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mercoledì 23 gennaio 2019

Storia dell'Europa n.24: dal 146 al 91 p.e.v. (a.C.)

Cartina con in verde i territori della
Repubblica di Roma nel 201 a.C.
e in arancio quelli conquistati
dal 201 al 146 a.C..

Nel 146 a.C.  - Non è dato sapere il momento in cui venne dedotta la  provincia  romana della Gallia  Cisalpina. La storiografia moderna oscilla fra la fine del II secolo a.C. e l'età sillana. Vero è che all'89 a.C. risale la legge di Pompeo Strabone ("Lex Pompeia de Gallia Citeriore") che conferisce alla città di Mediolanum, e ad altre, la dignità di colonia latina. Nel dicembre del 49 a.C. Cesare con la Lex Roscia concederà la cittadinanza romana agli abitanti della provincia, mentre nel 42 a.C. verrà abolita la provincia, facendo della Gallia Cisalpina parte   integrante dell'Italia romana.

Carta delle isole Cicladi con
Delos, considerata sacra 
poiché vi era nato il dio Apollo.
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- Nel 146 a.C.  i Romani conquistano e saccheggiano Corinto, e la Grecia diventa  provincia di Roma. Con la conquista romana della Grecia, si afferma un fiorente mercato di schiaviDelo (Delos in greco), già sede della lega delio-attica capeggiata da Atene, stipulata nel 478 a.C, poiché Roma la elegge porto franco, esente da tasse, a discapito di Rodi, che lo era stata prima, ex alleata punita da Roma per non averla sostenuta nel conflitto contro la Macedonia. Questo mercato è di rilievo mediterraneo, tanto che mediamente si vendono 10.000 schiavi al giorno, ottenuti perlopiù con incursioni piratesche. Gli italici e i romani hanno una posizione preponderante fra gli acquirenti di schiavi, e procurano così la manodopera per la coltivazione nei terreni in Italia. Avviene così che mentre in Italia gli italici, alleati di Roma, non hanno i diritti della cittadinanza romana ma i doveri dei "soci", con  fornitura di contingenti militari a Roma senza godere dei proventi delle conquiste. All'estero sono considerati romani: vestono la toga, parlano latino, e anche questo favorisce quell'"autoromanizzazione" che, svilita dalla mancata concessione della cittadinanza romana, sfocerà nelle Guerre Sociali.

- Nel 146 a.C. Scipione sferra l'attacco finale a Cartagine. Per quindici giorni i sopravvissuti impegnarono i Romani in una disperata battaglia per le strade della città, ma l'esito era scontato. Gli ultimi soldati si rinchiusero nel tempio di Eshmun altri otto giorni. Scipione abbandonò la città al saccheggio dei suoi soldati; Cartagine fu rasa al suolo, bruciata, le mura abbattute, il porto distrutto e fu anche gettato del sale sulla terra per evitare la coltivazione dei campi e renderli ancora più aridi. Si disse che Scipione pianse nel vedere la città bruciare, perché gli sembrava di aver intravisto Roma in mezzo alle fiamme.

- Finisce così l'Età ellenistica, periodo che va dalla morte di Alessandro Magno fino alla riduzione della  Grecia a provincia romana, nel 146 a.C.

- Prima delle guerre di conquista l'economia romana si basava soprattutto sull'agricoltura e sulla pastorizia. Si coltivavano, in modo particolare, cereali che servivano al sostentamento della popolazione. Al termine delle guerre di conquista, la repubblica di Roma si trovava ad affrontare grandi cambiamenti: il degrado delle campagne, l'aumento degli schiavi e le grandi ricchezze che giungevano a Roma come bottino di guerra dalle province. Il dominio incontrastato nell'Italia continentale ed insulare, sul Mediterraneo occidentale ottenuto grazie alla vittoria sui Cartaginesi e su quello orientale ottenuto con la conquista dei regni ellenisti, portava allo sfruttamento della manodopera schiavile nei latifondi. Dato che si trattava di migliaia di schiavi, Roma era costretta a portare avanti continue guerre di conquista per averne sempre di più, mentre venivano esautorati dal lavoro braccianti e piccoli proprietari. A Roma, fino al 200 a.C., l'esercito repubblicano, così come quelli precedenti, non era costituito da forze militari professionali ma al contrario era composto da una leva annuale, attraverso il meccanismo della coscrizione obbligatoria, come richiesto per ogni campagna miliare stagionale, per poi congedare tutti al termine della stessa (sebbene in alcuni casi alcune unità potevano essere mantenute durante l'inverno e anche per alcuni anni consecutivi, durante le maggiori guerre). Dopo che Roma conquistò dei territori oltremarini in seguito alle guerre puniche, le armate cominciarono ad essere posizionate nelle province chiave in modo stabile, anche se nessun soldato poteva essere mantenuto sotto le armi per più di sei anni consecutivi. Per far parte dell’esercito romano si doveva avere un reddito (censo) che permettesse di pagarsi gli armamenti e i più numerosi componenti delle milizie erano i piccoli proprietari terrieri, che durante queste guerre erano stati costretti, dovendosi arruolare, a lasciare incolti i loro terreni. Mal pagati per il servizio militare prestato ed esclusi dagli aristocratici dalla divisione del bottino, al loro ritorno si ritrovavano sommersi dai debiti che le loro famiglie avevano contratto per sopravvivere e secondo le leggi delle “dodici tavole”, nella Roma antica il creditore poteva rendere schiavo il debitore ed anche ucciderlo se questi non avesse ripagato il suo debito; dunque molti piccoli proprietari terrieri rischiavano di diventare schiavi. Per ripagare i debiti, molti di loro finirono o per svendere i loro possedimenti o a lavorare come braccianti. In ogni caso il grano prodotto dai piccoli proprietari terrieri nella Repubblica non era più conveniente: dalla Sicilia e dall'Africa giungevano cereali a prezzi molto contenuti ottenuti con la manodopera degli schiavi, fenomeno che si stava affermando anche nel suolo italico. Per potersi risollevare i piccioli agricoltori avrebbero dovuto smettere di coltivare grano e convertire le piantagioni in vigne e uliveti ben più redditizi, ma non disponevano dei capitali necessari per effettuare queste trasformazioni. In alcuni casi restavano a lavorare i campi come braccianti con paghe bassissime e in altri si trasferivano in città in cerca di fortuna, dando così vita al fenomeno dell'urbanesimo. In città conducevano una vita molto misera, ricevendo delle elargizioni di grano dallo Stato (le frumentazioni) o vivendo grazie all'appoggio di qualche famiglia potente e vendendo il proprio voto al miglior offerente. Al contrario, la classe dei grandi proprietari si arricchiva, appropriandosi della quasi totalità della ricchezza che proveniva dalle regioni conquistate. La maggior parte di loro comprava così terreni a prezzi molto bassi facendoli lavorare a servi o schiavi e non pagando di conseguenza la manodopera. L’impoverimento dei piccoli proprietari terrieri determinava grandi problemi a Roma poiché la maggior parte di loro erano stati i principali componenti delle legioni e diventando nullatenenti l'esercito si ritrovava con sempre meno forze a disposizione e gradualmente si dovette abbassare il censo delle nuove leve dell'esercito fino ad arruolare i proletarii. Roma contava sulle proprie forze armate e su quelle degli alleati, non di certo su contingenti di mercenari, come invece aveva fatto Cartagine.

- Lo storico romano-orientale Procopio di Cesarea (Cesarea marittima in Palestina, 490 circa - Costantinopoli, 560 circa) riferisce che gli eunuchi affluivano a Roma in maggior numero dal paese sul Mar Nero degli Abasgi, dove i capi potevano prelevare i giovanetti più attraenti per farli evirare e vendere come schiavi. Quando gli Abasgi cominciarono a convertirsi al cristianesimo Giustiniano vietò questa pratica stabilendo che «mai più alcuno, in quella regione, fosse privato della virilità violentando la natura col ferro». Da Procopio: «I romani conoscevano tre classi di eunuchi: gli spadones, cui erano state tagliate le gonadi; i thlasiae (dal greco θλάω, "schiaccio"), ai quali esse erano state schiacciate; infine i castrati, cui era stata praticata l'ablazione totale di verga e testicoli.».La diffusione della cultura ellenistica orientale incrementa a Roma, specie presso le classi alte, l'usanza di servirsi delle prestazioni sessuali degli eunuchi, in particolare di quelle dei cosiddetti spadones che, privi della potentia generandi non avevano perso la potentia coeundi cosicché erano in grado di offrire, quasi come strumenti sessuali viventi, appagamenti di natura diversa dall'usuale. Questa particolarità degli spadones sembra essere stata apprezzata dalle donne romane che, visti i rischi della pratica dell'aborto, preferivano usare gli eunuchi spadones che garantivano di non rimanere incinte. Questo è lo scopo, secondo il poeta romano Marziale (Marco Valerio Marziale, Augusta Bilbilis, 1º marzo 38 o 41 - Augusta Bilbilis, 104), di Gellia, in un suo epigramma: «Vuoi sapere Pannichio, come va che la tua Gellia intorno alle sottane non ha che dei castrati? Teme la levatrice, adora i peccati.».


Nel 140 a.C. - Il greco Ipparco determina con una certa precisione la distanza fra Terra e Sole.
Ipparco di Nicea.
Ad Ipparco ci si riferisce generalmente con l’appellativo di Nicea, perché si ritiene che abbia avuto i natali in quella località della odierna Turchia, prossima al Mar di Marmara, nella regione allora chiamata Bitinia, intorno al 190 a.C. La solidità della fama di cui godette nell’antichità è testimoniata da monete coniate sotto i regni di diversi imperatori romani. Queste monete portano sul diritto l’immagine di imperatori romani, quali Alessandro Severo (222 - 235 d.C.) e sul rovescio quella di un uomo che regge un globo e la scritta “Ipparco di Nicea”. Anche della sua vita si hanno pochissime notizie. Sembrano sicure quelle riferentesi a sue osservazioni astronomiche eseguite in Bitinia, nell’isola di Rodi e ad Alessandria. Soltanto una delle sue opere ci è giunta: il Commentario su Arato ed Eudosso, che non è certamente tra le sue più importanti.

- E' in questi anni che in Grecia si costruisce il "meccanismo di Antikythera".
Grecia e isole greche con l'ubicazione di Antikythera.
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Antikythera è il nome di una piccola isola greca del Mar Ionio. Antikythera, Ante Kythera, l’isola di fronte a Kythera, oggi conta soltanto 44 abitanti su una superficie di 20 km2. Ben pochi conoscerebbero il suo nome se non fosse collegato al luogo in cui, cent’anni fa, venne ritrovato il più antico calcolatore della storia dell’uomo. Furono alcuni pescatori di spugne a ritrovare il relitto di un antico veliero che trasportava un carico di oggetti preziosi, statue, vasi di pregevole fattura e monete d’argento. Cercavano riparo sull’isola, sorpresi in mare da una violenta tempesta. La nave proveniva da Pergamo, la città sulla costa dell’Asia Minore, ed era diretta a Roma che in quel periodo ammirava l’arte, la filosofia e la tecnologia dei greci. A bordo della nave venne ricuperato un misterioso oggetto in bronzo, difficile da decifrare per le incrostazioni che lo ricoprivano: la Macchina di Antikythera. 
La Macchina di Antikythera.
Accurate analisi del reperto ne fecero risalire, con certezza, la costruzione al 150/100 a. C. Sotto le incrostazioni vennero scoperti complicati ingranaggi e grazie a diversi frammenti dell’oggetto fu possibile tentarne una ricostruzione. Era costituito da una trentina di ruote dentate in bronzo e riportava in superficie circa 2.000 caratteri, con le indicazioni relative al funzionamento del meccanismo. Oggi è conservato nella collezione di bronzi del Museo archeologico nazionale di Atene. Diverse, accurate indagini hanno permesso di chiarire le funzioni del meccanismo che veniva usato nell’Antica Grecia per svolgere complicati calcoli astronomici. Serviva per calcolare il movimento del Sole, della Luna nello Zodiaco e probabilmente anche i movimenti dei cinque pianeti allora conosciuti, oltre a calcolare le date delle future eclissi di Sole e di Luna. Gli scienziati ritengono che questo meccanismo abbia per la storia della tecnologia la stessa importanza che l’Acropoli ha per la storia dell’architettura. La tecnica usata per la sua costruzione è simile a quella che sarà usata soltanto mille anni più tardi, nell’Europa medioevale, per la costruzione degli orologi astronomici. Uno degli studi più approfonditi venne svolto dallo storico della scienza inglese Derek de Solla Price, che nel 1951 iniziò ad analizzare la macchina. Dopo vent’anni di ricerca Price riuscì a scoprire, almeno in parte, il funzionamento originario. Tutto il meccanismo era racchiuso in una scatola di circa 30 cm di altezza, 15 di larghezza e 7,5 di profondità ed era costruito attorno ad un asse centrale. Quando questo asse girava, entrava in funzione un sistema di alberi e di ingranaggi che faceva muovere delle probabili lancette a diverse velocità, intorno ad una serie di quadranti. I frammenti mancanti impedirono a Price di comprendere il completo funzionamento del meccanismo. Di grande importanza è stata comunque la sua scoperta di un rapporto 254 a 19 fra le ruote. Questo lo portò a collegare il meccanismo con il moto della Luna rispetto al Sole: infatti, la Luna compie 254 rivoluzioni siderali ogni 19 anni solari. Price propose anche un primo modello della macchina che poi donò al Museo archeologico nazionale di Atene, dov’è attualmente esposta. Negli ultimi anni un gruppo multidisciplinare di ricercatori britannici, greci e statunitensi, l’Antikythera Mechanism Research Project, ha potuto approfondire ulteriormente l’analisi del meccanismo, grazie a nuovi frammenti ritrovati alcuni anni fa, usando tecnologie molto più moderne di quelle su cui poteva contare Price, dalla tomografia computerizzata alla rielaborazione digitale, ad alta risoluzione, della superficie.
Modello del meccanismo
di Antikythera.
Ora, alla fine del 2008, è arrivata la notizia della ricostruzione completa dell’antico apparecchio, curata da Michael Wright, un ingegnere del Museo delle Scienze di Londra. E’ una copia esatta del’originale, con le stesse dimensioni e gli stessi materiali. Il nuovo modello è contenuto in una scatola di legno poco più piccola di una scatola da scarpe. Di fronte ci sono due quadranti sovrapposti che riportano lo zodiaco e i giorni dell’anno. Punte di metallo indicano la posizione del Sole, della Luna e dei cinque pianeti. Il quadrante superiore, spiega Wright, rappresenta il ciclo Metonico, cioè il ciclo dei 19 anni. In questo modo è possibile mantenere un calendario sincronizzato sia al corso del sole, sia a quello della luna. Il quadrante inferiore è stato diviso invece in 223 parti con riferimento al cosiddetto ciclo di Saros, usato per prevedere le eclissi. La Macchina di Antikythera conferma l’alto livello tecnologico raggiunto dalla Grecia nel secondo secolo a. C. E non c’è bisogno di scomodare gli extraterrestri per spiegare la presenza, in quel periodo, di una macchina così raffinata. Non ci sono misteri da chiarire. Si tratta soltanto di una prova ulteriore dei danni irreparabili provocati da chi, nei secoli più oscuri della nostra storia, tentò di cancellare il pensiero greco, distruggendone le più preziose testimonianze.

- Nelle province romane d'Hiberia, la guerriglia scatenata dal capo lusitano Viriato culmina con la presa della città celtibera di Numanzia nel 133 a.C. Solo al termine di tali eventi bellici (a cavallo fra la fine del II e i primi anni del I secolo a.C.), che successivamente si salderanno con le guerre civili della tarda età repubblicana, combattute in parte in Iberia, il potere romano sulle due province (Lusitania e Tarraconiensis)  poté considerarsi pienamente consolidato, anche se si estenderà a tutta la penisola solo dopo l'assoggettamento dei Cantabri in età augustea.
Le province iberiche romane con indicati gli anni delle
L'occupazione romana culmina con la creazione delle province hispaniche. Il nome Hispania o Ispania deriva dal termine di probabile origine punica (cartaginese) che significa terra di conigli. Appare in letteratura e in storiografia fin dalla tarda età repubblicana: anche Tito Livio utilizza i termini di Hispania e di Hispani (o Hispanici) per designare il territorio iberico e i popoli che lo abitavano.

Nel 134 a.C. - Il romano Gaio Mario si distingue per le notevoli attitudini militari dimostrate in occasione dell'assedio di Numanzia, in Spagna, tanto da farsi notare da Publio Cornelio Scipione Emiliano (in seguito soprannominato Emiliano o Africano Minore). Non è dato sapere con certezza se venne in Spagna al seguito dell'esercito di Scipione oppure se si trovasse già in precedenza a servire nel contingente che, con scarso successo, da tempo cingeva d'assedio Numanzia. Sta di fatto che Mario parve fin dall'inizio molto interessato a far carriera politica in Roma stessa. Infatti si candidò per la carica di tribuno militare di una delle 4 prime legioni (in tutto i tribuni elettivi erano 24, mentre tutti gli altri venivano nominati dai magistrati preposti agli arruolamenti). Lo storico Sallustio ci informa che il suo nome era del tutto sconosciuto agli elettori, ma che alla fine i rappresentanti delle tribù lo elessero per merito del suo eccellente stato di servizio e su raccomandazione di Scipione Emiliano. Successivamente si ha notizia di una sua candidatura alla carica di questore ad Arpino. È probabile che egli utilizzasse le posizioni di comando ad Arpino per raccogliere dietro di sé un consistente numero di clienti su cui fare affidamento per le successive mosse che aveva in animo di compiere. Tuttavia sono solo congetture in quanto nulla si conosce della sua attività come questore.

Territori di Roma nel II sec.a.C. con Numanzia in
Hispania, da https://people.unica.it/federica
falchi/files/2020/03/Cicerone.pdf
.
Nel 133 a.C. - Dopo vent'anni di scontri, l'esercito romano della “Tarraconense” comandato da Publio Cornelio Scipione Emiliano conquista Numanzia, antica roccaforte celtiberica (in spagnolo: Numancia, in latino Numantia), situata nell'attuale provincia di Soria, in Spagna, nei pressi di Milles de la Polvorosa dove il Tera affluisce nell'Esla, (in epoca romana conosciuto come Astura, nella Cordigliera Cantabrica) a sua volta affluente del Duero. È passata alla storia per l'autodistruzione operata dai suoi abitanti che, gelosi della loro indipendenza, non intendevano in nessun modo sottomettersi al potere dei Romani, conquistatori della penisola iberica. Venne fondata con ogni probabilità nel IV secolo a.C. dal popolo celtibero degli Arevaci. Dopo essere entrata nella sfera punica negli ultimi decenni del III secolo a.C., pur senza mai venir conquistata dai Cartaginesi, divenne, nel II secolo a.C., baluardo della resistenza iberica contro l'espansionismo romano in Hispania. Nell'anno 153 a.C. un esercito numantino, sotto la guida di un certo Segeda Caro, era riuscito a battere un esercito romano di 30.000 armati, guidato dal console Quinto Fulvio Nobiliore. Nel 137 a.C., mentre era in corso la terza guerra celtibera, Gaio Ostilio Mancino era divenuto console con Marco Emilio Lepido Porcina, pertanto a Mancino venne affidato il comando delle truppe di Roma nella Spagna Citeriore, con il compito di espugnare Numanzia che già da diversi anni teneva in scacco i romani. Purtroppo questa esperienza si rivelò fallimentare; infatti fu sconfitto in diverse occasioni finché, completamente circondato dai nemici, fu costretto a negoziare un trattato di pace per evitare l'annientamento delle sue truppe. In questo trattato Mancino fu supportato dal suo questore Tiberio Gracco, che godeva di grande rispetto presso i numantini poiché memori delle gesta del padre, che in passato era stato loro alleato. Fra l'altro Tiberio Gracco accettò di trattare con i Numantini anche per recuperare il diario e le tavole del suo ufficio di questore che erano state rubate nel saccheggio successivo alla fuga romana. Tornato a Roma fu accusato e biasimato per il suo gesto, ma il popolo e le famiglie dei soldati (20.000 vite furono risparmiate) scampati al massacro lo acclamarono come un salvatore. Dalla compagine dei senatori venne invece una reazione ostile per il fatto che i romani erano usciti piegati dallo scontro con Numanzia e patteggiato una pace non da vincitori ma da vinti. Il senato rimandò così a Numanzia Gaio Ostilio Mancino come prigioniero, consegnato nudo e legato in segno di rifiuto del trattato che Tiberio aveva formulato. Nel 134 a.C., dopo vent'anni di guerre ininterrotte fra gli Arevaci, appoggiati dalle altre tribù celtibere e i Romani, che per ben cinque volte avevano tentato senza successo di espugnare la città, l'esercito romano della “Tarraconense” fu affidato a Publio Cornelio Scipione Emiliano, nipote dell'eroe della seconda guerra punica vincitore di Cartagine e a sua volta generale della terza guerra punica. Costui, dopo aver saccheggiato il paese dei Vaccei, cinse d'assedio Numanzia nel 134 - 133 a.C. L'armata comandata da Scipione era integrata da un nutrito contingente di cavalleria numidica, fornita dall'alleato Micipsa, al cui comando si trovava il giovane nipote del re, Giugurta. Per prima cosa, Scipione si adoperò per rincuorare e riorganizzare l'esercito scoraggiato dall'ostinata ed efficace resistenza della città ribelle; poi, nella certezza che la cittadella poteva essere presa solo per fame, fece costruire una doppia circonvallazione atta a isolare Numanzia e a privarla di qualsiasi aiuto esterno. Il console si adoperò poi a scoraggiare gli Iberi dal portare aiuto alla città ribelle, presentandosi con l'esercito alle porte della città di Lutia e obbligandola alla sottomissione e alla consegna di ostaggi. Dopo quasi un anno di assedio (l'assedio di Numanzia ispirò a Cervantes un dramma, “El cerco de Numancia”), i numantini, ridotti alla fame, cercarono un abboccamento con Scipione ma, saputo che questi non avrebbe accettato altro che una resa incondizionata, i pochi uomini in condizione di combattere preferirono gettarsi in un ultimo, disperato assalto contro le fortificazioni romane. Il fallimento della sortita spinse i superstiti, secondo la leggenda, a bruciare la città e a gettarsi fra le fiamme. Non tutti però persero la vita; alcuni, ridotti in schiavitù, sfilarono a Roma durante il trionfo di Scipione. La città fu rasa al suolo come Cartagine. Il bellum numantinum acquista particolare importanza perché segna il pieno affermarsi  dell'egemonia romana nell'Hispania centro-settentrionale e la definitiva pacificazione della massima parte della penisola iberica.

- Le grandi conquiste produrranno a Roma profonde trasformazioni economico-sociali: 1) Prima delle guerre d'oltremare, i terreni conquistati venivano distribuiti ai soldati ma nel caso delle guerre puniche, in cui erano stati occupati territori vasti e molto importanti, i senatori e gli ufficiali, approfittando del proprio potere, si riservarono i terreni più vasti e fertili, divenendo così latifondisti, violando una disposizione a favore dei plebei. Inoltre poterono acquistarono terreni a basso prezzo dai piccoli proprietari, rovinati dalla loro partecipazione a lunghe guerre. A Roma, fino al 200 a.C., l'esercito era formato leve annuali, attraverso il meccanismo della coscrizione obbligatoria, per poi congedare tutti. Per far parte dell’esercito romano si doveva avere un reddito (censo) che permettesse di pagarsi gli armamenti e i più numerosi componenti delle milizie erano allevatori e piccoli proprietari terrieri, che durante queste guerre erano stati costretti, dovendosi arruolare, a lasciare incolti i loro terreni. Mal pagati per il servizio militare prestato ed esclusi dagli aristocratici dalla divisione del bottino, al loro ritorno si ritrovavano sommersi dai debiti che le loro famiglie avevano contratto per sopravvivere e secondo le leggi delle “dodici tavole”, nella Roma antica il creditore poteva rendere schiavo il debitore ed anche ucciderlo se questi non avesse ripagato il suo debito; dunque molti piccoli proprietari terrieri rischiavano di diventare schiavi. Per ripagare i debiti, molti di loro finirono o per svendere i loro possedimenti o a lavorare come braccianti. In ogni caso il grano prodotto dai piccoli proprietari terrieri nella Repubblica non era più conveniente: dalla Sicilia e dall'Africa giungevano cereali a prezzi molto contenuti ottenuti con la manodopera degli schiavi, fenomeno che si stava affermando anche nel suolo italico. Per potersi risollevare i piccioli agricoltori avrebbero dovuto smettere di coltivare grano e convertire le piantagioni in vigne e uliveti ben più redditizi, ma non disponevano dei capitali necessari per effettuare queste trasformazioni. In alcuni casi restavano a lavorare i campi come braccianti con paghe bassissime e in altri si trasferivano in città in cerca di fortuna, dando così vita al fenomeno della proletarizzazione urbana. In città conducevano una vita molto misera, ricevendo delle elargizioni di grano dallo Stato (le frumentazioni) o vivendo grazie all'appoggio di qualche famiglia potente, delinquendo e/o vendendo il proprio voto al miglior offerente. 2) Per contro, questi nuovi proletari non potevano legalmente entrare nell'esercito, poiché non possedevano il censo per accedervi e questo, insieme alla mancanza di suolo pubblico da assegnare in cambio del servizio militare e agli ammutinamenti avvenuti nella guerra Numantina, causava problemi di reclutamento e la carenza di truppe. Per questo i fratelli Gracchi avrebbero mirato alla bonifica delle terre pubbliche incolte da parte dei membri benestanti della classe senatoria, il loro affidamento agli ex militari e ai contadini sfollati, sovvenzionare la produzione di grano per i bisognosi e per avere la paga Repubblica per l'abbigliamento dei suoi soldati più poveri affinchè potessero far parte dell'esercito. 3) L'afflusso di sempre più schiavi e le prime rivolte. Dopo la conquista dell’Epiro ,150.000 abitanti furono venduti come schiavi. Con la conquista della Grecia, potevano giungere anche 10.000 schiavi in un solo giorno da Delo, dove il mercato degli schiavi era gestito da cittadini romani e da italici senza cittadinanza romana. Da Cartagine sconfitta definitivamente, furono condotti a Roma 50.000 prigionieri. I latifondisti, oltre alle nuove conquiste potevano così acquistare i terreni dei piccoli proprietari indebitati a basso prezzo e facevano coltivare i loro terreni dagli schiavi, al posto dei contadini e piccoli proprietari, generando così la «proletarizzazione» di una vasta mole di persone, costrette a riversarsi nella città in cerca di espedienti ed elargizioni pubbliche. 4) Alle popolazioni italiche federate con Roma, che occupavano il resto della penisola, pur avendo partecipato come socii ai vari conflitti, non era stata riconosciuta la cittadinanza romana, che avrebbe permesso loro gli stessi diritti dei Romani e inferiori spese daziali e tributarie. Il risentimento nei confronti del dominatore romano cresceva tra gli alleati italici, poiché erano trattati come una classe sociale di seconda scelta nel sistema romano. In particolare, non avendo la cittadinanza romana, non potevano usufruire dei benefici dei cittadini romani, come la distribuzione su larga scala dei terreni pubblici (ager publicus), sia nei confronti del grande e del piccolo proprietario terriero, sulla base delle riforme agrarie portate avanti dai fratelli Gracchi a partire dal 133 a.C.. Non a caso le riforme portarono a chiedere da parte di molte popolazioni italiche tra i socii che fosse loro concessa la cittadinanza romana. Ma sembra dalle fonti frammentarie che la maggioranza conservatrice del Senato romano riuscì, anche attraverso l'eliminazione degli stessi Gracchi, a bloccare qualsiasi significativa espansione della cittadinanza tra i socii nel periodo successivo alla legge agraria del 133 a.C.

I fratelli Gracchi.
- Nel 133 a.CTiberio Sempronio Gracco (Roma, 163 a.C.- Roma, 132 a.C.) della fazione dei Populares, è eletto tribuno della plebe.  

Figlio maggiore dell'omonimo Tiberio Sempronio Gracco di origine plebea, che aveva avuto un ruolo importante nelle guerre di Spagna e di Cornelia, figlia di Publio Cornelio Scipione Africano di antica famiglia aristocratica, Tiberio Sempronio, grazie alla provenienza paterna dalla gens plebea, ottiene l'ascesa al tribunato. Poco più che fanciullo, aveva fatto parte dei sacerdoti auguri grazie anche all'approvazione dell'influente senatore Appio Claudio Pulcro, che poco più tardi gli aveva dato in moglie la figlia Claudia, da cui non ebbe nessun figlio. Nel 146 a.C., all'età di diciassette anni, aveva militato in Libia sotto il comando del cognato Scipione Emiliano e nove anni dopo, al suo ritorno a Roma, era stato eletto questore, dovendo così partire per la terza guerra celtibera sotto il comando del console Gaio Ostilio Mancino che aveva ricevuto il compito di espugnare Numanzia, che già da diversi anni teneva in scacco i romani. Il tentativo si rivelò fallimentare; infatti il console fu sconfitto in diverse occasioni finché, completamente circondato dai nemici, fu costretto a negoziare un trattato di pace per evitare l'annientamento delle sue truppe. In questo trattato Mancino fu supportato dal suo questore Tiberio Gracco, che godeva di grande rispetto presso i numantini poiché memori delle gesta del padre, che in passato era stato loro alleato. Fra l'altro Tiberio Gracco accettò di trattare con i Numantini anche per recuperare il diario e le tavole del suo ufficio di questore che erano state rubate nel saccheggio successivo alla fuga romana. Tornato a Roma fu accusato e biasimato per il suo gesto, ma il popolo e le famiglie dei soldati (20.000 vite furono risparmiate) scampati al massacro lo acclamarono come un salvatore. Dalla compagine dei senatori venne invece una reazione ostile per il fatto che i romani erano usciti piegati dallo scontro con Numanzia e patteggiato una pace non da vincitori ma da vinti. Il senato rimandò così a Numanzia Gaio Ostilio Mancino come prigioniero, consegnato nudo e legato in segno di rifiuto del trattato che Tiberio aveva formulato. Come tribuno della plebe, Tiberio Gracco voleva risolvere la grande povertà di cui soffriva la popolazione romana dai tempi delle guerre puniche. Solitamente i terreni conquistati venivano distribuiti ai soldati ma nel caso delle guerre puniche, in cui erano stati occupati territori vasti e molto importanti, i senatori e gli ufficiali, approfittando del proprio potere, si riservarono i terreni più vasti e fertili. Inoltre poterono acquistarono terreni a basso prezzo dai piccoli proprietari rovinati dalle lunghe guerre, così i terreni prima coltivati da umili contadini diventarono latifondi coltivati da schiavi e quindi era cambiata completamente la società. I contadini disoccupati si recavano nelle città con la speranza di trovare un lavoro ma molti diventavano delinquenti per contrastare la fame. Con queste distribuzioni di terreni veniva anche violata una disposizione a favore dei plebei. Per porre fine alla crescente povertà del popolo, il neo eletto tribuno della plebe Tiberio Gracco cercò di far approvare una legge di riforma agraria, la lex agraria detta legge  Sempronia, con l'aiuto del suo parente Publio Licinio Crasso Dive Muciano, pontefice massimo e del console Publio Muzio Scevola, per la redistribuzione delle terre del suolo italico, usurpate dai ricchi ai più poveri e offerte ai forestieri per la lavorazione. La legge prevedeva che nessuno potesse possedere più di 500 iugeri di terre pubbliche (pari a 125 ettari visto che 1 iugero = 0,252 ettari). A questi se ne potevano aggiungere altri 250 iugeri per ogni figlio maschio ma non si potevano superare i 1.000 iugeri di terreni pubblici in proprio possesso. Chi possedeva maggiori terre pubbliche doveva restituire l'eccedenza allo Stato. Era comunque previsto un compenso a chi sarebbero state espropriate le terre. Nessun limite era invece posto ai terreni di proprietà privata. Lo Stato avrebbe suddiviso i terreni restituiti, in quanto eccedenti le quantità massime che potevano essere detenute, in piccoli fondi da 30 iugeri (7,5 ettari), da assegnare ai cittadini romani poveri. Una commissione formata da tre membri eletti dai Comizi tribuni doveva controllare la correttezza delle operazioni relative a tali terreni. Questa riforma aveva il vantaggio di consentire ai ricchi di continuare a detenere grandi estensioni di terreni ma al tempo stesso avrebbe permesso ai disoccupati, poveri e agitati, di tornare ad essere tranquilli contadini. Per evitare che i piccoli proprietari terrieri si ritrovassero di nuovo ad essere nullatenenti veniva stabilita l'impossibilità di vendere i terreni che fossero stati loro assegnati. La legge fu approvata ma incontrò gravi difficoltà; ad esempio, molti italici, che erano rimasti sui terreni come affittuari, temevano di perdere tutto con la legge di Tiberio, così come alcune comunità alleate di Roma. Il dibattito sull'assegnazione delle terre era collegato alla questione del diritto di cittadinanza: gli abitanti alleati avevano interessi a ottenere gli stessi diritti dei cittadini romani. Per gli Optimates questa riforma avrebbe rappresentato sia la perdita di loro possedimenti pubblici che la perdita del controllo di una massa di persone che, potendo tornare al proprio lavoro nei campi, non poteva più essere manovrata durante le elezioni. La nobiltà, allora, portò dalla propria parte il tribuno della plebe Marco Ottavio Cecina, che oppose il veto alla riforma. Tiberio si rivolse ai Comizi chiedendo la deposizione del tribuno che aveva avuto un comportamento contrario agli interessi del popolo. La proposta di deporre il tribuno Ottavio Cecina fu approvata all'unanimità dalle 35 tribù: era questo, però, un atto incostituzionale dato che i Comizi non potevano revocare la nomina di un tributo. Dopo la deposizione di Ottavio Cecina la riforma agraria fu approvata e venne creata la commissione che doveva occuparsi della redistribuzione delle terre pubbliche. Tuttavia, l'applicazione della legge fu piuttosto difficile dato che i contadini non avevano i mezzi necessari per mettere a coltura i terreni che venivano loro assegnati e c'era quindi bisogno di concedere loro dei finanziamenti affinché potessero acquistare attrezzi, sementi e bestiame per far rinascere la piccola proprietà terriera. Proprio nel 133 a.C. Attalo III, non avendo figli, lascia in eredità il suo regno di Pergamo e i suoi averi a Roma, che Tiberio Gracco pensava di utilizzare per finanziare la ricostruzione delle fattorie dei piccoli contadini. Fece così una proposta in tal senso ai Comizi ma ancora una volta sembrò al Senato come un tentativo di scavalcare la propria autorità: infatti si trattava di una decisione di politica estera che competeva al Senato e non ai Comizi. Temendo che la legge agraria potesse non trovare una piena applicazione, Tiberio fu riproposto candidato come tribuno per l'anno successivo ma gli optimates replicarono che la Lex Villia del 180 a.C. prevedeva che tra una magistratura e l'altra dovesse trascorrere un lasso di tempo. Per questa ragione fu mossa contro di lui l'accusa di voler diventare un tiranno. Il contrasto tra gli Optimates e Tiberio Gracco si concluderà con la morte di quest'ultimo, assassinato al Campidoglio in occasione della carneficina ordinata mediante la formula del tumultus dal pontefice massimo Publio Cornelio Scipione Nasica Serapioneuna, carneficina nella quale persero la vita oltre trecento cittadini romani oltre allo stesso Tiberio, ucciso pare a colpi di sgabello. Il suo cadavere fu gettato nel Tevere e i suoi amici condannati a morte o esiliati senza processo. Il senato non si oppose però alla spartizione delle terre ed elesse come nuovo esecutore il suo parente Publio Licinio Crasso Dive Muciano. Nasica fu ripetutamente offeso e minacciato ed il senato decise di mandarlo in Asia per precauzione. L'opera di Tiberio venne poi portata avanti dal fratello Gaio.

Il Regno di Pergamo nel 133 a.C.
Nel 133 a.C.Roma riceve in eredità da Attalo il Regno di Pergamo, in Asia Minore.

Nel 123 a.C. - Gaio Sempronio Gracco (Roma, 154 a.C. - Roma, 121 a.C.), dieci anni dopo la morte del fratello maggiore Tiberio, è eletto tribuno della plebe, carica nella quale sarà confermato anche l'anno seguente. Gaio Sempronio Gracco avrebbe voluto da tempo riprendere l'opera di riforma sociale del fratello Tiberio, ma gli ottimati invece, lo avevano nominato questore, inviandolo in Sardegna ad amministrare le finanze, in modo che la sua distanza da Roma, unita al fatto di ricoprire già un incarico politico, lo dissuadesse dal candidarsi a tribuno della plebe. Gaio era rimasto nella provincia sarda per due anni, per poi tornare a Roma a candidarsi ed essere eletto tribuno della plebe. Gaio cercò di opporsi al potere esercitato dal senato romano e dall'aristocrazia attuando una serie di riforme favorevoli ai Populares, ovvero la plebe, che si erano riversati nell'Urbe dopo l'espansione territoriale delle guerre puniche, composti in parte dagli abitanti delle nuove province conquistate e dai piccoli agricoltori italici e romani che non potevano competere con i bassi prezzi delle derrate provenienti dalle provincie (Sicilia, Sardegna, Nord Africa). Durante il suo secondo tribunato, Gaio Gracco proseguì la politica agraria del fratello, permettendo la vendita di grano a prezzo ridotto. Promosse inoltre varie colonie ma la rilevanza storica di Gaio è legata tuttavia essenzialmente alle sue leges Semproniae, approvate tramite plebisciti, tra le quali: Lex Sempronia agraria che dava maggior vigore a quella del fratello mai abrogata, assegnando ai cittadini romani indigenti porzioni dell'agro pubblico romano in Italia, compreso quello dei privati proprietari di terre oltre i 500-1000 iugeri; Lex de viis muniendis, piano di costruzioni di strade per agevolare i commerci e dare lavoro alla plebe con un programma di opere pubbliche; De tribunis reficiendis, con cui si stabiliva la rieleggibilità dei tribuni della plebe; Rogatio de abactis, con cui si toglieva l'elettorato passivo al tribuno destituito dal popolo. Era questa una legge indirizzata a colpire il tribuno Caio Ottavio che si era opposto alla lex Sempronia agraria, ma lo stesso Gaio ritirò questa legge; Lex de provocatione, che vietava la condanna capitale di un cittadino senza regolare processo; Lex frumentaria, che disponeva la distribuzione di grano a basso prezzo ai cittadini bisognosi di Roma; Lex iudiciaria, che trasferiva la carica di giudice dai senatori ai cavalieri. Gaio Sempronio Gracco introduceva così tra le due classi di patrizi e plebei, la terza, l'Ordo Equestris; Lex de coloniis deducendis per la deduzione di nuove colonie; Lex de provinciis consularibus, che imponeva al senato di stabilire prima delle elezioni dei consoli quali provincie dovessero essere loro assegnate per impedire che un console avverso al senato fosse allontanato da Roma; Lex militaris, che stabiliva che l'equipaggiamento dei soldati fosse a carico dello Stato e vietava l'arruolamento prima dei 18 anni; Lex Sempronia de capite civis, che era tesa a vietare la formazione di corti straordinarie (quaestiones extraordinariae) per Senatus consultum riportando la decisione su tale materia al popolo (provocatio ad populum); Lex Sempronia de provincia Asia, che mirava a cercare l'appoggio dei cavalieri. Rendeva infatti i terreni della provincia d'Asia ager publicus populi romani e sottraeva l'appalto delle tasse ai governatori assegnandolo a pubblicani facenti parte dell'ordine equestre. Poi, in seguito all'introduzione dei comizi tributi (in cui si riunivano i cittadini ripartiti per le 35 tribù, 4 urbane e 31 rustiche, in cui ognuna esprimeva un voto. Eleggevano i magistrati minori, come questori e edili e avevano competenza giudiziaria per reati che prevedessero multe) ed all'assegnazione delle province, Gaio Gracco propose nel maggio del 122 a.C. la concessione della cittadinanza romana ai latini e di quella latina agli italici. L'opposizione al suo disegno di legge trovò concordi il Senato (che trovava così il modo di liberarsi di lui), la maggior parte dei cavalieri e pressoché tutta la plebe, gelosa dei propri privilegi.

- La principale divisione politico-sociale a Roma era stata quella tra patrizi e plebei, ma nel 123 a.C. Gaio Sempronio Gracco introduce tra le due classi una terza, l'Ordo Equestris

Lapide di eques da QUI.

La Lex Sempronia iudiciaria stabiliva infatti che i giudici dovessero essere scelti tra i cittadini di censo equestre e cioè di età tra i trenta e i sessant'anni, essere o essere stato un eques o comunque avere il denaro per acquistare e mantenere un cavallo e non essere un senatore. Il termine equites perciò, dall'iniziale identificazione di soldati a cavallo, passò prima a indicare chi quel cavallo avesse o avrebbe avuto la possibilità di acquistarlo per poi indicare chi avesse la possibilità di essere eletto come giudice. La corruzione delle province era ormai un cancro diffuso. I governatori, d'accordo con i Pubblicani (appaltatori delle imposte, pagavano allo stato un canone per esigere per proprio conto le tasse) gonfiavano i tributi da riscuotere e se ne intascavano i profitti. I governatori erano sottoposti al controllo del Senato ma spesso erano loro stessi senatori e a nulla era valso, nel 149 a.C. un tribunale creato proprio per questi casi. Gaio Gracco propose che i tribunali fossero assegnati all'ordine equestre, sfruttando la forte rivalità esistente tra le due fazioni.

Nel 121 a.C. - Gaio Sempronio Gracco aveva perso molta della sua popolarità, non era stato rieletto al tribunato e dovette difendersi da accuse pretestuose, come quella di aver dedotto nuovamente Cartagine, atto che gli indovini avevano dichiarato come infausto. Gaio il giorno della votazione relativa all'abrogazione proposta dal senato della legge riguardante la fondazione delle colonie, si presentò all'assemblea per difenderla. I nobili, capeggiati da Publio Cornelio Scipione Nasica Corculo gli gettarono contro il collega Marco Livio Druso e il triumviro Gaio Papirio Carbone. Scoppiarono una serie di disordini che il nuovo console Opimio, eletto dal partito oligarchico, ebbe mano libera per reprimere. 

Jean-Baptiste Topino-Lebrun, 1782
"Morte di Gaio Sempronio Gracco".
Licenza http://commons.wikimedia
.org/wiki/File:Death_of_Gaius_
Gracchus.jpg#/media/File:Death
_of_Gaius_Gracchus.jpg
 
Gaio e i suoi sostenitori si rifugiarono sull'Aventino per resistere armati, ma quando Opimio promise l'impunità a chi si fosse arreso e consegnato, l'ex tribuno, rimasto quasi solo, si fece uccidere dal suo schiavo Filocrate nel lucus Furrinae sul Gianicolo. Una feroce repressione portò alla morte nelle carceri di quasi 3.000 dei suoi partigiani. La memoria dei Gracchi fu maledetta e alla madre fu proibito d'indossare le vesti a lutto per il figlio defunto. «La sconfitta dei Gracchi consolidò apparentemente il potere dell'aristocrazia, ma dimostrò anche che questa, rifiutandosi a qualsiasi soddisfazione delle esigenze dei plebei e degli Italici, non si reggeva ormai più che con la violenza.» (Enciclopedia Italiana Treccani alla voce "Gracco, Gaio Sempronio").

La provincia romana narbonense, da
cui nascerà il nome Provenza.  
Nel 121 a.C. -  La  Gallia Narbonense  diventa provincia romana col nome originario di Gallia Transalpina (ossia "Gallia al di là delle Alpi", nota anche come Gallia ulterior e Gallia comata, in contrapposizione alla Gallia Cisalpina ossia "Gallia al di qua delle Alpi", nota anche come Gallia citerior e Gallia togata). Dopo la fondazione della città di Narbo Martius, o Narbona, (l'attuale Narbona), nel 118 a.C., la provincia fu rinominata Gallia Narbonensis, o Gallia bracata, con la nuova colonia costiera come capitale. La nuova provincia romana corrispondeva all'incirca alle due odierne regioni amministrative francesi di Linguadoca-Rossiglione e Provenza-Alpi-Costa Azzurra, situate nella Francia meridionale. Precedentemente conosciuta come Gallia Transalpina (o Gallia meridionale), in epoca romana era chiamata anche Provincia Nostra o semplicemente Provincia. L'eco di questo termine ancora permane nel nome dell'attuale regione francese (Provence o Provenza). Con la riforma dioclezianea, la Gallia narbonese perse la sua parte più settentrionale, che assunse il nome di Gallia Viennensis. Poco dopo la provincia venne ulteriormente divisa, in "Narbonensis prima" (ad occidente del Rodano), e "Narbonensis secunda" (a oriente del Rodano). Insieme all'Aquitania prima, all'Aquitania secunda, alla Novempopulana (da Novempopuli, il resto del sud-ovest della Gallia) e alle Alpi Marittime andò a formare la Diocesi denominata "Septem Provinciae", da cui derivò il termine postumo di "Settimania".

Nel 120 a.C. - Gaio Mario è eletto tribuno della plebe per il 119 a.C. A quanto sembra si era già candidato alla carica nel 121 a.C., ma senza successo. Un ruolo determinante ebbe, nell'occasione, il sostegno della potente famiglia dei Cecilii Metelli, verso i quali probabilmente aveva un rapporto di clientela. Durante il suo tribunato Mario perseguì una linea vicina alla fazione dei popolari, facendo in modo che venisse approvata, fra l'altro, una legge che limitava l'influenza delle persone di censo elevato nelle elezioni. Negli anni intorno al 130 a.C. si era introdotto il metodo del ballottaggio scritto nelle elezioni per le nomine dei magistrati, per l'approvazione delle leggi e per l'emanazione delle sentenze legali, in sostituzione del metodo tradizionale di votazione orale. Poiché i nobiles cercavano sistematicamente di influenzare l'esito dei ballottaggi con la minaccia di controlli ed ispezioni, Mario fece approvare un'apposita legge per far costruire uno stretto corridoio da cui i votanti dovevano passare per depositare il proprio voto nell'urna al riparo dagli sguardi indiscreti degli astanti. In conseguenza di ciò Mario si alienò la potente famiglia dei Metelli, che da quel momento in poi diventarono suoi fieri oppositori. Successivamente Mario si candidò per la carica di edile plebeo, ma senza successo.

Nello stesso 120 a.C. la tribù dei Cimbri abbandona lo Jutland e anche i loro vicini Teutoni decidono di spostarsi a sud,  attraverso la Germania. La fortezza romana di Teutoburgium, circa 19 chilometri a nord della città moderna di Vukovar, viene spesso citata come prova della loro presenza. Non è tuttavia chiaro se i Teutoni si fossero subito uniti ai Cimbri o se li seguissero ad una certa distanza. I Cimbri erano una tribù germanica, anche se alcuni ritengono che fosse di origine celtica, la cui sede originaria pare fosse nel nord dello Jutland, nell'attuale Danimarca, che nell'antichità era chiamata penisola cimbra. Probabilmente sia Ambroni che Cimbri  avevano radici  miste celto-germaniche, infatti durante il loro breve e sanguinario attraversamento dell'Europa, i  Cimbri erano guidati da Boiorix, un nome celtico che significa "Re dei Boi". I Tèutoni erano secondo fonti romane un popolo germanico che originariamente viveva nello Jutland. Il nome Teutones o Teutoni tramandato dalle fonti greche e romane non permette di riconoscerne una provenienza certa, potrebbe essere tanto di origine celtica quanto protogermanica poiché esisteva una grande quantità di lessemi simili e non è possibile tracciare un collegamento ad una località precisa. Il termine è stato spesso collegato con l'etnonimo Deutsche ("tedeschi"), che risale ai termini in alto tedesco antico "theodisk" e "diutsc", che possedevano la radice germanica "theoda", che significa "popolo" o "tribù" ma che significava originariamente "appartenente al popolo" e "che parla la lingua del popolo". I geografi antichi riconoscevano nella denominazione "Teutoni" un nome collettivo per gli abitanti non celtici della costa del Mare del Nord o anche per l'interezza dei  Germani. L'autore romano Plinio il Vecchio è stato il primo a riportare che i Teutoni vivessero sulla costa occidentale dello Jutland, verosimilmente a sud dei Cimbri e che in quei luoghi praticavano il commercio dell'ambra; da notare che il prefisso Amb è usuale in molti nomi tribali celtici. Secondo gli autori antichi, una devastante marea costrinse i Teutoni ad abbandonare le loro aree di insediamento. La tribù degli Ambroni (o Ambrones) appare brevemente nelle fonti romane relative al II secolo a.C.. La loro posizione originaria pare fosse lungo la costa dell'Europa settentrionale, a nord del Rhinemouth (la foce del Reno), nelle Isole Frisone, regione oggi occupata dai resti dello Zuider Zee e dallo Jutland, che gli Ambroni condivisero con i propri vicini Cimbri e Teutoni. Lo Zuiderzee (in italiano Mare del Sud) era un golfo dei Paesi Bassi, lungo le coste del Mare del Nord dove in epoca romana c'era il Lago Flevo, separato dal mare dalla presenza di dune. Nel XIII secolo, a seguito di inondazioni il mare aveva invaso il lago, trasformandolo in golfo marino. Al fine di ampliare e garantire il loro territorio, gli olandesi all'inizio nel XIX secolo avviarono un grande progetto per la creazione di polder (i Zuiderzeewerken), tratti di mare asciugato artificialmente attraverso dighe e sistemi di drenaggio dell'acqua. Il prefisso Amb è usuale in molti nomi tribali celtici, per cui si potrebbe pensare che gli Ambroni fossero di origine celtica, ma esistono prove a sostegno dell'ipotesi che Ambroni e Cimbri avessero radici miste celto-germaniche. Queste etnie miste, probabilmente in origine celtiche ma assimilate dai Germani, suggeriscono d'altra parte come in quel periodo le tribù germaniche fossero pesantemente influenzate dalla cultura celtica. La potenza dei Celti in Europa stava declinando nel corso del II - I secolo a.C. mentre i Germani  cominciavano a premere per attraversare i due grandi fiumi europei, il Reno ad occidente per invadere la Gallia e la penisola iberica ed il Danubio a sud sud-est per poi spingersi fino ai Balcani, in cerca di una nuova sistemazione. La grande migrazione delle genti germaniche che ne seguì comportò lo spostamento di intere popolazioni, comprese donne, bambini ed anziani, carriaggi e mandrie, mentre un buon numero di Celti erano scacciati dai loro insediamenti nel centro europeo, come i Boi che prima erano in Boemia e poi erano passati in Baviera (Baiovara), dove erano ricordati in quei toponimi, per cui di Celti ne rimarranno in Italia Settentrionale, alcuni fondendosi con gli antichi Liguri, in Francia, nella Galizia iberica mischiati agli Iberici, in tutta la Britannia (Scozia inclusa) e Irlanda, alcuni fino all'Asia Minore (i Galati). Secondo gli autori antichi, una devastante marea aveva costretto i Teutoni ad abbandonare le loro aree di insediamento e forse gli Ambroni erano stati convinti ad emigrare dalle recenti alluvioni dello Zuider Zee;  comunque CimbriTeutoni Ambroni in una prima fase, non miravano a scontrarsi coi Romani, al contrario il loro disegno originario potrebbe essere stato quello di attraversare il fiume Danubio per stanziarsi nei Balcani. Si trattava di circa 300.000 uomini delle tre tribù, dei quali 30.000 erano Ambroni. La migrazione si trasformò ben presto in razzie. Mentre puntavano verso la Boemia, vennero bloccati dai Boi, che in quel periodo abitavano le terre che ancora oggi portano il loro nome e si creò  forte  preoccupazione nelle genti alleate ai Romani del Norico, che ne richiesero l'intervento a propria salvaguardia.

Nel 116 a.C. - Gaio Mario riesce, di stretta misura, a farsi eleggere pretore per l'anno successivo (a quanto pare si classificò solo al sesto posto su sei), ed è immediatamente accusato di brogli elettorali (il termine latino è ambitus.) Riuscito a malapena a farsi assolvere da questa accusa, esercitò la carica senza che si verificassero avvenimenti degni di particolare menzione.
Terminato il mandato ricevette il governatorato della Spagna ulteriore, dove fu necessario intraprendere alcune campagne militari contro le popolazioni celtiberiche mai del tutto sottomesse. Il governatorato e le guerre gli fruttarono ingenti ricchezze personali, come sempre accadeva ai comandanti romani. Le vittorie ottenute gli permisero, tornato a Roma, di richiedere ed ottenere il trionfo.

Dal 113 a.C. al 101 a.C. - Si combattono le guerre cimbriche fra la Repubblica romana e la coalizione delle tribù germanico-celtiche di Cimbri, Teutoni ed Ambroni, che si riveleranno una questione assai ben più seria del recente conflitto celtico del 121 a.C. e generarono un grande timore a Roma che, per la prima volta dopo la seconda guerra punica, si sentiva seriamente minacciata. All'inizio dei conflitti, i Romani subirono pesanti perdite anche a causa della rivalità tra i consoli al comando. La prima sconfitta avvenne con il console Gneo Papirio Carbone (Perseus, Carbo No. 4). Strabone racconta che i Celti Boi avevano respinto, in Boemia, gli attacchi dei Cimbri, che avevano poi proseguito la loro marcia, insieme a Teutoni ed Ambroni, girando attorno ai Boi ed entrando in Serbia ed in Bosnia, oltrepassando il Sava e la Morava. Ben presto però avevano lasciato quei territori montuosi seguendo un tragitto che passava a nord delle Alpi e dei pericolosi Romani, verso la Pannonia e il Norico. Il console Gneo Papirio Carbone vista l'avanzata delle genti germaniche, di cui egli stesso sapeva poco, temendo che potessero invadere l'Italia come era accaduto tre secoli prima con il sacco di Roma, decise di sorprendere gli invasori, ma subì un'autentica disfatta nei pressi di Noreia (l'attuale Krainburg) nel 113 a.C., battaglia che segnò così l'esordio delle guerre romano-germaniche che si susseguirono per i sei secoli successivi fino alla caduta dell'Impero romano d'Occidente. La partecipazione dei Teutoni alla battaglia di Noreia nel 113 a.C. è attestata in diverse fonti antiche. Dopo il successo nella battaglia di Noreia, CimbriTeutoni ed Ambroni attraversano poi il Reno e i territori degli Elvezi per poi giungere nei verdi pascoli della Galliadevastandola, come riporterà Cesare nel suo "De bello Gallico". La seconda sconfitta romana avverrà con Marco Giunio Silano Torquato (Perseus, Silanus, Junius No. 17) in Gallia nel 109 a.C., una terza con Gaio Cassio Longino nel 107 a.C. ed una quarta con Quinto Servilio Cepione e Gneo Mallio Massimo nel 105 a.C. (Battaglia di Arausio). Le forze romane che si alternarono negli anni del conflitto furono ingenti: 4 legioni (composte di 5 000÷6 000 armati ciascuna) nel 109 a.C.; 6 legioni e 6.000 cavalieri nel 107 a.C.; 8 legioni nel 106 a.C.; 9 nel 105 a.C. oltre a 5.000 cavalieri circa; 7 legioni e 3.000 cavalieri con Gaio Mario nello scontro di Aquae Sextiae. Riguardo alle forze germaniche, sulla base di quanto ipotizzato da Gaio Giulio Cesare nella conquista della Gallia, i guerrieri potevano essere attorno ai 25/30.000 per singolo popolo mentre secondo altre fonti gli uomini delle tre tribù erano circa 300.000, dei quali 30.000 erano Ambroni. 

Nel 110 a.C. - La carriera di Gaio Mario non sembrava destinata a grandi successi fino al 110 a.C.. In quell'anno gli fu proposto un matrimonio con una giovane esponente dell'aristocrazia, Giulia Maggiore, sorella del senatore Gaio Giulio Cesare il vecchio e futura zia di Giulio Cesare. Mario accettò, divorziando dalla sua prima moglie Grania di Pozzuoli. La gens Iulia era una famiglia patrizia di antichissime origini (faceva risalire la propria discendenza a Iulo, figlio di Enea, e a Venere, dea della bellezza), ma nonostante ciò, i suoi appartenenti avevano, per ragioni finanziarie, notevoli difficoltà a ricoprire cariche più elevate di quella di pretore (solamente una volta, nel 157 a.C. un Giulio Cesare era stato console). Il matrimonio permise alla famiglia patrizia di rimettere in sesto le proprie finanze e diede a Mario la legittimità per candidarsi al consolato. Il figlio che ne nacque, Gaio Mario il Giovane, vide la luce nel 109 (o 108) a.C., quindi il matrimonio probabilmente fu contratto nel 110 a.C.. La famiglia di Mario era per tradizione cliente dei Metelli, e Cecilio Metello aveva appoggiato la campagna elettorale di Mario per il tribunato. Sebbene i rapporti con i Metelli si fossero in seguito deteriorati, la rottura non dovette essere definitiva, tanto è vero che Q. Cecilio Metello, console nel 109 a.C., prese con sé Mario come suo legato nella campagna militare contro Giugurta. I legati erano originariamente semplici rappresentanti del Senato, ma, gradualmente, era invalso l'uso di adibirli a compiti di comando alle dipendenze dei comandanti generali. Quindi, molto probabilmente, Metello ottenne che il Senato nominasse Mario legato, in modo che potesse servire alle sue dipendenze nella spedizione che si accingeva a compiere in Numidia. Nel lungo e dettagliato racconto che Sallustio ci fa di questa campagna militare, non si fa menzione di altri legati, e ciò lascia pensare che Mario fosse quello di rango più elevato, nonché braccio destro dello stesso Metello. Questo rapporto conveniva ad entrambi, in quanto, mentre Metello si avvantaggiava dell'esperienza militare di Mario, questi rafforzava le sue possibilità di aspirare in seguito al consolato. Va osservato che, se la gravità della rottura con Metello del 119 a.C., alla luce di quanto avvenne in seguito, fu probabilmente riferita in modo esagerato, quella che si determinò riguardo alla condotta della guerra in Numidia fu invece molto più seria e foriera di conseguenze.

Nel 109 a.C. - La migrazione di CimbriTeutoni ed Ambroni viene affrontata dal proconsole romano Marco Giunio Silano, al comando di 4 legioni (composte di 5 000÷6 000 armati l'una) ma è sconfitto nelle terre dei Sequani, evento che provoca un inizio di ribellione da parte delle tribù celtiche che erano state di recente assoggettate dai Romani nella parte meridionale del paese. La coalizione celto-germanica subisce poi una sconfitta da parte dei Celti Belgi.

Nel 108 a.C. - Gaio Mario si convince che i tempi siano maturi per candidarsi alla carica di console. A quanto pare chiese a Metello il permesso di recarsi a Roma per portare a termine il proprio proposito, ma Metello gli raccomandò di astenersi, e probabilmente gli consigliò di aspettare il tempo necessario per potersi candidare insieme al figlio ventenne dello stesso Metello, cosa che avrebbe rimandato tutto di almeno venti anni. Mario fu costretto a fare buon viso a cattivo gioco, ma nel frattempo, durante tutta l'estate del 107, fece in modo di guadagnarsi il favore della truppa, allentando notevolmente la rigida disciplina militare, e di accattivarsi anche i commercianti italici del posto, ansiosi di intraprendere i propri lucrosi traffici, assicurando a tutti che, se avesse avuto mano libera, avrebbe potuto, in pochi giorni e con la metà delle forze a disposizione di Metello, concludere vittoriosamente la campagna con la cattura di Giugurta. Entrambi questi influenti gruppi si affrettarono a inviare a Roma messaggi in appoggio di Mario, con cui si suggeriva di affidargli il comando, e si criticava Metello per il modo lento e inconcludente con cui stava conducendo la campagna militare. In effetti la strategia di Metello prevedeva una lenta, metodica e capillare sottomissione di tutto il territorio. Alla fine Metello dovette cedere, rendendosi conto, a ragione, che non gli conveniva mettersi contro un subordinato tanto influente e vendicativo.
In queste circostanze è facile immaginare il modo trionfale con cui Mario, alla fine del 108, fu eletto console per l'anno successivo. La sua campagna elettorale fece leva sull'accusa, rivolta a Metello, di scarsa risolutezza nel condurre la guerra contro Giugurta. Viste le ripetute sconfitte militari subite negli anni fra il 113 e il 109, nonché le accuse di spudorata corruzione rivolte a molti esponenti dell'oligarchia dominante, è facile comprendere come l'onesto uomo fattosi da sé, e affermatosi percorrendo faticosamente tutti i gradini della carriera, fu eletto a furor di popolo, essendo visto come l'unica alternativa ad una nobiltà divenuta corrotta e incapace. Tuttavia il Senato aveva ancora un asso nella manica. Infatti la lex Sempronia stabiliva che il Senato aveva facoltà di decidere ogni anno quali province dovessero essere affidate ai consoli per l'anno successivo. Alla fine dell'anno, e appena prima delle elezioni, il Senato decise di sospendere le operazioni contro Giugurta e di prorogare a Metello il comando in Numidia. Mario non si perse d'animo e si servì di un espediente già sperimentato nell'anno 131 a.C. In quell'anno si era stati infatti in disaccordo su chi avrebbe dovuto comandare la guerra contro Aristonico in Asia, e un tribuno aveva fatto approvare una legge che autorizzava un'apposita elezione per decidere a chi affidare il comando (e per la verità c'era stato un'ulteriore precedente in occasione della seconda guerra punica). Mario fece approvare una legge simile anche in quell'anno (il 108 a.C.), risultando eletto a grande maggioranza. Metello ne fu profondamente offeso, tanto che, al suo ritorno, non volle nemmeno incontrarsi con Mario, dovendosi accontentare del trionfo e del titolo di Numidico che gli vennero generosamente concessi. Mario riformò l'esercito dell'epoca allargando il reclutamento a tutti i cittadini romani: aveva un estremo bisogno di raccogliere truppe fresche e, a questo scopo, introdusse una profonda riforma del sistema di reclutamento, foriera di conseguenze di un'importanza di cui lui stesso, al momento, probabilmente non comprese la portata. Tutte le riforme agrarie attuate dai Gracchi si basavano sul tradizionale principio secondo cui erano esclusi dal servizio di leva i cittadini il cui reddito era inferiore a quello stabilito per la quinta classe di censo. I Gracchi, con le loro riforme, avevano cercato di favorire i piccoli proprietari terrieri, che da sempre avevano costituito il nerbo degli eserciti romani, in modo da fare aumentare il numero di quelli che avevano i requisiti per essere arruolati. Nonostante i loro sforzi, tuttavia, la riforma agraria non risolse la crisi del sistema di arruolamento, che aveva avuto lontana origine dalle sanguinose guerre puniche del secolo precedente. Si cercò quindi di trovare una soluzione semplicemente abbassando la soglia minima di reddito per appartenere alla quinta classe da 11.000 a 3.000 sesterzi, ma nemmeno questo fu sufficiente, tanto che già nel 109 a.C. i consoli erano stati costretti a derogare dalle restrizioni sugli arruolamenti imposte dalle leggi graccane.

Nel 107 a.C. - Gaio Mario ruppe ogni indugio e decise l'arruolamento senza alcuna restrizione riguardo al censo e alle proprietà fondiarie dei potenziali soldati. D'ora in avanti le legioni di Roma saranno composte prevalentemente da cittadini poveri, il cui futuro, al termine del servizio,  dipendeva unicamente dai successi conseguiti dal proprio comandante, che era solito loro assegnare parte delle terre frutto delle vittorie riportate. Di conseguenza i soldati avevano il massimo interesse ad appoggiare il proprio comandante, anche quando si scontrava con i voleri del Senato, composto dai rappresentanti dell'oligarchia dominante, ed anche quando andava contro il pubblico interesse, che, a quell'epoca, veniva di fatto impersonato dal Senato stesso.
Va notato che Mario, persona fondamentalmente corretta e fedele alle tradizioni, non si avvalse mai di questa potenziale enorme fonte di potere, ma passeranno meno di vent'anni che il suo ex questore Silla, lo farà per imporsi contro il Senato e contro lo stesso Mario. Ben presto Mario si rese conto che concludere la guerra non era così facile come egli stesso si era in precedenza vantato di poter fare. Dopo essere sbarcato in Africa verso la fine del 107 a.C. costrinse Giugurta a ritirarsi in direzione Sud-Ovest verso la Mauritania.
Nello stesso 107suo questore era stato nominato Lucio Cornelio Silla, rampollo di una nobile famiglia patrizia caduta economicamente in disgrazia. A quanto pare Mario non fu contento di avere alle proprie dipendenze un simile giovane dissoluto ma, inaspettatamente, Silla dimostrò sul campo di possedere grandi qualità di comandante militare. Nel 105 a.C. Bocco, re di Mauritania e suocero di Giugurta, nonché suo riluttante alleato, si trovò di fronte l'esercito romano in avanzata. I romani gli fecero sapere di essere disponibili ad una pace separata e Bocco invitò Silla nella sua capitale per condurvi le trattative. Anche in questa circostanza Silla si dimostrò particolarmente abile e coraggioso; in effetti, Bocco rimase a lungo dubbioso se consegnare Silla a Giugurta oppure, come poi avvenne, Giugurta a Silla. Alla fine, Bocco fu convinto a tradire Giugurta, che fu subito consegnato nelle mani dello stesso Silla. La guerra era così conclusa. Poiché Mario era il comandante dotato di imperium e Silla militava alle sue dirette dipendenze, l'onore della cattura di Giugurta spettava interamente a Mario, ma era chiaro che gran parte del merito andava riconosciuto personalmente a Silla, tanto che gli fu consegnato un anello con un sigillo commemorativo dell'evento. Al momento la cosa non fece particolarmente scalpore, ma in seguito Silla si vanterà di essere stato il vero artefice della conclusione vittoriosa della guerra. Mario, intanto, si guadagnava fama di eroe del momento. Il suo valore stava per essere messo alla prova da un'altra grave emergenza che incombeva su Roma e sull'Italia. L'arrivo in Gallia del popolo dei Cimbri e la vittoria da loro conseguita su Marco Giunio Silano nel 109 a.C., il cui esercito era stato totalmente annientato, aveva provocato un inizio di ribellione da parte delle tribù celtiche che erano state di recente assoggettate dai romani nella parte meridionale del paese, la Gallia Narbonense. Nel 107 a.C. il console Lucio Cassio Longino venne completamente sconfitto da una tribù locale, e l'ufficiale di grado più elevato fra quelli sopravvissuti (Gaio Popilio Lenate), figlio del console dell'anno 132, riuscì a mettere in salvo quanto restava delle forze romane solo dopo aver ceduto metà degli equipaggiamenti ed aver subito l'umiliazione di far marciare il proprio esercito sotto il giogo, in mezzo allo scherno dei vincitori.

Nel 106 a.C. - Il console Quinto Servilio Cepione marcia da Narbona, alla testa di ben 8 legioni (composte di 5 000÷6 000 armati l'una), contro delle tribù ribellatesi a Roma stanziate nella zona di Tolosa. Si racconta che Cepione cercasse, all'interno della città di Tolosa e per diversi giorni, il tesoro di cui narrava una leggenda, un'enorme quantità di oro che pare fosse custodita nei santuari dei templi (il cosiddetto Oro di Tolosa o Aurum Tolosanum). Non trovando nulla, decise di prosciugare i laghi vicini alla città e ritrovò così sotto la melma 50.000 lingotti d'oro, 10.000 lingotti d'argento e macine interamente in argento, una fortuna incredibile. Durante il trasporto verso Massilia (l'odierna Marsiglia), nel tratto tra Tolosa e Narbona, dove avrebbe dovuto essere imbarcato), 1.000 predoni si impadronirono dei 450 carri che trasportavano i soli lingotti d'oro. A Roma si sospettò dello stesso Cepione, che però fu confermato nel comando anche per l'anno successivo, ma si unì a lui nelle operazioni in Gallia meridionale anche uno dei due nuovi consoli, Gneo Mallio Massimo. Al pari di Gaio Mario, anche Mallio era un uomo nuovo, che non faceva cioè parte di alcuna élite romana e la collaborazione fra i due si dimostrò fin da subito impossibile.

Nel 105 a.C. - Al pari di Gaio Mario, anche Mallio era un uomo nuovo, che non faceva cioè parte di alcuna élite romana e la collaborazione fra lui e Cepione si dimostrò fin da subito impossibile. Cimbri, Teutoni e Ambroni erano apparsi sul corso del fiume Rodano proprio mentre l'esercito di Mallio si trovava nella stessa zona. Cepione, che era accampato sulla riva opposta del fiume, si rifiutò in un primo momento di venire in soccorso del collega minacciato, decidendosi ad attraversare il fiume solo dopo che il Senato gli aveva ordinato di cooperare con Mallio. Tuttavia si rifiutò di unire le forze dei due eserciti mantenendosi a debita distanza dal collega. I Germani  approfittarono della situazione e, dopo aver sbaragliato Cepione, distrussero anche l'esercito di Mallio il 6 ottobre del 105 a.C. presso la città di Arausio. I Romani dovettero combattere con il fiume alle spalle che impediva loro la ritirata e, stando alle cronache, furono uccisi 80.000 soldati e 40.000 ausiliari. Le perdite subite nel decennio precedente erano state molto gravi ma questa sconfitta, provocata soprattutto dall'arroganza della nobiltà che si rifiutava di collaborare con i più capaci capi militari non nobili, fu la goccia che fece traboccare il vaso. Non soltanto le perdite umane erano state enormi, ma l'Italia stessa era ormai esposta all'invasione delle orde  barbariche.  Il malcontento del popolo contro l'aristocrazia stava raggiungendo ormai l'esasperazione e così nell'autunno del 105, mentre si trovava ancora in Africa,  il populares Mario fu rieletto console. L'elezione in absentia era una cosa abbastanza rara, e inoltre una legge successiva all'anno 152 a.C. imponeva un intervallo di almeno 10 anni fra due consolati successivi, mentre una del 135 a.C. sembra che proibisse addirittura che questa carica potesse essere rivestita per due volte dalla stessa persona. La grave minaccia incombente dal nord fece tuttavia passare sopra ad ogni legge e consuetudine, e Mario, ritenuto il più abile comandante disponibile, fu rieletto console per ben 5 volte consecutive (dal 104 al 100 a.C.), cosa mai avvenuta in precedenza.

Nel 104 a.C. - Al suo ritorno a Roma, il 1º febbraio 104 a.C., Gaio Mario vi celebrò il trionfo su Giugurta, che fu prima portato come un trofeo in processione, e infine giustiziato in carcere. Nel frattempo i Cimbri si erano diretti verso la Spagna, mentre i Teutoni vagavano senza una meta precisa nella Gallia settentrionale, lasciando a Mario il tempo di approntare il proprio esercito, curandone in modo molto attento l'addestramento e la disciplina. Uno dei suoi legati era ancora Lucio Cornelio Silla, e questo dimostra che in quel momento i rapporti fra i due non si erano ancora deteriorati. Sebbene avesse potuto continuare a comandare l'esercito in qualità di proconsole, Mario preferì farsi rieleggere console fino all'anno 100 a.C., in quanto questa posizione lo metteva al riparo da eventuali attacchi di altri consoli in carica. L'influenza di Mario divenne in quel periodo talmente grande che era addirittura in grado di influenzare la scelta dei consoli che in ogni anno dovevano essere eletti insieme a lui, e pare che egli facesse in modo che venissero scelti quelli che riteneva più malleabili.

Nel 103 a.C. - I Germani indugiavano ancora nelle proprie scorribande in Spagna ed in Gallia e questo fatto, insieme alla morte del console collega Lucio Aurelio Oreste, consentì a Gaio Mario, che stava già marciando verso nord contro i Germani, di rientrare a Roma per venirvi confermato console per l'anno 102 a.C., insieme ad un nuovo collega, Quinto Lutazio Càtulo.

Aquilifer con aquila, di
Marten 253, da QUI.
- Sallustio narra che Gaio Mario usò per la prima volta l'aquila come insegna delle legioni romani nella guerra contro i Cimbri, consegnandone una ad ogni legione. In battaglia e durante le marce era tenuta in consegna dall'aquilifer (aquilifero) e strenuamente difesa. La sua perdita era motivo di disonore e poteva causare lo scioglimento dell'unità. L'aquila, nel periodo antico, rappresentava l'Icona di Giove, padre di tutti gli dei e protettore dello stato. Come tale fungeva da simbolo del potere di Roma e del suo impero e venne utilizzata da allora come insegna da parte dell'esercito. Ai tempi di Gaio Giulio Cesare, l'aquila delle legioni era d'argento e oro ma a partire dalla riforma augustea il materiale utilizzato fu il solo oro. L'aquila era custodita dalla prima centuria della prima coorte, conservata presso l'accampamento (assieme ai signa militaria) all'interno dell'aedes signorum, uno degli edifici dei Principia (quartier generale della legione). L'aquila usciva dall'accampamento romano solo in occasione dei trasferimenti dell'intera legione, sotto la responsabilità di un sottufficiale legionario, l'Aquilifer che, oltre a doverne garantire la custodia, era incaricato di portarla in battaglia e difenderla anche a costo della propria vita. In tal senso, l'aquilifer può essere paragonato ad un alfiere, quindi un giovane ufficiale dei moderni eserciti e la stessa aquila può essere considerata come una bandiera di guerra o uno stendardo. Era segno di grave disfatta la sua perdita, evento che accadde in rare occasioni, come nel corso della battaglia della foresta di Teutoburgo nel 9 d.C., quando ben tre aquilae caddero nelle mani del nemico germanico.

Carta geografica dell'invasione di
Cimbri, Teutoni e Ambroni, con le
relative battaglie, nel II sec. a.C.

Nel 102 a.C. - I Cimbri dall'Hispania tornano in Gallia e insieme ai Teutoni e agli Ambroni, decidono  un attacco  congiunto alla Repubblica romana. Dalla Gallia, i Teutoni e gli Ambroni avrebbero dovuto puntare a sud-est dirigendosi verso le coste del Mediterraneo, mentre i Cimbri dovevano penetrare nell'Italia Settentrionale da nord-est attraversando il passo del Brennero. Infine i Tigurini, la tribù celtica loro alleata che aveva sconfitto Longino nel 107, progettava di attraversare le Alpi provenendo da nord-ovest. La decisione di dividere in questo modo le loro forze si sarebbe dimostrata fatale, poiché diede ai Romani, avvantaggiati anche dalle linee di approvvigionamento molto più corte, la possibilità di affrontare separatamente i vari contingenti, concentrando le proprie forze laddove era di volta in volta necessario. Così mentre Ambroni e Teutoni transitavano nella Gallia Narbonense (a est di Marsiglia) verso l'Italia, i Cimbri si dirigevano verso il passo del Brennero (”per alpes Rhaeticas”) per poi entrare da lì in Italia. Il console Gaio Mario decise di affrontare Teutoni e Ambroni, che si trovavano in quel momento nella provincia della Gallia Narbonense e si stavano dirigendo verso le Alpi alla volta dell'Italia, stabilendo un campo sul loro percorso. Gli Ambroni e i Teutoni, guidati dal loro re Teutobod, assaltarono il campo romano venendo respinti e decisero quindi di proseguire verso l'Italia aggirando il campo, ma Mario li seguì per poi accamparsi vicino a quella che sarebbe passata alla storia col nome di battaglia di Aquae Sextiae (l'attuale Aix en Provence), un insediamento fondato dal console nel 109 a.C. Gaio Sestio Calvo, in modo da sbarrare il cammino agli invasori. Gaio Mario aveva organizzato nel migliore dei modi la propria armata. I soldati erano stati sottoposti ad un addestramento che mai in precedenza si era visto, ed erano abituati a sopportare senza lamentarsi le fatiche delle lunghe marce di avvicinamento, dell'allestimento degli accampamenti e delle macchine da guerra, tanto da meritarsi il soprannome di muli di Mario. Ad Aquae Sextiae, alcuni contingenti di Ambroni, l'avanguardia dell'esercito dei Germani, si lanciarono avventatamente all'attacco delle posizioni romane, senza aspettare l'arrivo di rinforzi, attaccando i Romani mentre stavano attingendo acqua da un vicino fiume. I Liguri, alleati dei Romani, accorsero ad aiutarli ricacciando gli Ambroni al di là del fiume. Gli Ambroni seguivano i costumi celtici, urlando il nome della propria tribù durante le entrate in battaglia e secondo Plutarco, in occasione della battaglia di Aquae Sextiae del 102 a.C., quando i Liguri alleati dei romani urlarono "Ambrones!" come grido di battaglia ottennero in risposta lo stesso grido dal fronte opposto dei Celti Ambroni; da ciò deriva l'ipotesi di una origine comune coi Liguri (la cui originaria espansione si estendeva presumibilmente dalla penisola italica a quella iberica e nella Francia meridionale prima dell'espansione dei Celti, mentre i Romani consideravano gli Ambroni Germani, non Celti. Queste circostanze suggeriscono la presenza di etnie miste, probabilmente in origine liguri poi celtiche così come etnie celtiche assimilate poi dai Germani. Non solo gli Ambroni provenivano da una regione settentrionale recentemente germanizzata, ma in quel periodo le tribù germaniche venivano pesantemente influenzate dalla cultura celtica. Nella battaglia di Aquae Sextiae (Aix-en-Provence), i Romani ricompattarono i ranghi rigettando gli Ambroni che tentavano di nuovo di oltrepassare il fiume e lì gli Ambroni persero buona parte delle loro forze. Gaio Mario schierò poi un contingente di 30.000  uomini per tendere un'imboscata al grosso dell'esercito dei Teutoni che, presi alle spalle e attaccati frontalmente, furono completamente sterminati e persero 100.000 uomini, mentre quasi altrettanti ne furono catturati. Gli Ambroni furono annientati e fondendosi con i Celti locali, diedero vita ad una nuova tribù, gli Aduatuci, storia che si può trovare nella vita di Gaio Mario nell'opera "Vite Parallele" di Plutarco scritta nell'80. Dopo la battaglia i Teutoni non vengono più nominati nelle fonti romane. Le parti dell'esercito teutone sopravvissute alla sconfitta si stabilirono presso la Mosa sotto il nome, anch'essi, di Aduatuci. Verosimilmente, ancora nel II - III secolo d.C. essi risiedevano nei dintorni del Meno. Dalle loro prime vittorie contro gli eserciti romani, si creò un collegamento fra i Teutoni ed il terrore che avevano generato, così che gli storici romani parlavano di furor teutonicus, furore teutonico. A partire dalla tarda età carolingia, l'aggettivo latino teutonicus venne utilizzato per indicare la popolazione residente nell'Impero carolingio che non parlava una lingua romanza e nel corso del Medioevo, venne utilizzato come traduzione per deutsch, tedesco (ad esempio, Ordo Teutonicus, o ordine dei Cavalieri Teutonici, è la traduzione di Deutscher Orden). A volte, un "tedesco tipico" viene indicato anche come teutone o teutonico, o nel senso di "un uomo di forma possente e robusta", o di deutschtümelnd, ovvero un individuo che accenti eccezionalmente i propri tratti caratteriali di tedesco, concetti usati a scopo ironico.

- Il console collega di Mario, Quinto Lutazio Càtulo, console nel 102, non ebbe altrettanta fortuna, non riuscendo a impedire che i Cimbri forzassero il passo del Brennero e avanzassero nell'Italia settentrionale verso il finire del 102 a.C. Mario apprese la notizia mentre si trovava a Roma, dove fu rieletto console per l'anno 101 a.C. Il senato gli accordò il trionfo ma lui rifiutò perché ne voleva fare partecipe anche l'esercito, quindi lo posticipò ad una vittoria contro i Cimbri. Immediatamente si mise in marcia per ricongiungersi con Catulo, il cui comando fu prorogato anche per il 101 a.C. mentre i Cimbri proseguivano verso Vercellae.


Nel 101 a.C. - Nell'estate di quell'anno, a Vercelli, nella Gallia Cisalpina, in una località allora chiamata Campi Raudii, ebbe luogo lo scontro decisivo fra Romani e Cimbri. Ancora una volta la ferrea disciplina dei Romani ebbe la meglio sull'impeto dei barbari, e almeno 65.000 di loro (o forse 100.000) perirono, mentre tutti i sopravvissuti furono ridotti in schiavitù. I Tigurini, a questo punto, rinunciarono al loro proposito di penetrare in Italia da Nord-Ovest e rientrarono nelle proprie sedi. Catulo e Mario, come consoli in carica, celebrarono insieme uno splendido trionfo, ma, nell'opinione popolare, tutto il merito venne attribuito a Mario. In seguito Catulo si trovò in contrasto con Mario, divenendone uno dei più acerrimi rivali.

- Gaio Giulio Cesare nasce il 13 luglio del 101 o il 12 luglio del 100 a.C. nella Suburra, un quartiere di Roma, da un'antica e nota famiglia patrizia, la gens Iulia che secondo il mito, annoverava tra gli antenati anche il primo e grande re romano Romolo e discendeva da Iulo (o Ascanio), figlio del principe troiano Enea, figlio a sua volta della dea Venere. Il ramo della gens Iulia che portava il cognomen "Caesar" discendeva, secondo il racconto di Plinio il Vecchio, da un uomo venuto alla luce in seguito a un taglio cesareo. La Storia Augusta suggerisce invece tre possibili spiegazioni sull'origine del nome: «Le congetture cui ha dato luogo il nome di Cesare, l'unico di cui il principe del quale racconto la vita si sia mai fregiato, mi sembrano degne di essere riferite. Secondo l'opinione dei più dotti e informati, la parola deriva dal fatto che il primo dei Cesari fu chiamato così per aver ucciso in combattimento un elefante, animale chiamato kaesa dai Mauri.
Denarius del 49/48 a.C. con nome e simbolo di Giulio Cesare
Altra opinione è che il termine derivi dal fatto che, per darlo a luce, fu necessario sottoporre la madre, che era morta prima di partorire, a un'operazione di parto cesareo (dal verbo latino caedo-ĕre, 'tagliare'). Si crede inoltre che la parola possa derivare dal fatto che il primo dei Cesari nacque con i capelli lunghi o dal fatto che aveva degli occhi celesti incredibilmente vispi (dal latino oculis caesiis). Bisogna comunque considerare felice la circostanza, quale che fu, che diede origine a un nome tanto famoso, che durerà in eterno.» (Elio Sparziano, Historia Augusta, II,3). Visto il denarius che Giulio Cesare farà coniare nel 49/48 a.C. con il suo simbolo, un elefante che calpesta un serpente, è probabile che la prima ipotesi sia quella esatta.

Posidonio di Rodi.
Nel 100 a.C. - Posidonio di Rodi (135 - 50 a.C. circa) viene nominato capo della scuola filosofica Stoica di Rodi. Posidonio fu un grande filosofo, rappresentante della Scuola Stoica. Talvolta viene denominato Posidonio di Apamea, dal nome della località della Siria in cui nacque. All'inizio della sua attività di studio, compì numerosi viaggi nel Mediterraneo, dedicandosi a studi di astronomia, geografia e geologia. Ricoprì incarichi pubblici, uno dei quali lo portò come ambasciatore di Rodi a Roma, dove ebbe modo di intrattenersi, fra gli altri, con Cicerone, che era stato suo allievo a Rodi. Tra le altre personalità romane che gli accordarono la loro ammirazione e l'amicizia ricordiamo il generale Caio Mario, che fu console sette volte, e Pompeo il Grande, triunviro con Cesare e Crasso. Nessuno dei suoi scritti ci è pervenuto. Si conoscono frammenti delle sue opere solo attraverso citazioni di contemporanei o di successori. Cicerone dà notizia di una “sfera” costruita da Posidonio che doveva essere del tipo delle due costruite un secolo prima da Archimede. E’ probabile che queste sfere avessero una funzione unicamente didattica.
Cleomede dedica una buona parte del suo libro per descrivere il calcolo che Posidonio fece della circonferenza terrestre. Basandosi sul fatto che la stella Canopo si rendeva appena visibile a Rodi, alla culminazione meridiana, mentre ad Alessandria raggiungeva un’altezza meridiana di 1/48 di circonferenza (7º 30'). Stimando in 5000 stadi la distanza tra Rodi ed Alessandria, Posidonio concluse che la circonferenza terrestre doveva essere di 48 x 5000 = 240.000 stadi. Pur ammettendo che questo risultato sia abbastanza accurato, vale la pena osservare che era affetto da almeno tre errori. Anzitutto le due località erano piuttosto scostate in longitudine. Poi l'altezza effettiva di Canopo era di 5º 15' e infine la distanza effettiva tra Rodi ed Alessandria era minore. Posidonio eseguì anche misure e calcoli su distanze e dimensioni di Luna e Sole, ottenendo invero risultati piuttosto imprecisi. Scrisse anche di meteorologia e storia.

- Come ricompensa per avere sventato il pericolo dell'invasione barbarica, Gaio Mario venne rieletto console anche per l'anno 100 a.C. Gli avvenimenti di quell'anno, tuttavia, non gli furono propizi. Nel corso di questo anno il tribuno della plebe Lucio Appuleio Saturnino richiese con forza che si varassero riforme simili a quelle per cui si erano in passato battuti i Gracchi. Propose quindi una legge per l'assegnazione di terre ai veterani della guerra appena conclusasi e per la distribuzione da parte dello stato di grano a prezzo inferiore a quello di mercato. Il senato si oppose a queste misure, provocando così lo scoppio di violente proteste, che presto sfociarono in una vera e propria rivolta popolare, e a Mario, come console in carica, fu chiesto di reprimerla.
Sebbene egli fosse vicino al partito popolare, il supremo interesse della repubblica e l'alta magistratura da lui rivestita gli imposero di assolvere, sebbene riluttante, a questo compito. Dopodiché lasciò ogni carica pubblica e partì per un viaggio in Oriente. Durante gli anni di assenza di Mario da Roma, e subito dopo il suo ritorno, Roma conobbe alcuni anni di relativa tranquillità.

Nel 95 a.C. - Nella Repubblica di Roma viene approvata una legge che decreta l'espulsione da Roma di chi non avesse la cittadinanza romana, che perlopiù erano coloro che provenivano da altre città italiche.

Nel 91 a.C. - Marco Livio Druso è eletto tribuno e propone una grande distribuzione di terre appartenenti allo Stato, l'allargamento del Senato e la concessione della cittadinanza romana a tutti gli uomini liberi di tutte le città italiche. Il successivo assassinio di Druso provoca l'immediata insurrezione delle città-Stato italiche contro Roma e la Guerra sociale degli anni 91/88 a.C. in cui Gaio Mario sarà chiamato ad assumere, insieme a Lucio Cornelio Sillail comando degli eserciti per sedare la pericolosa rivolta.

A sinistra testa laureata, personificazione dell'Italia
con legenda latina ITALIA, in alfabeto latino.
Si tratta della prima documentazione epigrafica del
nome Italia. A destra, giovane inginocchiato a uno
stendardo, tiene un maiale al quale otto soldati
(4 per lato) puntano le loro spade; "P" in esergo.
- Nelle Guerre Sociali fra Roma e i popoli Italici appare il nome Italia. Già i Greci chiamavano la penisola "Italia", che nel loro linguaggio significava "curva convessa", dalla linea della costa per chi arrivava per mare da est e Italia era definita il dominio del condottiero ligure del XIII sec. a.C. Italo, padre di Siculo, che era rimasto sull'estremo della Calabria mentre il figlio con le sue genti approdava in quella che da lui prese il nome di Sicilia. Durante le guerre sociali gli italici, alleati in una Lega, fondarono due nuove città di cui una, considerata la capitale della Lega stessa, prese il nome di Italia, (Vitelia in osco). Al tempo dei Gracchi a Roma si avanzarono proposte d'estensione dei diritti di cittadinanza anche ad altri popoli italici fino ad allora federati, ma senza successo. La situazione si avviava al punto di rottura quando, nel 95 a.C., Lucio Licinio Crasso e Quinto Muzio Scevola proposero una legge che istituiva un tribunale giudicante a chi si fosse abusivamente inserito tra i cives romani  (Lex Licinia Mucia). Legge, questa, che accrebbe il malcontento dei ceti elevati italici, che miravano alla partecipazione diretta alla gestione politica. Marco Livio Druso, si schierò per la causa italica avanzando proposte di legge a favore dell'estensione della cittadinanza, ma la proposta non piacque né ai senatori né ai cavalieri. Il più accanito rivale di Druso fu il console Lucio Marcio Filippo, che dichiarò illegale la procedura seguita per le leggi di Druso, cosicché queste non vennero nemmeno votate. Nel novembre del 91 a.C. seguaci estremisti di Marcio Filippo mandarono un sicario ad assassinare Druso. Questa fu la scintilla che fece scoppiare la guerra sociale.
A sinistra, testa laureata dell'Italia con legenda osca
retrograda UILETIV (Víteliú, l'Italia),"A" in esergo
A destra, un soldato elmato stante, di fronte che
tiene una lancia puntata in terra con il piede destro
su uno stendardo e alla sua sinistra, un toro a terra.
Dopo l'uccisione di Livio Druso gli italici - esclusi gli Etruschi e gli Umbri - si ribellarono a Roma, capeggiati dal sannita Papio Mutilo. La rivolta scoppiò ad Ascoli, nel Piceno, dove un pretore e tutti i Romani residenti in città furono massacrati. Si organizzarono in una libera Lega con un proprio esercito, e stabilirono, dapprima a Corfinium (oggi Corfinio) poi ad Isernia la loro capitale, dove crearono la sede del senato comune e mutarono il loro nome da Lega Sociale a Lega Italica. Coniarono persino una propria moneta che recava la scritta Italia, nella quale era raffigurato un toro che abbatteva la lupa romana. Benché Gaio Mario e Gneo Pompeo Strabone riportassero alcune vittorie sui ribelli, nel 90 a.C. il console Lucio Giulio Cesare decise di promulgare la Lex Iulia, con la quale si concedeva la cittadinanza agli italici che non si erano ribellati e a quelli che avrebbero deposto le armi. Seguì nel 89 a.C. la Lex Plautia Papiria che concedeva il diritto di cittadinanza romana a tutti gli italici a sud del Po.
Bronzetto raffigurante un Guerriero Sannita.
Il risultato fu di dividere i rivoltosi: gran parte deposero le armi, mentre altri continuarono a resistere. Roma spese ancora due anni per sconfiggere le città in armi grazie all'intervento di Silla e di Strabone. Tuttavia, lo scopo che gli Italici si erano proposti era stato raggiunto: essi potevano divenire a pieno titolo cittadini romani. Con la concessione della cittadinanza, l'Italia peninsulare divenne ager romanus. Il territorio venne riorganizzato col sistema dei municipia e nelle comunità italiche venne avviato un grande processo di urbanizzazione che si sviluppò lungo tutto il I secolo a.C., poiché l'esercizio dei diritti civici richiedeva specifiche strutture urbane (foro, tempio alla triade capitolina, luogo di riunione per il senato locale). Tuttavia la cittadinanza romana e il diritto a votare erano limitate, come sempre nel mondo antico, dall'obbligo della presenza fisica nel giorno di voto. E per la gente di città lontane, in particolare per le classi meno abbienti, non era certo facile recarsi a Roma per votare nelle assemblee popolari. Così talvolta i candidati pagavano parte delle spese del viaggio per permettere ai loro sostenitori di partecipare al voto. Di fatto, comunque, a beneficiare della cittadinanza furono soprattutto le "borghesieitaliche, che conquistarono anche la possibilità di accedere alle magistrature.

- L'onomastica romana è lo studio dei nomi propri di persona, delle loro origini e dei processi di denominazione nella Roma antica. L'onomastica latina prevedeva che i nomi maschili tipici contenessero tre nomi propri (tria nomina) che erano indicati come praenomen (il nome proprio come intendiamo oggi), nomen (equivalente al nostro cognome che individuava la gens, ovvero era il cosiddetto "gentilizio") e cognomen (che indicava la famiglia in senso nucleare, all'interno della gens). Talvolta si aggiungeva un "secondo cognomen", chiamato agnomen. Un uomo che veniva adottato, mostrava nel nome anche quello di adozione (come nel caso dell'imperatore Augusto). Per i nomi femminili, c'erano poche differenze.
Stele di due fratelli della gens Cornelia. Le prime
due righe significano: C=Gaius, un prenomen;
CORNELIUS= il nomen o gentilizio (la gens),
C=Gaius, altro prenomen,
F=filius, filiazione o patronimico,
VOT=Voturia, la tribù,
CALVOS= il cognomen.
Il sistema dei tria nomina era il modo tradizionale latino, dall'epoca tardo repubblicana, di nominare una persona, anche se nella Roma arcaica vi era un sistema uninominale (es. Romolo, Numitore ed altri) ed il sistema binomio entrò in uso dopo l'inclusione dei Sabini (il sistema nominale costituito da praenomen e nomen era tipico dei Sabini). Molto del sistema dei tria nomina è dunque dovuto all'influenza che tale popolo esercitò su Roma, dopo la leggendaria coreggenza di Romolo e Tito Tazio. Sono relativamente pochi i praenomina usati nella Roma repubblicana e nella Roma imperiale, generalmente legati alla tradizione. Solo alcuni di questi, come "Marco", "Tiberio", "Lucio" (anche con la versione femminile "Lucia") sono ancora in uso. Ultimamente riscoperto anche "Gaia", femminile di "Gaio" o "Caio", che in realtà è la versione non corretta di "Gaio". La corruzione di Gaio in Caio deriva dalla tradizione latina che abbreviava con C. il praenomen Gaius (Gaio) e con Cn. il praenomen Gnaeus (Gneo). Tali tradizionali abbreviazioni derivano a loro volta dal fatto che gli Etruschi, che esercitarono una forte influenza sulla prima fase storica di Roma, non distinguevano fra la "G" e la "C". Emerge dallo studio delle iscrizioni lapidarie che nei tempi più antichi si usava la versione al femminile anche dei praenomina e che i nomi delle donne presumibilmente consistevano in un praenomen ed un nomen seguito da un patronimico. In periodo storico della Repubblica le donne non ebbero più praenomen. In effetti, sull'esistenza del praenomen femminile le opinioni sono discordi. Taluni ritengono che non sia mai esistito. Altri pensano, invece, che non potesse essere pronunciato per ragioni di pudicitia. Secondo i sostenitori di quest'ipotesi, infatti, i Romani avrebbero ereditato dai Sabini una credenza che considera il prenome una parte della persona; dunque, pronunciare il praenomen di una donna sarebbe stato un atto di intimità assolutamente inaccettabile. Al di là delle diatribe tra gli studiosi, resta il fatto che nominare una donna era considerato atto socialmente irrispettoso. Se era necessaria una ulteriore precisazione, il nome gentilizio era seguito dal genitivo del nome del padre o, dopo il matrimonio, del marito.
Tabella con la pronuncia corretta del latino classico e come invece la
insegnano a scuola. Clicca per ingrandire.
Infatti Cicerone indica una donna come Annia P. Anni senatoris filia (Annia figlia del senatore P. Annius). Dalla tarda Repubblica, le donne adottarono anche la forma femminile del cognomen del padre (per es. Caecilia Metella Crassi, figlia di Q. Caecilius Metellus e moglie di P. Licinius Crassus). Questo cognomen femminilizzato assunse spesso la forma diminutiva (per es. la moglie di Augustus, Livia Drusilla, era figlia di M. Livius Drusus).
La pronuncia del latino classico era diversa da quella che impariamo a scuola. Il prenomen Gnaeus si pronunciava con la G dura di "gamba" seguito dalla n, e non come pronunciamo gnomo; ae e oe si pronunciavano divise, per cui si pronunciava "G-n-a-e-us". La C e la G erano sempre pronunciate dure come in "cane" e "gatto" e mai dolci come in "ciliegia", per cui Caesar si pronunciava "Ka-esar". Inoltre la V era la u maiuscola e si pronunciava sempre "U", per cui Valerius si pronunciava "Ualerius".


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