengono che non sia mai esistito. Altri pensano, invece, che non potesse essere pronunciato per ragioni di
pudicitia. Secondo i sostenitori di quest'ipotesi, infatti, i Romani avrebbero ereditato dai Sabini una credenza che considera il prenome una parte della persona; dunque,
pronunciare il praenomen di una donna sarebbe stato un atto di intimità assolutamente inaccettabile. Al di là delle diatribe tra gli studiosi, resta il fatto che nominare una donna era considerato atto
socialmente irrispettoso. Se era necessaria una ulteriore precisazione, il nome gentilizio era seguito dal genitivo del nome del padre o, dopo il matrimonio, del marito.
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Tabella con la pronuncia corretta del
latino classico e come invece la
insegnano a scuola. Clicca per
ingrandire.
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Infatti Cicerone indica una donna come Annia P. Anni senatoris filia (Annia figlia del senatore P. Annius). Dalla tarda Repubblica, le donne adottarono anche la forma femminile del cognomen del padre (per es. Caecilia Metella Crassi, figlia di Q. Caecilius Metellus e moglie di P. Licinius Crassus). Questo cognomen femminilizzato assunse spesso la forma diminutiva (per es. la moglie di Augustus, Livia Drusilla, era figlia di M. Livius Drusus).
La
pronuncia del latino classico era
diversa da quella che
impariamo a
scuola. Il
prenomen Gnaeus si pronunciava con la G dura di "gamba" seguito dalla n, e non come pronunciamo gnomo; ae e oe si pronunciavano divise, per cui si pronunciava "G-n-a-e-us". La
C e la
G erano sempre
pronunciate dure come in "cane" e "gatto" e mai dolci come in "ciliegia", per cui Caesar si pronunciava "Ka-esar". Inoltre la V era la u maiuscola e si pronunciava sempre "U", per cui Valerius si pronunciava "Ualerius".
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